I GUAI DI MILANO
di Jacopo Gardella
Una analisi impietosa sulla
Milano contemporanea
dell’architetto e
urbanista Jacopo Gardella.
Jacopo Gardella |
Milano rinata? Solo in
apparenza.
Da un po' di tempo, in
seguito alla chiusura dell’EXPO 2015, corre la voce che Milano si sia
risvegliata, abbia ripreso a vivere con più vigore sia in ambito commerciale
che culturale. In realtà il commercio langue, come dimostra la chiusura di
molti negozi, se si escludono i negozi di commestibili, sempre gli ultimi a
cessare la loro irrinunciabile attività; e langue anche la cultura come
dimostra la fine di molte librerie dopo anni di glorioso servizio informativo e
culturale.
Se
soltanto si fa un esame obiettivo della attuale situazione questa ottimistica
ma illusoria voce occorre avere il coraggio di smentirla.
È
bensì vero che alcune grandi istituzioni tradizionali della nostra città, come
il Teatro alla Scala, il Piccolo Teatro, le mostre d’arte, e poche altre
iniziative, continuano a proporre spettacoli o manifestazioni di grande
interesse e di grande successo anche se non sempre di grande qualità. È vero
che le “Gallerie d’Arte” presentano periodicamente mostre eccellenti dedicate a
movimenti artistici tanto del passato quanto del presente; ed è vero che il
“Museo del Novecento” o il “Palazzo Reale” hanno offerto ai milanesi
esposizioni di indubbia qualità e di straordinario valore, come pure numerose
gallerie private di importanza minore.
Tutto
ciò è vero ma non basta a riscattare l’Amministrazione Comunale dalla
insufficiente e spesso deludente gestione della intera città. Vediamone alcuni
esempi.
Traffico urbano: grave
il mancato collegamento tra centro
e periferia
Il
traffico urbano in una città è vitale come la circolazione del sangue in un
organismo vivente. Se manca l’afflusso del sangue negli organi periferici del
corpo questi incancreniscono così come si degradano i quartieri periferici di
una città se manca il collegamento con il resto dell’abitato. Qualsiasi
iniziativa volta a portare in periferia occasioni di vita e di animazione si
rivela inutile e buttata al vento se contemporaneamente non si provvede ad assicurare
ai quartieri periferici una efficiente comunicazione con gli altri quartieri e
con il centro città. Molte famiglie, soprattutto se formate anche da bambini
piccoli, sarebbero contente di vivere in una periferia dotata di larghi spazi e
di molto verde se soltanto potessero essere collegate con il centro città da
una rete di trasporti veloci, frequenti, e funzionanti con continuità anche
nelle ore notturne.
Il
centro città ha un fascino intenso, inspiegabile, costante. Lo dimostrano le
folle di passanti che si radunano nelle vie del centro durante le giornate di
festa. Vengono da luoghi lontani, superano distanze notevoli, impiegano tempi
lunghi per spostarsi, ma tutta la loro fatica viene superata dal desiderio di
trovarsi nel centro della città e di partecipare allo spettacolo di una folla
riunita. Guardano i negozi, ammirano le vetrine, entrano nei bar, osservano i
vestiti, commentano le mode, vanno al cinema ed a teatro, danzano nei locali di
ritrovo, si animano e si eccitano perché sentono di appartenere ad una comunità
di persone uguali ed unite da stesse aspirazioni e da soddisfazioni simili.
Se
a questa larga fascia di abitanti provenienti dalla periferia o dai dintorni
extraurbani si offre la possibilità di raggiungere facilmente il centro città
essi non avranno più la sensazione di sentirsi isolati, dimenticati,
emarginati. Una rete di comunicazioni veloci, costanti e funzionanti anche
nelle ore serali, è il primo servizio che occorre assicurare a chi vive lontano
dal centro ma vuole partecipare alla vita del centro. I progetti di
rigenerazione delle periferie proposti dall’arch. Renzo Piano e ideati allo
scopo di conferire una dignità sociale ed ambientale a tante desolate e tristi
periferie sono pieni di buone intenzioni ma destinate a fallire se non
accompagnate da un efficiente servizio di trasporto pubblico che colleghi le
aree periferiche alle zone centrali.
Trasporti di Milano
soddisfacenti? Quale immensa ingenuità!
Si
sente spesso ripetere, in tono quasi meccanico, che il traffico a Milano è
molto superiore a quello di altre città italiane. Affermazione che prima di
essere inesatta è anche ingenua. Certo, se si paragona il traffico di Milano a
quello di Roma o di Napoli non vi è dubbio che esso appaia di molto superiore;
ma se lo si paragona a quello di molte città nord-europee paragonabili a Milano
per dimensione ed importanza, allora la inferiorità del traffico milanese si
manifesta inequivocabile.
Sarebbe
come se un insegnante scolastico facesse notare ai suoi allievi la modesta
preparazione di una classe alquanto peggiore della sua e si compiacesse della
superiorità ottenuta da lui e raggiunta dai suoi allievi. Quale immensa
ingenuità! Il suo dovere avrebbe dovuto essere l’opposto: indicare ai suoi
allievi non una classe peggiore ma una classe molto migliore della sua ed
invitarli a fare di tutto per imitarla e raggiungerla. Soltanto dopo aver fatto
un analogo paragone si potrà dire che i trasporti di Milano sono superiori e
veramente soddisfacenti.
L’inefficienza
dei trasporti pubblici milanesi è generale e si manifesta sia nei trasporti in
superficie sia in quelli di sottosuolo.
Trasporti in superficie:
troppo poco frequenti.
È
riconosciuto da quanti fanno uso dei mezzi di superficie (tram, filobus,
corriere) che la frequenza delle corse è inadeguata ad una metropoli
internazionale. Il numero delle corse, anche in orario di lavoro, è troppo
basso; di sera diventa poi talmente dilazionato da obbligare ad attese indegne
di una città che ha più di un milione di abitanti. Fanno eccezione i filobus n.
94 della circolare interna (cerchia dei Navigli) che passerebbero con
regolarità accettabile se non fossero ostacolati dalla affluenza di auto
private addensate sullo stesso loro percorso; e se non dovessero serpeggiare
fra le recinzioni e le attrezzature di cantieri installate per la costruzione
della nuova linea metropolitana.
Nelle
metropoli europee la frequenza delle corse nelle ore di lavoro si aggira sui
3-5 minuti; a Milano si è costretti ad aspettare un tempo che è più del doppio.
Foto: Giuseppe Denti |
I guasti della linea M4:
strade ingombre, alberi abbattuti
Può
essere utile fare qui una digressione e segnalare le incongruenze dei cantieri
distribuiti lungo quasi tutto il percorso della nuova linea, la M4 blu, sia
nelle zone centrali (via Francesco Sforza, via Santa Sofia, via Molino delle
Armi); sia nelle zone periferiche (via Lorenteggio, Piazza Frattini, via
Foppa). Nei tratti centrali ci si domanda perché debbono essere occupati dai
cantieri interi tratti di strada di lunghezza non comprensibile e non giustificata.
Nei tratti periferici ci si stupisce ed indigna nel vedere abbattuti lunghi
filari di alberi d’alto fusto, frondosi e rigogliosi, antidoto utilissimo ad
abbassare l’inquinamento atmosferico della intera zona. Sorge un dubbio poco
lusinghiero per la nostra Amministrazione. Forse il Comune ha concordato con le
imprese esecutrici dei lavori una operazione certamente più economica perché
realizzata per lunghi tratti mediante scavi a cielo aperto e senza uso di
escavatrici sotterranee. Gli scavi sotterranei, si sa, sono più costosi perché
richiedono la estrazione del materiale di scavo, ma sono anche molto meno
invadenti e quindi meno disagevoli per il traffico in superficie; soprattutto
sono meno inquinanti perché sollevano meno polvere e non obbligano
all’abbattimento di alberi secolari e preziosi per la salubrità dell’aria. Il
Comune potrà vantare di avere realizzato la nuova linea avendo ottenuto costi
inferiori e contenuto le spese, ma dovrà rammaricarsi profondamente di aver
inflitto ai cittadini un disagio pesantissimo, difficile da calcolare ma
certamente gravoso, iniquo, ed offensivo per molte categorie di persone
inutilmente e immeritatamente danneggiate: negozianti costretti a chiudere i
loro esercizi; abitanti costretti a vivere in mezzo a nuvole di polvere e
frastuono di macchinari; automobilisti privati, taxi pubblici, autobus
municipali, tutti indistintamente costretti a rallentare quando incontrano
strettoie provocate dalle ingombranti installazioni di cantieri. I disagi sono
sotto gli occhi di tutti: code lunghe e lente nei tratti di larghezza ridotta,
appena sufficiente al passaggio di un veicolo alla volta; tempi allungati,
ritardi imprevisti, fermate improvvise. Il tutto peggiorato dall’aver
rinunciato ad imporre alle imprese costruttrici un orario di lavoro continuato,
di durata pari a ventiquattro ore su ventiquattro, e quindi dall’avere
obbligato tutta la città a sopportare una complessiva durata dei lavori tre
volte più lunga del necessario. Non è questo il comportamento di un Comune che
voglia prendersi cura del benessere e della salute dei suoi abitanti.
Quando
una metropolitana passa al di sotto di isolati interamente costruiti non
demolisce le costruzioni soprastanti ma scende al di sotto delle cantine, delle
fondazioni e delle eventuali palificazioni. Ci si domanda allora perché non si
è proceduto allo stesso modo? Perché non si è lavorato al di sotto della
superficie stradale lasciando la via interamente percorribile e libera per la
intera durata dei lavori? Solo poche aperture e alquanto distanziate sarebbero
state sufficienti per estrarre il materiale di scavo: il rimanente percorso
della linea metropolitana si sarebbe svolto interamente interrato e non avrebbe
causato nessun disagio alla circolazione dei veicoli, alle attività della
città, alla salute dei cittadini.
Foto: Stefano Merlini Bejart |
Trasporti in sottosuolo:
errori passati ed errori futuri.
Ai
disagi provocati in superficie da una carente e sconsiderata impostazione dei
lavori vanno aggiunti sia gli errori già commessi nella esecuzione delle precedenti
linee metropolitane, sia gli errori in procinto di essere commessi nella
progettazione delle linee future.
