UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

LIBER

CANTO XXIV (GALILEO)


                             

Questi testi integravano l’intervento sulla poesia tenuto al Castello di Legnano il 21 ottobre 2023 all’incontro “Poeta? No grazie” e pubblicato su “Odissea” domenica 5 novembre 2023. Vedi link.

https://libertariam.blogspot.com/2023/11/poeti-o-imbecilli-di-nino-di-paolo-nino.html

Non si puote però passare oltre,
nel raccontar l’umana condizione,
senza parlar di chi, con la ragione,
squarciò lo velo d’ignorante coltre.

Torniamo dunqu’a Galileo pisano
ch’aprì la strad’ ad ogni conoscenza
di novità trovate con frequenza
delle menti che lui prese per mano.

Per mano compagnò scienza futura
più che per le su’ sedici scoperte
e l’undic’ invenzion di cose certe,
la metodologia che rassicura.

Quel metodo per cui una teoria
per quanto la sia logic’o bislacca
al posto de lo vero non attracca
se non abbia seguito questa via:

che possa sempre esser riprodotto
l’esperimento che l’ha dimostrata,
ed esser senza peso poi lasciata
s’altra teoria la prima mette sotto.
 

Questa cosa pare così normale
a noi che la consideriamo nostra
pensando ch’abbia sempre fatto mostra
ne lo pensier del bipede animale.

Invece, tanto per incominciare,
al Galilei ch’applicata se l’era
per dimostrar come vien giorn’e sera
guai arrecò che pote-an bastare.

Perché se ‘na scoperta va ‘n contrasto
con incrostata Verità di Stato
oppur di Religion, tu se’ ‘nchiodato
fermo come ‘l somaro sotto ‘l basto.

Questa sorte toccò al più gran genio
che la Scienza dell’uom avea trovato,
costringere un vecchio già cecato
per salvarsi la vita come premio

a rinnegare verità blindata
con fatica d’umiltà e ragione
e detto metodo d’indagazione:
sprezzo a chi ‘sta gogn’ha procurata.
 

Sedici scoperte:

Principio di relatività
Principio d’inerzia
Conservazione della “quantità di moto”
Conservazione dell’energia
Principio di azione e reazione
Proporzionalità della forza all’accelerazione
Proporzionalità della forza gravitazionale a (massa gravitazionale x accelerazione di gravità)
Proporzionalità tra massa inerziale e massa gravitazionale
Le montagne della Luna
Le macchie solari
La rotazione “a trottola” del Sole
Composizione (di enorme numero di Stelle) della Via Lattea
I satelliti di Giove
Gli anelli di Saturno
Le “fasi” di Venere
Nettuno
 

Undici invenzioni:

Il piano inclinato, per misurare l’accelerazione di gravità
Il pendolo, per studiare i moti dei corpi “senza” attrito
Lo “scoppiamento”, nel meccanismo del moto pendolare
Il cannocchiale
La bilancia idrostatica, per la misurazione della densità dei corpi
Lo strumento per misurare il peso dell’aria
Il termoscopio
La macchina per sollevare l’acqua
Il “compasso proporzionale”
L’ “orologio celeste”, utilizzando i satelliti di Giove
 

E l’avvio del metodo scientifico, laddove una Legge di Natura dev’essere dimostrata attraverso la riproducibilità dell’esperimento ed abbandonata senza rimorso quando se ne scopre un’altra che, attraverso il medesimo percorso, soppianti la prima.

CANTO XXXVIII
(Extraterrestre, portami via)  

Or, quas’in conclusion di questo tratto,
lasciare non possiamo l’argomento,
da tenersi con acume attento,
del provar, in concreto, non astratto,

immaginar futuro dell’umani
anche fuori da questa nostra Sfera,
che’ Spazio-Tempo tiranneggi’e ‘mpera,
e scandisce ritmi lenti e strani

che, comunque, se tutto ci va bene,
se non c’annullerem per conto nostro,
o Meteorite non presenti Mostro,
con botto che sentire non conviene,

porterà l’Astro che chiamiamo Sole
ad esaurir funzione di candela,
che ‘l neutrin segnala e che non cela,
a trasformars’in palla di gran mole

in Supernova che cancella tutto
quello che ne’ suoi pressi la circonda
ogni pianeta che le fa la ronda
quindi anche la Terr’in modo brutto.

Chissà se riuscirem, prima d’allora,
a sapere spostare, senza danni,
l’omini, loro vita, loro panni
a punti d’Universo buon’ancora

e mantenere l’equilibrio lieve
che nostri corpi poco resistenti
a brusche variazioni non silenti
necessitan, per non sciogliers’in neve.
 

Chissà s’è ver che altr’intelligenti
da noi sono venut’in questo modo,
hanno raggiunto questo tond’approdo
per la curiosità o per lor stenti

e com’abbiano fatto, nello Spazio,
a far durare personale Vita
( impensabil a noi tale riuscita)
per un tempo che non le porta dazio

e completar viaggi sconfinati
ch’a noi, per ora restano proibiti
per quanto, comunque, sogni arditi
ci accompagnan fin dai temp’ andati.

La Terra continua comunque ad essere un punto del Cosmo sulla quale vive una specie animale che ha la facoltà di esercitare un Pensiero riflesso e creativo. La sopravvivenza di questa specie dipende in parte dalla sua capacità di evitare di mettere in atto azioni che la distruggano ed in parte da fattori esterni che possono essere ricorrenti come l’impatto sul pianeta di macigni celesti o unici come l’esplosione del Sole. Per quanto si possa riuscire a scongiurare il suicidio di specie (difficilissimo) o a neutralizzare le sassaiole spaziali (pure difficilissimo), l’esplosione del Sole in Supernova (o Nana Bianca, l’effetto sulla vita sarebbe il medesimo) non può essere evitata. Meglio spostarsi prima (difficilissimo). 

*

IL BATTIATO DI GUERRERA
di Federico Migliorati


Franco Battiato

 
Il Battiato compositore raffinato, lo sperimentatore di musica elettronica anticipatore di stili e tendenze, il mentore di giovani emergenti, l’infaticabile  e puntiglioso professionista, ma anche l’uomo riservato, ironico e generoso, fragile nelle sue crisi d’identità, l’amante della natura e dei “pezzi duri”, fortemente legato alla sua Sicilia e in particolare a Milo dove riuscì a ricreare l’ambiente più adatto alla sua personalità, e infine il mito per plurime generazioni di fan con le quali seppe sempre creare una felice, intensa sintonia: c’è l’intero universo del grande musicista, nato nel 1945 a Jonia (poi Giarre) e scomparso lo scorso anno, nel bel volume di Guido Guidi Guerrera, giornalista presso quotidiani nazionali e scrittore che del cantante etneo è stato amico, confidente, ma soprattutto prezioso e puntuale biografo,  autore di ben quattro volumi a lui dedicati. In Franco Battiato l’uomo dell’isola dei giardini (Minerva, 303 pagine, 20 euro) si viaggia sulle ali dell’entusiasmo, come annota bene Umberto Broccoli, altro amico e sodale del catanese che non rinuncia a raccontare la genesi nel 1982 della loro collaborazione, nell’elaborata, raffinata e incisiva prefazione: è l’entusiasmo dello stesso autore del libro, di collaboratori storici, di semplici amanti della sua musica, in un caleidoscopio di emozioni che fanno emergere se mai ce ne fosse ancora bisogno l’uomo Battiato, in maniera chiara e diretta, senza fronzoli. Tanti gli aneddoti, le curiosità, i retroscena di un personaggio poliedrico e versatile, mai domo, capace fino agli ultimi giorni e nonostante la malattia che l’aveva colpito di fare e creare musica, l’arte “totale” che coincise con la sua vita. Una storia, mille storie sono quelle narrate nel volume: scopriamo, per esempio, che da adolescente si era dilettato con un certo successo nel mondo del calcio come “mediano libero” (tra i compagni il futuro campione del mondo Pietro Anastasi) prima di far prevalere quell’anelito, quel desiderio di libertà senza condizionamenti che l’avrebbe condotto a Milano, fuori e lontano dall’angusto borgo amato-odiato in cui risiedeva, per cercare nuovi sbocchi e orizzonti con l’obiettivo di dar forma ai suoi desideri. Arrivarono così i primi lavori nell’atmosfera elettrica e frizzante della capitale lombarda con un Giorgio Gaber che fu tra i primi ad accorgersi e credere in lui aiutandolo a registrare il suo primo disco, “E più ti amo”. In Franco l’esperienza della composizione doveva andare di pari passo con la ricerca di una dimensione ideale dello spirito: l’una si completava solo con e nell’altra, necessariamente. Le amicizie e le sinergie strette con Juri Camisasca, Filippo Destrieri, Giusto Pio, Antonio Ballista servirono anche a questo. “A volte – confessa Destrieri – lo credevo un po’ troppo sicuro di sé, ma il tempo mi ha costretto a considerare quanto avesse avuto ragione nella stragrande maggioranza dei casi e ho finito per essergli grato di certe decisioni prese”. “Schietto, coraggioso, un ‘ariete’ senza alcuna soggezione nei confronti di nessuno” è invece la testimonianza del pianista Ballista, con cui il cantante e compositore di Milo aveva intessuto un solido legame professionale che li ha visti uniti, tra l’altro, nel comune fascino suscitato dall’esoterismo del musicista e mistico armeno Georges Ivanovic Gurdjieff, mentre Stefano Pio rammenta il ruolo di coautore del padre Giusto in molti degli storici brani conosciuti dagli appassionati di Battiato, si pensi solo all’album “L’era del cinghiale bianco”, tra i più venduti di sempre. 



Nelle pagine del libro di Guerrera nulla è tralasciato dell’uomo, dalle confidenze rilasciate ad amici ai dietro le quinte dei suoi concerti: “Aveva un approccio curioso alla relazione, paritario, mai supponente né autoritario o arrogante che mi è capitato di riscontrare in altre figure di quello stesso mondo. Franco mostrava sempre un interesse profondo nei confronti del suo interlocutore e questo era specchio della sua grande umanità”, ricorda commosso Giovanni Caccamo. Immancabile un passaggio sul rapporto avuto con l’altro sesso che si tradusse in una serie di feconde e prolifiche collaborazioni: si pensi in particolare ad Alice, che condusse al successo al Festival di Sanremo del 1981 con “Per Elisa”, brano ritagliato su misura per lei senza dimenticare Giuni Russo, Milva, Fleur Jaeggy. La personalità, la musica del compositore siciliano si innestano fortemente su quella fusione di cultura tra mondo siculo e realtà araba, come descrive lo stesso Guerrera, che in chiusura di volume lascia spazio alle voci “abbattiate” del web, una carrellata di pensieri e riflessioni tra quanti lo hanno conosciuto e coloro che più semplicemente hanno reso la sua musica la colonna sonora di molti momenti della propria vita, consapevoli, tutti, che “per chi ama  con il cuore e con l’anima, non esiste separazione”.


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GALZIO. RITORNO ALLA DEA
di Adam Vaccaro

 
Ricerche nel campo aperto di un Nostos senza Odisseo.
 
Questo saggio di Gabriella Galzio nasce e viene da lontano, come ricorda anche nella premessa, l’Autrice. Un lontano, nel tempo e nello spazio, che riguarda sia gli scambi vitali e culturali avuti nel corso della sua vita, sia testimonianze, riflessioni ed elaborazioni nel corso dei millenni, ripresi e fatti linfa della propria poesia e visione del mondo. Tutti lasciti elencati nella bibliografia in fondo al libro, del quale alcune parti sono già apparse in riviste citate nella Premessa. Un percorso stimolante per qualunque altra visione, anche con radici molto diverse come la mia, se è comune l’interesse profondo per la salvezza e l’amore della vita. Su questa base, il confronto tra differenze produce arricchimenti reciproci e moltiplicazioni di energie, rispetto alle logiche opposte dei poteri e delle derive tragiche costitutive del capitalismo imperialistico globalizzato. Una fase estrema, già preconizzata da Marx, corredata da ideologia di pensiero unico e una hybris, che minaccia la sopravvivenza stessa dell’umanità.

 
Un saggio poetico
Definisco poetico questo saggio della Galzio, non tanto e non solo per i versi intrecciati nel testo, quanto per la sua tensione totalizzante e il campo aperto, privo di strumentalità preordinate (rispondenti alla visione di G.B. Vico, che parlava di fisica poetica, chimica poetica, filosofia poetica ecc.), se non quelle di una passione antropologica alla ricerca di prospettive diverse rispetto agli orrori antiumani dei millenni di storia conosciuta. È dunque un saggio lungo un fiume-contro, quale affrontato da irriducibili salmoni che vogliono ritornare là, dove la loro vita ha visto la prima luce, in un’alba perduta e da riprendere. Può darsi sia follia priva di ogni possibilità, questo moto e manìa di un Nostos resistente, che dà forma a una sorta di urlo luminoso di questa ricerca. Può anche darsi che questo moto sia solo flatus vocis, ma in esso c’è la coscienza del rischio di essere ridotti tutti noi a organismi che hanno rinunciato ai bisogni di rinascita e immaginazione di un orizzonte oltre e altro l’esistente. Il quale esalta il proprio status in nome di un realismo, che in effetti è nichilismo e chiusura al suo superamento. Una ideologia mortifera di fine della storia, contraria al magistero, per cui nulla è approdo definitivo nelle vicende naturali e umane.  
È un insegnamento che dalla mia visione fenomenologica di materialismo dialettico, innerva pensiero critico ed energie vitali, che ritrovo in questo libro, con tensione e senso a morire da vivi, e non a vivere da morti, arresi a poteri che generano vita negata a miliardi di esseri umani. Una visione critica parallela alla mia ricerca, teorica e pratica, sintetizzata dal termine Adiacenza1. Si può arrivare a Roma o in cima a una montagna da percorsi o versanti diversi, se hanno in comune il bi-sogno tutt’altro che visionario e privo di concretezza, di recuperare responsabilità etica collettiva, di cui abbiamo perso senso e nome, davanti a prospettive di autodistruzione apocalittiche.

