UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

giovedì 30 aprile 2020

IL VUOTO
di Angelo Gaccione


Chi è approdato almeno una volta sulla bella, armonica, Piazza del Conte Treccani degli Alfieri a Montichiari, e si è seduto ai tavolini di uno dei suoi caffè, godendo la vista della chiesa dell’Assunta (il Duomo) con la sua troneggiante cupola e il colle del Castello Bonoris con i suoi torrioni, in una bella giornata di sole, non può fare a meno di rimanere sgomento davanti alle foto che la ritraggono completamente vuota, in questi giorni tremendi di dolore e di lutto. È così ricca e così piena questa piazza, come ogni piazza italiana, da non osare neppure lontanamente immaginare che quello che con una locuzione latina chiamiamo horror vacui, potesse un giorno materializzarsi nelle nostre anime e divenire sentimento comune. Improvvisamente tutto questo pieno è diventato vuoto. Tutto il suo formidabile pieno fatto di simboli incantevoli e rassicuranti, di materia solidificata dentro uno spazio organizzato e ben disposto su una superficie, si è trasformato in una presenza muta e angosciante. Un vuoto incolmabile si è impadronito delle anime di quanti sono stati privati delle vite dei loro cari, e un vuoto atroce ha pervaso le nostre, osservando questa piazza in cui ogni presenza, ogni voce, ogni rumore, è stato cancellato. Ora sappiamo con incontrovertibile certezza, che il vuoto altro non è se non una sottrazione, una perdita umana irreparabile. Una perdita di vite, di presenze. Nessuna teoria di fisica quantistica, nessuna speculazione filosofica, può colmarlo questo vuoto incommensurabile, annichilente, che si è andato formando nelle nostre anime. È un vuoto esistenziale profondo, un vuoto che si è inciso nella parte più recondita della nostra esistenza e occorrerà molto tempo per elaborarlo.


Se privato di un occhio che lo legga ogni libro è muto, a maggior ragione lo sono un luogo, una piazza, una cattedrale, se privati del nostro sguardo, della nostra presenza. Quando tutto questo sarà finito e torneremo a riempirle di vita queste nostre belle piazze, - a resuscitare noi con loro - amiamole di più e rispettiamole; rispettiamole come parte inscindibili di noi, prendiamocene cura. E prendiamoci cura di un noi inteso come prossimo, come umanità fragile e vulnerabile, troppo spesso ripiegati come siamo, su un io divenuto ipertrofico ed egoista. Senza solidarietà non esiste umanità: teniamolo a mente, mentre ci prepariamo alla rinascita. Sarà stata proprio la solidarietà, l’abnegazione dei molti, a permettere ai nostri mille e mille corpi di riempire il vuoto di questa bellissima piazza, quando le campane dell’Assunta suoneranno a distesa per convocarci alla festa della vita ritrovata.  









CARISSIMI VESCOVI    
di Don Paolo Felice Steffano*


Pubblichiamo alcuni brani della lettera che don Paolo Steffano ha indirizzato ai vescovi italiani che avevano protestato per le restrizioni del Governo. In verità la questione è superata perché il papa ha detto la sua il giorno dopo, smentendo i vescovi. La situazione, come ben evidenzia don Paolo, è molto più seria, ed è facile sputare sentenze comodamente protetti nei lussuosi appartamenti vaticani e passeggiando nei lussureggianti giardini e nulla rischiando. In modo diverso si stanno comportando molti semplici preti, e più di un centinaio hanno perso la vita nel dare concretezza al proprio magistero tra le loro comunità. Si tratta di quella parte di Chiesa che non si è mai fermata e risparmiata. [A.G.]

Non posso tacere il mio disappunto che penso condiviso con tanti, per la vostra lettera. (…) Avete scritto che con sofferenza e senso di responsabilità avete accettato le limitazioni governative e fate appello all’esercizio della libertà di culto… ma siete italiani contemporanei o bibliotecari di un museo? ma sapete che periodo stiamo vivendo nei nostri quartieri? E poi andate a chiedere ai vescovi che vivono in un contesto vero il limite della propria libertà religiosa… Non scherziamo!
Per fortuna c’è un’altra parte. Quella che vive la propria fede dentro la storia del proprio popolo, che nutre la sua fede e i segni della grazia dentro l’incontro con il povero e la preghiera forte e convinta e non in una vita sacramentale staccata dalla vicinanza con chi è povero
Non è l’ira che mi muove, ma lo sdegno e la vergogna e guai a chi suscita scandalo! Rimando a molti interventi saggi e sapienti che in queste ore stanno facendo riflettere e invito tanti altre a fare la propria parte. Ognuno ha il suo modo di scrivere. Il mio è sempre troppo pungente e sarcastico. Ma tant’è. Il Signore ci ama così come siamo! Invito anche vescovi illuminati a dire la loro e a non rintanarsi nel mucchio. Ho la speranza che ce ne siano!
Di fronte a migliaia di morti, uomini e donne, tra cui più di 100 preti (e nessun vescovo!) di fronte allo spendersi di migliaia di volontari, categorie a rischio, parrocchie in prima linea, non è accettabile che il coro dei vescovi italiani possa scrivere di esigere che possa riprendere l’azione pastorale. Ma a che gioco giochiamo? Chi ha sospeso l’azione pastorale? Voi, non certo le comunità cristiane di base. 
Siete sempre così attenti ai cavilli quando scrivete, qualcuno scriva che avete sbagliato, almeno il secolo! Deve riprendere l’azione pastorale? Sono mesi che celebriamo la vita nei garage adibiti a distribuzione alimentare. Deve riprendere l’azione pastorale? In Quaresima e in Settimana Santa abbiamo cercato di coinvolgere, di spezzare il pane della liturgia viva nell’offerta della vita delle nostre famiglie. Deve riprendere l’azione pastorale? Abbiamo passato ore in call e in telefonate agli anziani, ai malati, a sostenere infermieri e medici. Deve riprendere l’azione pastorale? Abbiamo pregato nel silenzio delle nostre chiese vuote. Deve riprendere l’azione pastorale? Le nostre casse in queste settimane si sono riempite di donatori (anche di peccatori e di irregolari come dite voi) sapete perché? Perché ciò che viene deposto ai piedi dei discepoli viene consegnato ai poveri. Nessuno è bisognoso quando si è ricchi dentro! E poi siate almeno concreti! per la sanificazione? Venite voi? Pagate voi? Vi mettete voi alle porte della chiesa con lo scanner? (…) E ancora: avete pensato a come viene consegnato il dono dell’Eucarestia senza il rischio del contagio? Perché all’inizio della fase 2-3-4 non aprire le chiese e promuovere un ascolto comunitario delle scritture? Perché? O una preghiera popolare?  
Grazie papa Francesco! Ho l’ardire di pensare che tu non approvi. L’hai scritto così bene nell’Evangelii gaudium. Preghiamo per te e buon pranzo! ma tu prega per noi, perché non ci lasciamo rubare la chiesa da pastori tristi nostalgici e poco illuminati. Sta nascendo qualcosa di nuovo e ce ne stiamo accorgendo!

*Parroco a Baranzate, è stato vicario alla parrocchia di San Pio V e Santa Maria di Calvairate. Don Paolo, per il suo lavoro a Baranzate, è stato nominato Ufficiale all’ordine della Repubblica dal Presidente.




