UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

domenica 28 febbraio 2021

PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada


Le contumelie


Sulla base di come viene interpretata la radice e del contesto che vuole leggere, la parola, che è un simbolo unico, acquista significato. A questo bisogna aggiungere che l‘aggiunta di simboli alla radice modifica la perifrasi, determinando significati nuovi ed imprevedibili. La radice (thum) θυμ, che si può leggere: quando permane il crescere/rimane a crescere la creatura o quello di cui si parla, con l’aggiunta della desinenza (os) ος: è ciò che nasce (alla lettera: manca), nel senso di ciò che fa nascere, ma anche nel senso che è ciò che il mancare (torti, soprusi) fa crescere, fu interpretata dai greci in vario modo: vita, animo, coraggio, ardore, sdegno, collera, ira. Nella parola θυμός (thymòs) furono desunti dei significati positivi: animo e coraggio, ma anche sdegno, collera, ira come qualcosa che, crescendo in noi, porta allo scatto per irritazione.



Inoltre, con (thymos) θύμος (si noti la diversità dell’accento), i greci indicarono: timo (da collegare al profumo che cresce) e verruca, in quanto escrescenza. Ancora, da θύω: sacrifico ricavarono: (thyma) θμα θματος: vittima, conio latino che rimanda all’animale che si sacrificava, probabilmente perché, con l’incipienza della gravidanza, si facevano dei sacrifici.  
 La radice (thym) θυμ passò nella cultura italica e servì per formare la parola cosθυμe, con duplice significato di abito e di usanza, e, quindi, anche come qualcosa di abituale. La perifrasi si può rendere: è il guscio entro cui è legata la creatura, che si forma dopo la crescita del flusso gravidico, che rappresenta il mancare. Il costume passò ad indicare ciò che si porta da sempre, che è buono ed utile, che copre le pudenda, per cui chi indossa il costume è costumato, chi si scopre è scostumato.
Bisogna ricordare che il costume, come modo di vestirsi, rendeva costumata la persona, a condizione che indossasse con decoro quanto prescritto. Una donna onorata non poteva in nessun modo discostarsi da quanto la tradizione, come forma culturale, imponeva. L’acconciatura dei capelli, il fazzoletto che legava la testa e tutti gli altri indumenti facevano parte di quanto prescritto. Pertanto, ogni deroga determinava disdoro e infamia, intaccando profondamente la moralità della persona. Le resistenze odierne delle donne islamiche a togliere il velo sono indizio di un’esigenza morale, per cui l’obbligo, per legge, di non coprirsi la testa è una sopraffazione dell’Occidente liberale. È dimostrato che, nel momento in cui avviene un processo di integrazione culturale, anche l’abbigliamento cambia.  


Opera di Vinicio Verzieri

Tornando alla radice θυμ, bisogna ricordare che, prima, era stata acquisita nella cultura latina e aveva dato luogo, attraverso la metafora del grembo, al verbo tum-eo: sono gonfio, sono irritato, ribollo, sono tronfio. Si vuole, qui, ribadire che la desinenza -eo, in greco e in latino, indica che cosa consegue al pastore in un determinato contesto del processo formativo. Con tum-eo volle dire che, quando, per irritazione, si gonfia (si ribadisce il crescere della radice), sbotta.  Da tum-eo furono dedotti il sostantivo tum-or tumoris: rigonfiamento, collera, furore, orgoglio, superbia, tumefatto e l’aggettivo tum-idus: tumido, gonfio, turgido, ribelle. Il significato corrente di tumore, come massa tumorale, fu dedotto da rigonfiamento.
Verosimilmente, la parola tomolo, in dialetto: tummin’, fu coniata dalla radice θυμ. Con questa parola si indicò la capacità massima che può raggiungere il grembo materno. Il tomolo, inoltre, da misura di capacità, divenne anche misura agraria.
Il concetto di sdegno, collera, ira serpeggia in alcuni significati dedotti. Infatti, dalla radice thym fu dedotto tumulto, da cui, poi, tumultuoso e tumultuare. La crescita del flusso gravidico genera il tendere (la spinta in avanti), a causa del mancare. Si tratta del convincimento del pastore: ogni spinta in avanti determina il recupero da parte della creatura di qualcosa che le manca. Qui, però, il mancare venne letto alla lettera: spinta per il soddisfacimento di un bisogno indilazionabile, che genera il tumulto. Quando la fame (il mancare) morde, c’è l’assalto ai forni di manzoniana memoria.
Da θυμ fu dedotto contumax contumacis: contumace (come renitente alla citazione in tribunale o alla sentenza del giudice), ribelle, ostinato, superbo, inflessibile. Il contumace, per usare una vividissima immagine oraziana, si rispecchia in: odi profanum vulgus, et arceo (odio il volgo profano, che tengo lontano da me) ed è la metafora dell’essere in formazione, che, tutto solo, sordo a tutto, incurante di tutto, imperterrito, continua a crescere, fiero e superbo del suo stato. Anche i greci parlarono della giustizia in cui è presente uno solo dei contendenti, che definirono (e ereme dike) ρήμη (δίκη) (di colui che è nell’eremo e, quindi, impedito) e indicarono il contumace alla stessa stregua dei latini: (auth-ades) αθ-άδης: altero, arrogante, spietato, ostinato, metafora della creatura in grembo, che, tutta sola, prosegue nel suo obiettivo, orgogliosa di quello che fa.


Opera di Vinicio Verzieri

 Inoltre, da θυμ fu mutuata contumelia: offesa sull’onore, oltraggio, insulto, villanie, che rappresenta il modo di esprimersi di chi è preso dalla collera per l’oltraggio subito. Il vocabolario Treccani la definisce così: “Frase offensiva, che costituisce intenzionalmente ingiuria o villania ecc. “.
La contumelia consisteva in ciò che cresceva a tal punto fino a legare, costipando all’interno tutto il malanimo e causando una violenta fuoruscita di improperi. Le contumelie, da cui contumelioso, venivano e vengono proferite durante le liti, che sono la conseguenza di risentimenti compressi e lungamente incubati, per torti subiti, veri o presunti. Alcuni litigi sembrano immotivati, se non si conosce il clima pessimo dei rapporti, per cui una scintilla fa divampare incendi, alimentati da odi malcelati.
I latini avevano definito la lite: ciò che determina l’esplosione per i torti subiti. I greci la definirono, quasi allo stesso modo, o con (lya) λύα: discordia, contesa o con la parola (eris eridos) ρις ριδος, che fu anche mitizzata come dea della Discordia, come colei che, durante lo scorrere, nel rapportarsi con gli altri, legava tutti i torti subiti, generando discordia e litigi.
Quindi, la spinta del grembo, causata dal mancare, diventa qui, per il pastore, indizio di contrasti e torti incoercibili. Molto probabilmente il mito delle Erinni, per i latini le Furie, che rappresentavano la punizione, la vendetta, era conseguente a ρις
, alle contese e ai litigi, che avevano causato tanti lutti e tante tragedie.