 
Rideclinazione del Nostos
Addentriamoci ora nel percorso di ricerca del libro, incentrato nella risalita a fonti millenarie cancellate e smarrite, oltre moti e venti odissei, ed entro la complessità umana androgina, in cui i principi maschile e femminile siano ricchezze congiunte e non contrapposte. È quanto richiama e sintetizza nella Prefazione, Heide Göttner-Abendroth, una delle fonti principali della ricerca di Gabriella Galzio, che peraltro si è avvalsa anche della ricerca e dell’opera filologica di Angelo Tonelli. La tensione non è astratta ma volta alla capacità di una “ricca conoscenza” reciproca volta a ricreare un “modo di vivere egalitario” (p.9). È uno sguardo anche per me fondante, sottolineato dalla prefatrice (fondatrice dei Moderni Studi Matriarcali), nel suo percorso di “elaborazione della nuova definizione di matriarcato quale società egualitaria, che non ha nulla a che vedere con l’accezione dominio delle donne” (ibidem). Ed è una accezione condivisa anche dalle “riflessioni filosofiche di Gabriella” (p.10), risalenti ai “presocratici, ancora consapevoli di quanto il loro pensiero fosse originato dalla visione del mondo matriarcale” (ibidem), fonte di poesia e riflessioni teoriche, aggiunge la Prefatrice. La quale specifica che nel mondo e nella cultura matriarcale, si mette in atto una visione totalizzante, senza divisione, settorializzazione e contrapposizione di culture e classi sociali, quali poi prodotti dal patriarcato: “l’estetica matriarcale mostra che anche la filosofia e la scienza dei primordi erano parte integrante” di una spiritualità, in cui “Nulla era separato, scisso e imprigionato in istituzioni specialistiche a se stanti come avviene nelle società patriarcali.”. E “In questa prospettiva l’arte e la poesia non sono abilità specialistiche, ma l’universale capacità creativa di infondere bellezza alla vita personale e sociale” (Ibidem). Un orizzonte espressivo alieno da ogni concezione egotica e autoreferenziale, perché incarnato profondamente nella esaltazione della complessità costitutiva dell’essere umano: pensiero, etica, gioia, sesso e sacralità del dono di con-vivere.
Di tutto questo, Gabriella si fa voce, con analisi e poesie interconnesse: “È bene chiarire sin da subito che quando alludo al patriarcato, non mi riferisco riduttivamente alla relazione uomo-donna, ma molto più in generale a una intera civiltà, che si è eretta sul dominio dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla donna, dell’uomo sulla natura”, una logica che implica sfruttamento, violenza e guerre incessanti dalla sua istituzione fino a oggi, qualificata da Gabriella “età del piombo” (p.11). Ne consegue un atteggiamento non arreso al nichilismo dominante, alimentato dalla “conoscenza delle società non patriarcali”, e teso a “risvegliare in noi la fiducia in una possibile società equilibrata” (p.12). È il nucleo portante di senso del libro, attuale e necessario, per chi crede ancora – nonostante le tragedie e i tentativi finora falliti di un comunismo mai realizzato, se non in contesti primitive – nelle possibilità di una società egualitaria, che esalti e non appiattisca i singoli, e concepibile solo fuori da logiche patriarcali.
È dunque un libro-viaggio a ritroso, ma non a testa indietro, animato da un Nostos che viene ridefinito man mano oltre lo spazio e il tempo di un’Itaca, ultimo e definitivo approdo nel disegno del mito di Ulisse. Un cahier di viaggio che non si riduce a lacrime e doleances (da perduti privilegi nobiliari), ma a uno sguardo d’anima, materica e multipolare, priva di astrattismi o misticismi, entro un campo aperto di Nostos che va rideclinato in paradigmi e un quadro mitopoietico completamente Altro, che vedremo nella sezione che segue. Quel salmone plurale che balza oltre il muro d’acqua contrario, pronto a sfidare bocche affamate e feroci, anticipa orizzonti multipli, illuminati anche dall’immagine della Dea del titolo, “dai mille volti” e nomi, dalla “Dea Kypria” a “Inanna e Astarte, Ishtar e Iside, nomi in cui la Dea non è solo Madre, quale ridotta da lettura patriarcale, ma figura che “irraggia il nostro immaginario con la sua potente carica erotico-mistica” (p.62).



È un disegno, perciò, che congiunge basso e alto e della nostra totalità, che cancella sensi di inferiore o superiore valore, restituiti a ogni sua parte necessità e splendore, quali solo l’Amore più alto può concepire. Credo perciò opportuno citare interamente i versi che chiudono il libro:
 
“si anima il cielo delle tue perle
Man mano che ti svegli, Signora
Man mano che ardi e accendi
Le forze dei tuoi amanti, Ishtar dagli occhi colmi,
chi nega l’amore, non troverà gioiosa
né implacabile, la Giusta, la Generosa
amante, né facile la morte, o vita
 
Di ogni uomo, spendi
L’aurea energia, tieni un frammento in custodia
Di un libro immenso” (p.63)
 
È una poesia precedente la stesura completa di questo saggio, in cui c’è il brillìo dell’approdo cercato, in un immenso, raggiungibile solo da una congiunzione d’amore e coscienza critica, di passato e presente. È peraltro la conferma che la poesia anticipa le ricerche della sola razionalità dell’Io, espressa in una forma di disperato gioioso appello a noi contemporanei, se vogliamo rimanere vivi, in “questa fitta melma che ci sbrana” (anticipato già a p.36), e che ci vuole solo cellule indifferenziate di consumatori.


 
 
Ricerca di nuovi paradigmi
È il senso e l’approdo complesso cercati ed enucleati soprattutto nel capitolo “Nuovi paradigmi nella teoria letteraria” (pp.31-41). Un capitolo cardine su cui ora ci soffermiamo, a conclusione di questo nostro percorso di lettura. In tale capitolo Gabriella riannoda in primo luogo i fili anche narranti della propria esperienza culturale, ricordando che “prima della filosofia c’era stata la sofia, e grazie a Platone… prima ancora… la mania” (p.31). Dopo di che il libro ripercorre i passi di acquisizione di una coscienza critica lungo il processo di sostituzione di paradigmi da parte della cultura patriarcale, con “un logos… inventivo-manipolativo”, di “depotenziamento della Dea… da Oriente a Occidente” (p.32), e una progressiva ideologizzazione e “desacralizzazione della filosofia”. Un processo di rimozione e “amnesia patriarcale” di “una civiltà altra e sconosciuta” (ibidem), che agisce anche sulla e nella lingua, fino a sostituire e ribaltare il quadro simbolico dell’originario “Mythe (al femminile)”, col termine “Mithos (al maschile)” (p.33).
Il percorso evidenzia come i paradigmi mitologico e storiografico patriarcali, di un Nostos incentrato nel mito Odisseo, ha comportato un fittizio inizio della letteratura occidentale con l’epica guerresca di Omero. Dopo di che a Gabriella si pongono due strade, di “rivisitazione del mito già noto” (p.37), grazie al “poderoso e illuminante” contributo mitografico di Heide Göttner-Abendroth; o di “rielaborazione mitopoietica, a partire dalle Premesse a Cassandra di Christa Wolf, in cui si “ripoietizza il mito… contestualizzandolo entro un’epoca precedente Omero, l’Iliade e la guerra di Troia” (p.37). Col che la barriera storiografica fittizia è rotta e possiamo concepire “un nuovo paradigma mitopoietico 'Janua'”, con sguardo contemporaneamente proiettato al “passato arcaico” e al “futuro utopico”.
Sono formulazioni che, con radici e richiami diversi, coincidono con quelle della mia metodologia di ricerca teorica sopra ricordata, dell’Adiacenza. La quale, entro approcci e visioni pluridisciplinari, utilizza tra l’altro come strumenti utili all’analisi delle complessità di un Testo, del Tempo e del Soggetto, sia la fisica quantistica che la triade psicoanalitica, Io-Es-Superìo del Sé. Ne scaturisce uno sguardo molteplice, polidirezionato e senza il quale non è possibile elaborare, in particolare, ciò che chiamo tempo mentale – frutto della totalità del Sé nei suoi tre livelli, riferibili a logos, pathos ed ethos, dai quali il Tempo è elaborato con modalità completamente diverse: lineari, se volti al presente o al futuro (Io e Superìo), e circolari, di tempo sempre passato e sempre presente (Es). Quando tali differenze con-vivono in platoniani attimi d’infinito di co-esistenza precaria ma gioiosa, si ricreano adiacenza intrasoggettiva e una mania di modificato stato di coscienza, in cui la percezione del Tempo non è più né lineare, né circolare, ma elicoide, rispondente alla forma biologica del DNA o all’estetica delle colonne del Bernini della Cappella Sistina. Sono momenti orgasmatici di una petit-mort di rinascita nel circuito incessante di morte-vita, di cui amore e bellezza sono nomi delle trasmutazioni nelle mille forme di arte e poesia.
Sia dalle ricerche mitopoietiche della Galzio che dalla mia ne deriva dunque un paradigma fenomenologico che è contemporaneamente di arrivo e partenza. Non c’è più un punto di arrivo definitivo come nel mito omerico, ma un andamento pendolare incessante. Che non ha fine e un fine, se non quello della replicazione e continuazione e della vita. E che, nella dinamica della gestione dell’identità soggettiva – singola e collettiva – risponde alla fisiologia di una autopiesi che pluralizza livelli e Case di rinascita di una fisiologia adiacente alla complessità dell'identità soggettiva, imprigionata e ridotta, nella visione patriarcale, in alternative 0-1. La meccanica rigida del mito odisseo, con un nostos fondato sull’approdo definitivo a un’unica casa di rinascita, è superata. Non più un’unica Casa fonte di rinascita, ma una sua partenogenesi creata da un molteplice percorso identitario, che rende così tali Case, anche più resistenti e meno distruttibili dalla furia omologante di logiche e logge imperiali di poteri, che non vogliono mai lasciare pietra su pietra delle Case di chi gli si oppone.



Dunque, la ricerca sull’identità, per me centrale, si arricchisce entro un orizzonte matriarcale, che tende a moltiplicare dialetticamente luoghi di rinascita del proprio Sé, ri-creando Case aperte, resistenti, multiple oltre che re-attive, quanto più ricche di realtà e immaginazione in una lingua leopardiana di parola materiale e lirica. In tale fisiologia il piede, sia della possibilità del cammino del farsi autopoietico dell'identità, sia di un rinnovato paradigma estetico, dialetticamente innestato nel processo biologico, mentale, e animale della complessità vitale, è premessa funzionale, come l'asta di un ombrello, anche in forma plurima, come quella qui immaginata, di una macchina celibe, senza la quale tutto diventa nulla. 
Quel primogiardino del disegno del mondo (come definito da Claudio Magris) lungo il percorso identitario di una casa aperta, che comporta uscite e ritorni, in un quadro che alterna exodus e nostos, concreti, affettivi o culturali. Un moto che non può che essere molteplice, oscillante, gioioso o insofferente, o tragico e necessitato, in ogni caso dialettico, rispetto alla Cosa esterna, con successivi rientri, in una Casa fonte di rinascita, originaria o successiva, reale o immaginaria, ma utero plurimo e necessario, in cui ritroviamo energie per celebrare e rinnovare il trionfo della vita che rinasce proprio dal punto in cui muore, Che fa della morte limite e strumento di vita, e non tabù e orrore privo di senso come nella cultura patriarcale occidentale, per la quale la morte non è più sacralità, senso del limite e fonte di etica, ma anch’essa opposizione da abbattere e vincere, con continue moltiplicazioni di hybris e forme diverse di deliri di onnipotenza. 
Tutto questo è materia appassionata e complessa del libro e del paradigma nuovo (sacrale) cercato dalla Galzio, che ribadisce: “nelle culture matriarcali, la morte era parte di un flusso continuo metamorfico di morte-rinascita e dunque connessa alla vita”. Una visione, anche questa da me espressa da sempre, anche in poesia: “la morte – che/ non esiste, assiste”, verso de “Il gioco della Gioia”3 Che corrisponde perciò a quanto anche da me articolato nel quadro dell'Adiacenza. Ma la sua ricerca ha generato approfondimenti, facendomi riconsiderare ad esempio il pilastro fondante della mia raccolta Seeds2, strutturata nell'ipotesi di un Ulisse contemporaneo senza nostos, per la distruzione irreparabile della propria Itaca, cui consegue il crollo dei corollari concettuali sopra richiamati. Questa ipotesi è destituita di senso e ragioni entro la suddetta auspicabile moltiplicazione di Itache costruite dal soggetto nel proprio percorso e processo autopoietico.


Conclusioni aperte
Abbiamo un campo aperto di ricerca, perduto e ripreso, teso a conoscenza, condivisione e responsabilità rispetto all’immenso della realtà del mondo. Esserci con le scritture in questo campo, cambia i paradigmi del canone possibile definito dal solo ambito letterario. In questo campo è invece la furiosa passione della vita il magistero che dirige e inventa la musica che vuole dirsi, in un canone-non-canone di forme, cui non basta un prezioso giardino, ma chiede di essere campo di lavoro interminabile e utile al bisogno di continua rinascita antropologica. 
Questo campo aperto è il lascito anche delle ricerche fatte proprie e ulteriormente sviluppate con questo intenso libro da Gabriella Galzio. A mio parere è un dono utile e importante per tutti, come qui sintetizzato. 


Gabriella Galzio
Ritorno alla Dea
Ed. Agorà & Co, Sarzana-Lugano, 2022
Pagg. 74  s.i.p.
 
 
Note
1. A Vaccaro, Ricerche e forme di Adiacenza,
Parte introduttiva, Asefi Terziaria, Milano, 2001.
2. A. Vaccaro, Seeds, Chelsea Editions, New York, 2014.
3. A. Vaccaro, Strappi e Frazioni, Libro Italiano, Ragusa, 1997. 