AL DI LÀ DEL TUNNEL

Lettere di Giuseppe De Rita, Reza Arabnia, Antonio Riva
A proposito dello scritto di Marco Vitale

 
Giuseppe De Rita
Caro Marco,
ho ricevuto il tuo messaggio di poche ore fa (14,28 di venerdì 17) e l’unito lungo appunto “Al di là del tunnel”. Non devo ricorrere all’amicizia ed alle antiche comuni ispirazioni culturali e religiose per dichiararti, con immediatezza, che è un pezzo straordinario: l’ho letto e riletto con attenzione e consonanza, mi ci ritrovo molto, ho addirittura deciso di “metterlo in casella” per farne partecipi coloro che lavorano qui al Censi.
Certo su 20 pagine se ne trovano alcune su cui possiamo avere sensazioni diverse. Io sono spesso, ad esempio, più vicino all’Heri dicebamus di Luigi Einaudi, essendo, come sai un “fottuto continuista”, fiducioso solo nei soggetti sociali quotidianamente operanti e non nelle nobili visioni di chi parte alla rincorsa intellettuale dell’Italia che verrà. Ma tutto lo spirito del testo mi trova consonante. Ed ammirato, devo dire, quando eserciti da parte tua l’esercizio del segmentare. Se non siamo capaci di imporre la verità di un sistema fatto di segmenti, saremo sempre prigionieri delle logiche totali, accentrate, stataliste. Lo abbiamo visto anche, e con evidenza disturbante, nel modo in cui abbiamo affrontato l’emergenza del coronavirus (ti invio l’ultimo testo che ho scritto al riguardo).
Spero quindi che sul tuo testo possa esserci una ampia discussione pubblica, puntando anche ad una intelligente segmentazione (territoriale e settoriale) della cosiddetta Fase 2. Nel frattempo mi è caro ringraziarti del colloquio che ha aperto con me e inviarti un memore affettuoso saluto.
Giuseppe De Rita
*Sociologo presidente Censis
[Roma, 17 aprile 2020]
 
Reza Arabnia
Carissimo Marco,

prima di tutto, mi fa gioia vederti così attivo anche se a casa. Spero tutto bene per te e tua moglie e i vostri cari.
Ti ringrazio davvero di cuore per considerarmi degno per ricevere i tuoi pensieri. Un bellissimo Essay!
Come mi hai chiesto, ecco qualche timido commento:
a) Il Titolo?
Il tunnel per noi Persiani è un percorso di resilienza. La luce che si vede in fondo, molte volte è causata dal fuoco non dal sole. Quando ti trovo lì, o ti paralizzi di paura e rimani fermo. O che ti dai da fare e lotti per uscire.
Non è detto che riuscirai. Ma una cosa è certa: che se ti fermi, non rimane niente di te se non la cenere. Un po’ di vento, neanche quella!
Invece se riuscirai a farcela, anche con qualche segno di bruciore, sarai temperato come l’acciaio. 
b) Grandi, Medie e Piccole imprese? 
Per me l’importanza di un’impresa non è in funzione del suo fatturato e tantomeno di quanti dipendenti ha ma è nel suo peso trascinante in economia. Mi piacerebbe che il governo/stato o/e un ente con il potere esecutivo, facesse uno studio serio e disinteressato per creare una lista di questo tipo di imprese. Una volta fatta questa lista, proteggerle in tutti sensi.
c) Il punto-2 del tuo pensiero è davvero perfetto.
d) Fiducia in governo?
Pur essendo un amico di Giuseppe Conte (era con me nel Board of Trustees di John Cabot University per più di dieci anni) e sapendo che è una persona distinta, seria, intelligente, onesta, e grande servitore dello Stato, non riesco a contare su quello che può fare il governo. 
A proposito, se hai il tempo e la voglia, prova a vedere su YouTube un mio intervento del 2014; Fatti. In Italia, Ali Reza Arabnia (dal terzo minuto e 50 secondi e per due minuti).
e) Sud?
Grande pericolo: le varie Mafie sono piene di contante e molte imprese assettate di quelli! Ecco perché il tuo pezzo sul Sud non è solo vero ma è anche fondamentale per difendere la sopravvivenza delle imprese.
f) Le tue ricette?
Concrete e attuabili. Certo richiederebbe: 1) un po’ di umiltà di accettarle, 2) un po’ di capacità di organizzazione, 3) un po’ di onestà nell’esecuzione.
g) Le tue conclusioni?
Perfette.
Spero di aver dato un nano contributo!
Sentiti libero, al di là del mio italiano imbarazzante, di condividere con chi ritieni opportuno. Un Caro Saluto, Reza
Reza Arabnia   
*Imprenditore, Group Chairman,
President & CEO Geico SpA In Alliance with Taikisha Ltd.
[Cinisello Balsamo (Milano), Mercoledì 8 aprile 2020]

 
Max Hamlet
"L'uomo che legge"
Caro Marco,

grazie per la lettera con le tue considerazioni per me molto condivisibili.
Sono particolarmente favorevole al bond per la Ricostruzione sottoscritto dalla ricchezza privata. Sarebbe un messaggio molto forte anche all’Europa facendo vedere che chiediamo aiuto ma ci mettiamo del nostro per ridurre finalmente il debito. Penso che dovremmo provare ad aggregare molte persone su una proposta finale da proporre in maniera estesa all’opinione pubblica.
Auguro a te e famiglia una serena Pasqua sperando di potervi rivedere... presto.
Un caro saluto
Antonio Riva
*Presidente di Fondazione Alberto e Franca Riva Onlus.
[Milano, Domenica 12 aprile 2020]







IL PENSIERO DEL GIORNO


“Imitando il dio Javeh vendicativo,
il potere esige ubbidienza e minaccia
crudele sentenza”
Livia Corona

mercoledì 29 aprile 2020

PONTI E SIMBOLISMO
di Paolo Maria Di Stefano


Il Ponte di Renzo Piano a Genova è una realtà.

Il carattere simbolico e archetipico proprio di tutti i ponti, reali o ideali, ha trovato (in questo secolo) la sua espressione più completa nelle parole di Martin Heidegger il quale, in uno scritto del 1954 dal titolo “Costruire abitare pensare”, afferma che “il ponte riunisce presso di sé, nel suo modo, terra e cielo, i divini e i mortali. Invero si pensa generalmente che il ponte sia anzitutto e propriamente solo un ponte. Solo per un senso aggiunto e occasionale potrebbe poi anche esprimere molteplici significati… Ma in realtà il ponte, se è un vero ponte, non è mai anzitutto un semplice ponte e poi, in un secondo tempo un simbolo. Né il ponte è fin da principio solo un simbolo, nel senso che esprima qualcosa che, in senso stretto, non gli appartiene… Il ponte è un edificio in grado di dare dimora al soggiornare dell’uomo” (Saggi e discorsi, Heidegger,1954, pag.102; pag.106.)
Con una annotazione conclusiva di estremo interesse da parte di Alessandra Di Stefano, architetto autrice della tesi che sto rileggendo: “Ritengo che sia inevitabile la sovrapposizione tra il concetto heideggeriano di luogo dell’abitare (…) e quello di luogo del costruire inteso come di una architettura capace di farsi espressione di una determinata cultura. L’operazione mentale, culturale e progettuale da compiere è quindi quella di recuperare la capacità di abitare così da poter costruire: la forte carica simbolica del ponte, il suo essere un segno e un archetipo universalmente condiviso fin dai tempi più antichi può indubbiamente aiutare i progettisti in questa difficile operazione. Il ponte sembra infatti aver mantenuto, grazie al suo simbolismo ed alla sua universalità, un legame molto stretto con il costruire e con l’abitare di Heidegger, ed è forse l’unico tema progettuale che ha conservato nella sua stessa essenza il ‘poetare’ l’originario ‘far abitare’ (Heidegger, op. cit., traduzione italiana 1976, pag. 136).”
Una data storica per Genova, per l’Italia, per l’Europa: poche ore orsono, in fondo, il cantiere ha posto in quota l’ultimo elemento del nuovo ponte di Renzo Piano e la città è di nuovo unita e tutta percorribile. Pare impossibile, ma ora non restano che i dettagli (si fa per dire) destinati a renderlo percorribile e dunque anche economicamente e praticamente utile.