La
metropolitana milanese è partita male già da quando era comparsa poco dopo la
metà del secolo scorso. Un primo grave e fondamentale errore è stato commesso
quando si è avviata la realizzazione della prima linea, la M1 rossa, senza
prima avere preparato un Piano Generale della intera rete e senza avere steso
un programma della sua progressiva attuazione nel corso degli anni futuri. Ciò
avrebbe permesso di valutare meglio la priorità da assegnare alle singole linee
e di verificare se persistevano le condizioni che inizialmente erano valide o
se erano subentrati cambiamenti o impreviste necessità che avrebbero costretto
ad introdurre modifiche nel Piano Generale della intera rete.
I
milanesi non sono mai stati informati dei criteri con cui veniva aperta una
nuova linea e quindi non hanno mai saputo in anticipo quale parte della città
era in procinto di essere servita. Non fornire pubblicamente le necessarie
informazioni è una colpa grave da parte del Comune nei confronti dei cittadini;
tenerli all’oscuro di interventi tanto importanti è una pesante offesa alla
loro dignità di abitanti e di contribuenti.
Un
secondo errore è consistito nell’avere sdoppiato il percorso della linea rossa
M1; dopo la stazione di Pagano la linea si biforca e corre verso due direzioni
diverse: una va a Bisceglie, l’altra a Rho. Ciò significa dimezzare in entrambe
quelle due direzioni il numero delle corse e quindi raddoppiare i tempi di
attesa fra una corsa e l’altra. Ci si domanda allora per quale ragione
penalizzare le due zone di Milano collocate al di là della stazione Pagano.
L’inconveniente si fa sentire oggi in modo ancora più grave dal momento che
l’apertura della Nuova Fiera Campionaria nei pressi di Rho ha aumentato
sensibilmente il flusso dei viaggiatori attratti in quantità sempre maggiore
dal calendario di mostre che si susseguono lungo tutto il corso dell’anno.
Paradossalmente proprio là dove aumenterà il numero dei viaggiatori diminuisce
il numero delle corse! L’errore è stato ripetuto di nuovo nella linea
metropolitana verde, la M2. Arrivata alla periferia nord-est di Milano la linea
si sdoppia e prende due direzioni diverse: una va a Cologno Nord l’altra a
Gessate. Anche in questo caso i viaggiatori che si servono delle due linee
vengono penalizzati perché in entrambe la frequenza delle corse viene
dimezzata. Di fronte a questo ripetuto errore i progettisti della Metropolitana
Milanese sono da biasimare perché recidivi.
Le
malefatte tuttavia non terminano ancora. La linea viola, o linea M5, ancora da
ultimare, verrà prolungata in direzione nord fino a raggiungere e superare il
capolinea della linea rossa, la M1, e proseguirà oltre il centro di Monza per
servire anche il Parco della Villa Reale. Non si capisce perché non si sia
fatto proseguire fino al Parco la iniziale linea rossa M1permettendo in tal
modo di arrivare in meno di venti minuti di viaggio continuo dal centro di
Milano al centro dello straordinario complesso monumentale-naturalistico del
Parco di Monza. Ora invece per arrivare al Parco si è costretti ad un assurdo e
disagevole cambiamento di treno: arrivati al capolinea della M1 si scende dalle
vetture, si attende l’arrivo di un treno della linea lilla M5, si sale sulle
vetture e finalmente si arriva al Parco. Il viaggio viene inutilmente allungato
come minimo di circa 15 minuti; ed il disagio viene sensibilmente aumentato per
le persone anziane, per le madri con carrozzella, per chiunque sia caricato di
pesi ingenti o di bagagli faticosi da trasportare.
Foto: Archivio Odissea |
Milano città
radiocentrica: mancano linee radiali e linee circolari.
Per
le future linee di cui è prevista la esecuzione va anteposta una considerazione
relativa alla forma della città. Milano è una città dalla planimetria
radiocentrica. Le sue principali strade storiche sono di due tipi: o provengono
dalla periferia e vanno verso il centro; o si svolgono in cerchi concentrici
che diventano sempre più grandi man mano che ci si allontana dal centro. In un
caso o nell’altro il tracciato delle linee metropolitane avrebbe dovuto seguire
lo schema delle strade. Questo schema è stato seguito solo in parte nelle tre
linee fino ad oggi eseguite (M1, M2, M3); mentre nella linea che è ancora in
corso di esecuzione, la M4 blu, è stato commesso un grave errore nella scelta
dell’itinerario: è stata occupata una considerevole porzione della Cerchia dei
Navigli interni; e così si impedirà in futuro il completamento di questa
Cerchia perché sarà impossibile realizzare una circolare sotterranea continua,
in sostituzione della attuale circolare in superficie percorsa dall’autobus 94.
Se
si possedesse un quadro generale della futura rete metropolitana si potrebbe
prevedere una seconda linea circolare sotto il perimetro delle mura Spagnole (i
Bastioni) oggi servita da un lentissimo tram circolare; ed infine una terza
linea circolare sarebbe necessaria sotto i viali periferici esterni oggi
percorsi dai filobus 90 e 91.
In
una città di forma radiocentrica come è Milano le linee di circonvallazione
sono indispensabili e andrebbero programmate fra le prime; esse infatti,
intersecando tutte le linee radiali e quindi incrociando anche quelle dirette
nel luogo dove si vuole arrivare, permettono di raggiungere qualsiasi località
cittadina anche se collocata molto lontana dalla stazione di partenza.
Nella
rete metropolitana milanese non avere ancora previsto un sistema coordinato di
linee radiali e di linee circolari è una grave mancanza; ed è la conseguenza di
non avere predisposto fin dall’inizio dei lavori un Piano Generale di sviluppo
della futura rete.
Foto: Angelo Cremonesi |
Quante zone di Milano
non ancora servite dalla metropolitana!
Milano
è una città che per ora non è servita adeguatamente dalla sua attuale rete
metropolitana: vi sono molte zone abitate della città non ancora raggiungibili
facilmente o non raggiungibili del tutto. Vi sono luoghi civici di importanza
primaria ai quali ancora non si può arrivare se non con lenti e poco frequenti
mezzi di superficie; ed inoltre la assenza di un Piano generale ha impedito di
prevedere come prolungare ben oltre i confini dell’abitato sia le linee
esistenti sia quelle future in modo da supplire in parte alla insufficiente
Rete Ferroviaria Regionale.
a) Mancano molte linee
metropolitane lungo le principali direttrici radiali delle quali si fa qui di
seguito un elenco sommario e solo indicativo; esse sono le seguenti a partire
dalla periferia Nord di Milano girando in senso orario:
Da
Piazzale Maciachini, Via Valassina, Via Ornato, Via Vittorio Veneto, capolinea
Cusano Milanino;
Da
Piazzale Loreto, Viale Padova, Via Rombon, Via Fratelli Cervi, capolinea Cusano
Milanino;
Da
Piazza San Babila, Corso Monforte, Corso Indipendenza, Viale Argonne, Via
Tucidide, Via Corelli, capolinea Centro Sportino “Saini” (Parco Forlanini);
Da
Piazza Missori, Via Larga, Corso di Porta Vittoria (Palazzo di Giustizia), Via
Spartaco, Piazza Insubria, Via Bonfadini, capolinea Ponte Lambro;
Da
Crocetta, Corso di Porta Vigentina, Via Ripamonti (Istituto I.E.O.), capolinea
Noverasco;
Da
Piazza Missori, Corso Italia, Via Gianbologna, Via Pezzotti, capolinea Piazza
Agrippa;
Da
Piazza del Duomo, Via Torino, Corso di Porta Ticinese, via San Gottardo, Via
Meda, Via Montegani, Via Missaglia, capolinea Rozzano;
Da
Stazione Porta Genova, strada Alzaia Naviglio Grande, capolinea Corsico;
Da
Piazzale Cadorna, Corso Magenta, Corso Vercelli, Via Sardegna, Via Soderini,
Via Kuliscioff, Via Benozzo Gozzoli, Via Cividale del Friuli, Viale Forze
Armate, capolinea Bisceglie;
Da
Piazza Wagner, Via Rubens, Via Novara, capolinea Bosco in Città;
Da
Piazza Cadorna, Via Monti, Largo Domodossola, Via Gattamelata, Viale Espinasse,
Via Grassi, capolinea Ospedale “Sacco”;
Da
Piazza Cadorna, Via Canova, Corso Sempione, capolinea Cimitero Maggiore
(Musocco);
Foto: archivio Odissea |
Da
Stazione Garibaldi, Via Pepe, Via Valtellina, Piazza Maciachini, Viale Jenner,
Via Maffucci, capolinea Affori.
b) Manca ancora una linea
metropolitana che raggiunge i principali Ospedali cittadini: Ospedale di
Niguarda che verrà servito soltanto fra qualche anno, Ospedale Sacco, Istituto
Europeo di Oncologia (I.E.O.), Ospedale San Carlo, Ospedale San Raffaele oggi
servito soltanto da una linea indiretta, Ospedale San Paolo, Ospedale Pio X,
Ospedale Sacra Famiglia, Casa di Cura Villa Turro, Ospedale San Camillo,
Ospedale Bassini nel Parco di Bresso, Ospedale San Luca, ed alcuni altri
ancora.
c) Manca ancora una linea
metropolitana che raggiunga i principali luoghi amministrativi o centri
commerciali o Istituzioni Pubbliche: Municipio e Palazzo Marino, Palazzo di
Giustizia, Mercati Generali, Cimitero Maggiore, Cimitero Monumentale, Palazzo
della Triennale, Teatro alla Scala.
Foto: Angelo Cremonesi |
Teatro alla Scala:
disagevole da raggiungere.
La
mancanza di una fermata davanti a questo Teatro famoso in tutto il mondo è un
errore non solo irrimediabile ma anche imperdonabile. La linea gialla M3 passa
sotto l’ingresso del Teatro ma paradossalmente qui non si ferma. Il Teatro
rimane perciò sprovvisto di una propria fermata la quale servirebbe oltre che
all’ingresso degli spettatori anche all’accesso dei cittadini agli importanti
palazzi civici presenti nella omonima Piazza antistante. Eppure lo slargo che
si apre a sinistra del Teatro avrebbe accolto comodamente scale ed ascensore di
collegamento con la sottostante stazione della metropolitana. Oggi per
raggiungere il Teatro occorre scendere nelle non vicinissime fermate del Duomo
e di Cordusio. Nelle serate di maltempo le signore in abito da sera sono
costrette ad affrontare pioggia e neve per coprire la considerevole distanza
compresa tra il Teatro e queste due stazioni.