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ESORDI
di Marina Corona

 
È un libro davvero singolare quello di Stefano Assandri intitolato Come statue sedute su una panchina, se dovessi sottotitolarlo lo chiamerei: “Il coraggio della solitudine”. Il libro è infatti un lungo monologo, diviso in tanti piccoli testi, che narra le avventure mentali di un giovane solo con sé stesso e il mondo. È un testo arguto che esprime una quieta disperazione al limite tra la tragedia e l'ironia, una disperazione che non prende mai il sopravvento ma che viene dominata dal racconto di situazioni singole intelligenti, psicologicamente sottili e abilmente surreali. Sappiamo dall' autopresentazione nella copertina che Alessandri è molto giovane, ma se non ce lo avesse detto lui l'avremmo ugualmente compreso dalla fresca immediatezza con la quale nel testo si mette in lotta aperta e decisa con i luoghi comuni del nostro tempo, non che li nomini mai e tanto meno che si premuri di criticarli, ma lo sforzo di tenersene assolutamente lontano, direi di essere totalmente estraneo al pensiero comune, è palese.
Ma a dire il vero i mondi che frequenta l'autore nel suo solitario cammino sono due: uno è il mondo esterno, con le sue piante, i suoi animali, le sue albe e i suoi tramonti, le sue statue e le sue panchine, l'altro è il proprio universo interiore che rifugge da ogni consueta esperienza anche a costo di mostrarsi crudele verso sé stesso, verso il proprio sogno di realizzazione spietatamente negato.
 
Secco e arido avanza il giorno fino al tramonto,
trascinando il sole dove non lo vedi.
Non ti aspetti di essere colto nella sorgente,
ma devi colonizzare l'utopia
Il mondo attende nella stanza della prova.
Il pazzo prevede.
 
Deve dunque essere sottoposto a una prova questo ragazzo, in questa terra desolata, una prova della quale non si può dire nulla, solo un'ignara attesa accompagna la sua solitudine.
E più avanti un componimento che si avvicina in maniera evidente al dettato kafkiano:
 
Vicolo cieco
Stai guardando il muro che si frappone fra te e la libertà.
Non si può scalare, non si può distruggere,
abbattere, tagliare, far sprofondare...
Anche cercando di attraversarlo non riuscirai ad oltrepassarlo.
Eppure, sei così vicino alla tua libertà, così vicino.
 
Come non ricordare da queste righe la celebre frase di chiusura del Processo: “Questa porta era aperta per te?”
Ma un altro autore ci soccorre nell'aguzzo cammino di Assandri, incontriamolo ancora una volta attraverso le sue singolarissime righe:
 
Parassita
Sei diventato quella parte non colorata delle grida.
Sembra che qualcosa ti sia sfuggito di mano,
forse un dettaglio al quale non avevi dato importanza.
Magari non ti è sfuggito di mano,
lo hai solo immaginato e poi dimenticato.
Le tue prestazioni sono calate,
i tuoi riflessi sono rallentati,
non riesci più ad abbassare il capo.
Non riesci nemmeno ad alzare lo sguardo,
 
Il ricordo di “Finale di partita” o anche di “Giorni felici” di Samuel Beckett mi sembra qui presentissimo. Possiamo dire quindi che due giganti della modernità sembrano fare da colonne a questo giovane autore, che nella sua apparente inconsapevolezza si inoltra per una strada che può condurlo letterariamente molto, molto lontano.

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I RACCONTI DEL VIRUS   
di Luigi Giurdanella


 
Danilo, in tutto quello che scrive, mi diverte. In questi “racconti del virus 19” più che mai. Si può ridere di quello che stiamo vivendo? L’umorismo, in questo caso, vuol dire non rinunciare mai a vivere la realtà. Satira e ironia sono le forme in cui rintracciare la continuità della vita. Ridere del coronavirus è un modo per respingere i pensieri fanatici, i toni gravi e la retorica. Allora quella di Danilo diventa un’operazione virtuosa, chi ride è partecipe, l’intelligenza e l’ironia appartengono a lui. Nietzsche chiama cattiva saggezza quella che non ha mai suscitato il riso. Nel primo racconto: “Il pelo nell’uovo”, per esempio, un pelo incomincia a terrorizzare il protagonista, in sogno, ed è il peggior incubo. Poi, nel momento meno opportuno il sogno si avvera. Il protagonista sente che ha un pelo in bocca, un fastidio enorme che lo condiziona e l’opprime più che nel sogno. Vorrebbe ritirarsi in un angolo e sputarlo, ma come si fa, è al supermercato e l’ingresso, causa il virus, è contingentato, non può abbandonare la fila dopo ore di attesa, poi ha la mascherina, per sputare dovrebbe toglierla ed è rischioso! Ecco la genialità dello scrittore: il virus è come un problema marginale, qualcosa di acquisito: bisogna conviverci. Il protagonista del racconto lo vive come un fastidio, che a paragone di quel maledetto pelo in bocca non è niente. Non vi dico la fine, dovete leggerlo. Così anche nei racconti successivi (Mia zia Caterina, Crepuscolari pensieri ecc.). Quando si dice “sdrammatizzare”! Non sminuire il problema, ma cambiare punto di vista, affrontarlo diversamente. Un file-rouge lega i racconti di quest’ultimo libro, che non è solo il virus, anche se il covid-19 è il personaggio principale, ma in tutti i racconti c’è una sottile trama esistenziale, un disagio di vivere, al di là della pandemia. Racconti che sono calati nel nostro tempo, ne costituiscono un vivido panorama e una critica feroce mediata dall’ironia. Infatti non mancano i riferimenti alla politica, alla cronaca, alla meccanizzazione, alla religione. Spesso Danilo si immedesima completamente nei suoi personaggi, subendone il fascino, che gli procura come uno sdoppiamento della personalità. Così, nel racconto di quei genitori che hanno condotto una vita grama; dell’amore e dedizione della mamma per il proprio figlio, il tutto è narrato con grande partecipazione e tanto affetto, da farti dimenticare per un attimo che è invenzione letteraria, e pensi ad una autobiografia. D’altronde la scrittura è qualcosa di solitario e intimo e gli autori sono dentro i loro libri. Le emozioni che ci dà una storia sono quelli della vita e bisogna guardarli sempre con grande apertura, non solo mentale ma di cuore. Altre volte, con sottile ironia, prende paradossalmente le distanze dal protagonista: ed è come se entrasse ed uscisse nel corpo di un altro; come se affidasse ad un alter-ego, ma con un ego enorme, la sua parte irrazionale. In questo caso, fa dire al personaggio: “Io scrivo molto bene perché madre natura mi ha dotato di un notevole talento. Perché come avete notato, carissime lettrici e lettori, io scrivo molto bene”. E sogna perfino di prendere il premio Nobel. Nello sdoppiarsi c’è una consapevole frattura non solo della personalità, ma perfino una frammentazione del corpo. Pertanto, Danilo ha un rapporto dialettico e sorprendente, non solo con alcuni suoi personaggi, ma anche con parti del suo corpo. Esilarante lo scontro verbale che ha con le sue mani, stufe di essere soggetti a delle continue abluzioni e disinfettazioni, spesso con prodotti scadenti e puzzolenti. Geniale trovata: questa identità che a volte si sdoppia, dando voce alla sua parte irrazionale. Non poteva mancare il rapporto conflittuale tra uomo e tecnologia, come nel racconto, “Computer”. Qui il protagonista è il computer, appunto, al quale fa dire: “Io vi ho trasmesso la malattia della mia presenza. Ora senza di me vi manca l’anima. Il germe del mio male è ben più pericoloso di un banale virus: perché uccide l’intelligenza e senza di essa non vale la pena di vivere”. Ed effettivamente è inconfutabile che tutta questa esaltazione super connessa, fa vivere un isolamento davanti agli schermi, che non ha abolito la solitudine, ma l’ha inserita nei social media, l’ha compressa nei messaggi e nei database. Siamo schiavi degli schermi: computer, tablet, smartphone sono diventati per necessità la nostra principale finestra sul mondo.
C’è perfino il dialoga con il Virus. Lo tratta come se fosse un animale domestico o addomesticato: uno scontro a muso duro! Sembra un paradosso ma, questo continuo interloquire con le sue “creazioni letterarie”, rende palpabili i protagonisti, li umanizza, siano essi persone o cose. Questo suo doppio continua anche ad autocelebrarsi, ad esaltare la proprio incommensurabile bravura. Si rivolge alla propria persona vedendo se stesso come staccato da se, e in questo c’è un certo compiacimento.
C’è spesso un riferimento a Dio, ora onnipotente ora impotente. La questione di fede, siano essa di religiosità popolare, o teologica, Danilo l’affronta da par suo, con frasi ora dissacranti, ora affascinanti, ma sempre con sottile ironia, sparse così, come per caso, nelle varie storie. Nel racconto “Mia zia Caterina”, per esempio, scrive: “Si ricorda benissimo di ogni pagina del vangelo ma a volte lo confonde con le istruzioni per far funzionare il frullatore”. In “Crepuscolari pensieri”, dice: “Io a Dio non ci credo però mi piace la figura di Gesù che poi lo hanno fatto fuori perché lottava per i poveri: come faceva Belinguer”. Oppure in “Io non sono permaloso”: “E quando chiedi l’aiuto a Dio: quello non c’è mai”. Ma c’è un intero capitolo dedicato a Dio che si snoda all’interno di una struttura educativa cattolica, chiusa e repressiva come una volta. Testo scritto, oltretutto, con caratteri tutti maiuscoli e in grassetto, forse per sottolineare l’importanza dell’interlocutore? Il titolo è tutto un programma: “Non avrai altro Dio al di fuori di me”. Vi riporto solo una frase. È Dio che parla: “Siamo alle solite, come in tutte le altre disavventure, date la colpa a me, che questa malattia ve l’ho scagliata io. Ma è troppo comodo accusare sempre il sottoscritto”. E penso che possa bastare. Secondo me, però, il racconto più bello è: “La bella addormentata nel bosco”. C’è tutto un divertente travisamento della favola. Ai festeggiamenti per la nascita della principessa, era stato invitato: “perfino Balotelli, anche se aveva la pelle un po’ troppo scura”. La maledizione alla principessa, perché non invitate, viene fatta dalle suocere, moderne streghe, e non è quella di pungersi, ma le predicono che contrarrà il coronavirus. Non vi dico altro, dovete leggerla. Molti sono gli argomenti che vengono toccati in questo libro. Una riflessione sull’individuo, sulla società, sulla cultura. Fa tutto un riferimento allo scibile umano, partendo dai suoi amati autori di teatro, fino agli scrittori preferiti. Ne emerge un intero panorama letterario, di ogni tempo e paese. Tra le righe, si intuisce la sua vasta preparazione. Ci sono provocazioni e suggerimenti da non sottovalutare, per una crescita in umanità e resilienza. C’è la voglia di vivere pienamente, e non sopravvivere. Insomma, Danilo, nella forma di racconto fantastico, disegna con maestria, la grande metafora di un’umanità che psicologicamente devastata dalla pandemia, è incapace di vedere e distinguere le cose razionalmente. Ma ci vuole anche dire che pur in tempi difficili non bisogna perdere la capacità di ridere. Il riso è utili per il benessere mentale e per superare i momenti difficili, rendendo il cervello più resiliente allo stress. Io qui ho fatto solo un excursus, attingendo e soffermandomi solo su alcune storie e situazioni, per incuriosirvi, ingolosirvi, e stimolare la voglia di leggerlo. “Andrà tutto bene”. Questa frase campeggiava su migliaio di cartelloni, lenzuola, striscioni, appesi ovunque. Erano i mesi più duri, quelli del lockdown assoluto, della paura, dello sgomento. Ma in questo “slogan” c’è molto di più: la condivisione, la tenerezza, la fragilità dell’essere umano. Danilo con queste storie un po’ bislacche, forse, mette a fuoco i paradossi della presente pandemia. Ma chiudendo il libro con il racconto “Speranza”, anche lui ci vuole suggerire: “Andrà tutto bene”.

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SATURAE
di G. Patrizia Morciano