Il ponte sul Polcevera di Renzo Piano

E naturalmente è subito stato un coro di apprezzamenti, e tutti abbiamo fatto a gara per esprimerli con una gioia soltanto limitata dal ricordo della tragedia che ha accompagnato il crollo di quel Ponte Morandi in fondo almeno esteticamente apprezzabile. Tutte cose dette da tutti e accompagnate dalla speranza - quasi una consapevolezza - che almeno per una volta la burocrazia, la corruzione e il malaffare se anche avessero remato contro (tanto per non perdere l’occasione) non avrebbero ottenuto effetti dannosi più che tanto, anche per questo rafforzando la speranza di un futuro persino eticamente corretto. E forse non soltanto per questo ponte, che Renzo Piano ha voluto sinteticamente funzionale. E proprio nel nome di Renzo Piano, architetto ammirato incondizionatamente da Alessandra Di Stefano - che sognava si lavorare con lui - che sono andato a rileggere la tesi che ha dato alla giovane la lode nell’ormai lontano 1996 e che si conclude con un passaggio, allora, per me oscuro, oggi di una chiarezza esemplare.
Con un vantaggio: poter parlare dell’evento del 28 aprile con argomenti in qualche modo diversi da quelli utilizzati dai tanti commentatori, più colti e certamente meglio tecnicamente preparati di me.
Ecco: Genova e Renzo Piano hanno costruito una “abitazione” che, quando sarà completata, ospiterà non soltanto la cultura di una regione, mostrandola per quello che è stata e per ciò che sarà, ma anche per lo spirito del “lavorare assieme” per costruire un ambiente, un mondo, una qualità di vita migliore.

LA CENTRALITÀ DEL PARLAMENTO
di Franco Astengo


Il senso dell’iniziativa e della partecipazione politica nel tempo dell’emergenza.  

Dell’accavallarsi delle diverse fasi dell’emergenza si potrebbe dire che “la confusione sotto il cielo è grande, ma la situazione non è eccellente”.
Nel drammatico frangente che stiamo attraversando la prova del governo italiano, in particolare del suo presidente del consiglio, è risultata nel complesso, senza calcare troppo la mano nel giudizio, assolutamente mediocre. Sono emersi punti critici molto rilevanti nell’insieme della tenuta del sistema politico. Prima di tutto si può affermare come la questione dell’esercizio della democrazia costituzionale si si sia dimostrata la più complicata da affrontare. Complessivamente si sono dimostrate nell’agire pubblico sciatteria e trascuratezza.
Si è palesata in questi giorni una classe dirigente posta, sul piano culturale e politico, molto al di sotto delle esigenze dell’ora: sia al centro, sia in periferia, come in posizione di maggioranza o di opposizione nelle diverse strutture istituzionali. Inoltre a tutti i livelli si sono aggiunte pletore di presunti esperti raccolti in improbabili task-force.
Esperti per lo più televisivamente famelici, che hanno contribuito a creare quello stato di confusione cui si è fatto cenno.
Si è resa evidente, guardando alle divisioni createsi ad ogni scelta compiuta, la pressione dalle lobbies più diverse al riguardo delle quali è mancata, in molte occasioni, una risposta ordinata e precisa. Si sono confusi decreti della presidenza del Consiglio dei ministri (uno strumento che penso andrà rivisto in radice), ordinanze dei presidenti di regione (incautamente appellati dai media come “governatori”, figura che non esiste nell’articolato costituzionale), ordinanze dei sindaci. È mancato, all’origine, un atto del Parlamento il cui ruolo di centralità dettato, appunto, dalla Costituzione è stato del tutto calpestato: se si pensa che, alla vigilia del vertice europeo, il Presidente del Consiglio si è recato alle Camere per una “informativa” che ha escluso la possibilità di un voto su una qualche risoluzione che fornisse al Governo stesso un preciso indirizzo parlamentare su temi che non possono essere affidati alla contingenza dell’opportunismo elettoralistico.
L’atto del Parlamento che avrebbe potuto essere adottato in principio, al momento della proclamazione dello stato di emergenza, poteva essere costituito da un articolato legislativo nel quale risultassero fissati:
a) i termini concreti di agibilità concesso al Governo nello straordinario momento contingente; b) le modalità delle necessarie espressioni di trasparenza nei rapporti con la comunità scientifica; c) la necessità di un periodico riferimento alle Camere sul modificarsi dello stato di cose presenti; d) la regolamentazione nell’utilizzo - in via straordinaria - dei mezzi di comunicazione pubblica per rivolgersi al Paese (radio e TV); e) una definizione precisa degli atti da compiere.
Grafica di Giuseppe Denti

Un lavoro, quello dell’elaborazione di un articolato legislativo da redigersi in termini di necessaria flessibilità d’esposizione ma chiaro e legittimante “a priori” dell’esercizio della funzione di governo delle condizioni di straordinarietà.
La legge 400/88 indica dettagliatamente le attribuzioni del Consiglio dei ministri.
Il Governo può esercitare la funzione legislativa in due ipotesi previste e disciplinate in modo tassativo dalla Costituzione quando:
il Parlamento stesso conferisce al Governo - con un'apposita legge di delega, secondo principi e criteri predeterminati e per un tempo definito - il compito di provvedere ad emanare decreti legislativi aventi forza di legge;
può adottare, autonomamente e sotto la sua responsabilità, decreti-legge per fronteggiare situazioni impreviste e che richiedono un intervento legislativo immediato. In questo caso, il Parlamento si riserva, nei sessanta giorni successivi, di convertire in legge, anche con modifiche, il decreto. In caso contrario, il decreto-legge decade.
Nella straordinarietà della situazione l’emanazione da parte del Parlamento di una sorta di “legge-quadro” del tipo di quella che si è cercato di descrivere in questa sede avrebbe consentito poi a tutti gli altri atti assunti via via di rispettare l’insieme del quadro dettato dalla norma costituzionale.


I punti di maggiore fragilità del sistema possono comunque essere così riassunti:
1) È emerso il vuoto di una visione “nazionale” della funzione politica di governo. Funzione “nazionale” che risulta assente soprattutto nel rapporto “centro-periferia”. Governo versus Regioni (assente il parlamento), Regioni versus Comuni. Incertezza nelle attribuzioni, scelte compiute esclusivamente in funzione della propaganda;
2) Ben oltre le evidenti lacune presenti dopo le modifiche effettuate nel 2001 nell’articolato del Titolo V della Costituzione sono apparsi di enorme detrimento per la funzionalità dell’azione politico-amministrativa i meccanismi di elezione diretta dei Presidenti di Regione e dei Sindaci. Questo punto rappresenta un elemento di necessaria riflessione per il futuro. Lo spostamento delle decisionalità nell’ambito della pura personalizzazione finisce con esaltare l’ansia di rielezione e mette la macchina amministrativa in funzione di quell’obiettivo provocando una rincorsa affannosa e contraddittoria nell’elaborazione della normativa. Ansia da prestazione che è risultata alla base della evidente contraddittorietà delle decisioni via via assunte e della dimostrazione di divergenza di interessi spiccioli tra i diversi protagonisti. Divergenze poste ben al di là delle difformi appartenenze politiche. Su questo punto andrebbe aperto un capitolo riguardante ruolo e compiti dei consessi elettivi e della loro funzione di controllo e sulla realtà oggi rappresentata dai partiti politici considerati nella loro possibilità di promuovere le scelte riguardanti la classe dirigente. Scelte che, alla fine, dovrebbero compiere elettrici ed elettori e che a loro sono sottratte ormai da molto tempo;
3) Si è resa evidente la totale insufficienza nell’utilizzo dell’online allo scopo di promuovere una necessaria continuità nell’iniziativa e nella partecipazione politica sul territorio. Qualcuno ha notato che nella discussione in atto in queste ore sulla possibilità di frequentare i luoghi di culto piuttosto che i teatri oppure le mostre risulta completamente assente un discorso riguardante lo svolgimento (un tempo “normale”) di attività politiche e culturali in sedi proprie? O si pensa forse di delegare il tutto alle videoconferenze causando un ulteriore restringimento nelle possibilità di partecipazione attraverso una ulteriore scrematura provocata da un particolare aspetto del “digital divide”? In questo senso appare di grande attualità il dibattito che qualcuno ha già opportunamente aperto sulle, fin qui inevase, modalità di applicazione dell’articolo 49 della Costituzione circa l’esercizio della democrazia all’interno dei partiti politici. Democrazia sarà necessario impedire che in futuro venga esercitata soltanto attraverso i “click” oppure i “like” apposti sulle pagine dei “social”.