A
quanti credono di poter giustificare la mancata fermata in Piazza della Scala
adducendo la immediata vicinanza delle fermate Duomo e Cordusio si risponde che
nei centri civici, commerciali e culturali delle capitali europee le fermate
sono collocate a breve distanza le une dalle altre. Nel Centro Storico di
Londra, lungo Oxford Street, vi sono quattro fermate vicinissime tra loro. Ciò
è del tutto comprensibile se si considera il maggiore affollamento che si
verifica nelle zone centrali delle città.
La
distanza fra le singole fermate non è una misura costante da applicare
uniformemente lungo l’intero percorso della linea, ma è una misura variabile da
calcolare in funzione del diverso affollamento di viaggiatori e del numero
variabile di funzioni civiche presenti nei vari punti del percorso.
In
Piazza della Scala le funzioni civiche sono numerose e tutte richiederebbero
una specifica ed indispensabile fermata della linea metropolitana; ma la
fermata è stata dimenticata!
Foto: Stefano Merlini Bejart |
Riprendendo
l’elenco delle linee ancora da realizzare occorre aggiungere che, fatta
eccezione per l’ippodromo e lo stadio San Siro raggiungibili soltanto da poco
tempo con la linea lilla M5, non sono ancora serviti dalla metropolitana i
seguenti centri sportivi: Centro sportivo Giuriati, Centro sportivo XXV Aprile,
Centro sportivo Kennedy, Centro sportivo Colombo, Centro sportino “Saini”.
1.Manca inoltre un
collegamento con l’aeroporto internazionale di Linate (sarà pronto fra qualche
anno) e con l’aeroporto secondario di Bresso.
2.Mancano collegamenti con
molti parchi cittadini: Bosco in città, Parco di Trenno, Parco delle Cave,
Parco della Barona, Parco Travaglio, Parco della Resistenza, Parco di Cava
Bergo, Parco di Bruzzano, Parco della Goccia (Bovisa); ed infine, come già
osservato, manca un collegamento diretto con il Parco di Monza, un complesso
paesaggistico monumentale tra i più spettacolari d’Europa, oggi gravemente
(vergognosamente!) mutilato dalla devastante presenza dell’Autodromo.
Foto: Giuseppe Denti |
Parco di Monza: un
paesaggio da riscattare.
La
ottusità becera ed il campanilismo degli abitanti di Monza, gli interessi grevi
ed arroganti del mondo che ruota intorno alle gare di Formula Uno, impediscono
di spostare di qualche chilometro il circuito dell’autodromo e di ricostruirlo
identico nella campagna circostante. L’attuale autodromo è uno scempio inferto
all’ambiente naturale; esso provoca un incalcolabile danno turistico con
conseguenze non solo locali ma anche internazionali; mutila il grandioso
paesaggio che circonda lo splendido Palazzo Reale; nasconde molte architetture
rustiche in gran parte sconosciute benché a suo tempo fossero complementari
alle funzioni originali del Parco che erano anche agricole oltre che
ricreative.
Foto: S. Merlini Bejart Piazza del Duomo negli anni Settanta |
3.Concludendo l’elenco
delle linee ancora da realizzare occorre aggiungere che mancano collegamenti
con famosi complessi storico-monumentali poco lontani dalla zona abitata:
Abbazia di Chiaravalle, Abbazia di Mirasole, Abbazia di Viboldone, Certosa di
Garegnano. Non esiste neppure la possibilità di raggiungere queste preziose
mete artistiche con un regolare servizio turistico di corriere o di taxi a
prezzi ridotti.
La
integrazione del servizio pubblico con una organizzazione di trasporto privato
dovrebbe diventare una formula da mettere in programma e da adottare sempre per
consentire l’accesso a luoghi altrimenti difficili da raggiungere.
Come
si vede dagli elenchi disposti qui sopra è enorme il numero di località non
servite dalla metropolitana; strade importanti e centri di ritrovo, di
commercio, di affari, di servizi civici sono ancora sprovvisti di una stazione.
L’inerzia delle passate Amministrazioni si sta rivelando pesantemente nociva.
Foto: Angelo Cremonesi |
Taxi:
Abbondano
quando non richiesti, mancano nei monumenti di bisogno.
A
volte durante il giorno si vedono lunghe file di taxi fermi ai posteggi in
attesa di essere presi o chiamati. Si prova per loro un sentimento di pena e di
solidarietà pensando ai lunghi momenti di inattività e di mancato guadagno. A
volte al contrario, nelle ore di punta, e nelle giornate di pioggia, si è
costretti ad aspettare tempi interminabili per riuscire a trovare un taxi
libero. Si prova allora un sentimento di rabbia e di sdegno di fronte al grave
disagio causato dalla disfunzione di un servizio istituito per rispondere con
urgenza alle necessità dei cittadini.
L’inconveniente
si protrae ormai da anni ma nessuno reagisce, nessuno protesta, nessuno propone
e cerca un rimedio. Non la Stampa cittadina, non le rappresentanze volontarie
della popolazione, non i Comitati di Zona, e men che meno - figuriamoci! - il
sempre assente, non vedente, inetto Comune di Milano. Eppure non sarebbe
difficile trovare un rimedio. Anzitutto aumentare il numero dei taxi in
circolazione facendo pagare agli UBER l’equivalente della licenza versata a suo
tempo dai taxi regolarmente autorizzati. In secondo luogo creare un gemellaggio
tra Assessore al Traffico e categoria dei taxisti e concordare con questi
ultimi una loro prestazione a prezzi convenuti e minori degli attuali affinché
diventino accessibili anche ai cittadini meno abbienti. L’accordo con i
conduttori di taxi converrebbe al Comune perché eviterebbe la acquisizione
alquanto costosa di nuove vetture, la assunzione di nuovo personale viaggiante,
la ricerca di nuovi addetti alla manutenzione del materiale rotabile.
Converrebbe anche agli stessi conduttori di taxi perché assicurerebbe a tutti
loro un introito costante e sicuro in compenso di un determinato numero di ore
messe al servizio della Azienda Trasporti Municipali.
Ogni
conduttore di taxi avrebbe libera per suo uso privato una frazione di ore
giornaliere, mentre la rimanente frazione sarebbe impiegata a potenziare il
trasporto pubblico in compenso di una retribuzione elargita dal Comune in modo
equo sia per i prestatori del servizio, cioè i taxisti, sia per gli utenti,
cioè i cittadini anche meno facoltosi.
L’accordo
sarebbe equivalente alla parziale privatizzazione di una attività pubblica e
conseguirebbe il triplice obiettivo di migliorare il servizio municipale, di
assicurare un margine di sicuro guadagno giornaliero per i conduttori di taxi,
di abbassare gli attuali costi delle corse in auto pubbliche ancora proibitive
per gran parte dei cittadini.
È
paradossale che proprio la nostra epoca, l’età dell’automobile, non sia capace
di cogliere tutti i vantaggi offerti dall’automobile, il mezzo di trasporto più
popolare; e non sappia usare l’automobile, questo mezzo di diffusione
universale, per aiutare a risolvere i problemi del trasporto urbano.
Ingresso in città
concesso solo ai residenti.
In
futuro le città saranno costrette a ridurre l’uso dell’auto privata; potranno
concederne l’impiego soltanto ai residenti in città; dovranno vietarne
l’ingresso nella zona abitata a quanti arrivano da località esterne.
Esiste
un diffuso pregiudizio che è convinto sia radicato negli Italiani un
appassionato attaccamento all’automobile, un insopprimibile desiderio di
possederla, un irrinunciabile piacere di guidarla. Niente di più falso. Se vi
fossero servizi di trasporto pubblico veramente efficienti (oggi sono ben
lontani dall’esserlo) quanto automobilisti sarebbero contenti di non fare più
lunghe attese ai semafori, lunghe code agli incroci, lunghe ricerche di
posteggio! Quanti si servirebbero con soddisfazione di trasporti pubblici sia
in superfice che in sottosuolo!
La
riduzione delle automobili in circolazione all’interno dell’abitato dovrebbe
consentire una migliore utilizzazione delle lunghe ingombranti vetture
tramviarie dette jumbo: oggi esse viaggiano mezze vuote e quindi poco sfruttate;
domani diventeranno utilissimi mezzi di trasporto simultaneo per grossi
quantitativi di viaggiatori quando finalmente a questi verrà proibito di usare
nella zona centrale della città la propria auto personale.
Foto: S. Merlini Bejart "Vecchia Milano" |
Vigili: dove sono
scomparsi?
Come
aveva constatato a suo tempo lo scrittore Pier Paolo Pasolini le lucciole sono
scomparse, non si vedono più lampeggiare nei prati di campagna e nei giardini
di città. Allo stesso modo come possono constatare gli abitanti di Milano i
vigili sono scomparsi, non si vedono più presidiare i principali incroci, i
nodi di traffico più intenso, i luoghi urbani più affollati.
Si
è creduto erroneamente che la installazione di semafori ad ogni crocevia e la
collocazione di televisioni nei tratti soggetti a divieti fosse sufficiente a
garantire il fluire ordinato del traffico e quindi a giustificare la abolizione
dei vigili di servizio nelle strade. Niente di più sbagliato. I semafori
scandiscono i tempi e regolano la corsa degli automezzi; i televisori
registrano le infrazioni ed individuano i colpevoli. Tutto ciò è necessario ma
non sufficiente.
Vi
sono funzioni delicate e difficili assegnate al vigile che solo la sua presenza
può adempiere; funzioni di assistenza, di aiuto, di protezione che si devono
potere assicurare allo smarrito cittadino, al turista disorientato, all’anziano
insicuro, all’invalido in carrozzella. Solo un vigile può fermare
momentaneamente il traffico, per aiutare l’infermo ad attraversare la strada;
può dare una informazione utile a chi non conosce la città; può intervenire a
risolvere un diverbio tra due contendenti inferociti. Il vigile non è soltanto
responsabile del buon funzionamento del traffico; è anche, come dice la sua
stessa denominazione, colui che vigila sulla sicurezza dei cittadini e rappresenta
di fronte a loro la rassicurante presenza dell’Autorità. La sua presenza in
strada è indispensabile e necessaria.