Paolo Vincenti
 
Che cosa si può dire di più adatto a questa silloge poetica di Paolo Vincenti se non che, ancora una volta, l’autore ci restituisce una classicità riattualizzata? L’avevo scritto a proposito di Al mercato dell’usato (Agave Edizioni, 2020) e lo riconfermo per questa raccolta: Paolo Vincenti ha la capacità di far rivivere il mondo della letteratura greca e latina, di declinarlo nei tempi della nostra postmodernità, a riprova della sua perenne attualità. E se nella precedente raccolta era salito sul terreno arduo del mito ed era riuscito nell’impresa di riportarlo fra di noi, qui scende su quello scabroso e perciò altrettanto difficile della satira, solo apparentemente meno impegnativo (lo riconosceva già Orazio nel decimo componimento del suo primo libro di Saturae).
Satura quidem tota nostra est, diceva orgogliosamente Quintiliano in età imperiale, alludendo all’origine tutta romana di quel genere caratterizzato, fin dall’età arcaica e dalla satira letteraria di Lucilio (III sec.a. C.), dalla varietà dei contenuti e dall’interesse rivolto al quotidiano, al domestico, al contemporaneo, al deviante da norme ideali di comportamento. Ma i Romani sapevano benissimo che le premesse di quella poesia stavano anch’esse nel mondo greco, nella commedia antica come in certi giambi di Archiloco, Ipponatte e di altri autori dell’età arcaica (ancora una volta è Orazio che ce ne esprime la consapevolezza nelle sue due satire di argomento letterario, la IV e la X del primo libro). Anche della lezione di questi tiene dunque conto la penna colta di Paolo Vincenti, soprattutto in quei testi in cui sembra di sentire l’eco dell’aggressività giambica (L’onorevole La Minchia, Vot’Antonio!, Cave canem, Mezzosangue).
Ma in questo libretto, a proposito di echi, riaffiorano anche quelli delle forme artistiche preletterarie che sono certamente alle origini della stessa commedia antica e, in genere, di tutte le espressioni artistiche successive fondate sul ridiculum e sulla comicità, com’è appunto la satira: certa licenziosità se non addirittura oscenità di alcuni dei testi presenti nella raccolta (si pensi, tanto per fare qualche esempio, a Palinodia, a Nuova edizione, vecchio vizio, a Una pezza a colore, che ha un seguito ancora più licenzioso in Chi è causa del suo mal…) rinvia, infatti, non solo a Catullo o all’Orazio, per esempio, degli Epodi, ma anche alle feste rituali greche delle “Falloforie” in cui feticci dell’organo sessuale maschile venivano portati in processione, con l’accompagnamento di canti osceni, o ai fescennini versus, versi licenziosi scambiati nella Roma contadina delle origini, sempre con funzione apotropaica e dunque recitati durante feste rituali nei campi o durante matrimoni, per garantirsi il favore della divinità. Ovviamente anche nei versi dell’autore moderno non c’è morbosità, ma lusus, il gusto di ricollegarsi a quest’antica tradizione
Le Saturae di Paolo Vincenti sono dunque come ponti a grandi arcate che ci riportano alle scaturigini della poesia occidentale.
Su quelle sorgenti si affaccia, peraltro, il dotto commento di Gianluca Virgilio che nelle note ai testi rimanda accuratamente agli echi classici che risuonano in ciascuna delle Saturae, facendo venire la voglia, al lettore, di recuperare per intero la memoria di quei versi immortali.
Ad una lettura superficiale la silloge potrebbe sembrare un abile esercizio di stile ispirato ai modelli del genere satirico, un gioco di rime, assonanze e consonanze, che ambirebbero a riprodurre, con la loro corposità, ritmi e toni della satira antica, senza forte aderenza dei temi alla realtà dei nostri tempi. Compaiono, infatti, nelle Saturae, i bersagli tradizionali del genere: la ruffiana (Mena, Nena, Lena), il parassita (Lo sbafatore, Curculio), la prostituta (Nuova edizione, vecchio vizio), il poetastro (Poeti della domenica). Queste figure, però, non sono simulacri esangui perché l’autore le rimpolpa e le ravviva traendo spunto dalla vita quotidiana.
Così è per uno dei suoi bersagli polemici più ricorrenti, quello dell’intellettuale in voga, del poetastro di gran successo, gonfio e tronfio non per i suoi meriti, ma per quella rete di conoscenze importanti in cui ha saputo inserirsi. Non erano solo Catullo e i poeti satirici romani di età imperiale a trovarsi di fronte questi figuri: essi, pur in un contesto così lontano nel tempo, sono ancora una tipologia umana presente nel panorama letterario salentino e italiano in genere, che l’autore ben conosce, in cui gli amici della cricca si scambiano favori, recensioni e premi. E se ci finisci in mezzo ti tocca pure- dice l’autore- leggere e recensire libri orrendi, magari anche a Natale (Regalo di Natale). E sì perché il Satirico – come lo chiama il commentatore- non assume pose da Catone: con la sua autoironia ricorda piuttosto l’Orazio messo alla berlina per la sua incoerenza dal servo Davo nella Satira II, 7. E mostra di sapere bene che i ruoli si possono invertire e che dunque saranno i suoi fogli – e non quelli dell’amico che vuol essere da lui recensito- “che serviranno al massimo ad accartocciar gli sgombri” di catulliana memoria (Catalepton). E questo nella consapevolezza che, in fondo, quelle di tutti sono “parole scritte nel vento”, data la precarietà umana.
Epperò la poesia e dunque le parole hanno la potenza di infilzare, con l’arma appuntita della satira, i traffichini di ogni risma, gli adulatori dei potenti, i vanesi. E allora perché non servirsene, avrà pensato l’autore, magari per il piacere di un momento?
Prendono forma così pian piano, nelle Saturae di Paolo Vincenti, queste altre categorie su cui si appuntano i suoi strali satirici, a rivitalizzare il genere: «mezzi uomini» li chiama l’autore (in Vanità di vanità), o «mezze figure» (in Vanagloriosi) che, soprattutto nei salotti televisivi, sputano le loro gran sentenze nelle «trasmissioni immondezzaio» (Trombati).  Di fronte a categorie del genere non c’è solo la letteratura antica come  fonte d’ispirazione per l’autore, ma anche quel mondo cortigiano su cui si era esercitata la vena satirica di Ariosto: all’apologo finale della prima satira del poeta emiliano viene da pensare, in particolare leggendo Beneficium accipere libertatem est vendere, in cui l’adulatore redivivo è un intellettuale che, messosi sotto la protezione di un pezzo grosso, sicuramente- dice l’autore- avrà «teatri pieni», «premi», «ottime recensioni», afferrerà «successo e celebrità», ma non saprà che in questo modo avrà per sempre «venduto la libertà». E – aggiungiamo noi- avrà perduto il connotato più autentico e più socialmente necessario dell’intellettuale, la funzione critica, se è vero che “intellettuale” è colui che intus legit, legge dentro la realtà senza condizionamenti di sorta, libero, appunto.  Cortigiani è il testo più efficace di questo gruppo di satire perché offre tutto un ventaglio moderno di questa «colluvie di servi», «simili a pecore che seguono il cane pastore».
Un ultimo invito rivolgo al lettore: a notare la maestria che in questo “lepido libello” l’autore mostra nel maneggiare e manipolare parole vecchie e nuove, latinismi, neologismi, termini dialettali, nel mescolare alto e basso, aulico e plebeo, ancora una volta nel solco della tradizione del genere che anche in questo Paolo Vincenti rivitalizza.


La copertina del libro
                                                                                         

Nel segno del giallo
di Gabriele Scaramuzza

 
Bruno Morchio

Ho conosciuto casualmente a Bonassola qualche estate fa Bruno Morchio, e mi hanno interessato da subito i suoi romanzi. Già una nostra amica che trascorre le estati nello splendido entroterra ligure mi aveva fatto dono del noir La crêuza degli ulivi, e dunque il suo nome mi era noto. Ho letto poi più d’un suo lavoro: voglio quanto meno ricordare Un piede in due scarpe; Uno sporco lavoro. La calda estate del giovane Bacci Pagano; Le sigarette del manager. Bacci Pagano indaga in Val Polcevera. Per professione psicologo (laureato a Padova nel 1984 con una tesi sulla terapia familiare), Morchio si era in precedenza formato a Genova sotto la guida di Edoardo Sanguineti, che aveva seguito la sua tesi su Linguaggio e ideologia ne La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda (discussa nel 1979). I suoi romanzi risentono dell’ampiezza della sua formazione culturale, psicologica oltre che letteraria. Quanto più mi ha attratto nelle sue pagine, al di là della tensione narrativa, della maestria nella costruzione dei personaggi e delle trame, è una sorta di inquietante non detto che qua e là vi traspare. Quasi ciò che veramente determina le vicende, i delitti e le indagini, non fosse quanto leggiamo, bensì una sorta di corrente sotterranea, di turbine che tutto piega a sé stesso, indipendentemente dalle determinazioni dei singoli attori. E l’inquietudine è che questo valga anche per la nostra vita, al di sotto degli enti macroscopici che la animano, e di cui sappiamo dai giornali, dai notiziari televisivi, dalle conversazioni con altri. Ma voglio ora dedicare qualche riflessione in margine alle due più recenti sue opere: Voci nel silenzio. Dalla quarantena, Bacci Pagano e gli spettri del passato in primo luogo; in seguito Nel tempo sbagliato. Entrambi romanzi sui generis, difficili da inserire in generi letterari invalsi quali il giallo, il thriller, il noir. Entrambi allargano i propri orizzonti fino a includere tematiche autobiografiche, etiche e psicologico-esistenziali.  



Nel panorama delle opere che ho letto di Bruno Morchio Voci nel silenzio è il più complesso nella trama e il più originale nella costruzione; risente in modo per forza di cose più diretto dell’attualità e non vi mancano riflessioni metaletterarie. Ho fatto una certa fatica a leggerlo, confesso: ho dovuto più volte rileggere, certo non solo a motivo del declino della mia memoria.
Voce narrante, come in ogni opera di Morchio, è Bacci Pagano, investigatore privato: il suo (mutatis mutandis) Sherlock Holmes. Voce narrante, ma anche protagonista a tutto tondo del racconto: interagisce con gli altri personaggi, ha un destino per qualche aspetto analogo a quello di altri, intercala eventi della propria vita alle narrazioni delle vite altrui, che si riversano l’una nell’altra.   
Non ricorderò la vicenda narrata, peraltro troppo complessa per poter essere riassunta - nulla può surrogare la diretta lettura, e queste mie righe si propongono soltanto di invitare a essa. Riprendo piuttosto a modo mio qualche punto che mi ha fatto pensare. All’inizio, in piena pandemia (nel 2020), una giovane donna (Lara) fa pervenire a Bacci Pagano, senza leggerla, una lettera, adempiendo le ultime volontà del padre appena morto di covid: Giuseppe Bortoli - personaggio quanto mai tortuoso e ambiguo, finto brigatista, legato ai servizi segreti, amorale; retribuirà Pagano post mortem, tramite Lara. Non è chiaro il motivo per cui scrive e fa consegnare la sua lettera, una sorta di testamento a futura memoria; di essa non si capisce chi ne trarrà vantaggio, se non l’immagine che Bortoli desidera lasciare di sé nel ricordo di chi gli sopravviverà. Incarica Pagano di far luce sui motivi della squallida e tragica morte della moglie, Marina Tanzi, e dell’odio maturatasi in lei nei suoi confronti. Motivi che lui già conosce; del resto, non ci sarà più quando Pagano li scoprirà. L’impressione è che vuol solo creare una cortina di silenzio (che questo motivi anche il titolo?) sul proprio criminoso passato, e offrire ai posteri una conferma dell’immagine positiva di sé che aveva costruito dapprima nella moglie, e poi nella figlia, che la terrà cara. Al di là della varietà dei personaggi che incontriamo nel romanzo, un intento sembra comune a tutti (la madre Marina, la sua amica Tania, Bortoli stesso, fino ai collaboratori vicini a Pagano): proteggere Lara da una verità accecante, che avrebbe distrutto la sua vita.  



La morte di Marina Tanzi è avvenuta una ventina d’anni prima, quando Lara aveva solo due anni; Pagano l’aveva conosciuta a Cuba, ne era nato un amore reciproco, intenso anche se di breve durata. Anche più di vent’anni prima Pagano aveva difeso Bortoli con successo da un’accusa ingiusta (che si rivelerà poi non infondata). Strane coincidenze, strani rinvii, il libro ne è pieno; la loro enigmaticità si spiega solo in parte.    
La lettera ci è resa nota per brani posti ad esergo a ogni capitolo della prima parte del romanzo. Che è infatti diviso in due parti: la prima prende spunto dalla lettera appunto, retrocede al giugno del 1998, allorché Bortoli già si era rivolto a Bacci Pagano, su indicazione dell’avvocato Canessa. Già qui si pongono i germi degli sviluppi successivi della vicenda. Lo sfondo per tutti (Bacci incluso) è l’esser stati coinvolti, a torto o a ragione, e in modi equivoci, tra loro differenti, nel mondo delle Brigate Rosse. Bortoli fugge in Brasile e vi resta a lungo (apparentemente come si vedrà); torna con la garanzia di non dover saldare debiti con la giustizia italiana. Ma rivelazioni di pentiti, delazioni, inesplicabili rivalse, lo accusano, e qui Pagano lo salva. In questo mondo si muovono figure quali il commissario Pertusiello, Grosso, Canessa appunto, Ardigò, Marra, Loi, De Rossi; qui avviene il presunto suicidio in carcere di Nino Paluzzi, inesplicabile, oggetto di indagini. Servizi segreti, italiani e della DDR, fuorusciti da questa come Lothar, omosessuali, un’umanità varia ma spesso moralmente equivoca, partecipa alla vicenda
La seconda parte, datata 2020, documenta la natura criminale di Bortoli, svela omicidi mascherate da suicidi o da malattie. Ma il finale è tutt’altro che da giallo: certo, indagini ci sono state, convincenti, hanno risolto problemi restati in sospeso nell’indagine del 1998; hanno messo in luce non poco dei legami interpersonali, inclusi quelli tra Pagano e sua figlia, la sua compagna, taluni amici o conoscenti. Ma il nucleo fondamentale delle indagini e delle loro scoperte (incentrate sulla figura di Bortoli e del mondo da lui mosso) ha dovuto esser mantenuto nascosto. Un giallo per solito indaga su omicidi, scopre assassini e li consegna alla giustizia; con soddisfazione del lettore, con suo catartico sollievo. Qui i risultati ci sono, ma devono essere tenuti nascosti.
Non solo l’assassino (o colui che ha guidata una catena di assassini) è morto, ma la verità su di lui deve tornare nascosta. Allargando il discorso, non so in modo quanto pertinente, aggiungo: è il senso stesso dell’investigare che viene messo in discussione, la domanda verte sulle conseguenze che può avere scoprire un colpevole. Tanti interrogativi restano sospesi, non solo circa la vicenda, ma circa i meccanismi, le finalità e le conseguenze della giustizia – e del resto, non è la storia che ci insegna a diffidare, e a interrogarci talvolta sulla legittimità etica della giustizia? Non è Bruno Morchio che - in un contesto certamente diverso – all’inizio ricorda i campi di sterminio? A sproposito, ho subito pensato; ma alla fine non emerge qualche strana connessione?
Che senso hanno avuto le faticose ricerche di Bacci Pagano? continuerà a fare indagini se poi deve metterle da parte? E Bruno Morchio, quale altro romanzo ci farà leggere?         

  
 
Qualcosa ancora ci ha fatto ancora leggere Bruno Morchio. Il suo successivo romanzo (del 2021) è Nel tempo sbagliato. Bacci Pagano e l'irresistibile arte della fuga. Gli fanno da esergo alcune citazioni: da Leopardi, da Montale; e da una canzone di Sylvie Vartan, che contiene il termine “irresistibilmente”, e tornerà, quasi leitmotiv, nel romanzo.  
Il termine “tempo sbagliato” compare come titolo del cap. 13, in una riflessione di Bacci Pagano mentre attende al telefono che la segretaria gli passi Pizarro (il marito che gli chiede di indagare sulla scomparsa della propria giovane moglie, Myra: Miroslava Rostova). Sbagliato dev’essere il tempo in cui gli viene affidato il caso della scomparsa di Myra: “troppo presto, o troppo tardi”. Sbagliato anche perché è il tempo problematico in cui Bacci Pagano si trova a disagio nella nuova situazione che vive, lascia l’appartamento avito e le consuetudini di una vita. Sbagliato è forse il tempo letterario, e interiore, di Bruno Morchio, che nei generi invalsi si sente stretto (saranno gialli, noir, o thriller i suoi lavori?), non si attiene a codici precostituiti, si pone domande, e si attende risposte, che vanno oltre essi.  
Decisamente sbagliato poi è il marito, Carlo Pizarro, cui Myra si lega e tenta disperatamente di sfuggire: la protagonista dispersa, inquieta – che appartenga a lei l'irresistibile arte della fuga? Sbagliati (e non solo per lei) sono i tempi e i luoghi, i lavori, gli ambienti in cui consuma la sua breve e intensa esistenza, la sua strepitosa bellezza. Non usuale è la sua preparazione culturale, la dedizione alla Letteratura latina (in cui si laurea), soprattutto il tener vivo l’amore per gli studi, nella convinzione, certo fuori tempo, che siano la cosa in assoluto più importante per lei: li segue con una determinazione che appartiene purtroppo a epoche lontane da quelle in cui vive. Gli epigrammi erotici di Marziale sono il tema delle sue ricerche, ad essi è dedicata la sua prima, ottima, pubblicazione - e anche questo non deve esser privo di agganci con la sua personalità. Fuori tempo sono le sue aspirazioni, la sua costanza, la sua voglia di realizzarsi in un mondo diverso da quello da cui proviene (l’Ucraina degli anni prossimi al disfarsi dell’Unione Sovietica), e che di fatto presto la espelle da sé. Ma “il tempo sbagliato”, quello più sbagliato di tutti quanto a effetti che produce, è stato quello in cui Myra concepisce un bambino, si sente costretta a progettare un aborto. Che non effettuerà: “per motivi di forza maggiore”, a quanto consta.    
La storia di per sé è semplice da raccontare: qualcuno (Carlo Pizarro) si rivolge a un detective privato e gli chiede di risolvere l’enigma che lo coinvolge: l’inspiegabile scomparsa della moglie Myra. Bacci fa tutto il possibile per venire a sapere, ripercorre metodi e vie a lui consueti, persone amiche cui già era ricorso in altre storie; ne tenta anche di nuovi. Gli è di grande aiuto la sua compagna, Mara: è lei che lo indirizza verso il luogo in cui tutto sembra risolversi, e non importa se imprevedibilmente.