Nel complesso sono comparsi tutti i fantasmi della negatività accumulata nella trasformazione verificatasi nell’espressione dell’agire politico seguendo gli impulsi dell’individualismo, della distruzione della possibilità di intervento collettivo, di destinazione della democrazia esclusivamente nel senso della governabilità.
L’insieme delle questioni che ha portato all’egemonia dell’estetica sull’etica.
In pratica stiamo assistendo all’esercizio di una “Costituzione Materiale” di stampo presidenzialista che il Paese ha rifiutato due volte, nel 2006 e nel 2016, con due voti popolari a larga maggioranza che confermarono la vocazione parlamentare della Repubblica come stabilito dai Padri Costituenti.
Nell’immediato futuro e non oltre sarà necessario si sviluppi un forte movimento politico per reclamare un necessario ritorno alla legalità repubblicana e alla possibilità di esercizio concreto della democrazia al Centro come in periferia.
Dobbiamo tornare a poter favorire l’associazione di tutti i cittadini al di fuori dalla creazione di “élite” surrettiziamente emerse attraverso l’utilizzo di strumenti di comunicazione fondati sull’immagine e sulla velocità di un messaggio lanciato esclusivamente dalla tecnologia, senza il contatto diretto nel confronto delle opinioni.
Si tratta del tema complessivo dell’intermediazione politica e sociale, che comprende anche la funzione dei sindacati, delle grandi associazioni di categoria, di tutti i soggetti che concorrono sul piano dell’orientamento culturale dell’opinione pubblica: abbiamo visto come non possa essere trascurata la presenza di soggettività collettive riguardanti diverse posizioni ideali e anche contrastanti interessi materiali.
Non può assolutamente risultare sufficiente la determinazione dell’alto di misure che per essere applicate hanno necessità di essere discusse in un lavoro di orientamento e di aggregazione.
Qualsiasi misura popolare o impopolare può risultare efficace soltanto in una situazione sociale e politica nella quale gli equilibri non siamo determinati esclusivamente dalla paura.
È molto breve il passaggio dal predominio della paura allo Stato di Polizia
I TRENI CHE TARDANO GIÀ IN PARTENZA
di Mihal Ramač


Ivan è arrivato con due borse e una chitarra. Era indignato nei confronti dei soldati, si vergognava dell’impotenza dei propri connazionali, era amareggiato per aver dovuto lasciare la propria patria. Era convinto che il comunismo sarebbe scoppiato come un pallone. A me e ai miei coetanei interessavano solo i bagni, il calcio e i balli. Va bene, anche accarezzare le ragazze. Sapevamo che l’estate precedente si era molto parlato dei russi e dei cecoslovacchi, non ci preoccupavamo però come si preoccupavano gli adulti. Non volevamo saper nulla di qualsivoglia comunismo. Ivan era solo di qualche anno più vecchio, aveva terminato il secondo anno dell’Università ma era immerso nella politica fino al collo. Ogni sera ci raccontava di quanto gli si era gonfiato il petto la scorsa primavera e di come aveva trovato ributtante l’arrivo dei carri armati sulla passeggiata cittadina. Poi prendeva la chitarra e cantava le canzoni proibite dopo l’arrivo dei russi. Con quelle canzoni e con il suo atteggiamento da focoso anticomunista, conquistava il cuore delle ragazze più facilmente di noi.
Sono passati vent’anni da quell’estate. Ivan se n’era andato alcuni mesi dopo il suo arrivo. Mi ha lasciato la chitarra. Si è fatto vivo da Roma, poi da Monaco di Baviera. Spesso penso a lui quando sono seduto sul treno che va verso nord. In quei treni, la cosa più importante è tenere al sicuro il passaporto, i soldi e il biglietto di ritorno. Su quei treni ho conosciuto un infinito numero di personaggi che nessuna letteratura socialista è mai riuscita a creare, anche se sono i figli legittimi del socialismo reale. Non hanno studiato scienze economiche, eppure conoscono esattamente i difetti delle politiche economiche dei propri paesi e di quelli limitrofi. Non hanno studiato giornalistica, eppure sanno che i giornali nei loro paesi sono utili solo per accendere il fuoco e per avvolgere le uova. Non hanno letto gli articoli di fondo e non hanno dato neppure un’occhiata al listino dei cambi valute. Anche senza questo, però, sanno infallibilmente il valore del dollaro nei confronti dello zlot. Senza calcolatrice, cambiano i fiorini in corone e i lei in dinari. Ogni denaro è utile se si spende in maniera intelligente. Non seguono i resoconti di borsa, ma sanno sempre e con esattezza che cosa bisogna procurarsi dall’altra parte della frontiera per rivenderlo e guadagnarci da quest’altra parte. Non hanno studiato Diritto, ma sanno che il Diritto è sempre dalla parte dei più forti. Per questo hanno imparato a superare in astuzia quelli che sanno di non poter in alcun modo vincere in politica. A differenza dei loro Stati, sono sempre in attivo quando vendono e quando comprano. Non si dichiarano internazionalisti, anche se si sentono perfettamente a casa in tutti i mercati del mondo, dove colmano le mancanze delle economie socialiste, che sono sempre esemplari e perfette, ma solo sulla carta.
Il libero mercato si manifesta soprattutto lì dove l’economia pianificata non lascia libertà. I passeggeri dei treni strapieni che vanno dal Baltico al Mediterraneo sanno che i loro politici mentono appena aprono bocca. Conoscono l’antica regola per cui non sarà certo chi l’ha distrutta a rimettere a posto l’economia domestica. Sanno che la casa non si salva dalla distruzione semplicemente ridipingendone la facciata. Non si preoccupano troppo della politica, non sanno quanto dureranno gli Stati fondati sulle menzogne, ma sanno che devono darsi da fare se vogliono sopravvivere. Per questo, riempiono le borse di tutto cià che possono comprare, si stipano sui treni, risolvono i numerosi problemi che i poliziotti di frontiera danno loro e alla fine trasformano la roba trasportata in denaro. Con quei soldi comprano altra roba, preziosa e ricercata nei posti di provenienza. Dadi per il brodo, vestiti e calze, abiti per bambini, porcellana e cristalli, stoffe, cotone e lana, attrezzi per tutti i mestieri, tester e chiavi inglesi, rotoli di cavi, materiale elettrico, scaffali, candele di automobili, spine e interruttori, pezzi di ricambio per automobili e biciclette, magnetofoni e giacche di pelle, tessuti ricamati e centrini di pizzo, pentole e padelle, binocoli e compassi, fornelli elettrici, camicie e stivali militari, asciugamani, medicine, vernici e tempere, profumi per ogni gusto e portafoglio, cioccolate e vodka, tende e tappeti, spumanti, conserve, quadri senza cornici e cornici d’oro... Tutto al prezzo di uno o pochissimi spiccioli.
Nelle stazioni o nei parchi vicino, nelle vie centrali o periferiche, davanti agli stadi, nei passaggi sotterranei, ovunque ci sia un posto utile, il mercato nero corregge gli errori che il grande Lenin e il suo allievo Stalin hanno creato nel sistema. Un centinaio di persone più coraggiose e intraprendenti della maggioranza dei propri conterranei crepano di caldo o di freddo sui treni che si scuotono fino all’inverosimile, tollerano la puzza e la polvere, i ladri, i poliziotti e i doganieri, portano con sé borsette e attaccano pacchi di soldi sotto l’ascella o alla cintura, nascondono catenine d’oro nelle calze o nelle mutande, mangiano kifle, burek e pastette, mercanteggiano e litigano, arrivano a destinazione, tornano a casa e finalmente tirano un sospiro di sollievo: ancora una volta sono riusciti ad aver ragione dell’onnipresente vita mostruosa a cui la vita nel bisogno e nell’obbedienza li ha costretti. Non appena si riposano e si riprendono, partono per una nuova avventura. Chi non vuole rischiare, rimane nella propria povera casa, si lamenta e li invidia. E aspetta che lo Stato gli offra ciò che gli serve. A ciascuno secondo il proprio bisogno, come è scritto nei manuali.