È
vero che oggi questa presenza richiede un maggiore sacrificio per effetto
dell’aumentato inquinamento atmosferico, ma è anche vero che in un prossimo
futuro tutti i veicoli circolanti in città avranno motori elettrici e quindi
non più inquinanti. Ai vigili non sarà più concesso imboscarsi negli uffici o
attardarsi nei bar.
Foto: Giuseppe Denti |
Sicurezza urbana: è
necessario che sia potenziata.
La
questione dei Vigili e della loro funzione di protezione ed aiuto in soccorso
dei cittadini chiama in causa il problema della sicurezza urbana e della
garanzia di difendere da aggressioni, rapine, stupri, omicidi la popolazione
oggi minacciata ben più di quanto non lo fosse in passato.
La
città non dispiega un sufficiente servizio di difesa pubblica; non fa sentire
ai cittadini la presenza di una autorità vigile ed attenta, non assicura la
vicinanza di chi può dare soccorso a quanti vengono minacciati. Nelle principali
capitali europee si vedono passare le ronde diurne e notturne; si scorgono i
tutori dell’ordine nei punti più pericolosi ed esposti del territorio
cittadino; si avvertono le intenzioni degli Enti Pubblici, Comune o Stato, di
assicurare protezione e di tranquillizzare i passanti. Se chi ha il compito di
tutelare l’ordine fosse stato più vigile e più attento non si sarebbe
verificato il luttuoso incidente di Arezzo dove un custode del proprio
magazzino è diventato involontariamente omicida.
La
istituzione di un corpo di Vigili, o di Carabinieri, o di Polizia, non è, come
stupidamente alcuni miopi demagoghi vanno blaterando, un sintomo di ritorno del
fascismo ma è al contrario un segno di vera democrazia perché assicura la
protezione ai meno abbienti, agli indigenti, a chi non ha la possibilità di
difendersi ricorrendo alle sue sole forze. I ricchi trovano sempre il modo ed i
mezzi per evitare situazioni incresciose e per ripararsi dal pericolo di
aggressioni; i poveri restano indifesi e condannati a soccombere.
Ipotesi dell'apertura dei Navigli |
Traffico dall’esterno
diretto al centro città: occorrono stazioni
di interscambio.
Esiste
un problema di traffico esterno che è altrettanto grave di quello interno e che
si verifica nel punto di tangenza dei due diversi sistemi di trasporto su
strada: lungo il perimetro esterno dell’abitato arrivano dalle varie località
distribuite nel territorio circostante e convergono verso il centro
dell’abitato molte vie di accesso e di penetrazione in città. Nel punto ancora
molto periferico in cui queste vie di ingresso in città incontrano i primi
semafori urbani si formano ogni mattina lunghe interminabili estenuanti code: i
veicoli provenienti dal territorio circostante si arrestano per parecchi minuti
e attendono impotenti di riuscire ad entrare in città. Esattamente in questi
punti in cui termina il tragitto da fuori città ed incomincia il tragitto
all’interno dell’abitato occorre creare dei parcheggi in cui poter depositare
le auto private e da cui far partire i mezzi di trasporto pubblico:
metropolitane, filobus, autobus, tram. Sono queste le stazioni di interscambio
nelle quali avviene il passaggio dal mezzo di trasporto privato a quello
pubblico. Tali stazioni ancora oggi sono troppo poche perché ancora troppo
poche sono le linee della rete metropolitana che raggiungono l’anello
periferico della città.
A
Venezia il sistema di interscambio è già in funzione da decine di anni: le auto
private si arrestano e trovano parcheggio nelle autorimesse di piazzale Roma o
dell’isola del Tronchetto; da dove i viaggiatori diretti al centro città si
servono esclusivamente di vaporetti municipali.
Foto: S. Merlini Bejart |
Traffico esterno e
tangente alla città: raddoppio della tangenziale Nord
Chi
osserva la autostrada A4, proveniente da Torino e diretta a Venezia, nel tratto
corrispondente alla Tangenziale Nord di Milano e compreso fra il casello di Rho
ad ovest ed il casello di Agrate ad est, nota che in parecchie ore del giorno
si forma una colonna di automezzi che procede a passo d’uomo quando addirittura
non sta ferma per molti minuti. Uno spettacolo che per il sistema delle
infrastrutture italiano non può definirsi edificante. Ciò non stupisce: in quel
tratto di autostrada transitano contemporaneamente tre tipi di traffico tra
loro molto diversi: un traffico internazionale che unisce la Francia con
l’Austria; un traffico regionale che unisce il Piemonte con il Veneto; un
traffico locale che unisce il territorio ad ovest di Milano con quello ad est.
Tre tipi di traffico diversi per destinazione e per tipologia essendo il primo
composta da autocarri pesanti, il secondo da camioncini leggeri, il terzo da
vetture civili.
Il
rallentamento e a tratti l’arresto del traffico è un danno grave che si
riflette non solo sui percorsi fra mete lontane ma anche sugli spostamenti che
interessano Milano e si muovono da un luogo all’altro all’interno della città.
L’inconveniente è comprensibile se si pensa che questi tre flussi di traffico
si imbottigliano in una pista di sole quattro corsie e si ostacolano a vicenda.
Ci
si domanda: quanti anni dovranno ancora passare prima di realizzare un
raddoppio della Tangenziale ed adeguarla al numero di automezzi già oggi
esorbitante e domani destinato ad aumentare? In conseguenza della densità delle
costruzioni attraverso cui passa la tangenziale il raddoppio non potrà farsi
affiancando una nuova pista a quella esistente ma sovrapponendone una nuova
alla vecchia e creando un viadotto sopraelevato che consenta di raddoppiare il
numero delle corsie senza invadere i terreni adiacenti. La corsia superiore
sarà riservata agli auto mezzi leggeri; quelle inferiori agli autotrasporti
pesanti.
Si
presenteranno alcune difficoltà costruttive in corrispondenza delle uscite e
delle entrate dalla città e nella città ma se vengono interpellati bravi
progettisti essi sapranno sicuramente risolvere queste difficoltà facendo uso
di raccordi aerei che colleghino il livello delle strade urbane con il livello
della pista sopraelevata.
Foto: S. Merlini Bejart |
La
realizzazione di questa opera renderebbe inutile l’ostico progetto della breve
ma invadente autostrada che dovrà collegare il casello di Rho con la città di
Monza; pensata come espediente per sfuggire alla morsa esasperata delle code
ferme ogni giorno sulla Tangenziale Nord l’autostrada in progetto diventerebbe
inutile e superflua quando il raddoppio permetterà di avere un traffico fluido
e costate di automezzi pesanti lungo la attuale pista bassa e di autovetture
leggere lungo la futura pista sopraelevata. L’uscita per raggiungere Monza sarà
posta in corrispondenza del casello di Agrate situato a pochi chilometri di
distanza dal centro della cittadina brianzola. Evitare un ulteriore nastro di
asfalto, difficile da tracciare nel tratto densamente urbanizzato che è
compreso fra Rho e Monza, sarebbe una scelta saggia ed encomiabile. Nessuno
tuttavia ha saputo proporla, nessuno ha avuto l’idea di sostituirla con il
semplice, meno problematico e meno costoso raddoppio in altezza della
Tangenziale esistente.
Foto: A. Cremonesi |
Percorsi ciclabili: oggi pochi ridicoli spezzoni;
nessun piano organico e
completo.
Guardando
le coraggiose persone, spesso gentili signore, che viaggiano in bicicletta e
che serpeggiano fra le vetture ferme ai semafori, non si può non provare nei
loro confronti un senso di solidarietà e di allarmata compassione constatando
quanto sia incombente il pericolo a cui esse sono continuamente esposte. Tale
pericolo è la triste testimonianza del disinteresse che il Comune di Milano ha
sempre mostrato verso il sistema dei percorsi ciclabili.
È
giusto parlare di sistema perché gli spostamenti in bicicletta comportano uno
studio accurato e complesso che preveda il tracciato di percorsi, la
collocazione di semafori, la posa di protezioni, e la garanzia di compatibilità
con l’incombente traffico automobilistico. Un vero e proprio sistema di
provvedimenti correlati che per motivi igienici e sanitari è diventato urgente
e non più procrastinabile. E’ noto infatti che la bicicletta riduce
l’inquinamento atmosferico ed acustico e giova alla salute di chi regolarmente
la pratica. Le piste ciclabili inoltre, se progettate con attenzione e
competenza, evitano gli incidenti causati dalle ruote delle biciclette che si
infilano nelle rotaie del tram. Recentemente il Comune ha preso la lodevole
iniziativa di predisporre per i cittadini l’uso a noleggio di robuste ed
eleganti biciclette gialle; tuttavia a che serve avere un comodo mezzo con cui
muoversi se poi mancano piste sicure e protette su cui correre?
Vi
è tuttavia un grave problema da risolvere se realmente si vuole realizzare una
esauriente e completa rete ciclabile all’interno della intera città; un
problema che si presenta ancora più ostico quando si deve agire all’interno del
centro storico dove la maggior parte delle strade è stretta e tortuosa e dove
ancora oggi sono concesse alle auto abbondanti zone di sosta disposte lungo i
marciapiedi.
Ci
si trova di fronte ad un dilemma cruciale: o si consente la sosta delle auto e
non vi è spazio per la pista delle biciclette oppure si crea la pista delle
biciclette e non vi è spazio per la sosta delle auto. Il dilemma chiama in
causa la proposta già fatta in precedenza: e cioè il divieto di ingresso in
città da imporre alle auto provenienti dal territorio circostante. Il divieto
ridurrebbe drasticamente il numero delle auto circolanti (e ciò sarebbe già un
grande bene) ma eliminerebbe definitivamente le auto in sosta lungo i
marciapiedi (e ciò sarebbe un bene ancora maggiore). Resterebbero ancora in
circolazione le auto dei residenti ma essendo la loro quantità complessiva
sensibilmente ridotta, sarà facile trovare una loro collocazione in parcheggi
privati situati nei cortili o nei cantinati degli immobili oppure creando nel
sottosuolo di strade o di piazze autorimesse collettive riservate tuttavia ai
soli residenti e non concesse a nessun veicolo proveniente da fuori città.