 
 
Il romanzo è più complesso di quanto a tutta prima appaia. Si intreccia di vari strati: la storia personale di Bacci, per certi tratti nota a chi abbia letto altri suoi romanzi. Storie di altri vicini a Pagano, tra cui Mara, la sua compagna; altre persone incontrate. Riflessioni storiche, sociologiche, ambientali, esistenziali, letterarie (i rinvii letterari, anche al mondo del genere in cui Morchio si muove); e riflessioni sul proprio stesso lavoro da parte dell’autore. Anche i sapori variano (i vini e i cibi quasi sempre liguri, per non dire del mare), e le atmosfere: da emotive a erotiche a anodine.     
Lo stesso linguaggio del romanzo è vario, da pianamente narrativo (senza disdegnare modi di dire e termini corrivi, dialettali, o alla moda), a uno stile più elevato: meditativo, rievocativo, con accenti persino poetici. Senza contare i modi di esprimersi di Paula Pataki (ungherese, intima amica di Myra), che risente di inflessioni straniere. Così vario è il contesto storico attraversato, dall’Ucraina al mondo genovese, denso di rimandi architettonici, paesaggistici: da postindustriale, a marino e collinare.   
Non sembra l’andamento del romanzo incongruo col finale? E coi rapporti che si instaurano tra Pagano e Pizarro, persino nell’inquietante confronto finale? Solo un buon psicologo potrebbe venirne a capo: uno psichiatra più che uno psicanalista, a quanto posso intuire. La psicologia proprio non manca, e pour cause, nel romanzo, la si ritrova un po’ dovunque, a proposito di personaggi diversi; ma ha più campo nel confronto di Bacci Pagano con Carlo Pizarro. 
Importa che il problema da cui tutto è partito e ha messo in moto le facoltà investigative, la fatica, il tempo di Bacci Pagano, semplicemente non esisteva, era già risolto; l’enigma era solo presunto. Era stato inventato ad arte da chi a lui si è rivolto, per depistare ogni indagine, per allontanare da sé ogni sospetto. È come se il romanzo si mordesse la coda.
Pagano ha tralasciato di indagare proprio la cosa decisiva; troppi ostacoli interiori si sono opposti ad accettarla, tanto era opprimente il prospettarla da subito. Ed è stata una donna a indirizzarlo. Bacci Pagano si fiderà del consiglio dell’amica Mara, seguendolo scioglierà il caso propostogli.    
Qualcosa nel finale resta aperto: non c’è confessione, non è ancora costituito alcun tribunale che accerti i fatti e giunga a una sentenza, nei vari gradi di giudizio. Le prove che porterà Pagano saranno sufficienti a condannare Pizarro? E se lo saranno, quanti anni di carcere lo attendono? Chi annuncerà ai genitori, alle amiche e agli amici stretti la terribile notizia? Che eco resterà di Myra a Genova?  
Certo è che Pizarro verrà indagato, poi arrestato e processato. Lo preannuncia la telefonata finale a Totò Pertusiello, che si prenderà carico del caso. Risponde un centralino, nell’attesa dell’arrivo del commissario della sezione omicidi è di insinua una musica: “ma non era Irresistibilmente” (di Sylvie Vartan). Queste le parole sintomatiche su cui si chiude il romanzo.
  


L’àrbulu notru che si fa eroe tragico
di Ilaria Verdi
 

Giuseppe Cinà

Tutti a ncinziari li ciuri ammuntuati/ ma picca genti canùsciunu la zàgara di l’alivu/ ca tra li pàmpini l’aria pitta a biancu merlettu” (“Zàgara d’alivu”, p.89).  Il fiore d’ulivo, descritto in tutta la sua eleganza, è soltanto uno dei numerosi aspetti dell’ulivo di cui ci parla Giuseppe Cinà in L’Àrbulu nostru. Il nostro albero (prefazione di Velio Abati, La vita felice, Milano 2022, pp.133, euro 14,00), la seconda pubblicazione di poesia, dopo A macchia e u jardinu (Manni, 2020).
Come del resto “la loquela” già lo rende manifesto, l’autore sceglie di indossare i panni “usurati” del dialetto siciliano. Per ripercorrere la genealogia dell’Àrbulu nostru: come spiega lo stesso autore, "a partire dall'ordito di base della parlata palermitana, arricchito cum grano salis con materiali linguistici dedotti dalla letteratura e dalle altre parlate locali, che meritano di essere riusati anche contestualmente e ravvicinati"
È dunque un dialetto che “rampolla” dalla terra ma che a tratti si fa etereo, aulico, sacrale: questa compresenza di “dolcezza e ruvidità” che caratterizza l’ulivo, prende la voce del dialetto. Come ci spiega Velio Abati nella prefazione “in questo modo si genera una slogatura tra i materiali che sono propri del dialetto e i materiali della cultura a esso estranea”.



In  Àrbulu nostru, raccolta poetica che si suddivide in quattro parti, l’autore, collocandosi in una dimensione mitica, ci parla della sacralità dell’ulivo ripercorrendone le tracce fino a produrre un nòstos, in cui l’ulivo assume a pieno titolo i tratti di eroe tragico.
Nella prima e seconda parte della raccolta la dimensione tragica è particolarmente forte: l’“àrbulu nostru” è il principio fondativo della civiltà intorno al Mare nostrum.
 Infatti, oltre a rimandi alla tradizione greca e biblica, intorno alla figura sacrale dell’ulivo si collocano una pluralità di figure, lo “spazio scenico” si allarga nel tempo e nello spazio, particolarità che si nota anche osservando i titoli dei componimenti (“Marinari”, “Lu filòsofu”, “Lu guarituri”, “Lu bracciante di Calatafimi", “Lu guarituri”, “Lu guardianu”, “Li dutturi di l’alivi”, “Dolenza di emigrati”). Nella seconda parte, potremmo dire con Abati, si trova “una faglia narrativa che acquista particolare rilievo nella svelta azione corale di Lu cuntastori di lu paramentu”.
Nella terza parte invece la dimensione si ristringe e la voce poetante si concentra sull’ulivo in tutta la sua tragicità: è un eroe antico di cui se ne descrive la genesi (“Nzitu”), la cura (“Arrimunnata”), la duplice natura (“Sarbàggiu e mansu”) e infine i poteri benefici. Infatti, l’ulivo è l’eroe che nutre e guarisce: in “Generosità" si descrive l’importanza dei suoi “cunviti” e in “L’Àrbulu nostru” l’ulivo viene definito “abbasatu”, colui che da sempre cura e nutre città e campagna. Inoltre, riprendendo il parallelismo con la tragedia, in “Di casata nòbbili” sembra delinearsi una sorta di coro, di cui l’autore decide di fare “lappellu” (“Cerasuola, prisenti! / Biancolilla, prisenti! /Piricuddara, Minuta, Nasitana, prisenti! /Nerba di Catania, Castriciana,/ Tonda iblea, Crastu…/Prisenti!Prisenti! Prisenti!” p. 93), un personaggio collettivo che partecipa alla vicenda e che chiede di non essere dimenticato (“ma addumànnanu di unn essiri scurdati” p.93).
Nella quarta parte ha inizio con forza l’epilogo tragico. La prima domanda che lo scrittore si pone è “Cu fu?”, chi è stato a provocare ciò che l’autore definisce   un “focuranni”: una ottantina di alberi di olivo tagliati che giacciono a terra senza vita. 
In questa ultima parte si descrive la brutale dissacrazione dell’ulivo e di tutta la realtà che lo caratterizza. Cinà ci descrive con gli “strumenti lirici” cosa comporta la dimenticanza, la modernità a tutti i costi, quella che Pasolini ci descrive in “Il pianto della scavatrice”: nella poesia di Cinà è l’ulivo a subire l’oltraggio, a ricoprire il ruolo di eroe tragico e come del resto avviene in qualsiasi tragedia la conclusione prevede la morte del protagonista e la descrizione della sua pena.
Se Pasolini aveva umanizzato la scavatrice, poiché riconosciuta come il simbolo della trasformazione brutale di Roma, nell’ultimo componimento di Cinà è la “Motosega Stihl MS 170” a farsi umana: “Mancia lignu/ pi culazioni, pranzu e mirenna/precisa e massara nna lu bianca-nivuru/ di li culura ca un vidi. [...] Intantu idda passa all’avutru alivu/ càvura e affamata”. 
La “Motosega Stihl MS 170” diventa una figura mostruosa che “mancia lignu”, che fa rabbrividire la collina silente e che, dimentica del tempo, trancia via “Àrbulu nostru” e la sua storia: l’ulivo ha impiegato cent’anni per crescere e un minuto per morire. Ed è così che Cinà nell’ultimo componimento della quarta sezione riconferma con forza la dimensione tragica che accompagna tutti i componimenti poetici.
A questo riguardo riprendendo le parole di Pasolini in Lettere Luterane possiamo riconoscere che “uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti”. Ma allora viene naturale chiederci… quale era la colpa dell’Àrbulu nostru?


La copertina del libro


SIMONE GIORGINO: TROBAR LEU
di Paolo Vincenti

Simone Giorgino
 
Il titolo di questa raccolta di Simone Giorgino, pubblicata per Edizioni Spagine (Lecce), è fortemente evocativo, perché riporta alla letteratura trobadorica e quindi alle origini della letteratura italiana. Il trobar leu, nella letteratura provenzale, era una poesia lieve, fluida, chiara, che prediligeva l'apertura, contrapposta al trobar clus, che era invece un cantare in maniera oscura, chiusa, con uno stile più complesso e allegorico. Si tratta di un breve canzoniere, in cui vengono proposte delle poesie molto particolari, secondo un espediente letterario che, se non è originale, è certo interessante. L’autore scrive nella sua nota in premessa che si tratta della storia di un taccuino e del suo proprietario che abbozza due tre versi e poi se ne dimentica, ritratta tutto, si scervella su un’ipotesi di stralcio. Un libro in formazione, insomma, di poesia che si crea nel suo farsi, volatile, leggera, come la definisce lo stesso autore. Al libro è allegato un cd con musiche di Gianluca Milanese e voci recitanti di Simone Giorgino e Ilaria Seclì. V
i è un accavallarsi di immagini, finisce una e subito comincia l’altra, con una urgenza che sembra non arginabile. Si tratta di una scrittura fortemente contemporanea. Le parole evocano immagini, hanno una valenza sinestetica, anche a discapito della sintassi che è frantumata, spezzata, involuta, ma pur sempre rispettata, anche se non vi è una costruzione rigida, statica, ma mobile e intrecciata. Le parole respingono ogni ordinamento categoriale sia logico (principale, subordinata, ecc.) sia cronologico, e si dispongono secondo una struttura che, se non è determinata da una sorta di scrittura automatica (come quella dei surrealisti), tuttavia resiste ad ogni forma complessa, ed è breve, quasi cinematografica. È evidente che la tradizione letteraria da cui prende le mosse Simone Giorgino sia quella novecentesca forte che congiunge Pascoli a Saba, Sereni a Fortini, a cui si possono aggiungere tutta l’avanguardia e lo sperimentalismo novecentesco (da cogliere in alcuni componimenti dove c’è un più azzardato gioco verbale e grafico). Cioè, Giorgino ha solide radici nel secondo Novecento ma guarda anche agli anni duemila e alle nuove forme di comunicazione poetica che si sono recentemente sviluppate. Ciò non meraviglia perché egli è ricercatore, docente, e in quanto tale, conoscitore della storia della letteratura ed anche attento ai nuovi fermenti artistici. Eliot dice che solo da una adeguata consapevolezza critica possono nascere delle proposte proprie. 


La copertina del libro

Soprattutto il riferimento è a Montale, centrale nel paradigma novecentesco del confronto-scontro fra dato e senso. La poesia sembra che sia il luogo dello straniamento. Certamente lontani, questi versi, non solo dalla metrica, ma da qualsiasi eleganza formale o politezza stilistica, sembrano piuttosto assoggettati al furore variantistico e al tormento esistenziale del loro autore. Sono cioè parole che cercano il senso ultimo senza mai trovarlo, parole della problematicità, che hanno in uggia la presunta pienezza oracolare della poesia, sono anzi parole che rifuggono una vera e propria liricità e sembrano dire “torni ricolma di riflessi, anima, e ritrovi ridente l’oscuro”, con Ungaretti. A volte queste parole trovano il vuoto, quei vuoti della lingua quando essa è impotente a significare le più profonde sfumature dell’essere. Una poesia sicuramente interessante, questa di Giorgino, con soluzioni sintattiche e lessicali anche inedite, come se scrivesse in preda ad un invasamento panico, ad un furore visionario. Il linguaggio usato è vario, attinge dall’uso, è basso, parlato, ma diventa anche aulico, in certi momenti più letterario, con introduzione di neologismi e frequenti forestierismi, rasenta quasi il pastiche. Si assiste alla frantumazione del tempo e dello spazio, le coordinate geografiche si annullano e del pari si cancellano le tre dimensioni temporali del presente, del passato e del futuro, che si intrecciano inestricabilmente fra di loro, si confondono e si mischiano nella rievocazione nostalgica, nella rielaborazione del proprio vissuto. L’autore è certamente cosciente di quanto sia difficile il mestiere delle parole e non chiede nulla ai propri lettori, troppo scafati per non essere diffidenti del gesto plateale, dell’abbraccio smaccato, della parola suadente. Egli sembra conoscere il senso profondo dell’atto poetico, quello che Heidegger chiama “afferrare l’inespresso”. Del resto, così cerca di fare chiunque scriva poesia, se d’accordo con l’hasard di Mallarmè, ossia che il linguaggio può fallire in questo tentativo, ma varrà la pena gettare i dadi. 