Gli Stati socialisti-modello con i loro Politburo, i comitati centrali, le accademie della scienza e i vari istituti, con migliaia di scienziati pagati profumatamente e pluripremiati, professori e propagandisti, non sono neanche lontanamente lucidi ed efficienti come i loro cittadini. Non si sono ricordati di produrre o di importare quello che è necessario. Non si sono ricordati che le dame di tutti i paesi vogliono vestiti decenti e belli, che tutti gli artigiani del mondo hanno bisogno di smerigliatrici e trapani... che il mondo cambia continuamente e non ci sono frontiere ed eserciti che possano fermare il tempo.
Ho cercato di spiegare tutto questo a un ragazzo dell’Ohio sul treno Budapest-Praga in una notte di maggio, 12 anni dopo la Primavera di Praga. Grazie ai libri, lui conosceva molto più di me i sistemi politici ed economici al di là della cortina di ferro. Non aveva però mai visto la follia con i propri occhi. Non aveva mai visto i vagoni di seconda classe da cui per poco non cadono fuori le persone esauste, che da giorni non si lavano, e le valigie, e i pacchetti. Non ha mai venduto di contrabbando nemmeno una penna biro. Non riusciva a capire perché i poliziotti alla frontiera lo interrogavano e lo controllavano come se fosse sospetto. I suoi appunti sembravano più pericolosi dei pacchi di 30 kg pieni di chissà quali merci. Lo mandava fuori di testa ciò che in questa parte del mondo è normale.
A me hanno chiesto solamente dove andassi e che cosa ci fosse nella piccola borraccia che stava sul tavolino. Con un sorriso hanno declinato il mio gentile invito a favorire. Andavo a Praga a seguire, per poi farne un resoconto, la visita del Presidente della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia alla Repubblica Socialista della Cecoslovacchia. Allora avevo già ben capito perché Ivan se ne fosse andato dalla propria patria, dopo aver messo in due valigie tutto ciò che era necessario per cominciare una nuova vita nel mondo libero.
Ho scritto con un linguaggio sterile il mio articolo nelle sale del quartiere di Hradčany perché potevo esclusivamente riportare quello che dicevano i due capi di governo e i loro collaboratori. Non era ancora tempo - solo due anni fa - di scrivere che al socialismo di quelle parti non restava che scoppiare come fosse un palloncino. I treni del contrabbando che partono già in ritardo e i mercati dell’Europa dell’Est erano la più viva testimonianza che una storia stava per finire. (1989)

PS: Ivan dell’inizio della storia vive oggi nella sua patria libera con una pensione tedesca. La maggior parte dei suoi coetanei ha pensioni ceche, ma in ogni caso europee. I miei coetanei e io - che un tempo compativamo coloro che venivano dai paesi comunisti, e qualche volta li insultavamo anche - adesso siamo da compatire. Ora è il nostro paese a trovarsi dietro la cortina di ferro, e tutto quello che da qui si potrebbe vendere di contrabbando è già stato venduto.
[Da “Zov Vedrih Vidika”, Mediterran Publishing, Novi Sad. Trad. it. di Christian Eccher]

La fiaba
USIGNOLO D’ORO
di Laura Margherita Volante


Usignolo D’oro era chiamato così, perché alla nascita i suoi genitori notarono un piccolo cuore d’oro dipinto sul petto. Era sempre contento rallegrando l’aria col suo canto dolce e armonioso. Un giorno vide formica Previdenza in difficoltà, mentre spingeva una briciola di pane per il suo magazzino. Usignolo D’oro subito accorse in suo aiuto, e con il becco prese la briciola con delicatezza portandogliela vicino alla sua tana. Previdenza lo ringraziò per la sua onestà e generosità d’animo. Usignolo D’oro volò felice cinguettando una bella melodia. Ad un certo punto vide un cucciolo di lupo, solo senza la sua mamma. Usignolo D’oro si avvicinò e “Ti sei perso?”, gli chiese “Come ti chiami?”. Il lupetto tutto tremante “Mi chiamo Nerino, ora la mamma mi starà cercando disperata!”, rispose accorato. “Vieni con me, mentre volo dall’alto posso vedere dove si trova la tua mamma”, lo rassicurò. Infatti, volando sopra gli alberi del bosco, senza perdere di vista Nerino, vide una lupa. “Come si chiama tua mamma? gridò. “Il suo nome è Luparossa per il pelo rosso del manto”, di rimando rispose Nerino. Usignolo D’oro allora si diresse dalla lupa, che in effetti aveva un folto pelo rossastro. “Sei tu Luparossa?”, le chiese. “Sì, sono io!”, “Ho trovato il tuo cucciolo Nerino disperso nel bosco, seguimi!”. Poco dopo mamma lupa e lupetto si leccarono felici. “Grazie Usignolo, hai proprio un cuore d’oro”, esclamò Luparossa contenta di aver ritrovato il suo lupacchiotto.
Un giorno Usignolo D’oro cadde da un ramo, mentre furtivo gatto Selvaggio stava per afferrarlo, con l’intenzione di farsene un prelibato bocconcino. Luparossa, che per caso passava di lì, si accorse del pericolo e con balzo repentino saltò addosso a Selvaggio, che impaurito se la diede a zampe levate, sgattaiolando dalle grinfie della lupa. Formica Previdenza, intanto venuta a conoscenza della cosa, con le amiche del Formicaio, portò a Usignolo per confortarlo tante bricioline e vermicini. Usignolo D’oro ber rifocillato si riprese dallo spavento e così rasserenato iniziò a cantare una dolce serenata alla sua bella usignola Beccuccia Di Rosa. Tutti gli abitanti del bosco, alle prime ombre della sera, si addormentarono tranquilli alle note melodiose di Usignolo D’oro.
La gratitudine è delle persone che non dimenticano il bene ricevuto.   



PRIMO FESTIVAL DELLA POESIA CITTÀ DI PIOLTELLO
“Regala Una Poesia Alla Tua Città”



REGOLE DI PARTECIPAZIONE E PREMIAZIONE

Si può partecipare esclusivamente con opere inedite. Il Premio è articolato in cinque sezioni identificate dalle lettere dell’alfabeto. Il partecipante può prendere parte a una o più sezioni.

SEZIONE A – POESIA IN ITALIANO: Si partecipa con una poesia inedita in lingua italiana a tema libero in forma anonima che non deve superare i 40 versi (senza conteggiare il titolo, l’eventuale sottotitolo, dedica, spazi bianchi).

La sede del Comune

SEZIONE B – POESIA IN DIALETTO: Si partecipa con una poesia inedita in dialetto a tema libero in forma anonima che non deve superare i 40 versi (senza conteggiare il titolo, l’eventuale sottotitolo, dedica, spazi bianchi). Le opere dovranno avere ben indicato il riferimento al tipo di dialetto o di zona nel quale è parlato e si dovrà allegare obbligatoriamente la traduzione dell’opera in lingua italiana. 