MANIPOLAZIONE


Opera di Max Hamlet (Febbraio 2021)

“La pubblicità vende la merce con l’inganno.
L’oroscopo l’inganno come merce”.
Il Sannicolensis
 

***
 
DPCM



Niente barbieri e parrucchieri nei territori a rischio.
Nell’attesa dei capelli, Draghi comincia a farci… la barba.
Il Petragallensis
 

IL PENSIERO DEL GIORNO


Opera di Vinicio Verzieri

Quando vengono a mancare il senso del mistero
e il sentimento del sacro,
avanza la cultura della morte
sulla precarietà della vita.
Laura Margherita Volante

sabato 27 febbraio 2021

IN RICORDO DI STEFANO FILIPPELLI 
di Gabriele Scaramuzza

Stefano Filippelli

È mancato lunedì 22 febbraio scorso a Lucca, all’età di 72 anni, Stefano Filippelli: è scomparso “dopo una dolorosa malattia”, come sapevo e come leggo nelle pagine lucchesi di “Il Tirreno” del 24 febbraio 2021. La sua storia e la storia della sua famiglia hanno avuto rilievo nella storia del Livornese e dello Spezzino. Non è pensabile Bonassola senza Stefano, le due cose restano per me legate. Gli inizi della mia conoscenza di lui si perdono in una lontananza senza tempo. Forse di vista lo conoscevo fin dai miei primi soggiorni a Bonassola. I ricordi più netti risalgono tuttavia gli anni dell’amicizia di mia moglie, e di riflesso mia, con la madre Anna. La famiglia materna aveva radici anche bonassolesi: Merani non a caso era il cognome della mamma. Di queste radici testimonia l’appartamento di famiglia, posto nel vicolo in salita prospiciente piazza Bertamino. Ma con Bonassola ebbe a che vedere anche la famiglia del padre, Silvano Filippelli. Non solo per la sua scontata frequentazione del luogo; ma anche perché il nonno paterno, Cafiero Filippelli, pittore, fu presente a Bonassola: a testimonianza ne restano quanto meno i suoi piccoli affreschi, che si conservano tuttora nell’appartamento di famiglia. Non a caso una certa venatura “artistico-estetica” apparteneva al carattere versatile di Stefano. Penso alla sua sensibilità per la natura e per i paesaggi urbani; in ambito artistico era preponderante per lui la curiosità verso il mondo letterario: leggeva molto, e autori di notevole spessore culturale; non gli era estranea la filosofia. Aveva gusti spiccati anche in campo musicale: ricordo ad esempio con piacere il suo apprezzamento della Messa da Requiem di Verdi. La sua personalità era culturalmente vivace, e desiderosa di confronto sui temi più disparati; non sempre ci trovavamo d’accordo, ma era un piacere scambiare idee con lui, ne traevo indicazioni e consigli utili. 



Gli ho fatto omaggio anche di alcuni miei scritti, li ha accolti con attenzione. Predominante era tuttavia in lui la passione politica. Eredità familiare anche questa: il padre fu attivo nel PCI, e divenne Presidente della Provincia di Livorno (e dipendente della Provincia in pensione era anche Stefano); nella sua non lunghissima vita (tra il 1919 e il 1977) svolse un’attività plurima: sul piano didattico, culturale, pubblicistico, oltre che civile. Di ascendenza prevalentemente livornese erano entrambi i rami della sua famiglia; a Livorno Stefano è nato, ha studiato, si è formato; all’Università di Pisa, ovviamente, si è laureato: in Lettere. Gli ultimi lustri li ha trascorsi nella bella Lucca - grazie all’incontro con Monica Milianti, lucchese, laureata in Architettura a Firenze. Lì ha abitato con la sua famiglia nella storica via Fillungo, fino alla fine. Sintomo della sua cattiva salute è stata la sua assenza da Bonassola la scorsa estate. Concludo con qualche ricordo più particolare. Se amava molto la lettura e il dialogo, non altrettanto amava la scrittura. A parte le sue lunghe e impegnative e-mail di anni fa, per lo più relative agli albori del “Movimento 5 Stelle”, di suo ricordo solo uno scritto che abbiamo pubblicato sulla nostra rivista “Materiali di Estetica”. Probabilmente ha scritto e pubblicato altro, e altrove, che però non ho avuto modo di leggere. I nostri incontri sono sempre avvenuti a Bonassola, a parte la volta che sono andato a Lucca per presentare un libro - nel giugno del 2007, se ben ricordo.


Bonassola

Il mattino prima delle nove lo vedevo seduto a un bar per la colazione, mi fermavo a parlare con lui; aveva con sé “Il Fatto Quotidiano”, che prediligeva, prendevamo pretesto da qualche articolo. Spesso mi prestava “Il Fatto Quotidiano”, segnandomi in rosso gli articoli a suo parere più rilevanti; e per me sempre interessanti. Ci incontravamo spesso, a volta anche di sera, parlando di accadimenti, persone; l’accento cadeva più che altro sulla politica, locale e non solo. Non avevo la sua stessa passione politica, ma avevo, e ho tuttora, interessi politici; e mi riconoscevo in principi che erano analoghi a quelli di Stefano. Ero tuttavia e sono più “pragmatico”, sono portato a relativizzare (solo nella confusa situazione in cui viviamo oggi in Italia beninteso) il ruolo delle scelte politiche nella vita. E tuttavia mi è stato sempre utile confrontarmi con le sue ragioni: allargavano i miei orizzonti, mi aiutavano a vedere in una diversa luce le mie prese di posizioni troppo ferme, e forse ingenue. Non è detto che non fosse preveggente Stefano in alcune convinzioni; altre (come talune mie) la storia si è incaricata di smentirle. Verso la spiaggetta infine, è lì che incontravo Stefano (ma questo non negli ultimi tempi, in cui aveva smesso di pescare): esca, preparazione dell’amo, lancio della canna; sto a guardare, imparo. Imparo anche la misura, la pazienza della pesca nel fresco della sera.