Foto: archivio Odissea |
Le
piste ciclabili realizzate fino ad ora dal Comune di Milano sono ridicole e
pericolose: ridicole a causa della loro più che modesta estensione e bassissima
presenza nella complessiva rete stradale della città; pericolose a causa della
loro frammentazione in piccoli tronchi sparsi in varie parti dell’abitato e non
collegati fra loro: le piste si interrompono improvvisamente ed i ciclisti si
trovano di colpo e senza preavviso immessi nel traffico più caotico.
In
via Verdi è stato realizzato un tronco di pista ciclabile nel tratto lungo
circa cinquanta metri compreso fra Piazza della Scala e Via Monte di Pietà: la
pista compare dal nulla e scompare nel nulla. A che serve questo frammento
ciclabile lasciato senza collegamenti nel cuore del Centro Storico? La pista è
lastricata con costoso granito rosa. A che serve usare un materiale tanto
prezioso se viene subito deturpato da macchie di grasso e di gomma villanamente
sputata per terra? Una semplice e poco costosa striscia di vernice bianca
tracciata sulla superficie dell’asfalto sarebbe bastata a separare la zona
delle auto da quella delle biciclette. Con l’uso del granito si è di fronte ad
una sconfortante dimostrazione di imperizia tecnica e di irresponsabile spreco
di danaro.
Foto: G. Denti |
Treni regionali: le cenerentole
del trasporto su ferro.
Le
Ferrovie dello Stato, oggi “Trenitalia”, hanno il merito di avere avviato,
sebbene non ancora completato, una estesa rete di treni ad alta velocità, ma
hanno il torto di avere trascurato le ferrovie regionali oggi ancora pessime.
Un servizio di trasporti regionali efficiente, il che significa rapido,
continuato, frequente, alleggerirebbe il flusso di auto private provenienti
quotidianamente dal territorio circostante e diretto verso il centro città; e
contribuirebbe a ridurre l’inquinamento atmosferico diffuso nell’area urbana.
Recentemente
la Direzione Generale delle Ferrovie, facente capo al Ministero delle
Infrastrutture, ha accumulato ulteriori errori ai molti già commessi: ha
rilasciato ad una compagnia privata, facente capo all’imprenditore Montezemolo,
la concessione di introdurre ulteriori corse ad alta velocità su linee già
esaurientemente servite da treni veloci, ed ha conseguito il deplorevole
risultato di aggiungere inutilmente nuovi treni ai treni già in servizio e più
che soddisfacenti alle necessità del paese. Ne consegue un aumento non
richiesto di treni veloci, mentre i treni regionali restano scarsi, mal
gestiti, pessimamente mantenuti. Alla compagnia privata “Italotreno”,
interessata ad aprire nuove corse su linee ad alta velocità, le Ferrovie dello
Stato avrebbero dovuto negare ogni tipo di concessione per treni veloci ed
obbligare la compagnia privata, se intenzionata a fare la sua comparsa sui
binari di proprietà statale, ad introdurre non linee ad alta velocità ma linee
regionali a velocità normale in aggiunta alle poche esistenti, che spesso sono
in ritardo, mal gestite e non più sufficienti a soddisfare i crescenti bisogni
dei viaggiatori pendolari.
Foto: S. Merlini Bejart |
La
compagnia privata di Montezemolo non avrebbe corso nessun rischio di mandare in
passivo il proprio bilancio di gestione perché la costante frequenza quotidiana
dei viaggiatori avrebbe garantito una sicura vendita di biglietti e di
abbonamenti e quindi un introito stabile e certo.
Uno
Stato incapace di progettazioni illuminate e servo di interessi privati si
rende colpevole delle scelte peggiori sia strategiche sia politiche;
strategiche perché è incapace di migliorare la funzionalità delle corse;
politiche perché dimentico del tipo di utenza che fa uso del servizio e che non
è di élite ma è anzitutto popolare.
Gli
errori non finiscono qui. Ormai da anni si tende ad abbandonare linee
ferroviarie di importanza minore ed a sostituirle con servizi di corriere
affidati a conduzioni private. Il danno è duplice: in primo luogo vi è una
perdita patrimoniale secca perché viene buttato via l’ingente costo di
investimento reso necessario a suo tempo dalla costruzione della linea ferrata;
in secondo luogo viene commesso un discutibile favoritismo politico perché si avvantaggia
indebitamente un concessionario Ente privato e si abolisce un servizio di
gestione pubblica utile alla intera collettività.
Il
trasferimento del trasporto dal treno alla corriera equivale ad un sicuro
peggioramento del servizio: il treno corre su di un percorso libero, sicuro,
interamente riservato all’uso delle Ferrovie: la regolarità e la puntualità
delle corse è assicurata. La corriera al contrario viaggia su strade percorse
da innumerevoli altri veicoli; l’eventualità di intoppi, arresti, incidenti è
sempre possibile; la puntualità ed il rispetto degli orari è aleatoria; la
durata delle corse è incerta e spesso non rispettata. A ciò si aggiungono altri
disagi non secondari: l’ulteriore ingombro di strade spesso già sovraccariche
di altri automezzi; l’aumento dell’inquinamento atmosferico ed acustico; il
minore “conforto” dei viaggiatori in corriera rispetto ai viaggiatori in treno,
la ridotta possibilità di applicarsi ad un lavoro di mente se seduti in
corriera piuttosto che in treno. Questi numerosi inconvenienti verificatesi
recentemente nella gestione delle Ferrovie sono la dimostrazione che i servizi
pubblici su ferro stanno peggiorando rapidamente e che la loro Direzione è
affidata a persone sempre meno preparate e meno responsabili.
Foto: S. Merlini Bejart |
Le
ultime considerazioni non riguardano propriamente la città di Milano; ma
indirettamente la coinvolgono e la danneggiano in quanto denunciano la presenza
di carenze gravi che si riflettono anche sulla vita della nostra città e ne
aumentano i già numerosi guai.
Tre Madri Costituenti
di Nunzia Augeri
“Le donne hanno il diritto di salire sul
patibolo, ma non sulla tribuna”, lamentava la protofemminista Olympe de Gouges,
avviandosi alla ghigliottina nei giorni più cruenti della Rivoluzione francese.
Passò molto tempo prima che le donne conquistassero il diritto di salire sulla
tribuna, cioè di prendere la parola sulla scena pubblica ed affermarsi come
soggetti attivi della e nella polis. In ogni paese le donne vi arrivarono con
percorsi diversi e in tempi diversi, ma con un elemento comune: finché la
gestione del potere rimase appannaggio di gruppi di notabili, come nell’Italia
liberale, le donne ne furono escluse; solo con il nascere dei partiti di
massa, alla fine dell’Ottocento, le donne entrano finalmente sulla scena
politica.
Ma
sono in particolare le guerre a dare una spinta alle donne: la prima guerra
mondiale, introducendo le donne nel mondo della produzione, dove assumono
mansioni e responsabilità che erano sempre state prerogativa degli uomini,
accresce la loro consapevolezza e la loro partecipazione alla vita politica:
infatti nell’immediato dopoguerra, nel 1919, si comincia a porre la questione
del voto alle donne. Ma il sopravvenire del regime fascista, che considera il
Parlamento solo un’inutile “aula grigia e sorda”, toglie il diritto di voto
anche agli uomini e li obbliga, se volevano guadagnarsi il pane, ad aderire
al partito fascista. Le donne vengono espulse dai posti di lavoro, escluse
dalle professioni più alte e prestigiose, penalizzate nella retribuzione,
seppure ancora lavoravano, e infine ridotte alla funzione di silenziose fattrici
di uomini destinati a diventare obbedienti guerrieri.
La
seconda guerra mondiale riporta le donne in prima linea nella produzione e
nella gestione della famiglia, con il pesante onere di provvedere a figli e
anziani, nell’assenza degli uomini dispersi sui fronti bellici e, più tardi, sui monti. La maturazione politica delle donne italiane si afferma infine
definitivamente con la Resistenza e nelle vicende, spesso tragiche e
sanguinose, della guerra di Liberazione: è quello il momento in cui esse, anche le più umili montanare e operaie, prendono coscienza del loro ruolo
politico, del proprio diritto-dovere di partecipazione alla res publica: come dice la partigiana
Lidia Menapace: “Entrammo nella resistenza da sudditi, ne uscimmo cittadini”.
Nel
particolare contesto della società italiana bisogna peraltro distinguere due
grandi filoni: quello di matrice cattolica - particolarmente vivo in Italia - e
quello di matrice socialista. In questo le donne entrano prevalentemente
portate dalle lotte sociali, senza un’organizzazione distinta, partecipando
anche con ruoli di primo piano alla costruzione ideologica e alla formazione
dell’indirizzo generale del partito: pensiamo come esempio al ruolo di Anna
Kuliscioff nel Partito socialista. Nel mondo cattolico, le donne formano gruppi
femminili separati, con piena autonomia, anche se in stretta collaborazione e
nella piena coincidenza di interessi con i gruppi maschili.
Angela Guidi Cingolani |
Dal
mondo cattolico proviene Angela Guidi
Cingolani, che abbiamo scelto perché in Italia fu la prima donna in
assoluto ad ascendere alla tribuna e a prendere ufficialmente la parola in una
istituzione pubblica. Era romana e aveva quasi cinquant’anni: dell’importanza
del momento era ben consapevole. Accolta da un cortese applauso, così si
rivolge ai colleghi nell’emiciclo: “nel vostro applauso ravviso un saluto per
la donna che per la prima volta parla in quest’aula. Non un applauso dunque per
la mia persona, ma per me quale rappresentante delle donne italiane che ora per
la prima volta partecipano alla vita politica del paese”.
Poco
tempo prima, quando Roma ancora era piegata sotto l’occupazione nazista, la
signora Angela, irreprensibile persona di buona famiglia e molto pia, si era
ritrovata a pregare nella chiesa del Gesù con un’altra anziana e pia signora,
Francesca De Gasperi, moglie di Alcide, che a nome del marito le chiese di
organizzare le donne democristiane. La scelta non è certo avventata: la signora
Angela frequenta con regolarità le riunioni che si tengono per la costituzione
della Democrazia cristiana, casa sua è un centro di incontri politici, riunioni
clandestine e logistica per gli aiuti. In epoca prefascista era entrata nel
1919 nel Partito popolare di Don Sturzo e si era battuta per il suffragio
femminile; si era costruita una carriera importante, occupandosi di lavoro
delle donne: nel 1921 aveva fondato il Comitato nazionale per il lavoro e la
cooperazione, per favorire il costituirsi di cooperative femminili di
produzione. Aveva condotto inchieste fra le lavoratrici agricole, le
allevatrici di bachi da seta, le risaiole. Nel 1925, quasi trentenne, vince un
concorso per entrare al Ministero dell’Economia nazionale, dove peraltro non fa
carriera perché rifiuta di iscriversi al Partito nazionale fascista.