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LE FIABE DI VOLANTE
di Angelo Gaccione


Massimo e Laura

Pubblicando le 94 fiabe di Laura Margherita Volante, i Quaderni del Consiglio Comunale delle Marche rendono giustizia a questa pedagogista, studiosa, poetessa e maestra dell’aforisma. Ho detto rendono giustizia perché da diversi anni Volante si prende cura dei Quaderni con una passione, con una caparbietà – e con tanta fatica – davvero encomiabili. Grazie ai suoi numerosi contatti sparsi per l’Italia i corposi volumi di Ti sogno, Terra, hanno acquisito prestigio culturale e attenzione da parte di letterati e non. Volando al massimo è uscito nell’ottobre del 2021 e porta come sottotitolo: Se sapete volare cosa aspettate…? Andiamo e si compone di 94 storie fiabesche illustrate dai gradevoli disegni a colori di Massimo Tartaglini, per un totale complessivo di 180 pagine. Sono fiabe di impatto immediato condotte con una scrittura scorrevolissima e che intendono coinvolgere emotivamente lettore e ascoltatore. Le maestre, le mamme, le nonne, che vogliono narrare ai loro allievi, figlioletti o nipotini queste storie così sognanti dell’autrice piemontese (Laura Margherita Volante è nata ad Alessandria e vissuta a lungo in Romagna prima di trapiantarsi ad Ancona nelle Marche), hanno con questo libro la possibilità di incantarli, ma senza trascurare di farli pensare, riflettere, capire alcuni dei valori più preziosi dell’esistenza. Come ci insegna l’autrice stessa che di mestiere fa l’educatrice ed è grande estimatrice della Montessori, l’immaginario del bambino può trovare un valido aiuto in quelle storie che, come queste, hanno uno sguardo attento a valori come amicizia, onestà, rispetto dell’altro, della natura, dei sentimenti, e così via. Nel suo processo di trasformazione e di interiorizzazione; nella sua parabola di crescita e di presa di coscienza del mondo, imparare da subito queste istanze valoriali, significa farne un adulto compartecipe, solidale, compassionevole, rispettoso. E Dio solo sa, se in un mondo sempre più conflittuale e violento come è divenuto il nostro, ci sia bisogno di indicatori positivi come questi segnalatici da Laura Margherita Volante con le sue bellissime fiabe.


La copertina del libro


TI SOGNO TERRA
di Valeria Dentamaro

Laura Margherita Volante
 
Il terzo Quaderno Ti sogno, Terra. La grande Madre Fratelli Tutti (Ed. Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche 2021, pagine 240) della scrittrice Laura Margherita Volante, di recente pubblicazione, è dedicato alla Sicilia, dopo i precedenti dedicati rispettivamente alle Marche e al Piemonte. In questo nuovo Quaderno l’intento dell’autrice è di mettere in rilievo l’anima di questa regione del Sud del Paese e dei vari Sud del mondo. Fra gli scritti dedicati a questa terra vanno ricordati almeno una serie di titoli quali: ‘Dal mito alle magie’, ‘Ignazio Buttitta dalla piazza all’universo’, ‘Un marchigiano in Sicilia’, ‘Da Recanati a Catania’, e ‘La Sicilia non è solo mafia’, come giustamente ci viene ricordato. Gli autori sono numerosi e impegnati in diverse discipline espressive; ognuno con i propri scritti dà voce ad un sogno corale fatto di ideali e valori che li accomuna. Un sogno che continua con il sottotitolo del Quaderno “Fratelli Tutti” accogliendo l’invito di Papa Francesco.
Una grande orchestra che a più voci, richiama il diritto di ogni essere umano a vivere nell’armonia di unità, di giustizia e di pace. Il tomo presenta capitoli divisi per tema il cui filo conduttore è costituito dalla volontà e dalla determinazione di mettere in rilievo alcuni dei grandi problemi di natura universale, attraverso scelte di valore umano, in un momento storico di cambiamento epocale del nostro pianeta. Apre il volume un testo della Volante in ricordo del poeta e religioso friulano padre David Maria Turoldo, ispirato al libro Amare, e si chiude con un saggio della stessa autrice sull’Amazzonia, divenuto simbolo dell’emergenza planetaria ambientale.
Tra le personalità del panorama culturale odierno con cui l’autrice del volume ha colloquiato, vanno ricordati l’editrice e filmmaker Elisabetta Sgarbi, lo storico Jean Bruschini, l’artista Rita Callegari, il saggista Bruno Gallo, la scrittrice Licia Cardillo Di Prima.


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ÌSULA
di Federico Migliorati


 
Francesco Borrasso
 
Forse invecchiare non è servito a niente se non a essere più infelici” scrive Francesco Borrasso in un passo del suo nuovo libro dal titolo Ìsula (148 pagine, 13 euro), licenziato da poco per i tipi dell’Editoriale Scientifica nella collana S-Confini diretta da Fabrizio Coscia. È racchiuso in questo pungente aforisma il cuore pulsante di un lavoro che riunisce una svariata serie di generi, ciascuno dei quali (il diario di viaggio, il memoir, un saggio in fieri, divagazioni letterarie) trova uno spazio di interrelazione con gli altri all’interno di un plot narrativo e con uno stile assolutamente originali. Lasciata la Penisola per la Sardegna, terra bella e dannata dalle molteplici sfumature in cui i miasmi e le esalazioni tossiche degli inceneritori ripugnano di fronte alla meraviglia di una natura ancora incontaminata, Borrasso, come già nel precedente Restare vivo, registra i singulti di un male di vivere che lo assedia costantemente, un tormento interiore che, pur ‘mediato’ dalla fondamentale presenza accanto a sé della moglie Daniela, frena sovente gli slanci vitali senza tuttavia comprometterne le brillanti prospettive professionali richiamate tra le pagine. Già lanciato da un padre letterario nonché amico come Massimo Onofri, che nel libro fa capolino quale figura gentile e appassionata assieme ad altri protagonisti della scena culturale isolana, l’autore si mostra un instancabile passeggiatore (spesso) solitario sul suolo sardo: i suoi silenzi sono carichi di significato, attese, tensioni, sguardi, angosce, dolori, desideri, sofferte meditazioni su un Io complesso dalle molteplici sfaccettature, innamorato della vita e ugualmente ferito da essa. Figura imprescindibile e imperante è sempre il padre ormai lontano nel tempo eppur vivo nell’incessante ricordo la cui voce si fa flebile nella memoria (“pensiero fisso, retropensiero”), che assurge altresì a nume tutelare e la cui assenza si incista in un universo popolato di passato, dal fantasma dell’infanzia, che a onde concentriche si affacciano prepotenti nel procedere dei giorni. Siamo di fronte a una prosa nomade come recita il dorso del volume, a una produzione ibrida che conduce a digressioni costanti in territori spuri, mentre certi tratti di penna avvicinano la prosa segmentata ai versi offrendo così ulteriormente un’efficace resa icastica. Il tono colloquiale si sposa con un buon registro lessicale che esalta una scrittura attenta all’essenziale e nella quale le parole si tramutano in passanti misteriosi dell’animo, come recitava Victor Hugo. Scrivere è vivere, ma è altresì selezionare, operare una sottrazione di peso dal grumo confuso di espressività insediato e affastellato nella mente: l’autore campano, con Ìsula, ci restituisce anche stavolta una prova decisamente ben riuscita di tutto ciò dilettandosi con scioltezza e in maniera incisiva e proteiforme nel narrare questo suo tempo di vita spinoso ed esaltante. 

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I VERSI DI CATTANEO
di Federico Migliorati

Mattia Cattaneo
 
Una poesia che si fa carne e vita, che evoca la relazione senza fine tra un figlio e sua madre, continuamente rinnovata, linfa che zampilla come acqua di fonte anche nel roveto dei giorni. Il poeta e critico bergamasco Mattia Cattaneo, classe 1988, ha da poco licenziato per i tipi di Architetti delle parole Edizioni una nuova silloge dal titolo Partiture di pelle (46 pagine, 12 euro). Il titolo che richiama il linguaggio musicale connota tutto un periodare vivido che respira di simbiosi, di contatto, di rapporto intenso nel quale la parola cerca di descrivere appieno il significato dell’esistere. Nella complessità del vagabondare l’autore vuole riprendere “il sentiero dell’andare” tra alterni sentimenti, smozzicati sul rigo del giorno, con pericoli di cadute e mani che afferrano la presa per salvarlo. Basterebbe il viso di madre accanto al proprio per “dimenticare la tristezza”, mentre il cuore sussulta e si lancia in sfide in direzione di colori più ‘tenui’ di sofferenza. Metafore, ghirlande di immagini, vorticose discese nel sé denotano un sagace, parco lessico che aggetta su territori cari a Cattaneo, quelli della poesia frastagliata perché frastagliato è l’esserci, mai fermo, uguale, lineare: il mondo è un “coma sfinito” e nessun “porto felice” si raggiunge realmente anche se i versi possono gestire il dramma interiore e condurre verso il borgo dell’apparente gioia purché spogliati di segno e immersi nella nuda vita. Alla madre si scrive di notte quando i silenzi incombono grevi e il luogo di riposo “pugnala il mio guanciale”. Il Campana della piaga rossa languente fa capolino nel verso cristallino, talvolta tagliente di Cattaneo: e pur nell’indicibile dolore nessun odio è consentito. Solo il tempo, infine, è da salvare poiché è misura di tutte le cose, è l’ieri nel grembo materno e l’oggi dell’assenza, più acuta presenza, per recuperare quel verso il quale, pur afflitto, è da agguantare e custodire per sempre.

La copertina del libro

LE TRACIMAZIONI DI DI POCE


Donato Di Poce

Questo libro, Tracimazioni, è una scelta Antologica di alcuni miei Poemetti (una delle forme stilistiche da me amate e sempre utilizzate sin dagli esordi poetici), pur se successivamente ho sperimentato e utilizzato negli anni, la canzone libera leopardiana, il verso libero, l’elegia, la poesia d’arte e negli ultimi anni, i “poesismi” che sono diventati l’altra mia connotazione stilistica di immediato riconoscimento. Sono stato certamente influenzato da Whitman (e senza di lui, sono impensabili Allen Ginsberg e l’intera beat generation, ma anche Carlos Williams e il García Lorca di Poeta a New York, e Dino Campana in Italia.  Pasolini (Le ceneri di Gramsci furono per me una rivelazione), Bertolucci (La camera da letto) e anche incoraggiato dagli amici e maestri Roberto Roversi e Tomaso Kemeny.
Il Poemetto è una forma a metà tra “La tentazione della prosa” di Sereniana memoria e la poesia, e mi ha permesso di avere un respiro più ampio di una semplice poesia, di trattare spesso anche tematiche storiche, esistenziali e civili che difficilmente avrei potuto esaurire in una sola poesia.
Il poemetto è una derivazione moderna del poema di origine Greca (Iliade, Odissea) che ha avuto una grande tradizione nella Storia della letteratura mondiale ma anche specificatamente italiana (Dante, S. Francesco d’Assisi, Tasso, Pascoli, Pasolini, Roversi, etc…) sino ai giorni nostri.
A partire dai grandi poeti latini (Catullo, Virgilio e Ovidio), passando alla grande tradizione del poema epico cavalleresco, Rinascimentale, per arrivare all’era moderna con i poeti maledetti (Rimbaud, Una stagione all’inferno poema in prosa; Verlaine Poemi Saturnini, Mallarmé con Il pomeriggio di un fauno) senza dimenticare le grandi lezioni di Milton (Il paradiso perduto), Baudelaire, Pascoli, Porta, Pasolini, Majakovskij, Achmatova, Breton, Cvetaeva, Eliot, Pessoa e Rilke.
Se nel poema epico-cavalleresco prende le mosse, un tipo di narrazione in ottave, talora con accompagnamento musicale, prodotta e diffusa per via orale da poeti popolari, i cosiddetti giullari o canterini, va da sé che i Cantari si fondano sull'oralità, nell’era moderna il discorso si sposta sempre più sulla scrittura libera ed automatica e libertà di temi più elegiaci, sentimentali, esistenziali e civili. È in età umanistico-rinascimentale che si inizia a parlare di vero e proprio poema epico cavalleresco: questo assunse la forma metrica del cantare ovvero l'ottava, formata da otto versi endecasillabi. I primi sei sono a rima alterna e gli ultimi due a rima baciata ABABABCC; l'ottava era stata usata da Boccaccio nel Ninfale Fiesolano e nel Teseida.
Le principali opere del periodo furono: Morgante (1461-1483) di Luigi Pulci, Orlando innamorato (1478 circa -1491) di Matteo Maria Boiardo, Orlando furioso (1503 -1532) di Ludovico Ariosto, Gerusalemme liberata (1559/60- 1581) di Torquato Tasso.