 

BRASILE. CON LE DONNE CHE CAMBIANO LA STORIA
 

il pittore William Fantini
accanto a Sandra Bandeira
Intorno opere dedicate ad Anita


A.I.M Celebra il bicentenario della nascita di Anita Garibaldi
 

W. Fantini "Ritratto di Anita"


S
crivere, parlare e raccontare fatti sulla storia delle donne significa presentare fatti, idee e prospettive pertinenti che ci fanno riflettere sul mondo contemporaneo e sulla sua interferenza nei tempi e nelle società. E poiché la storia è dinamica, i valori e i discorsi cambiano, interpretando molti personaggi femminili che hanno segnato i loro tempi e ispirato tante altre donne guerriere. Un personaggio che sintetizza tutto questo, e che ha segnato con audacia il suo nome nella storia in tre paesi del mondo è Anita Garibaldi che, nel contesto storico culturale, brasiliano o italiano, è un esempio per molti combattenti che si ispirano alla conoscenza della sua storia. Nell'anno bicentenario della sua nascita, tanti omaggi saranno resi per questa illustre catarinense. L'A.I.M.- Associazione per l'Italia nel Mondo è un'associazione nata per la tutela degli italiani all'estero, una libera associazione apolitica senza scopo di lucro che ha l'obiettivo di accrescere e rafforzare i legami fra l'Italia e le comunità italiane presenti in tutto il mondo. La sede centrale in Italia è presieduta da Guido Vacca. Ha elaborato il progetto “Bicentenario Nascita di Anita Garibaldi” che ci immergerà nella storia e nella cultura delle regioni italiane dove è passata l'eroina dei due mondi, un percorso insolito attraverso la gastronomia, la degustazione di vini, lo sviluppo economico e la letteratura.


W. Fantini "Garibaldi e Anita"


Il mese di agosto sarà pieno di celebrazioni nel sud di Santa Catarina, in Brasile. Tante le iniziative che si svolgeranno per celebrare il Bicentenario del Nascimento de Anita Garibaldi. Una vera e propria connessione culturale, una mobilitazione della società civile e istituzionale catarinense. L'esecuzione del progetto avverrà il 28 e 29 agosto 2021 sotto la responsabilità delle donne che con il loro lavoro nelle aree correlate promuovono la loro crescita e trasformazione socio-culturale all'interno della loro città, regione e stato, impattando direttamente sulla società con le loro azioni. Il progetto si svolgerà sia di persona che online. Una delle finalità del progetto è custodire e valorizzare la memoria storica locale e condividere la conoscenza artistica culturale, letteraria e gastronomica delle regioni percorse da Anita, mentre viveva in Italia. Il Comitato Organizzatore crede che la memoria storica di una città non deve andare perduta insieme alle persone che la custodiscono ed è convinto dell'importanza che la memoria storica locale può avere sul rafforzamento di un senso di identità e appartenenza. Donne del futuro e della memoria, del passato e presente che hanno avuto importanza per la storia comune del Brasile e Italia. Per questa ragione, il recupero della memoria locale si inserisce all'interno di un'ampia e ricca programmazione culturale offerte per la prima volta.



Sono loro: Edla Zim - Scrittrice; Renata dal Bo -Presidente dell'Associazione dei Giornalisti e Scrittori del Brasile - AJEB - Regionale santa Catarina; Adriana Zanini - Imprenditrice nell'attività gastronomica. Fabiola Cechinel -Presidente dell'Associazione Trevisani nel Mondo di Tubarao - AITM, Presidente del Comitato Dante Alighieri di Tubaron regione -CODATUR, Secreteria Nazionale per il Brasile dell'Associazione Italiani nel Mondo-AIM, Cavaliera della Repubblica italiana 2017.

A.I.M - ASSOCIAZIONE PER L'ITALIA NEL MONDO

COVID: EPPUR SI MUORE



Opera di Vinicio Verzieri

Tutti i giorni - dalle 18 alle 19 - mi dedico (così fan molti) alla lettura (e alla raccolta) dei dati più significativi. Talvolta sono fasulli, specie nei giorni che precedono l’attribuzione del colore.
Dal mese successivo a quello dei balletti sardi con Briatore, i dati sul numero dei morti e delle terapie intensive si mantengono pessimi. Con poche oscillazioni che vengono evidenziate dai tre solo quando il loro numero diminuisce. Senza pudore, pretendono sempre il giallo e lo fanno anche dopo l’apparizione del “messia”.
Vi posso assicurare che - nell’ultima settimana - il colore per la Lombardia avrebbe dovuto essere Rosso Scuro. Il peggioramento è diventato spaventoso e oggi - in Milano città - il numero dei contagi ha toccato i 900. La provincia di Brescia ha superato i 1000.
I contagi giornalieri accertati con i tamponi sono un terzo di quelli effettivi.
La Sanità Pubblica Lombarda si è dimostrata - con un paio di pari merito - la peggiore d’Italia. Ma i tre si rifiutano di ammetterlo.
Luigi Caroli
 

TEMPO


Opera di Stefano Bombardieri

“Sotto il peso degli anni, ogni speranza si incurva”.
Il Sannicolensis
 
 
IL PENSIERO DEL GIORNO



I negazionisti fanno il male due volte.
Oltre a negare la realtà negano la speranza
Di tornare a vivere.
Laura Margherita Volante  
 
 
ARTICOLO 1



Nell’Italia, Repubblicana fondata sul lavoro,
aumentano coloro che non vanno a lavorare:
sono deboli di... Costituzione.
Il Petragallensis
 

 

 

 

  