In
quei primi anni anche Mario Cingolani, del Partito popolare, è membro del
governo, come sottosegretario al lavoro, ma verrà dichiarato decaduto nel 1926.
Anni dopo Angela lo incontrerà, vedovo con tre figli, si sposeranno nel 1935 e
avranno un figlio nel 1938. La loro abitazione a Roma, in via Settembrini,
diventa un centro importante dell’antifascismo, soprattutto nel periodo dello
storico passaggio che porterà alla Repubblica italiana. Dal dicembre 1944, da
Roma liberata, dirige “Azione femminile”, una rivista dedicata alle donne che
esce come supplemento al “Popolo”: al momento delle elezioni, il suo nome è
notissimo fra le donne che gravitano intorno alla DC, e viene premiata non con
una pioggia di voti, ma con la grandine, commenterà De Gasperi.
Nel
1951 è la prima donna al governo italiano, come sottosegretario
all’artigianato, all’industria e al commercio. La sua esperienza parlamentare e
governativa è peraltro breve, e termina con le elezioni del 1953. Ma non
rinuncia alla politica: trasferitasi a Palestrina, ne sarà sindaca fino al
1965. Aveva sempre sostenuto l’importanza dello studio, della preparazione,
della cultura. Come sindaca, la signora Angela si impegna a valorizzare e
promuovere il patrimonio culturale della città, e fonda l’Accademia
internazionale Giovanni Pierluigi da Palestrina, che presiederà fino alla
morte, avvenuta nel 1991. Nel 1986, al compiere i 90 anni, aveva ricevuto una
medaglia al merito per la sua costante e coerente attività politica.
Dall’ambiente
socialista proveniva invece Bianca
Bianchi: toscana di Vicchio, presso Firenze, insegnante. Era nata nel 1914,
il padre era un fabbro socialista, il nonno anarchico. Orfana e povera, era
diventata una maestrina, come ce ne sono state tante – benemerite – nella
storia d’Italia. Iscritta poi a Magistero, si era laureata con Ernesto Codignola
con una tesi su Giovanni Gentile. Insegna prima a Genova e poi a Cremona, ma il
temperamento ribelle la rende poco incline a piegarsi ai dettami della scuola
fascista; viene spedita in Bulgaria, con l’incarico dell’insegnamento in una
scuola italiana (la Bulgaria in quel momento è alleata della Germania nazista e
dell’Italia fascista). Torna in patria, a Firenze, nel 1942, poi dopo l’8
settembre si accosta alla Resistenza, militando in un primo tempo nel Partito
d’Azione e partecipando ad alcune azioni partigiane in città. “Mi improvvisai
soccorritrice dei fuggiaschi che vagavano per le campagne e si nascondevano nei
boschi. Dall’improvvisazione passai subito all’iniziativa collettiva entrando
nella Resistenza col Partito d’Azione. C’erano tutti i miei professori
universitari e molti ex compagni di studio. Esordii spingendo insieme a
un’amica un carretto carico di armi”.
Nel
1945 passa al Partito socialista di unità proletaria, PSIUP, e viene eletta
alla Costituente con il doppio dei voti di Pertini, come egli stesso farà
notare. Alla Costituente si occupa dei problemi della scuola e nel 1947, alla
scissione di Palazzo Barberini, passa con il Partito socialdemocratico di
Giuseppe Saragat. E’ sbocco naturale di tutto il suo passato occuparsi di
educazione primaria e quindi di bambini. Inviata in Sicilia per le elezioni del
1948, si dedica ai problemi dell’infanzia del Mezzogiorno. C’è un problema
soprattutto che attira la sua attenzione: i figli di N.N., i bambini che
nascono fuori dal matrimonio ed entrano nella vita con le stigmate di quell’indicazione
anagrafica, che nell’Italia di allora aveva grande importanza e segnava per
tutta la vita. Non sono pochi, circa il 5% delle nascite in Italia, ma Roma ha
il primato del 10%, e in tutto sono circa 46.000 i bambini che ogni anno
vengono bollati come cittadini di second’ordine, in uno stato di assoluta
disparità giuridica e sociale. Bianca scrive un libro, “Figli di nessuno”, che
nel 1951 viene pubblicato dalle Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti,
sempre attento alle questioni dell’istruzione e della formazione professionale.
La lotta di Bianca nel Parlamento per modificare la situazione urta contro
ipocrisie e interessi costituiti, contro un’idea antica di famiglia che si
vuole mantenere viva malgrado tutti i cambiamenti del costume e della società.
Dovrà passare l’impeto turbinoso del ’68 e l’ondata di piena del femminismo
perché un nuovo diritto di famiglia, nel 1975, dia a tutti i bambini un padre e
una madre, cancellando per sempre le due “enne” infamanti.
La
vita di deputata di Bianca termina nel 1953. Non ne ha avuto molti privilegi:
anni dopo ricordava che nel 1946, a un comizio in Toscana, un bambino mandato
da un imprenditore del luogo le aveva consegnato un paio di sandali bianchi. Li
portò per tutta l’estate: non aveva altre calzature, la miseria postbellica
incombeva su tutti e tutte. Torna ad occuparsi di scuola e di educazione, tiene
una rubrica sulla “Nazione” di Firenze, “Occhio ai ragazzi”, e per un periodo
dal 1970 al 1975 diventa vicesindaco della città. Fonda una scuola che già dal
nome rivela una lungimiranza politica oltre che educativa: Scuola d’Europa,
fondata sulla pedagogia popolare di Célestin Freinet. Non è l’unica scuola
nuova: la situazione emergenziale del dopoguerra, la massa di bambini orfani, o
comunque deprivati di ogni possibilità di istruzione, fanno sorgere iniziative
diverse, come Nomadelfia in Toscana, la Garaventa a Genova, o la rete dei
Convitti scuola della Rinascita in varie città del Nord, fino a Roma. Tutte
iniziative destinate ad essere chiuse nel giro di pochi anni, tant’è vero che
della Scuola d’Europa della maestra Bianchi oggi non si ritrova alcuna traccia.
A meno che non siano sotto l’ala protettiva di Santa Madre Chiesa.
Come
succede con la Città dei Ragazzi, fondata a Caltagirone dalla baronessa Ottavia Penna Buscemi. Il Sud mandò
solo tre donne all’Assemblea costituente: una dalla Campania, Vittoria
Titomanlio, e due dalla Sicilia, Maria Fiorini Nicotra e la baronessa citata; nessuna
dalla Puglia e dalla Calabria. Il fatto che ci fossero due siciliane mi
incuriosì. Permettetemi una notazione personale: mio padre era siciliano, aveva
lasciato la Sicilia nel 1919 e decise finalmente di tornarci solo nel 1952. Io
avevo allora dodici anni e lo seguii, in particolare in una visita che egli
volle fare al suo paese natale, Acate in provincia di Ragusa, non lontano da
Caltagirone. Arrivammo in una mattinata d’agosto: un paese arido e polveroso,
poche case fra distese di stoppie, sotto un sole crudele. Gli anziani, che
ancora ricordavano la famiglia di mio padre, si erano messi ordinatamente in
fila nella piazza, in attesa, per inginocchiarsi e rendergli l’omaggio feudale
del baciamano: non ho mai visto mio padre tanto imbarazzato. Che tipo di
deputata poteva essere uscita da quei paesi, dove i bambini razzolavano con i
maiali fra nuvole di mosche feroci?
La
vita di Ottavia era stata molto diversa: nata nel 1907, da padre barone e madre
duchessa, era stata educata prima in casa dalle istitutrici e poi al
prestigioso collegio femminile di Poggio Imperiale, in Toscana, dove veniva
educata la principessa belga Maria José, destinata a diventare regina d’Italia.
La famiglia ha una tradizione di impegno politico: il nonno Guglielmo è stato
deputato del Regno d’Italia, don Sturzo e Mario Scelba, entrambi di
Caltagirone, sono amici di famiglia. Dopo una vita felice, di agi, abiti
eleganti e viaggi all’estero in compagnia del marito, un medico animato da
passione civile, arriva il periodo della guerra, che aggrava la miseria del
popolo siciliano. La baronessa Ottavia è già una donna matura, madre di tre
figlie, quando accoglie l’invito del commediografo Guglielmo Giannini ad
entrare nelle fila della nuova formazione politica dell’“Uomo qualunque”. Entra
all’Assemblea costituente, unica donna del gruppo di trenta deputati, e subito
Giannini, con un tipico coup de théatre,
la propone come presidente della Repubblica. Spiace ricordare che la proposta
venne accolta con risatine di scherno da parte degli illustri padri
costituenti: solo Sandro Pertini intervenne a ricordare che alla Presidenza
della repubblica ci può benissimo stare una donna. Il fenomeno, di portata
astrale, non si è ancora verificato.
La
baronessa Ottavia viene eletta nella Commissione dei settantacinque che dovrà
redigere il testo della nuova Costituzione, ma si dimette subito per lasciare
il posto a un collega più preparato di lei, e per seguire doveri che lei
ritiene più importanti, Dio, la patria e la famiglia, avendo ancora tre figlie
bambine. Lascia anche subito il gruppo dell’Uomo qualunque e nel 1947 aderisce
al gruppo parlamentare dell’Unione democratica nazionale, con l’illustre
compagnia di Luigi Einaudi, Vittorio Emanuele Orlando e Benedetto Croce;
passerà poi al Partito nazionale monarchico nel 1953, confermando la sua scelta
di conservazione e di rifiuto del “vento del nord”.
Tornata
in Sicilia, diventa consigliera comunale a Caltagirone, dove la sorella è
sindaca sotto la bandiera della DC. Qui la baronessa ritrova la sua vocazione più
autentica nell’attività caritatevole verso i poveri, nell’antica beneficenza.