Ma Vediamo le 3 caratteristiche principali del poema epico-cavalleresco:
1.- Destinato ad un ambiente di corte
2.- La Fede non è più come valore assoluto come era avvenuto nel medioevo, ma lo diventa la Virtù
3.- Testo scritto destinato alla lettura.
Nell’era moderna invece assistiamo al diffondersi di altre 5 caratteristiche principali del poemetto:
Il poema diventa sempre più breve
I temi si allargano a destinatari universali
Si affrontano temi come il lavoro, l'emigrazione, la sessualità, l'infanzia, la natura, amore, morte, insomma tematiche sempre più conviviali, esistenziali, filosofiche, civili e persino onirico-surreali.
L’oralità cede sempre più il passo alla contaminazione di testualità, recitazione, immagini verbovisuali (Le Corbusier) ed ai cultori della Poesia Totale e performativa (Totino, Pignotti, Fontana, Frangione, Carlacchiani etc…). Frammentazione testuale in canti, stanze, prose, quartine storico/orfico/esistenziali (Cvetaeva, Campana, Pessoa, Breton, Bertolucci, Pasolini, Roversi).
Tra i libri, poeti e movimenti dell’era moderna che più mi hanno lasciato grandi emozioni, insegnamenti e suggestioni devo ricordare Baudelaire con I poemetti in prosa, Valery con Il cimitero marino) Artaud (Van Gogh Il suicidato della società); Breton (I vasi comunicanti); Pessoa (I Poemi di Alberto Caeiro); Rilke (Il libro d’ore), i poeti italiani di Officina
(Pasolini, Roversi, Leonetti, Fortini, Majorino), Volponi (I Poemetti).
Una segnalazione a parte merita Le Corbusier (Le poème de l’angle droit), è un poema in formato extralarge, 32 per 42 centimetri, in cui versi (scritti a mano in corsivo) e immagini (disegni inseriti tra le righe del testo e 19 litografie a colori) si mescolano in una sintesi di forme e di parole che è ricapitolazione del suo pensiero intorno alla creazione artistica e architettonica ma non solo. L’angolo retto è anche definizione di senso dell’umano, linea verticale sull’orizzontalità della terra); ma soprattutto L’Urlo di Allen Ginsberg, il libro ciclostilato e rilegato a mano, donatomi da Roberto Roversi “Descrizioni in atto 1963-1970”, e il poema epiconirico del mio amico e maestro Tomaso Kemeny (La Transilvania liberata).
La sequenza dei poemetti del mio libro non è in ordine cronologico, per una precisa scelta, in quanto volevo vedere la tenuta della continuità e la qualità nel tempo del mezzo espressivo, e nel contempo seguire il mio flusso emozionale di ricordi e concordanze con la realtà d’oggi.


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Saggi
LA VERITÀ DI BELLUOMINI  
di Federico Migliorati

Marco Ciaurro

Vocazione e custodia del senso di verità, il nuovo saggio di Marco Ciaurro (149 pagine, 15 euro) licenziato per i tipi della vivace casa editrice siciliana Il Convivio Editore diretta da Giuseppe Manitta e da qualche settimana in libreria, affronta in sette densi capitoli anticipati da un ‘frammento gnoseologico’ e dalla Premessa i versi di Francesco Belluomini (1941-2017), poeta e scrittore a cui va il merito, tra i tanti, di aver dato vita e incarnato più di chiunque altro quel Premio Camaiore che rappresenta una delle più prestigiose vetrine letterarie d’Italia. Nel titolo dell’opera si riassume tutto il percorso, spesso frastagliato per gli accadimenti della vita, che l’autore viareggino ha intrapreso controcorrente, in forme assolutamente originali. Vocazione, dunque, perché di questo trattasi come illustra l’estensore del testo che scandaglia con passione quella prosa-poesia da lui ben conosciuta e studiata da anni. C’è in Belluomini un’autentica, genuina, spontanea vena artistica declinata nel versante letterario che lo ha condotto, da autodidatta (termine invero riduttivo ma che si presta seppur sbrigativamente a incasellarne genericamente il farsi di una produzione) a definire un tratto non comune, a incidere come segno poetico nel Secondo Novecento. Una vocazione fuori dagli schemi, mai irreggimentata o ingabbiata in movimenti, correnti, linee di pensiero mainstream e anche per questo ostracizzata quando non espressamente contrastata e contestata dall’intellinghenzia: la maieutica a cui Ciaurro ricorre per far riscoprire questo autore scomparso poco meno di cinque anni fa è apoditticamente rivelata con sagacia. Ma sarebbe vana una vocazione che, pur salda, si rivelasse priva di quei caratteri di ricerca della conoscenza, di ottica dell’esplorazione (del sé, dell’altro da sé e dell’oltre a sé) che il viareggino ha invece posto in essere per tutta la sua vita, compreso quel segno significante che, leggiamo nel saggio, lo accomuna al Ligabue dal forte accento espressionista o al Van Gogh dall’intenso cromatismo postimpressionista, entrambi caratterizzati da un’arte totale. Per essi, come per Belluomini, il valore dell’arte conferito dall’atto medesimo è ciò che appare, senza possibilità di fraintendimenti e al di là di qualsivoglia commento esterno. Cogliamo poi un efficace richiamo al Foscolo “iniziatore”, secondo Ciaurro, del “gesto del pensiero della poesia” che connota gran parte della questione moderna e contemporanea dello scrivere in versi per non parlare di quella “inquietudine del linguaggio” di Apollinaire pure influenzante l’opera dello stesso viareggino o del forte legame con gli scritti pasoliniani fino ad arrivare alla linea che lo ‘collega’ in qualche misura all’asse Char-Blanchot. Lo studio filosofico ed ermeneutico che il saggio propone consente di rendere lampanti talune caratteristiche di una poesia che si fa sguardo plurale, che osserva e si fa osservare allo stesso tempo, come accade nel dipinto di Velazquez “Las Meninas” perfettamente colto dall’autore. “Battitore libero”, “operaio di sogni”, “tessitore di versi” costituiscono alcune celebri espressioni riprese dai critici (segnatamente Vincenzo Guarracino) i quali vi sono ricorsi per cercare di inquadrare un’esistenza poetica ampia e versatile, mai disgiunta dalla corrente di fondo che ha contraddistinto il suo percorso terreno. Siamo di fronte, dunque, a un io ‘frastagliato’, svelato tramite i celebri endecasillabi ‘narranti’ e le molteplici figure retoriche a cui fa ricorso (la metafora del mare su tutte) che aggettano sulla complessità della scrittura, la quale funge da elemento apotropaico dell’ignoto, un sé destinato a smarrirsi volutamente nell’oggetto del poema e della poesia lasciando spazio a quei vinti, a quegli emarginati, a quegli sconfitti che molta parte significativa hanno nella produzione del poeta. Il saggio edito da Il Convivio affronta en passant anche alcune delle tematiche con cui Belluomini abita i suoi lavori in prosa con un focus sulla più grande tragedia del Novecento, quella della Shoah, con la testimonianza e biografia di Sonia Contini Sarracco, “testo memoriale – scrive Ciaurro – che è qualcosa di più di un libro fatto di parole e di carta stampata. C’è la terra, il cuore della terra che appartiene agli uomini”. Ed è qui, nella responsabilità individuale alla ricerca di una memoria collettiva da salvaguardare che si incista quella “custodia del senso di verità” richiamata nel titolo del libro in oggetto, uno sguardo poliedrico e completo nonché fonte di nuove riflessioni su un’indubbia e pregnante figura di intellettuale fortemente ancorato alla modernità e la cui eredità, come si afferma in chiusura di volume, è da storicizzare per promuoverne costantemente il valore e il significato più genuini.


La copertina del libro

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L’ITALIA, L’EUROPA E NOI    
di Cataldo Russo
 


Ottantaquattro articoli della lunghezza media di una pagina e mezza vengono riesumati, raccolti e commentati nel libro L’Italia, l’Europa e noi (pagg, 194 €15,00), edito da Guida editori di Napoli- giugno 2021. Ottantaquattro articoli apparsi nell’arco di dieci anni nel mensile di informazione, politica,  cultura ed economia, I Fatti, ideato e concepito da Ornella Trotta, direttrice, come “presidio culturale contro il degrado morale della società”. E mai come in questo momento c’è necessità in Italia di un presidio culturale per contrastare il degrado morale che viene alimentato quotidianamente dalla marea di talk show, arene, dibattiti, litigi concordati e retribuiti, il cui scopo è confondere anziché informare e illuminare.
In questo libro, accadimenti di rilevanza nazionale si intrecciano con accadimenti locali e regionali. Notizie che gettano ombre e disonore su un intero paese, l’Italia, come  la tragedia della nave Concordia all’isola del Giglio, che mise in risalto la pochezza morale e la codardia di Schettino, probabilmente un raccomandato,  si alternano ad altre  che invece redimono il paese come l’accoglienza dei migranti o i preti coraggiosi che, operando in zone difficili, riscattano sia la chiesa sia il paese.  Il questo libro sono preminenti i fatti locali ma l’autrice, pur partendo spesso dal campanile, riesce a fare assurgere la storia dell’uomo qualunque o la vicenda del paesino di montagna a dignità nazionale.
La scrittrice narra i fatti quasi in presa diretta, come se avesse fra le mani la macchina da presa e segue con la precisione del cameraman , leggi, riforme, piani di sviluppo, istruttorie, condoni, crisi di governo, vicende di uomini che si arrabattano per guadagnarsi da vivere e di altri che si arricchiscono, grazie alle protezioni politiche di cui godono, magari percependo cifre spropositate per prestazioni che non hanno niente di eccezionale. Gli argomenti affrontati sono tantissimi e, pur essendo la maggior parte di essi circoscritti alla Campania e a uomini di quel territorio, e in particolare alla provincia di Salerno, per il modo come li tratta e li affronta, per la sottile ironia con cui stempera e tiene sotto controllo la rabbia, escono dalla logica del campanile per assurgere a dignità Europea.
Ornella, che è anche collaboratrice de: Il Corriere del Mezzogiorno e docente di Italiano e Latino, mette in questo libro tutta la sua esperienza di dieci anni di attività giornalistica e di insegnate di scuola superiore che la mette a stretto contatto con i giovani, che meglio di altre fasce di popolazione scandiscono i cambiamenti. Ed è proprio dai comportamenti e dall’agire dei giovani che la  scrittrice trae l’auspicio del cambiamento in positivo, soprattutto nel Sud.
L’autrice di questo libro  è una fautrice convinta dell’Europa e sa bene quanto è importante completare il processo di integrazione politica e culturale del vecchio continente andando oltre l’aspetto meramente economico, che al momento è prevalente.  Leggendo il libro ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a una donna dotata di un acuto spirito di osservazione, capace di saper vedere sempre oltre le apparenze e che non si accontenta mai delle verità preconfezionate. Insomma, Ornella si caratterizza come donna del fare e non come stereotipo della donna del Sud più propensa a delegare e piangersi addosso, (anche se questo stereotipo, duro a morire, non rende giustizia alle tante donne meridionali che invece amano agire e rimboccarsi le maniche). Difficilmente Ornella firmerebbe una cambiale in bianco al politico che ha verve e che fa le promesse più altisonanti. 
I temi più ricorrenti e dibattuti in questo libro sono: La questione del Sud, sempre sfiorata ma mai affrontata veramente dai vari governi che si sono alternati alla guida del paese, la scuola, in balia di un precariato che sembra non avere fine e che finisce spesso con il mortificare le energie migliori di tanti giovani docenti che riescono a conseguire il ruolo dopo essere stati sfiancati dalla frenetica rincorsa alla supplenze, la cultura, che l’autrice vede come la cura più valida per rifondare il paese, la politica, finita in mano a carrieristi ed opportunisti della peggiore risma, la protesta asfittica e autolesionista di chi nel Sud decide di votare Lega, la malasanità, la dilagante disoccupazione, che porta i giovani del Sud a cercare un futuro fuori dall’Italia, il nepotismo e via discorrendo. Il tema riproposto con maggiore frequenza è la differenza economica, culturale e politica fra Nord e Sud, una differenza che ha alimentato luoghi comuni, disprezzo e razzismo nei confronti di una parte del paese che è stata culla di civiltà.
Nel libro l’autrice cita spesso il titolo del romanzo di Carlo Levi Cristo si è fermato a Eboli, assurto alla critica e dall’immaginario collettivo ad emblema di un Sud arretrato, incolto e immobile, ma lei sa bene che non è così. Cristo non s’è fermato a Eboli, è sceso anche nel Sud più estremo, Basilicata e Calabria, altrimenti si negherebbero a questi territori 2500 anni si storia e di cultura con la C maiuscola in ogni campo. La visione che l’autrice dà del Sud è una visione positiva anche se restano tanti “ma” e “se”.
Il libro è narrato con garbo, con buona padronanza della scrittura, quasi in punta di penna. Ornella sembra girare attorno alla ferita con il bisturi anziché immergervelo con forza. All’autrice non interessa tanto l’urlo disperato del singolo ma il lamento della moltitudine che deve scegliere la risposta collettiva e non quella personale, il più delle volte perdente, se vuole veramente incidere nel cambiamento.

 

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DI POCE AUTORE ECLETTICO
di Angelo Gaccione

Donato Di Poce
 
Poesia, saggistica, critica d’arte, fotografia, aforismi… Si occupa di troppe cose Donato Di Poce? Si occupa di tante cose perché ha tante passioni e ha tante cose da dire, e le dice bene. E questo è ciò che conta. La Biblioteca del Vento. Quaderno di Poesie sull’Arte è la sua più recente creatura in ordine di tempo; è uscita da Campanotto (pagg. 122 € 12,00) nell’estate di quest’anno, ma è in arrivo anche un volume saggistico dal titolo: P.P.P. L’ossimoro vivente, dedicato al poeta friulano. La Biblioteca è un libro composto da 63 testi poetici e da tre immagini realizzati dal poeta stesso: “La valigia di Folon”, “Il desiderio”, “Poesia”. Nella sua nota introduttiva Di Poce ci consegna un titolo che suona come una vera e propria confessione: “Volevo essere un pittore”, ma ci dà anche tutti gli elementi sulla genesi e sul significato di questo lavoro compreso spunti di poetica e di estetica che lo sorreggono. E se pittore non lo è diventato per mancanza “di talento artistico e di manualità” (sono parole sue), il libro è impastato di arte dal primo all’ultimo verso. Intanto perché quasi ogni componimento è dedicato ad artisti o a personalità che di quel mondo si nutrono. Arte e poesia in un felice connubio in cui i versi alimentano l’arte e l’arte suscita i versi e li colora, li espande, li dilata in un esplodere di visionarietà, di immaginazione, fertile e rigenerante. Valga per tutti questo testo di pagina 47 dedicato a Mauro Rea e che ha per titolo “Regressione in giallo”.