 

venerdì 26 febbraio 2021

SCRITTURE
di Livia Corona

 
Salviamo il corsivo
 
Tempo fa nelle scuole elementari gli insegnanti cominciarono ad abolire la scrittura in corsivo e esigere lo stampatello. Si pensava così di facilitare il movimento della mano del bambino e la lettura da parte dell’insegnante. Dopo alcuni anni neuropsicologi e insegnanti hanno rilevato un ritardo nell’apprendimento scolastico. Cominciò in America la raccomandazione di ritornare ad usare il corsivo per diverse motivazioni.
Secondo alcuni studiosi, come ad es. Federico Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta dell’età evolutiva, ritengono che la perdita del corsivo potrebbe essere alla base di molti disturbi dell’apprendimento. “Scrivere in corsivo vuol dire tradurre il pensiero in parole, scrivere in stampatello vuol dire invece sezionarlo in lettere, spezzettarlo, negare il tempo e il respiro della frase. Il corsivo così come lega le lettere, lega i pensieri.
Ad ogni tipo di scrittura (stampatello e corsivo) sono associati schemi cerebrali differenti e diversi stati emotivi. In particolare la scrittura in corsivo attiva le reti della lettura e della scrittura. Scrivere in corsivo obbliga a non staccare la mano dal foglio, come avviene per lo stampatello. Uno sforzo che stimola il pensiero logico-lineare, quello che permette di associare le idee in modo lineare. Secondo alcuni studi delle neuroscienze, la mancanza dell’uso del corsivo può avere effetti negativi sullo sviluppo del cervello.
La corteccia cerebrale riveste un ruolo cardine nel controllo delle più importanti capacità cognitive (memoria, apprendimento, calcolo, ecc.) e nella gestione delle funzioni sensoriali e dei movimenti volontari. In pratica, è il principale centro di elaborazione e integrazione delle informazioni nervose del sistema nervoso centrale.
Wilder Penfield, il neurologo canadese, nel 1937 per primo notò l’ampia zona dei neuroni nella corteccia cerebrale dedicate allo sviluppo e al controllo delle funzioni motorie e sensoriali della mano.
Sempre più la tecnologia sta sostituendo la manualità, la scrittura a mano e in particolare l’uso del corsivo rappresentano un prezioso patrimonio da conservare. Attualmente la scrittura digitale sta sostituendo quella manuale, ma dovrebbero essere due forme di comunicazione complementari e non alternative. L’uso dei computer si è rivelato molto importante durante questo duro e lungo periodo di pandemia, ma la tecnologia deve essere al servizio dell’uomo e non viceversa. L’uso del corsivo e in genere la scrittura a mano rappresentano un prezioso patrimonio per lo sviluppo armonioso del sistema nervoso centrale. Abbandonata la manualità del gesto grafico, l’emotività viene espressa solamente premendo un tasto: emoticon, emoji (faccina) o acronimo (tvb). Emotività compressa, non espressa. Quale sarà la conseguenza per gli adolescenti?
Grafologi e psicologi dell’evoluzione infantile raccomandano agli insegnanti e/o genitori di far scrivere i ragazzi anche in corsivo, per stimolare le aree del cervello connesse a pensiero, linguaggio e memoria.
Per i più bravi, provare (anche gli adulti) a scrivere con la mano destra e dopo con la mano sinistra. Tentare anche di scrivere dalla destra alla sinistra (a specchio). Così scriveva, a volte, Leonardo, che usava tale metodo perché mancino ma non solo per quel motivo. È una ginnastica psicofisica non costosa, utile e perfino divertente.
Usiamo il computer, usiamo il cervello, muoviamo le mani, salviamo il corsivo.

 

Libri
SCORRIBANDE…
di Angelo Gaccione

La copertina del libro
 
Si tratta di un volumone di 554 pagine in formato 30 per 21 e quasi tutto a colori perché sono una marea le foto, le locandine, gli spartiti, i manifesti che raccoglie.  Ci sono, naturalmente, anche foto in bianco e nero e tanti, tantissimi elenchi. Soprattutto un robusto censimento dei componenti delle varie orchestrine che si sono susseguite nel tempo nella città di Acri e di cui l’autore di questo libro, Michele Reale è stato sin dalla sua prima giovinezza attivissimo protagonista, e in molti casi fondatore. Lo stesso discorso vale per le varie bande musicali con cui ha suonato (adoperando strumenti fra i più diversi) e che poi ha tenuto in piedi come direttore. L’appassionato, e diciamo anche il nostalgico, potrà percorrere un amarcord che si dispiega lungo un robusto arco temporale che va dal 1960 al 2019, quasi un sessantennio. Da questo (ed altri volumi), si evince come la passione per le sette note è sempre stata molto diffusa in Acri, sia a livello di pura passione e sia come pratica professionale. Purtroppo nelle scuole è arrivato tardi questo tipo di insegnamento: una cosa effimera e astrattamente teorica (non una storia della musica, magari!), e neppure il maneggio almeno di un semplice piffero di canna, uno zufolo… Niente di niente ai miei tempi. Un modesto direttore di banda che a dei ragazzini privi di tutto e molto poveri, insegnava i quattro tempi, due in battere e due in levare, usando i palmi delle mani. Il ministero dell’Istruzione, non si è mai preoccupato che ci fosse nelle scuole un docente vero, strumenti da maneggiare per poterli imparare, aiuti alle nostre famiglie. Questo valeva ai miei tempi e soprattutto nel Sud. Ma rimasi molto sorpreso, moltissimi anni dopo, incontrando a Milano una docente di musica romena: si era trasferita in Italia credendola la patria della musica e ne rimase delusa. Da loro in Romania, così mi disse, avevano una scuola di musica in ogni quartiere. Ma torniamo al libro. Il lavoro di Michele Reale è meritorio per varie ragioni: la prima perché ha custodito e ricercato (quanti giovani acresi lo fanno? Lui giovane anagraficamente non lo è più, ma è più giovane e vitale di tanti giovanissimi cadaveri che di passioni non ne hanno neppure mezza); la seconda è perché ci mostra con le prove tangibili di aver fatto suonare e appassionare, con in mezzi a disposizione che aveva, centinaia e centinaia di ragazzi e di persone mature, di Acri e dintorni. E siccome non c’è nulla al mondo che renda più gioiosi della musica, ha contribuito non poco anche alla loro felicità. La terza ragione è di aver fatto rivivere i volti (ma anche eventi: matrimoni, feste religiose, ecc.) di moltissime persone che non ci sono più. Alcuni di questi volti me li sono ricordati, di altri ero stato amico, tanti sono altrove. Alcuni riconosceranno i loro nonni, ma anche i loro giovani figli. Gruppi e bande musicali che da Acri sono andati in una infinità di comuni, contrade, città, e non soltanto della Calabria. Ma verificherete tutto direttamente dalle pagine del libro, se vi capiterà fra le mani.      
 