SEZIONE C – POESIA PER BAMBINI E RAGAZZI: Si partecipa con una poesia inedita a tema libero in forma anonima che non deve superare i 40 versi (senza conteggiare il titolo, l’eventuale sottotitolo, dedica, spazi bianchi). Si considerano facenti parte di questa sezione tutte le opere scritte da bambini e ragazzi che alla data d’invio della partecipazione frequentano le scuole elementari e medie.
 
La Stazione ferroviaria

SEZIONE D – POESIA DEDICATA A PIOLTELLO: Si partecipa con una poesia inedita dedicata alla città di Pioltello in forma anonima che non deve superare i 40 versi (senza conteggiare il titolo, l’eventuale sottotitolo, dedica, spazi bianchi).

SEZIONE E – MUSICA E POESIA: Si partecipa con un testo inedito a tema libero che può essere musicato (Es. Rap, Trap, Cantautoriale, Rock e altro) inviato solo con una delle due possibilità: 1) caricandola sul sito online YouTube e fornendo nella mail di partecipazione, oltre al testo dell’opera, il link del video. In questo caso l’utente non deve assolutamente apportare modifiche al video né cambi di URL per tutta la durata di svolgimento del premio, pena la squalifica; 2) allegando oltre al testo dell’opera, un file audio o video (soli formati .mp3, .avi, .mp4, .wmv) mediante il sito di trasferimento dati gratuito WeTransfer. Non verranno considerati validi altri sistemi di trasmissione delle opere. Non dovranno essere mandati video nei quali siano impiegate canzoni, basi e melodie d’accompagnamento che siano brani tutelati/iscritti alla SIAE. Nella scheda di partecipazione l’autore deve dichiarare di avere utilizzato per la produzione del video materiali (foto, video, musiche) propri o di dominio pubblico o, laddove siano opere di terzi, di aver ottenuto le necessarie liberatorie per l’utilizzo, sollevando il Comune di Pioltello da qualsivoglia responsabilità.

La chiesa di Sant'Andrea

La scadenza di invio dei materiali (opere, scheda di iscrizione compilata) è fissata al 30 giugno 2020. I materiali dovranno pervenire in forma digitale (per le opere esclusivamente in formato doc) alla mail protocollo@cert.comune.pioltello.mi.it indicando come oggetto 
“Primo Festival della Poesia - Regala Una Poesia Alla Tua Città”.

Il Comune si riserva di utilizzare i testi delle poesie, senza nulla avere a pretendere da parte degli autori, per pubblicazioni, inserimento su sito internet del Comune di Pioltello, su riviste e giornali per letture pubbliche. Resta inteso che i diritti delle opere rimarranno di esclusiva proprietà degli autori.

Il Mulino

La Commissione di Giuria sarà costituita da esponenti del mondo culturale di Pioltello e non solo. Il giudizio della Giuria è definitivo e insindacabile.

Per ciascuna sezione saranno assegnati tre premi da podio: 1° Premio: euro 300,00; 2° Premio: euro 200,00; 3° Premio: euro 100,00.
La Giuria potrà proporre ulteriori premi, indicati quali “Menzione d’onore”, ad altrettante opere meritorie non rientrate nei premi da podio ed eventuali Premi Speciali.

Un angolo del centro storico
Il responso della Giuria si conoscerà nel mese di ottobre 2020. A tutti i partecipanti verrà inviato il verbale di Giuria a mezzo e-mail.

La cerimonia di premiazione si terrà a Pioltello (MI) il giorno 30 novembre 2020, in occasione della festa di Sant’Andrea, Santo Patrono della città.  A tutti i partecipanti verranno fornite con preavviso le informazioni inerenti luogo e ora della premiazione.

martedì 28 aprile 2020

Libri
IL VUOTO
di Angelo Gaccione

Veduta della bella piazza Treccani
di Montichiari con il Duomo

Il coronavirus ha già la sua “letteratura”. Nel giro di pochi mesi, da quando il mondo ha preso coscienza della tragedia della pandemia che lo ha investito, e della consapevolezza della sua vulnerabilità, non c’è stata forma espressiva che non si sia interrogata con i suoi strumenti, sui numerosi risvolti – non solo medico-scientifici – di un evento così epocale e catastrofico che ha messo in ginocchio le economie, separato le persone, annientato la vita sociale, e fatto il vuoto nelle nostre città. “Odissea” è stato fra i primi organi di stampa ad interrogarsi, attraverso un questionario, sugli insegnamenti di questa tragica esperienza; ad aprire un dibattito con economisti, filosofi, scrittori, manager, virologi, medici, sociologi, psicologi, giuristi e semplici lettori; a pubblicare poesie, immagini, opere grafiche e pittoriche, disegni e favole illustrate. Sono stato il primo scrittore a concepire e pubblicare una fiaba sul coronavirus dedicata ai bambini, segregati da mesi come noi adulti, e privati dei contatti più necessari. A farne un racconto video-vocale casalingo da veicolare attraverso gli strumenti che la Rete mette a disposizione.

La piazza di notte

Video delle nostre meravigliose città svuotate, ne ho ricevuti diversi in questo periodo: Bergamo, Roma, Milano… La loro silente immota bellezza, faceva da contrappunto al silenzio attonito che la morte portava negli ospedali e nelle case; al requiem dei motori dei camion militari carichi di bare che si avviavano mesti verso i forni crematori. Vuoto: un monosillabo che non era mai suonato così sinistro ed inquietante alle nostre orecchie; capace di evocare un gelido svuotamento di vite e, insieme, una voragine psicologica ed esistenziale.
Intorno a questo monosillabo il fotografo Basilio Rodella, coadiuvato da due giornalisti: Federico Migliorati e Marzia Borzi, ha costruito il suo racconto per immagini dedicato alla città di Montichiari. Immagini che da sole sarebbero bastate a fissare nel tempo la testimonianza di questa dolorosa primavera, ma che gli ideatori del volume hanno voluto arricchire di parole, di riflessioni, di richiami storici, di testimonianze, di versi. 

Montichiari deserta

Di versi, già: perché non c’è nulla che come dei buoni versi ci sappia restituire ciò che l’occhio guarda paralizzato e la nostra anima sente: “Spettrale, la città muta s’addormenta. I miei passi hanno l’eco di tutte le assenze del mondo” (Federico Migliorati). E quella fu una primavera strana, fatta di vuoti e di silenzi. Una primavera dove tutto ciò che fioriva sembrava sublimare l’attesa. Pareva farsi poesia. E il paesaggio amato si scioglieva in un fermo immagine che scavava dentro. Ed era dentro, non fuori, il posto in cui cresceva l’infinito” (Marzia Borzi).
Il vuoto. Coronavirus, un male che ha sconvolto la Comunità, è un libro che vuole essere testimonianza di una tragedia, ma nello stesso tempo, profondo atto d’amore per la propria città, per la propria comunità. Sono le voci di alcuni figli di Montichiari che parlano in queste 156 pagine, mescolate alle voci di altri che di Montichiari non sono. In questo coro dolente c’è anche la mia.