Mette a disposizione il frumento delle sue terre per sfamare i ragazzi senza
dimora e senza nulla, raccolti ad abitare nelle chiese e poi nei capannoni
dell’esercito. Con l’aiuto di don Sturzo, dell’Opera pontificia e di amici
sacerdoti edifica una Città dei ragazzi che ancor oggi esiste, è intitolata a
don Luigi Sturzo e funziona sotto la guida del sacerdote don Francesco Di
Stefano.
Perché
ho scelto queste tre figure? La signora perbene partecipe del partito al
potere, la maestrina erede della tradizione umanitaria del socialismo
prefascista, la nobildonna siciliana rimasta fedele al papa e al re: tre
biografie certo sbiadite rispetto alle fulgide figure femminili
dell’antifascismo comunista, come Teresa Noce o Rita Montagnana, dalle vite
ricche di vicende e di passioni, di annose sofferenze e quotidiani eroismi. Ma
quelle tre, come le altre, portavano dentro l’Assemblea costituente le
proprie diverse esperienze, l’impronta degli ambienti in cui si erano formate,
tutte le varie sfaccettature di un paese poliedrico, irto di contraddizioni
derivanti dalla storia più antica e da quella recentissima. E in questo senso
contribuivano a rappresentare in maniera più completa e compiuta il mondo
italiano che si affacciava alla nuova esperienza della repubblica democratica.
Ma
oltre le diversità di ambiente, cultura, esperienze di vita, scelte politiche e
ideologiche, c’era qualcosa che le accomunava, tutte, senza distinzioni: in
primo luogo il coraggio. Per la prima volta in Italia le donne salivano alla
tribuna, secondo l’espressione di Olympe de Gouges, il che significava esporsi
in pubblico, partecipare a comizi, incontri, dibattiti. In un paese in cui era
profondamente radicata la convinzione che l’unica dimensione femminile fosse
quella privata, dove la definizione di “uomo pubblico” avvolgeva il maschio di
un alone di dignità e di rispetto, mentre il corrispettivo femminile “donna pubblica”
era un educato eufemismo per indicare la prostituta; esporsi in pubblico era
per una donna sommamente riprovevole e richiedeva un notevole coraggio. Non
tutte provenivano dall’esperienza partigiana, dove fra donne e uomini era nato
un nuovo rapporto di solidarietà e di rispetto. Eppure tutte le ventuno seppero
sfidare pregiudizi secolari, ideologie incancrenite, esporsi alla riprovazione
e al dileggio, almeno in certi, ma non pochi, ambienti, e prendere la
responsabilità di agire nella vita pubblica.
E
in secondo luogo tutte condividevano la lungimiranza; perché nelle attività
dell’Assemblea seppero guardare avanti, prefigurare una condizione femminile
diversa, più avanzata e moderna. Certo c’erano insigni figure a illuminare il
cammino, c’erano Anna Maria Mozzoni, Maria Montessori, Sibilla Aleramo, per non
citarne che alcune. Le ventuno seppero fare squadra, insieme portarono avanti
delle battaglie come quella relativa ai figli illegittimi, che non fu solo di
Bianca Bianchi, ma che ebbe l’appoggio di tutte. Insieme appoggiarono il
ripudio della guerra, insieme tentarono una nuova definizione della famiglia.
Perfino la baronessa Ottavia, quella più legata a tradizioni conservatrici, si
permise nel 1947 di criticare il progetto degasperiano di un Fondo di
assistenza per i disoccupati, che “potrebbe essere inteso – sostiene in una
lettera – come un’elemosina umiliante per chi ha veramente voglia di lavorare”,
e fa presente la necessità di creare infrastrutture, dare lavoro, aprire scuole
“per combattere l’ignoranza tremenda del nostro popolo”. L’esperienza fatta
nell’arena pubblica le aveva evidentemente insegnato a guardare il suo mondo in
maniera nuova anche per lei.
Le
21 donne dell’Assemblea costituente (9 comuniste, 9 democristiane, 2
socialiste e una dell’Uomo qualunque) dopo le elezioni del 1948, nella prima
legislatura repubblicana, divennero 45 alla Camera e 4 al Senato.
Rispettivamente, alla Camera 21 comuniste, 18 democristiane, 2 socialiste e 4
altre, al Senato 2 comuniste e 2 socialiste. Sul piano femminile, la Democrazia
cristiana era nettamente in seconda posizione, soprattutto in rapporto al
numero complessivo di voti ottenuti, (18 deputate per 12.740.000 voti) mentre
il Partito comunista manteneva la maggioranza, (21 deputate e 2 senatrici per
8.136.000 voti) portando alla Camera splendide figure come Gisella Floreanini,
la ministra della Repubblica dell’Ossola, o la coraggiosa partigiana Stellina
Vecchio, o l’antica e forte militante Camilla Ravera. Ma il numero delle elette
resterà sempre molto basso, raggiungendo il punto minimo proprio nell’anno di
grazia rivoluzionaria del 1968. Oggi, con il 20% delle elette siamo ancora fra
gli ultimi posti in Europa; nessuna donna è mai stata Presidente della
repubblica o primo ministro; solo in quest’ultima legislatura una donna è
diventata Presidente del Senato, che è la seconda carica della Repubblica.
Resta
da chiederci se le capacità politiche e le qualità intellettuali e morali delle
nuove elette siano pari a quelle delle loro madri e nonne. In campo maschile,
direi che Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti, Concetto Marchesi o Piero
Calamandrei non hanno oggi alcun erede nel Parlamento italiano. Le giovani donne
elette oggi sono sicuramente diverse dalle donne degli anni 40, possono trarre
profitto da una migliore istruzione e da decenni di lotte nazionali e
internazionali per la parità, ma le loro capacità e le loro qualità umane e
politiche sono ancora tutte da dimostrare.
MADRI COSTITUENTI
di Maria Carla Baroni
Maria Carla Baroni |
“Odissea” propone alle
nostre lettrici e ai nostri lettori, gli interventi di Maria Carla Baroni e di
Nunzia Augeri tenuti in occasione della presentazione del libro di Grazia Gotti
“21 Donne all’Assemblea” avvenuta l’8 novembre scorso a Milano presso la Biblioteca
Chiesa Rossa.
Il
referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, che ha bocciato quello che a
sinistra avevamo chiamato la deforma Napolitano Renzi Boschi, ha richiamato
l’attenzione sulla nostra Carta Costituzionale: sono stati organizzati
convegni, dibattiti e assemblee pubbliche. Gli stessi Comitati per il NO al
referendum si erano posti l’obiettivo di trasformarsi in Comitati per
l’attuazione della Costituzione, ma subito dopo la loro formazione si erano
sciolti come neve al sole.
Possiamo
dolercene ma non stupircene: se l’obiettivo di far vincere il No e di
respingere la deforma era ben definito e in grado di unire soggetti diversi,
differenti forme della politica (partiti, sindacati, associazioni, gruppi di
base), riuscire a far applicare una Costituzione avanzata come la nostra,
contenente elementi di socialismo, avrebbe significato ribaltare vari assetti
di potere. Missione impossibile nella situazione politica attuale del nostro
Paese, soprattutto da parte di una aggregazione temporanea e variegata, formata
da soggetti troppo piccoli e deboli e
con visioni diverse del fare politica.
Il libro di Grazia Gotti sulle Madri costituenti
che presentiamo questa sera è uscito nel novembre 2016, dopo anni di
incubazione, studio e ricerca, talora laboriosa, sulle fonti, in quanto alcune
di loro erano poco note, ma è un bel segnale che il libro sia uscito proprio
mentre era in corso l’azione per difendere la nostra Costituzione e, come
scrive l’autrice nella nota iniziale, nell’anno in cui si è celebrato il
settantesimo anniversario del voto alle donne: voto conquistato - aggiungo io -
dalle italiane solo nel 1946, dopo travagliate vicende iniziate nel 1909 e a
seguito della loro partecipazione massiccia alla Resistenza.
Così
come è utile e bello parlare di Madri costituenti e di Costituzione nel
settantesimo anniversario della sua entrata in vigore (1° gennaio 1948).
Non
posso trattenermi dal proporre in inciso sul COME si arrivò a riconoscere il
voto alle donne e su come andarono le elezioni per l’Assemblea costituente.
Dopo la Liberazione era stata nominata una Consulta nazionale con funzioni
consultive, che restò attiva fino alle elezioni dell’Assemblea Costituente, di
cui furono chiamate a far parte solo 13 donne su 430 componenti. La
partecipazione femminile a tale Consulta fu decisiva quando, nel marzo 1946, la
Consulta intervenne per correggere l’incredibile cosiddetta “svista” del
Decreto luogotenenziale del 1/2/1945 n° 23, che riconosceva alle donne il
diritto attivo al voto, ma non quello passivo, cioè il diritto di votare ma non
di essere votate e quindi elette… Il nuovo decreto del 10 /3/1946 n° 74, che
consentì alle donne anche di essere elette, arrivò appena in tempo per le prime
elezioni dell’Italia democratica, quelle del marzo e dell’aprile 1946 per i
Consigli comunali, in cui le donne italiane parteciparono al voto per la prima
volta e in cui 2000 furono elette consigliere, alcune anche sindache e
assessore. Il 2 giugno 1946 si votò per
il referendum monarchia-repubblica e per eleggere i e le rappresentanti
nell’Assemblea Costituente. Le donne parteciparono in massa: votò l’89% delle
aventi diritto - 12 milioni le donne votanti,
11 milioni gli uomini -, ma risultarono elette solo 21 donne su 226 candidate,
il 3,8% dei 556 componenti, le nostre 21 Madri costituenti.
Le
donne italiane votarono dunque per la prima volta solo nel 1946, mentre in
Nuova Zelanda, come scrive Gotti nel primo capitolo, le donne avevano votato
già nel 1893 - prime nel mondo - per merito di Kate Sheppard, di cui tratteggia
in sintesi la storia: emigrata a 21 anni con la famiglia dalla Scozia, dopo il
matrimonio e la nascita del primo figlio promosse campagne per ottenere,
insieme al diritto di voto, contraccezione, divorzio, custodia dei figli,
opportunità lavorative. Nonostante molte opposizioni e difficoltà, dopo una
campagna di tre anni le donne neozelandesi ottennero di poter votare, nel 1893,
appunto. Dobbiamo dunque inserire anche Kate Sheppard - da noi sconosciuta -
nel nostro Olimpo di donne che hanno fatto la Storia.