Michele Reale
Il mio mondo musicale
Dall’orecchio alla dodecafonia
Ed. Amaca 2020
Pagg. 554 s.i.p.

giovedì 25 febbraio 2021

LA PERCEZIONE DELL’APPARIRE
di Franco Astengo



In un suo articolo misurato al riguardo del rapporto tra proprietà intellettuale e diffusione del messaggio (”Il Manifesto” 24 febbraio) Vincenzo Vita pone un interrogativo cruciale che riporto per intero: “Gli over the top (da Amazon a Google, a Facebook, a Microsoft, a Twitter) sono i legittimi intestatari di ciò che diffondono ovvero ne sono semplici veicolatori?”.
E prosegue: “Non si può uscire dalla contraddizione con un puro esercizio mediatorio. La questione ha una valenza generale. Aut aut non et.et”.
Così si sta toccando il cuore del problema: dalla società dello spettacolo allo spettacolo della società (e della politica).
È questo il terreno del mutamento nel rapporto tra struttura e sovrastruttura, nell’allargamento dei cleavages che determinano la teoria delle fratture.
Non basta più la contraddizione principale ma anche quelle che pensiamo “nuove” e che abbiamo inserito nella categoria della strutturalità debbono essere considerate oggetto di questa “strategia dell’illusione”.
Quelle che appaiono oggi le questioni principali emergenti compresa quella sanitaria globale (senza pensare, ad esempio, alle caratteristiche assunte nel tempo dal tema ambientale, dell’energia e delle materie prime che servono alla tecnologia) sono ormai tutte racchiuse nell’interrogativo di fondo che riguarda come, da chi, perché e quando sono veicolate le notizie che le riguardano: o meglio “il loro sembrare”.
La condizione materiale di vita di miliardi di persone si collega direttamente con l’influsso che si è capaci di esercitare sulla “percezione dell’apparire”.
Un influsso sull’apparire che ormai si esprime nella molteplicità vorticosa del messaggio e rappresenta così il punto di arrivo e quello di partenza dell’agire dialettico. Un influsso che si ottiene mescolando fonte e trasporto della comunicazione. È questo il punto che allora rappresenta il vero elemento da affrontare nella realtà delle contraddizioni operanti. L’influsso che si esercita sulla “percezione dell’apparire” è ormai elemento strutturale dell’agire culturale e politico, inimmaginabile ai tempi della vecchia “stampa e propaganda” anche nei più raffinati regimi totalitari.
Si tratta di provare a riflettere davvero in questa dimensione non soltanto sul piano teorico considerandolo l’elemento determinante dell’agire politico: una riflessione che rimane ancora tutta da elaborare, ma che non può che partire da una riaffermazione necessaria del valore dell’esercizio continuo dello “spirito critico” soprattutto rivolto verso il mutamento nelle forme della democrazia.

CALABRIA E CLASSI DIRIGENTI
di Vincenzo Rizzuto


 
Non è solo il Covid che ci angustia
 
Ma come si fa a non essere turbati, arrabbiati, ‘incazzati’ e sfiduciati non solo per tutto quello che sta succedendo in Italia e nel mondo a causa della pandemia, ma anche per quello che sta capitando ormai da decenni in Calabria, una regione che sembra davvero maledettamente lasciata alla deriva, ignorata da tutti i Governi, condannata ad essere rappresentata da una classe politica imbelle, dormiente e, nella maggior parte, fortemente compromessa, con ambienti spesso in ‘odore di santità’, come dimostrano le continue indagini giudiziarie, che si protraggono per decenni, senza soluzione di continuità, attraverso estenuanti andirivieni di richieste di condanna e di assoluzioni nei vari gangli della pubblica amministrazione e del privato. E uno dei settori più piagati dalla corruzione e dal malaffare è proprio la sanità, che in Calabria ormai è stata ridotta ad un colabrodo, ad un coacervo di interessi mille miglia lontani dal bene pubblico, dai bisogni della gente, che è lasciata spesso nella disperazione della solitudine e dell’abbandono.
La nostra sfortunata Calabria è poi caratterizzata da una fuga generalizzata delle giovani generazioni, una diaspora che la priva di qualsiasi speranza di rinnovamento e la condanna ad un coma irreversibile; in essa ormai, pur con la presenza di tre sedi universitarie, a Reggio, Catanzaro e Cosenza, nelle quali operano centinaia di studiosi e dalle quali escono altre centinaia di laureati, sembra quasi impossibile trovare energie e competenze in grado di impegnarsi nella gestione di una politica diversa, sana, propositiva di un nuovo corso; prova ne è che, ogni volta, per eleggere presidenti regionali, manager dei vari enti e ‘super commissari’, si ricorre a ‘forestieri’, a personaggi provenienti da fuori, salvo poi a decretarne, dopo qualche tempo, la inadeguatezza o addirittura la condanna con la interdizione dai pubblici uffici, come puntualmente è avvenuto in questi giorni per alcuni di essi.
Il fatto è che la vera colpa di quanto ci accade da ormai troppo tempo in buona parte è nostra, siamo noi che recandoci alle urne mandiamo a rappresentarci, dalle realtà locali al Parlamento nazionale, pochi uomini e molti ‘ominicchi e quaquaraquà’. E finché avverrà tutto questo, la nostra amata terra di Calabria sarà sempre derelitta.
Per oltre quarant’anni sono stato insieme ai giovani fra i banchi di scuola come docente ed ho sperato che da loro sarebbe venuta fuori una nuova realtà, ma non è avvenuto così, sono stato deluso e, dolorosamente, mi chiedo dove si è sbagliato anche da parte nostra.