La copertina del libro

Il vuoto
Coronavirus.
Un male che ha sconvolto la comunità.
A cura di Basilio Rodella, Federico Migliorati, Marzia Borzi
Ed. BAMS, 2020
Pagg. 156 € 15,00

AL DI LÀ DEL TUNNEL
di Luciano Abbonato*
 
Luciano Abbonato

Un commento al saggio di Marco Vitale

Carissimo Professore,
come sempre i suoi scritti sono fonte di grande ispirazione e aprono numerose vie ove il pensiero si può incanalare.
Mi piacerebbe seguire tutti gli spunti che lei ci offre per fornire un contributo di buon senso, se non tecnico, ma credo che la metafora del tunnel sia la via principale da seguire.
Per capire quale valle ci attende fuori dal tunnel credo dovremmo interrogarci preliminarmente su due risvolti di questa Pandemia: uno di natura metafisica e uno di natura geopolitica.
Questa disgrazia, le cui dimensioni, alla fine, potranno a ragione definirsi bibliche, potrebbe cambiare l’umanità e la direzione e le dimensioni di tale cambiamento non sono prevedibili al momento.
Ma un effetto già lo osserviamo: si sono improvvisamente assopite le tensioni legate al credo religioso; il mondo sembra essersi immerso in una pausa meditativa e nel fronte cristiano il Papa è diventato una presenza costante e un riferimento, non solo spirituale, essenziale. 
Esula da queste brevi riflessioni la possibilità di indagare sugli effetti della Pandemia sullo spirito umano, sui futuri stili di vita, sulla capacità di approcciarsi diversamente a fenomeni globali come l’inquinamento, il surriscaldamento globale, la povertà, la salute pubblica, il reale accesso ai diritti umani inalienabili e tra questi al diritto alla mobilità.
Ma il mondo sarà diverso alla fine di questa crisi; non sappiamo quanto, perché nonostante la scienza non sappiamo quanto durerà e quante sofferenze ancora porterà, ma sarà diverso.
Leoluca Orlando in un suo recente discorso ha detto che “si stanno creando le condizioni per una nuova umanità, una nuova solidarietà, una nuova dimensione culturale di vita”.
Questo tunnel quindi potrebbe essere, mi perdoni la metafora scientifica, un vero e proprio tunnel spazio-temporale, che ci porta non solo in una nuova valle, ma in una nuova epoca.


Non solo non siamo in grado di predire con certezza l’entità di questo cambiamento, ma non siamo neanche in grado di contrastare questa grande forza. Possiamo però prepararci.
E veniamo al secondo aspetto che vorrei sottoporre alla sua attenzione. La dimensione geopolitica. Non voglio porre il problema solo su un piano mercantilistico, ma c’è anche questo. La parola d’ordine che risuona martellante sui social-media americani in questo momento è: alla fine di questa crisi, comprate americano.
Le tensioni sovraniste sembrano essere destinate a crescere e la scarsa mobilità di uomini e merci con cui dovremo fare i conti per molto tempo sarà un ulteriore detonatore. In Europa ci troveremo ancor più schiacciati tra tre blocchi: la Cina, gli Stati Uniti e la Russia.
Hanno ragione Alberto Alesina e Francesco Giavazzi che in un editoriale del Corriere della Sera (5 aprile 2020) parlano di un secondo virus nel pianeta, il populismo che si manifesta in almeno quattro forme e attacca le democrazie del mondo: “… Proprio per evitare il ripetersi di quelle catastrofi si è iniziato, negli anni Cinquanta, il processo di cooperazione europea. Sparita l’Europa, come vorrebbero i sovranisti, Stati Uniti, Russia e Cina deciderebbero da soli le sorti dell’umanità, da come proteggerci contro i cambiamenti climatici, alle regole del commercio fra nazioni… I falchi del Nord Europa sembrano non capire che qui non si tratta di disquisizioni tecniche su eurobond e Mes, ma di compiere scelte che determineranno la sopravvivenza, o meno, dell’Europa… in un mondo in cui l’Unione Europea è rimasto uno dei rarissimi esempi di collaborazione tra stati”.
E veniamo allo snodo, a quello che potrebbe essere un collante tra la dimensione metafisica della crisi e la dimensione geopolitica e che oggi è soltanto un elemento disgregante: la politica.
Ernesto Galli della Loggia sempre sul Corriere della Sera, il 7 aprile scrive: “Nell’esperienza occidentale la politica è sempre stata debitrice verso la religione delle sue categorie fondamentali”… Ma è stata dalla cultura classica e insieme dal quella religiosa, da queste due decisive dimensioni del passato e del nostro legame con esso, che nel corso della storia gli europei hanno anche personalmente tratto la scala dei propri valori, l’insieme delle disposizioni psichiche, emotive ed ideali, che nelle più diverse circostanze li hanno orientati personalmente ai modelli della virtù individuale e del bene collettivo. Modelli che si sono rilevati così decisivi nel definire il rapporto del nostro continente con la politica, tanto intenso quanto fecondo. C’è bisogno di dire quanto oggi la fonte religiosa e quella della cultura classica appaiano inaridite, disertate dalle coscienze e perfino dalle conoscenze dei più? Da qui dunque la domanda se sia solo per un caso che proprio in coincidenza di un tale abbandono si manifesti la drammatica impotenza politico ideale della costruzione europea. Se sia solo per caso che oggi ci manchi qualsiasi pensiero forte, qualsiasi visione lungimirante, qualsiasi volontà generosa e grande”.


A ricordare quella scala di valori europei, e in particolare la solidarietà, interviene Papa Francesco, nel bellissimo messaggio Ubi et Orbi pronunciato oggi in San Pietro in occasione della santa Pasqua: “Tra le tante aree del mondo colpite dal Coronavirus rivolgo uno speciale pensiero all’Europa. Dopo la Seconda guerra mondiale questo continente è potuto risorgere grazie ad un concreto spirito di solidarietà che gli ha consentito di superare le rivalità del passato. È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore ma che tutti si riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda. Oggi l’Unione Europea ha difronte a sé una sfida epocale dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero. Non si perda occasione di dare ulteriore prova di solidarietà anche ricorrendo a soluzioni innovative. L’alternativa è solo l’egoismo degli interessi particolari e la tentazione di un ritorno al passato, con il rischio di mettere a dura prova la convivenza pacifica e lo sviluppo delle prossime generazioni”.


Voglio essere ottimista Professore. Voglio credere che il messaggio del Papa non cadrà nel vuoto. Voglio credere che questa tragedia possa essere un una straordinaria occasione di riflessione e apprendimento. Voglio credere che quelle grandi forze ideali siano soltanto sopite dentro di noi. Anzi ne sono convinto, perché sotto la crosta miserabile politico-affaristica di questo grande Paese ci sono persone come Lei che sono profondamente radicate in quel pensiero forte e generoso.
Al punto in cui siamo oggi, tocca a noi riprendere quel pensiero forte e generoso, alla politica trovare ispirazione, trovare la propria ragion d’essere. E ciò forse attraverso nuovi protagonisti.
Credo che oggi noi europei dovremmo dedicare tutti i nostri sforzi verso un unico punto: la costruzione urgente degli Stati Uniti d’Europa. Ce lo chiede la storia, ce lo chiede il momento. E ciò non solo per lo stato di necessità in cui ci troviamo e in cui ci troveremo ancora nel futuro stante la scala delle crisi economiche, sociali e sanitarie; non solo per non ridurci in tanti staterelli in competizione tra loro, solo apparentemente sovrani, ma di fatto alla mercé delle tre grandi concentrazioni di potere mondiale; ma perché l’Europa è la nostra identità ed è l’unica strada per salvare l’ultra millenario patrimonio dell’umanità rappresentato dal nostro sistema di valori, fortemente radicato nella cultura classica e nella cristianità.
Sono convinto che tutto il resto seguirebbe in maniera naturale, con soluzioni e tempi oggi impensabili. Non mi sottraggo tuttavia a brevi notazioni su due temi centrali del suo scritto: debito pubblico e burocrazia, argomenti che, lo premetto, vedo strettamente collegati al nodo politico.
Da anni diciamo che l’Italia soffre di due grandi mali: il deficit e il debito pubblico.
Ma l’attenzione è stata distratta da due indicatori, deficit/Pil e debito/Pil, i cosiddetti “parametri di Maastricht”, con l’effetto da lei denunciato che la maggior parte degli addetti ai lavori si è conformata alla comoda idea che la crescita del Pil (nominale) potesse essere uno strumento per conseguire il rispetto degli indicatori e di conseguenza il governo del problema. Ragionamento matematico, ma ampiamente fallace alla luce dei fatti.
Da economisti d’impresa abbiamo cercato di proporre visioni, se non alternative, quanto meno complementari, guardando, ad esempio, il debito in valore assoluto. Sotto questo profilo, il problema del cosiddetto “ricatto del debito pubblico” non riguarda soltanto il pagamento degli interessi che ogni anno gravano sul bilancio dello Stato, ma forse principalmente l’ammontare complessivo delle rate (capitale e interessi) che vanno rimborsate e che dipendono anche dai tassi d’interesse ma in misura principale dall’entità e dalla vita media del debito.
Il debito pubblico italiano alla fine del 2019 ammonta a 2.400 miliardi di euro ed è composto per 2.000 miliardi di euro da titoli di Stato. La vita media residua è 7,3 anni, mentre la vita media residua ponderata dei titoli di stato è 6,8 anni, valore estremamente basso per un Paese che ha un rapporto debito/Pil superiore al 130%.
Il nostro debito pubblico è costituito per 561 miliardi, cioè quasi un quarto, da debiti a breve termine, con scadenza inferiore ad un anno, mentre se guardiamo ai soli Titoli di Stato nel corso del 2020 scadranno obbligazioni per 328 miliardi di euro.