Giallo come l’esplosione di sinapsi
Giallo come il cuore di Vincent
Giallo come il sole che splende
Giallo come la luna innamorata
Giallo come il deserto insanguinato
Giallo come l’orizzonte giapponese
Giallo come il vento e il silenzio
Giallo come l’urlo e la ferita
Giallo come il fiore più bello
Giallo come la giraffa e il serpente.
Giallo che esiste e resiste
Giallo che si piega e ci piega
Giallo che ci respira in regressione
Giallo che ci unisce come galassie impazzite
Giallo come le notti di Van Gogh
Giallo come muri sognanti oltre l’abisso
Giallo come materia che geme e preme
Giallo ai bordi della creatività
Giallo che tracima e macchia i buchi neri dell’eternità.
Giallo che vive e ravviva il nostro respiro animale.


Sono versi di grande presa quelli raccolti in questa silloge nata tra il 2010 e il 2020, decennio in cui la maturità poetica di Di Poce si è solidificata e fatta più consapevole. E se anche il nucleo tematico ruota intorno all’arte per una scelta deliberata, non si creda che dentro non ci siano tutti gli impasti, i disagi esistenziali, le utopie, le impuntature civili, le visioni sentimentali, il canto, la tensione morale che mette al centro della sua riflessione l’umanità e la bellezza.

   

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L’IO CARNALE DI TUROLDO  
di Federico Migliorati


D. M. Turoldo
 
 
In avvicinamento al 30° della scomparsa che ricorrerà nel 2022 l’attivissima casa editrice bresciana Lamantica ha congedato in libreria un pregevole libretto dal titolo “Raccontare la verità”, saggio di Gabriel Del Sarto dedicato all’opera di David Maria Turoldo, poeta e sacerdote che ha illuminato il Secondo Novecento con la sua voce delicata e decisa. Cosa celi la volontà sottesa alla pubblicazione lo illustra ampiamente lo stesso autore parlando di una ‘scoperta’ del Turoldo più vero, quello che riconduce l’Io lirico all’entrata in maniera diretta con la sostanza sì da divenire pienamente quell’Io carnale tipico delle sue poesie. Grazie a fitti rimandi alla Bibbia con citazioni di autori che già avevano introiettato la poetica turoldiana arricchendola di un’interpretazione acuta e attenta, Del Sarto enuncia il ruolo precipuo dello scrivere versi che per il friulano aggetta in maniera naturale sull’esperienza del pensiero biblico, da cui è impensabile non prescindere, muovendo dai cosiddetti ‘motivi’ che ne suggellano tutto il percorso letterario senza dimenticare il frequente uso delle citazioni da questo o quel passo. In Turoldo, sostanzialmente, si incista un cristianesimo vivo e fecondo, in perenne tensione verso l’assoluto, che egli ha poi abitato nella sua professione di fede e nel servizio pastorale soprattutto verso le forme di disagio e di fragilità. Uomo profondamente colto, capace di un ‘colloquio’ costante con le fonti bibliche, egli non rinuncia a quel ‘dialogo’ che ha connotato il cammino più significativo della propria opera letteraria in particolare con alcuni dei personaggi contenuti nel Primo Testamento oppure ricostruisce un’architettura poetica collegata agli episodi del Cantico dei Cantici. “Poeta di fiera contemporaneità” lo definì il Cardinal Ravasi, in grado cioè di leggere i segni dei tempi alla luce dei riferimenti della Tradizione. Lontano da quei borborigmi intellettuali di cui è costellata tanta parte della letteratura odierna ripiegata su sé stessa, il poeta sacerdote raccoglie la sfida della modernità offrendo la propria interiorità, un tutt’uno mai disgiunto, che opera incessantemente per far prevalere l’amore, sempre e comunque.


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LA POESIA DI DE CANIO
di Massimo Silvotti


De Canio con Guarracino
 

Libera nos a malo (Besjeda editore) è il libro bilingue di Sabrina De Canio, recentemente premiato al Camaiore 2021 con una Menzione Speciale. Il libro è la risultante di un altro Premio al Festival Internazionale di Poesia: La piuma di Zivodrag Zivkovic 2019, a Zenica, in Bosnia Erzegovina, in cui la De Canio è risultata vincitrice assoluta in tutte le sezioni del Premio.
In questo lavoro della De Canio, a prevalere è la sensazione di trovarsi di fronte a un crinale franoso, a volontà disossate. Un incombere, ma anche un rigagnolo di vita tendineo che non smette di pulsare. Una poesia, precipuamente scorcio di una battaglia che non si cura minimamente di mostrarsi in punta di fioretto, poiché più propensa a sbatterci sul tavolo le stridenti sfaccettature della vita. La trama? La vita stessa, un’esistenza mostrata in tutta la sua magmatica e contraddittoria difformità. Per profondità e sedimentazione non pare proprio un’opera prima (e d’altronde la De Canio scrive, pur senza aver mai pubblicato, da molto tempo), eppure la materia poetica conserva una natura primordiale. Se individualmente le sue poesie sono diafani cristalli, nell’insieme la visione, pur a tratti controversa, si fa prospettica. Ma forse sarebbe più preciso raccontare di una parola poetica la cui duttilità fonica è in grado di interloquire con ogni tessuto connettivo e sussultorio della vita. Una sorprendente elasticità musicale, il cui ampio spettro consente di muoversi con assoluta naturalezza tra stridule graffiature o autentiche carezze. Parlavo di musicalità, ebbene ciò che colpisce in questa poesia è la vibrante coerenza tra suono e significato che, pare, non solo si realizzi spontanea, ma anzi ritorni, a volte, persino in contrasto con una volontà che invece tenderebbe a distorcere. Come se una forza esterna riconsegnasse ogni volta alla poetessa una sfida mai compromessa negli esiti finali. Il “tu”, quasi sempre presente, già di per sé rivela una volontà che a tratti è un rinsaldare sé stessa, altre è ammonimento feroce o tenerissimo verso l’altro da sé. Una poesia mai aprioristicamente compiacente che, un po' paradossalmente, in questa sua contrastata sinuosità acquista una ferace carica di eros. Sabrina De Canio, e questa sua raccolta ne è la prima importante ufficiale testimonianza, è poeta a tutto tondo e a tempo pieno (a questo proposito è doveroso ricordare il suo ruolo di condirettrice generale e direttrice dell’area internazionale del Piccolo Museo della Poesia Chiesa di San Cristoforo di Piacenza), al punto tale che la sua poesia potremmo forse definirla una poesia fisica, nel senso che la duttilità del linguaggio fa percepire quasi tattilmente l’ampio ventaglio dei vissuti in essa contenuti. Ma questa raccolta è anche l’assunzione di una precisa responsabilità umana e civile a cui la poeta De Canio dichiara intensamente di non volersi sottrarre. Ed è certamente per questo se la raccolta si chiude con un tenerissimo omaggio a Pippa Bacca, l’artista italiana brutalmente violentata e uccisa nel mentre di un viaggio performativo, vestita da sposa, al fine di celebrare le nozze di pace tra i popoli. In quel viaggio, in quell’accezione vibrante di poesia e di arte, Sabrina De Canio s’identifica in modo assolutamente totalizzante. 

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IL LIBRO POSTUMO DI BELLUOMINI
di Federico Migliorati


Francesco Belluomini
 
 
È un libro, questo, che rappresenta quasi una cattedrale dell’esistenza, un’esistenza già raffigurata con ampiezza di vedute anche in precedenti volumi e ora ripresa con versi inediti, endecasillabi narranti (appunto), che vanno a completare con quell’incisività propria dell’autore, la vasta produzione sin qui già nota al pubblico.
La freschezza del dire di Francesco Belluomini emerge con felice sintesi in questo lavoro concluso poco prima di morire, che la vedova Rosanna Lupi ha voluto riscattare dall’oblio trovando (entusiastico) accoglimento presso la raffinata casa editrice Di Felice e nel quale è contenuta, per dirla alla Giudici, “una vita in versi”, con sezioni e testi frastagliati del proprio passato, scandito da tappe professionali e letterarie diversamente variegate ma non privo di uno sguardo lucido e severo sul recente drammatico passato della nostra Italia (cfr. Voci dall’inferno) tra i carri bestiame che conducevano gli ebrei deportati nei lager nazisti e il ricordo dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema per troppo tempo occultato e da Belluomini fatto oggetto di un romanzo-trenodia dal titolo “Le ceneri rimosse”.


In esso, in particolare, il gorgo concentrazionario, tra sommersi e salvati, è visione demoniaca che l’endecasillabo del poeta riporta alla mente entrando nella storia personale di questo o quel prigioniero, nel travaglio di una dimensione politico-ideologica definita da qualcuno Male Assoluto.
Belluomini, lo abbiamo imparato bene, non è poeta “facile” se con tale termine intendiamo la capacità di adeguarsi ai tempi, di lisciare il pelo alle consorterie di questo o quel potente, men che meno di concepire “le magnifiche sorti e progressive” facendo sponda sulla mediocrità come un giovane emergente qualsiasi. Il letterato viareggino è tra i pochi che muovono da una forte retorica civile ben introiettata nella propria condizione di vita per lanciare messaggi e financo strali all’indirizzo di un’Italia piegata all’indifferenza, al malaffare, agli interessi di bottega “purché sia”. L’ardore sincero di una poesia onesta (ci si consenta il ricorso a un’espressione sabiana), di una poesia vera, è ciò che ha sempre caratterizzato il narrare in versi di questo “toscano della bassa costa”, una sapienza acquisita sul campo, nel duro mestiere di vivere, illuminata da una coscienza pura, la cui epifania del dire e del pensare è evocata tra le righe. Non vi è alcuna forma di lezioso intellettualismo in lui, nessuna sovrastruttura mentale gli fa velo e sconosciuta è l’ipocrisia nel suo verseggiante mondo scevro da “prodotti d’alchimia” a buon mercato. Incasellabile, fuori da qualsivoglia movimento o corrente, di cui è disseminata la storia della letteratura recente, Belluomini si mantiene perennemente fedele alla propria identità di uomo e di intellettuale in continuo viaggio reale e mentale, tra “variegati menestrelli” di questo e quel tempo. Accenniamo, en passant, al Premio Camaiore, la sua più felice e brillante creatura, ch’egli ha difeso strenuamente sino alla fine e “mantenuta senza voti di scambio né favori”, confermandosi di anno in anno uno degli appuntamenti più importanti per la letteratura. Se infine enucleiamo la più fruttuosa eredità morale contenuta in “Demenze senili” che chiude idealmente “Il mercato delle idee”, non possiamo che stupirci della straordinaria attualità rivestita da certe tematiche sollevate, ad onta del trascolorare degli anni: la verità, in fondo è tutta qui. La lungimiranza del poeta si estrinseca non nel limitarsi a descrivere o fotografare il presente, vaticinando qualche soluzione per l’avvenire, bensì nel permanere costantemente in ascolto di quel “rumore continuo della vita” che lo rendono un testimone pregevole, contro ogni e qualsivoglia “festival dell’ovvio”. Belluomini, più che mai con questo suo testo postumo, ci rende partecipi di una verità senza macchia: le sue idee, professate durante l’intero tragitto terreno, non sono in vendita, come invece sempre più spesso accade in questo nostro tempo di tregenda. 


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LONGO, AFORISTA GENEROSO E PROLIFICO
di Federico Migliorati


Nicolino Longo
 
I suoi aforismi e i suoi calembour
quasi quotidianamente su “Odissea”.
 
Avvicinare l’aforistica produzione di Nicolino Longo comporta una conoscenza vasta dello scibile umano giacché l’artista calabrese spazia su plurimi versanti dando prova di una sagace capacità e versatilità: ritroviamo così minimi fatti dell’esperienza umana, grandi quesiti esistenziali, viaggi immaginari nella storia, ma anche percorsi nella letteratura, tappe nel mondo del mondo televisivo e dello spettacolo, richiami costanti ai sentimenti, insomma un vero e proprio pot-pourri che bene si attaglia a un libro di sferzanti verità. Già, perché l’aforisma, fin dai tempi illustri di un Flaiano o di un Longanesi, per citare due dei massimi esponenti di questo genere nel secolo scorso, non è mai banalmente rinchiuso in sé stesso o vuoto a perdere, ma aggetta su illuminanti realtà, anche quando in apparenza si discosta da esse. Longo ha alle spalle una prolifica produzione in questo ambito di cui il libro in oggetto forma in qualche misura l’opera di chiusura del polittico letterario, un ulteriore colpo di genio che pur scontando talvolta qualche sbavatura si fa apprezzare nel suo insieme per la felice sintesi tra espressione e costruzione lessicale. Qua e là rinveniamo anche dei calembour, dei giochi di parole di cui l’autore è abile tessitore nonché osservatore sopraffino che con acribia mantiene un distacco ragionato con la realtà, quel tanto che basta per garantirsi un margine di manovra verso la fantasia: lo stesso discorso potremmo farlo per lo scorrere del tempo che predispone alla corruttela ogni cosa se non ci accompagna quell’umorismo talvolta grottesco, ma necessario che Longo elabora nelle sue composizioni. Nel nichilistico tempo odierno si coglie negli aforismi inseriti in questo volume quella saggezza antica che le generazioni odierne hanno smarrito o mai conosciuto: il lettore avrà modo di rendersi consapevole facendo proprie quelle argute verità che costellano le pagine, vera e propria aria fresca in un periodo che ancora sta segnando di sofferenza l’umanità. Certo, il dolore, lo sconforto, la pena sono elementi connaturati a ogni esistenza e Longo non ne è immune, ma il viaggio della vita non può essere privo di coraggio e di speranza, di tensione verso l’infinito e verso la bellezza che ci salva o quantomeno ci dona conforto nel travaglio quotidiano. Tante sono anche le figure retoriche che Longo utilizza come escamotage per colorare gli aforismi, un modo altresì per renderli universali, alla portata di tutti. E quale miglior chiusura poteva esserci se non quella di prendersi gioco bellamente della morte con alcuni passaggi di rara efficacia che sono allo stesso tempo un inno alla vita? Forse un aforisma non potrà cambiarci nel profondo, è invece possibile che leggendo quelli qui di seguito pubblicati si riesca a soffocare un dolore, a prorompere in una risata, ad allietare per qualche momento la propria esistenza, in fondo a trovare un ulteriore stimolo per riscoprire il valore di quei “passanti misteriosi dell’anima” con cui Victor Hugo definiva le parole, così bene ‘lavorate’ da Nicolino Longo.  

 

  

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