mercoledì 24 febbraio 2021

IN RICORDO DI UN POETA
di Angelo Gaccione e Don Burness

Lawrence Ferlinghetti

Milano. Se n’è andato ieri alla veneranda e giovanissima età di 101 anni. Dico giovanissima perché i veri poeti restano sempre giovani, come il loro cuore, come la loro indistruttibile parola, come le loro idee se sono profonde e non conformiste. Il “romantico contestatore”, il pacifista, l’anarchico fedele ai suoi principi libertari ed alla letteratura, ha terminato la sua vicenda terrena. Lawrence Ferlinghetti è morto nella sua casa a San Francisco, dove da tantissimi anni ha animato la sua mitica libreria, la City Lights Bookstore, punto di riferimento di generazioni di poeti, di oppositori, di giovani alla ricerca di un ideale di società tollerante, pacifica, solidale. Una libreria impregnata di versi e di idee, di confronto e di stupore. Qui in Italia, dove Ferlinghetti veniva spesso, le televisioni se la sono cavata con una miserabile e asettica notizia in coda ai telegiornali. Non hanno sprecato una sola parola. Non ci scandalizziamo più di tanto: ci sono vite che fanno paura, mostrano agli apparati di potere e ad ampi pezzi di società la loro cattiva coscienza.
 
***

Ferlinghetti. Un ricordo di Don Burness


Ferlinghetti davanti alla sua libreria

Usa. La morte del poeta editore pittore Lawrence Ferlinghetti questa settimana segna la fine di una delle voci più significative d’America. Ferlinghetti (suo padre era bresciano) con la sprezzatura a metà del XX secolo ha portato la poesia al centro della scena della vita americana pur sapendo che il materialismo americano come dio, uccide il necessario senso di meraviglia e lirismo senza il quale la vita è piuttosto noiosa. Era il “Trombettista dei beatniks” che pubblicava “Urlo” di Ginsberg sconvolgendo gli sbandieratori puritani. È nato a Bronxville, New York, dove è sepolto Melville. Leggeva tantissimo. Lesse in gioventù come tutti noi che abbiamo molta fantasia i quattro romanzi di Thomas Wolfe del North Carolina e seguì Wolfe in Francia. Anch’io ho letto Wolfe e anch’io sono venuto a studiare in Europa. Era l’era del fare l’amore, non la guerra, l’era della protesta contro la guerra del Vietnam. Abbiamo letto tutti “A Coney Island of the Mind” di Ferlinghetti (questo prima che la televisione e gli idioti dei media viziassero la cultura). Ricordo di essere stato nel 1959 una matricola all’Università del Michigan e in inglese da matricola, quasi tutti gli studenti avevano letto Ginsberg, Wolfe, Ferlinghetti e James Baldwin. Ferlinghetti l’acrobata verbale ci ha intrattenuto e ci ha insegnato che la vita è amore, la vita è sesso, la vita è impegno per la giustizia sociale, la vita è buon vino. Mia moglie Mary-Lou ed io siamo figli della Beat Generation e la vitalità di quell’età è stata resa manifesta da Lawrence Ferlinghetti, che con lo slancio di Dario Fo ha dimostrato che la letteratura non era un mero esercizio accademico sterile.

FRANCO LOI POETA GRANDE E UMILE


Franco Loi e Federico Migliorati
nella casa del poeta a Milano
 
Era impossibile non voler bene a Franco Loi, il grande poeta milanese seppur di origini genovesi scomparso al principiar del nuovo anno. Uomo raffinatissimo, dalla cultura enciclopedica eppure sempre umile, una virtù rara al giorno d’oggi in cui l’io ipertrofico e l’altezzosità abbonda nel mondo intellettuale. No, Loi sapeva aprire la sua mente e il suo cuore a tutti parlando della sua passione-lavoro, certo, quella poesia che lo accompagnò per larga parte del Novecento facendone uno dei maggiori e certamente degli ultimi autori in versi del nostro tempo. Mi accolse in una fredda giornata di metà autunno, nel 2013: dal suo appartamento di viale Misurata il traffico era continuo, senza sosta, anche sotto la pioggia battente che picchiava sui vetri. Con l’amico editore Vittorio Zanetto, con cui sarebbe poi uscita l’intervista nel librino Conversazione con Franco Loi (Fondazione Zanetto) con la prefazione di Carla Boroni, l’accordo era chiaro: avremmo dovuto lasciarlo parlare a getto, senza interromperlo, ché troppo importante sarebbe stato il suo dire e ininfluente il nostro. E invece tutto finì rivoluzionato perché Loi, da grande umile come si diceva, volle sapere, si interessò alle nostre vite, ci chiese del generale e del particolare, si appassionò insomma a noi, come fossimo stati i veri protagonisti di quelle ore. Ecco perché raccogliere le sue testimonianze sul mondo della poesia fu semplice: non eravamo di fronte a un cattedratico inarrivabile e spocchioso che si trincerava dietro a social media manager o addetti stampa, ma ad un acuto osservatore della realtà che si prestava con generosità ad accogliere la nostra decisione, senza riserbo o resistenze. La sua lunga vita dispiegata tra i versi, in meneghino soprattutto, ci venne disegnata con acribia non lesinando i momenti più difficili, le scelte più ardue da compiere, gli ostacoli da superare nel corso di una vita densa, intensa e lunga: tutto in Loi dava la misura della compostezza pur essendo stato, in gioventù, uomo capace di prendere posizioni scomode per un intellettuale. Prima di andarcene volle farmi dono di alcuni librini di versi, che spesso dispensava agli amici più cari, preziosi cammei che custodisco gelosamente, purtroppo senza più poter contraccambiare. Franco Loi era un uomo perbene a cui l’Italia deve molto. Nell’intervista che segue si è cercato di ricostruire uno spaccato di storia personale che si è intersecata con quelle dei massimi esponenti del mondo culturale del tempo e che fornisce qualche cifra del percorso professionale del poeta milanese.


 
Franco Loi con Gaetano Capuano

Parlare con lei è un privilegio non foss’altro perché rappresenta uno degli ultimi grandi poeti viventi del nostro tempo. Non posso esimermi, dunque, dal chiederle innanzitutto quale sia oggi la popolarità della poesia, e quindi come si raffigura il futuro di questo genere letterario, che non gode certo di grande fortuna in tempi odierni.
 