Questo vuol dire che nel 2020 lo Stato italiano, oltre a dover stanziare sul proprio bilancio circa 70 miliardi di euro per pagare gli interessi, dovrà riuscire, per rimborsare i titoli in scadenza, a far sottoscrivere nuove emissioni per un pari controvalore (328 miliardi, appunto), risorse che inevitabilmente vengono drenate dall’economia, con un significativo effetto di definanziamento degli investimenti privati (effetto spiazzamento).
Noi italiani avremmo da tempo dovuto cercare, attraverso nuove emissioni a lunghissimo termine, di avvicinare la vita media del nostro debito pubblico a quella del Regno Unito (15 anni) e comunque a quello di Svizzera e Belgio (9-10 anni), circostanza quest’ultima che consentirebbe, a parità di condizioni (e di entità di debito), di liberare circa 100 miliardi di euro annui di liquidità per il sistema economico. 
Naturalmente in questa fase il debito dovrà crescere significativamente per finanziare le minori entrate fiscali e la spesa aggiuntiva anticrisi e diventa più che mai necessario allungarne il profilo di ammortamento.
Ecco perché la sua idea di un “Nuovo prestito della ricostruzione” - con una scadenza minima di 30 anni e una quota rilevante di irredimibile - mi convince: sarebbe contestualmente una straordinaria occasione per rendere realmente sostenibile il nostro debito pubblico - senza scaricarlo sull’Europa - e mobilitare risorse pubbliche e private utili per sostenere l’economia e rilanciare gli investimenti. E in questo quadro la prospettiva Eurobond diventerebbe allo stesso tempo secondaria e maggiormente percorribile.
Gli investimenti privati ripartiranno, ma quello che mi preoccupa di più è la spesa pubblica, a partire dai fondi europei anticrisi, dove ci scontriamo con un’altra “mala bestia”: la burocrazia.
Ma qui devo premettere un giudizio di valore: la mia esperienza mi dice che la forza della burocrazia è la debolezza della politica e quanto più la politica è debole, inesperta e insicura, tanto più essa tende ad accentrare e burocratizzare. Voglio fare qualche esempio.
La protezione civile, che dovrebbe essere finanziata interamente sul bilancio dello Stato, ha avviato a metà marzo una raccolta di fondi privati per l’emergenza Covid-19 al fine di acquistare dispositivi di protezione individuale e ventilatori. Poiché in una fase iniziale vari soggetti, tra cui i singoli ospedali, avevano avviato iniziative analoghe, il Codacons è addirittura intervenuto sull’Anac e sulla Presidenza del Consiglio affinché la raccolta, previo immancabile tavolo tecnico, venisse concentrata sulla Protezione civile. Ed è stato accontentato. Risultato: a un mese di distanza, in una fase in cui mancano ancora perfino le mascherine per i medici, sono stati raccolti 120 milioni di euro e spesi appena 25 milioni. Anche in questo ambito, se vogliamo banale, dove si poteva e si doveva operare spediti senza pubblicare un bando di gara in Gazzetta Ufficiale per una spesa di qualche centinaio di migliaia di euro, la politica ha fatto entrare la burocrazia.

Neoliberisti

Non posso dimenticare che nel 1999, per la gestione dei fondi privati dell’emergenza Kosovo (Missione Arcobaleno-gestione fondi privati), il Governo si orientò diversamente, nominando un Commissario indipendente, mi pare si chiamasse Marco Vitale, che operò con efficienza e trasparenza, spendendo in tempi record, in progetti talvolta estremamente complessi, i 129 miliardi di lire raccolti. 
Lei ricorderà che qualche tempo fa le scrissi auspicando che il Governo potesse emanare un decreto di due righe autorizzando procedure dirette e snelle per gli approvvigionamenti Covid-19. E invece nulla è stato fatto per anticipare e semplificare le forniture e nonostante l’emergenza sanitaria fosse stata dichiarata il 31 gennaio, le prime procedure “d’urgenza”, bandite ovviamente tramite Consip, sono state pubblicate soltanto a metà marzo, alcune sono andate male (con conseguenti scandali e arresti), e ad oggi risultano aggiudicate gare per appena 307 milioni di euro, probabilmente non ancora effettivamente spesi, con l’effetto che i dispositivi di protezione individuale e i reagenti per i tamponi scarseggiano drammaticamente.
La colpa è della burocrazia? Come dare la colpa alla sola burocrazia quando gli indirizzi sono tardivi e confusi e le norme sono degne di un’enciclopedia?
Quando la politica ha orizzonti limitati finisce per non distinguersi più dalla burocrazia, la visione diventa propaganda, la strategia diventa tattica e l’azione, procedura.


Lei ha ricordato che questo Paese ha ancora un grande patrimonio: i comuni.
Non possiamo dimenticare che anche le procedure centralizzate per l’urgentissimo sussidio di 600 euro e per la cassa integrazione sono fallite e che non un solo euro è pervenuto ancora per questa via nelle tasche dei cittadini italiani (e forse qui ha ragione qualche consulente del lavoro illuminato che sostiene che alla ripresa la migliore forma di sostegno ai lavoratori e alle imprese è una forte riduzione del cuneo fiscale).
I Comuni invece, non a caso, hanno già speso le poche risorse ricevute e continuano a fronteggiare in isolamento, insieme agli ospedali, questa prima grande ondata, garantendo il welfare e la pace sociale.
Molti sindaci, oltre a spendere quel poco che gli è stato assegnato, hanno realizzato autonomamente una iniziativa seria sul piano fiscale: sospendere la tassazione locale per manifesta inesigibilità. Si aspetta da settimane il decreto che dovrebbe avallare questa operazione, ma è già stato comunicato che gli oneri rimarranno a carico dei bilanci dei Comuni che in cambio riceveranno un prestito dalla Cassa depositi e prestiti. Un prestito!!!
Una politica forte e lungimirante avrebbe dirottato 10 miliardi di euro, dei 400 promessi al sistema imprenditoriale italiano, agli enti locali, ripristinando l’entità dei trasferimenti statali inopinatamente azzerati a partire dal 2011 da questo finto federalismo fiscale.
E anche qui non credo che il problema sia burocratico, ma concordo che a livello locale la burocrazia si governa molto meglio.
Caro Professore, la politica spesso ci ricorda il proprio primato. Concordo! E allora dico che oggi, nel nostro Paese, l’Europa, il debito, la spesa pubblica e la burocrazia sono parte un unico grande problema… Politico!

*Economista d’impresa, Magistrato della Corte dei conti
[Palermo, domenica di Pasqua 12 aprile 2020]



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