Domanda semplice, ma a cui non è facile rispondere con poche parole. Il potere di ogni epoca e di ogni tipo di regime non ha mai sopportato né la poesia né la filosofia. Il motivo è chiaro: la parola dice sempre qualcosa che non può essere tollerato dall’ideologia dominante. Persino Carlo Marx fu lungimirante tanto da arrivare a sostenere che “un politico dovrebbe ascoltare gli artisti ed i poeti perché sono come il termometro del tempo… certo, il politico poi sarà costretto a mediare, ma avrà sempre presente la situazione reale del Paese”. Non è un caso che musica e pittura siano state invece meno perseguitate dai regimi di ogni epoca. Essendo materie espressive i cui canoni di comprensione sono invece noti a pochi, esse meno “traducibili” e leggibili e, pertanto, più tollerate. Del resto chi capisce la musica nei suoi valori espressivi? E chi può dire cosa esprima un volto o un paesaggio attraverso i colori o un disegno?
Importante per un potere è sempre tenere nell’ignoranza il popolo. Prova ne sia l’incultura e lo smercio di luoghi comuni delle televisioni, diventate oggi il vero strumento di diseducazione e coercizione di massa. Non bisogna però credere che coloro che scrivono poesie oggi siano pochi. Le posso assicurare che sono invece moltissimi. Soltanto che non hanno il privilegio di poter essere diffusi e conosciuti come oggetti di pubblicità. Certo, non tutti sono veri poeti e veri filosofi. Molti si mettono a scrivere imitando altri poeti o cercando di riprodurre ciò che si insegna nelle scuole, ancora ad imitazione degli scrittori del passato.  Ma sempre nella storia i veri poeti sono pochi: Pindaro, Omero, Lucrezio, Orazio, Virgilio, Dante, Leopardi, D’Annunzio, Pascoli, Teofilo Folengo, Ariosto, Tasso, Carlo Porta, Gioacchino Belli, Delio Tessa; per non parlare del Qoelet e tutti i versi della Bibbia.
In quanto al futuro, basta conoscere il passato per capire che la popolarità o meno della poesia varia nella storia appunto come mutano i poteri politici e le persone che li detengono. Dante, condannato all’esilio e poi al rogo nel 1300, soltanto alla fine del Settecento è tornato ad essere letto ed apprezzata; per non parlare di Teofilo Folengo e di suo fratello, imprigionati e accusati di eresia; e tutti sanno che Leopardi durante tutto l’Ottocento è stato considerato un pessimo poeta ed un mediocre filologo. A proposito di filosofi, tutti conosciamo la sorte di Socrate e le condanne di Giordano Bruno, di Tommaso Campanella e di Bernardino Telesio. Dunque possiamo dire che la sorte della poesia è come la sorte dell’uomo: varierà a seconda dei regimi e della partecipazione di un popolo alle sorti della cultura.

Franco Loi con la moglie

Come è nata in Lei la passione per la poesia, in particolare per la lingua milanese che connota gran parte della sua produzione letteraria?
 
Fin da bambino ho cercato di scrivere teatro. Leggevo i romanzi per bambini, e poi per ragazzi e costruivo sceneggiature. Mi capitava, per esempio, sotto gli occhi I tre moschettieri di Dumas? Bene, ne riassumevo le vicende in modo semplice; le ragazze facevano i costumi di carta e poi recitavamo nei cortili con tutta la gente che ci guardava dalle finestre.
Poi ho cominciato a scrivere racconti e a leggere romanzi: Guerra e Pace di Tolstoj, Martin Eden e Il tallone di ferro di Jack London, i romanzi di Verne, Moby Dick di Melville. Ho scritto anche un romanzo: Dal diario di una medaglia d’oro sulla vita di mio padre e sul lavoro in ferrovia. Poi nacque in me l’esigenza di tenere dei diari e proprio in riferimento a questi ultimi, recentemente, uno studente dell’Università di Vercelli, Alberto Sisti, ha preparato un libro voluminoso di circa 500 pagine per il suo dottorato.
Le mie prime poesie le ho scritte in italiano nei primi anni ’60. Ma, mentre le scrivevo, mi sono reso conto che non facevo che imitare i poeti che mi avevano insegnato a scuola: Leopardi, Pascoli, Petrarca, Foscolo. Così scrivevo e subito dopo stracciavo. È vero che in casa mia si parlava italiano e a scuola avevo imparato la lingua nazionale, ma era anche vero che ero sempre vissuto in ambienti popolari, che avevo attraverso un fatto tragico come la guerra e tutte le vicende dell’immigrazione a Milano e le prime esperienze di lavoro tra gente che parlava il milanese – persino i meridionali allora cercavano d’imparare la lingua che permetteva loro d’inserirsi meglio e più rapidamente nella società. Del resto, anche mio padre, nato a Cagliari, aveva imparato rapidamente il genovese con gli amici e i compagni di lavoro. Aggiunga poi la mia passione socialista ed i miei ideali populisti: per me era quasi ovvio parlare della città di Milano, delle mie esperienze e della gente che avevo conosciuto nella lingua con cui avevo vissuto quelle vicende.
Ci fu poi un altro avvenimento che mi portò dritto in braccio al dialetto meneghino. Era l’estate del ’65 e mi capitò tra le mani I sonetti del Belli: fu per me come un colpo di fulmine. La lingua romanesca, fino ad allora a me sconosciuta, mi sembrò analoga a quella milanese in quanto a ricchezza ed espressività. Era del resto capitata la stessa cosa al Belli che, venuto a Milano dopo la morte del Porta, aveva sentito recitare le sue poesie in casa di amici, e tornato a Roma decise di scrivere, lui arcade, nella lingua romanesca. Devo però aggiungere che non ho scritto soltanto in milanese. Ho usato il genovese di mio padre e quel che avevo memorizzato nella prima infanzia per le esperienze della città di Genova, e la lingua colornese di mia madre per i periodi passati nella casa di mia nonna e dei miei zii. La mia è stata un’adesione ai luoghi ed alla gente della mia vita. Voglio dire che, per il milanese, non si è trattato nemmeno di una scelta, ma, come ha scritto Franco Brevini, “non è Loi che ha scelto il milanese, ma è il milanese che ha scelto Loi”.


 
Lei accompagna sempre i suoi libri con delle traduzioni in italiano, però non vuole chiamarle così. Ci spiega perché?
 
Anche qui lei tocca un punto dolens, perché, purtroppo, ogni poesia nasce orale e persino la stampa è già una traduzione, giacché non si possono sentire le sensazioni e le emozioni della voce del poeta. Le faccio un semplice esempio: ci sono parole che dette in un certo modo possono voler dire una cosa e con un’altra tonalità hanno un significato esattamente contrario. Nell’800, un critico francese scrisse che “tradurre è tradire”, Franco Fortini lo ripeteva sempre. Io preferisco parlare di “didascalia”, proprio come per le fotografie o per i quadri. Soprattutto in Italia è necessario che chi ascolta si renda conto che ciò che sta leggendo non è la poesia, perché noi abbiamo imparato una lingua inventata attraverso i significati e quindi prestiamo ascolto soprattutto a questi ultimi. Spesso, quando vado all’estero – in Irlanda o in Olanda o in Spagna – leggo direttamente in milanese e la gente ascolta la musica e l’emozione del dire. In Italia sono invece costretto a leggere prima le traduzioni o didascalie. All’isola di Tinos due o tre anni fa, ho letto mie poesie in una piazza e la gente greca seduta ai tavoli del caffè o attorno al platano al centro della piazza si è entusiasmata al solo ascolto del milanese. E sa perché? Semplice: in Grecia la lingua nazionale è di estrazione popolare e non rappresenta, invece, un idioma artificiale che si è imposto nelle scuole. Quando ero studente ogni parola dialettale veniva considerata un errore, senza rendersi conto che i dialetti sono la fonte primaria di ogni lingua nazionale. Ha scritto Dante Alighieri nel De vulgari eloquentia: “Diciamo che parlar vulgare s’intende quello nel quale son fatti esperti i fanciulli da’ lor circostanti, quando incominciano da prima a distinguere i suoni; v’è bensì un altro parlare che i Romani disser grammatica (si riferisce al latino) di questi due parlari è dunque più nobile il vulgare, come quello che prima fu usato dal genere umano”.
 
È in Mondadori che lei è venuto in contatto con alcuni dei più famosi protagonisti del mondo letterario, a partire da un tal Vittorio Sereni, l’ideatore, assieme a Giansiro Ferrata (che ne fu il primo direttore), dei Meridiani, la più importante e prestigiosa collana letteraria italiana, con il quale ha intessuto un rapporto proficuo e duraturo interrotto solo nel 1983 alla morte di questi. Ce ne vuole parlare?
 
Beh, ero all’Ufficio stampa, quindi moltissimi sono stati gli incontri con autori italiani e stranieri. Non so se è il caso di farne l’elenco, ma posso citarne qualcuno: Hemingway, Jack Kerouac, Ungaretti, tanto per fare qualche nome.
Con Vittorio Sereni il mio primo incontro avvenne al Centre d’etude français, ma fu ancora lui, direttore letterario della Mondadori, a sostenere il mio colloquio per l’assunzione. A lui devo molto: le prime pubblicazione di poesie, la successiva collaborazione esterna con Mondadori e, soprattutto, il grande rapporto di amicizia e di stima che è sempre rimasto fino alla fine. Ne ho parlato in parecchie interviste.
Un altro protagonista indiscusso delle lettere fu Franco Fortini che ho conosciuto perché fu lui a chiedere a Einaudi di scrivere la prefazione a Strolegh. Fortini era uomo di grande cultura e con lui ho avuto un rapporto non sempre facile ma molto intenso da un punto di vista culturale.
Vittorini l’avevo già conosciuto per altre ragioni, di cui ho parlato nella mia biografia: Da bambino in cielo. Mi sia consentito un breve ricordo personale di Giancarlo Vigorelli, perché anche a lui devo molto: m’invitò a collaborare alla sua Rivista Europea, mi propose perfino di dirigerla quando persi il lavoro con la Mondadori nell’83 ed io rifiutai, mi fece conoscere Mino Martinazzoli, allora ministro dell’Interno quando fui arrestato a Venezia per ragioni politiche.

Il funerale del poeta

Che cos’è, dunque, per lei la poesia?
 
Ne ho scritto tante volte, ma è sempre bene ripeterlo: la mia esperienza della poesia coincide con ciò che è stato detto da Dante nel Purgatorio in risposta a Bonagiunta Orbicciani: “I’ mi son un che quando amor mi spira, noto e a quel modo ch’ei ditta dentro vo significando”, che va chiarito così: “Io sono uno a me stesso e quando sono mosso da amore, cioè da emozione, ascolto e prendo nota, e a quel modo che il mio inconscio detta dentro io vado esprimendo con segni di lingua e di cultura. Concetto che è stato espresso da ogni grande poeta, a cominciare da Pindaro e da Petrarca per finire con Pascoli, quando parla del “fanciullino”. Persino un filosofo, Benedetto Croce, ha scritto: “Nel filosofo accade il medesimo che nel poeta… non è lui che filosofa, ma Dio o la natura… Anzi, dirò di più, è la cosa che pensa sé stessa in lui”. E la mia esperienza mi ha confermato la stessa cosa: è nella profondità e vastità di conoscenze dell’inconscio che si manifesta la poesia, e si manifesta come ritmo e suono. Si può dire che la poesia sia come un sogno: si esterna qualcosa che non è comprensibile all’ego cosciente: infatti l’esperienza personale ne esce in modo completamente diverso da come la nostra mente l’ha memorizzata. Quindi la poesia è l’espressione più profonda e reale della nostra esperienza vivente.
Certo che occorre cultura e sapienza. Ma come sostengo da tempo sia la tecnica che la consapevolezza ci rendono liberi di ascoltare il nostro inconscio senza esserne travolti. Senza la conoscenza di sé stessi c’è il pericolo di essere travolti.
La poesia è libertà e rivelazione. Ha scritto Petrarca: “La poesia, in quanto vera poesia, è sempre sacra scrittura”. Quella sacra scrittura che anche Loi ha reso tale offrendoci un esempio di cultore e creatore di una parola alta e preziosa.
 
[Conversazione raccolta da Federico Migliorati]
 

 

  

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