Tornando
in Italia, abbiamo avuto una Madre costituente ben prima del 1946-47 e
precisamente una principessa sarda del XIV secolo, la Giudicessa - “juiguyssa
de Arbore” - Eleonora d’Arborea,
reggente di un principato autonomo che a quei tempi comprendeva circa
tre quarti della Sardegna, a nord, a sud e a est di Oristano; principessa di
cui conosciamo bene vita e opere per merito di Bianca Pitzorno, scrittrice
sarda che nel 1984 diede alle stampe “Vita
di Eleonora d’Arborea”, Camunia.
Gotti
ne accenna appena, trattando soprattutto delle alterne fortune del libro di Pitzorno,
ma a mio parere occorre dirne qualcosa in più. Eleonora fu importante ai suoi
tempi perchè resistette con successo agli attacchi degli Aragonesi e dopo
quarant’anni di guerra, carestia, lotte intestine e pestilenze riuscì a ripristinare
i confini del suo Stato come li aveva ampliati il padre Mariano IV e a
ripristinare il relativo equilibrio di forze.
Ma soprattutto Eleonora merita un posto particolare nella storia perché
ampliò e migliorò fortemente la “Carta de Logu” , il codice che il padre aveva
fatto compilare nel 1346, riunendo per iscritto le leggi consuetudinarie che a
quel tempo venivano tramandate oralmente.
La
“Carta de Logu” nella versione di Eleonora fu promulgata nel 1392 in volgare
arborense (una variante della lingua sarda) comprensibile a tutti, anziché in latino, lingua della legge e
dell’amministrazione della giustizia ancora per molti secoli successivi. La sua
importanza sta nell’essere riuscita a contemperare gli interessi contrapposti
degli agricoltori e dei pastori riguardo all’uso del territorio e soprattutto sta
nella modernità e nell’equità sociale di molte norme. Ad es. lo spirito della
Carta era ormai quasi totalmente libero dal principio alto-medioevale della pena
del taglione e, almeno di fronte all’omicidio, il ricco e il povero erano
trattati in ugual modo, in quanto tale reato non poteva più essere sanato in
moneta sonante. L’art. 21 poi, in
materia di stupro, si basava su due principi molto avanzati: il matrimonio veniva
considerato riparatore solo se era di gradimento della donna offesa e comunque
non estingueva completamente il reato, per il quale era comminata in ogni caso
una multa assai consistente, che andava allo Stato; e la pena era identica sia
che la donna stuprata fosse vergine o comunque nubile, sia sposata, il che
richiama il principio odierno secondo cui lo stupro è un reato contro la
persona e non contro la morale. (Per inciso avverto che nella bibliografia
posta alla fine della voce “Carta de Logu” di Wikipedia NON è citato il libro
di Bianca Pitzorno…, che pure dedica a essa un lungo e documentato capitolo).
Reso un
meritatissimo onore alla progenitrice delle nostre Madri costituenti,
ritorniamo ai tempi nostri.
Il
saggio di Grazia Gotti a mio parere ha un limite: il non uso oppure l’ uso
scorretto del linguaggio di genere, che non mi sarei aspettata da parte di una
studiosa che vive oggi e che oggi studia la storia delle donne: consigliere, sindaco, ministro al posto di
consigliera, sindaca e ministra e deputatessa e presidentessa al posto di deputata
e presidente, anche se Gotti afferma di preferire il termine
“deputatesse”, coniato allora e non sgradito, o quanto meno indifferente, alle
donne che così furono qualificate. Scelta che contesto, in quanto fu nel 1985
che Alma Sabatini, insegnante romana che faceva parte dell’allora Commissione
parità tra uomo e donna, pose il problema dell’uso sessista della lingua
italiana; effettuò in merito una ricerca che la Presidenza del Consiglio dei
ministri (Bettino Craxi) pubblicò nel 1987. Qualcuno scrisse che ciò che non è
nominato non esiste: e infatti si è sempre usato il doppio linguaggio di genere
per le posizioni servili (schiavo e schiava, servo e serva) e per le basse
qualifiche lavorative (operaio e operaia, impiegato e impiegata, infermiere e
infermiera), ma ancor oggi molti - e purtroppo anche molte - ritengono
contrario alla grammatica italiana utilizzare il doppio linguaggio di genere
per le professioni liberali o per gli incarichi politici e istituzionali.
Eppure attualmente le donne ci sono eccome ( in alcune categorie professionali
sono addirittura in maggioranza ), anche se sono ancora troppo poche in
politica.
Il
saggio di Gotti ha un enorme pregio, che
lo rende un libro fondamentale, e cioè quello di aver portato alla ribalta
TUTTE le Madri costituenti, a differenza di altri testi che hanno approfondito
solo le figure più significative: tutte
insieme proprio in quanto Madri costituenti, riconoscendo a tutte (anche alle
meno note) lo stesso spazio, mettendone in luce le caratteristiche comuni al di
là delle differenze di ambiente
familiare di nascita, età, percorso di istruzione, esperienze professionali e
culturali, appartenenza politica. Ad es. quando scrive:
“L’educazione
è un tema fortemente sentito dalle donne costituenti; molte hanno frequentato
l’istituto magistrale, molte si sono dedicate all’insegnamento. Nei loro cuori
che palpitano per la giustizia sociale l’educazione diventa un nodo cruciale,
come sempre dovrebbe essere”. Infatti 7 delle Madri costituenti furono
insegnanti e anche varie altre si impegnarono sui temi dell’educazione.
In
merito alle 21 donne all’Assemblea desidero segnalare anche:
1. il capitolo “Foto di gruppo
delle costituenti” di Maria Teresa Antonia Morelli in “L’Italia delle donne. Settant’anni di
lotte e di conquiste” a cura della Fondazione Nilde Iotti, Donzelli, 2018, che
ne tratta raggruppandole per appartenenza politica: le nove del PCI (Adele Bei
Ciufoli, Nadia Gallico Spano, Nilde Iotti, Teresa Mattei, Angiola Minella
Molinari, Rita Montagnana Togliatti, Teresa Noce, Elettra Pollastrini, Maria
Maddalena Rossi); le nove della DC (Maria Agamben Federici, Laura Bianchini,
Elisabetta Conci, Filomena Delli Castelli, Maria Unterrichter Jervolino, Angela
Gotelli, Angela Guidi Cingolani, Maria Fiorini Nicotra Verzotto, Vittoria
Titomanlio); le due del PSI (Bianca
Bianchi e Lina Merlin) e l’unica del Fronte dell’Uomo qualunque (Ottavia Penna
Buscemi);
2. l’opuscolo “Le Madri della Costituzione” a cura di
Patrizia Cordone, elaborato dal
movimento delle donne NON UNA DI MENO di Milano e datato 14 aprile 2017, in cui
le costituenti sono presentate in ordine alfabetico mediante schede sintetiche,
assai utili a inquadrarne la figura e l’attività;
3. un pieghevole della CGIL nazionale
distribuito all’assemblea nazionale delle donne del 6 ottobre di quest’anno a
Roma, dedicato a “Donne nella Cgil”, “Donne nella Resistenza” e “Madri
Costituenti”: queste ultime presentate come “provenienti da tutta la penisola,
in maggioranza sposate (14 su 21) e con figli, giovani e dotate di titoli di
studio (14 laureate); molte avevano preso parte alla Resistenza, pagando spesso
di persona e a caro prezzo le loro scelte, come Adele Bei, condannata nel 1934
dal Tribunale speciale a 18 anni di carcere per attività antifascista, Teresa
Noce, messa in carcere e poi deportata, Rita Montagnana”.
Nel
corso del suo saggio Grazia Gotti accenna a due donne particolarmente capaci - Armida Barelli e Ursula
Hirschmann - , ignorate dalla cultura maschile e maschilista. La negazione del
ruolo delle donne ha sempre accomunato,
tranne eccezioni, cattolici, socialisti
e comunisti: in definitiva la Storia scritta da uomini, che fino a trent’anni
fa circa era l’unica Storia che veniva scritta. Colgo quindi al volo l’occasione per segnalare anche Barelli e Hirschmann all’attenzione
delle donne di oggi prima di ricominciare a occuparmi delle Madri costituenti.
Armida
Barelli fu la cofondatrice dell’Università Cattolica di Milano, da tutti
ricordata solo come opera di padre Agostino Gemelli. Di lei narra diffusamente
Marta Boneschi, nel suo “Di testa loro. Dieci italiane che hanno fatto il
Novecento”, Mondadori, 2002. Armida trovò la sede adatta, nel vecchio convento
delle Umiliate in via Sant’Agnese, propose l’intitolazione al Sacro Cuore di Gesù
e soprattutto raccolse gli ingenti fondi necessari per far costruire
l’università, inaugurata nel dicembre 2017. Sempre nel 1917 fondò la Gioventù
femminile dell’Azione Cattolica come associazione diocesana, che due anni dopo
fu estesa a livello nazionale. La G.F.,
per merito della determinazione e dell’
attivismo incessante di Armida, nel 1952 (anno della sua morte) arrivò a
oltrepassare il milione di socie. Alle
elezioni politiche del 1948 il voto femminile - dopo due anni dal debutto nella
storia elettorale - garantì alla Democrazia Cristiana un primato che durò mezzo
secolo, risultato in buona parte dovuto ad Armida Barelli. Non solo per la sua
appartenenza partitica, ma soprattutto per la sua concezione della donna, a
tutti i costi moglie e madre esemplare – come per il fascismo -, considero
Armida Barelli una avversaria politica, ma le riconosco di essere stata un
grande esempio della forza delle donne.
Ursula
Hirschmann fu coautrice insieme ad Altiero Spinelli e a Ernesto Rossi, nel periodo 1941-44, di “Per una Europa
libera e unita. Progetto d’un
manifesto”, noto come Manifesto di Ventotene. A parte questo fondamentale
accenno di Grazia Gotti, ho trovato notizie su Ursula solo su Wikipedia, che però
la presenta esclusivamente come colei che seguì il marito Eugenio Colorni al
confino di Ventotene, ma, non essendo soggetta a provvedimenti restrittivi, poté
tornare sulla terraferma a diffondere il Manifesto. Coautrice o semplice
divulgatrice? Il che avrebbe comunque la sua importanza. In base alla mia
esperienza
sono portata a dar ragione a Grazia Gotti, ma lascio ad altre il compito di
approfondire. Hirschmann nacque nel 1913 a Berlino in una famiglia ebraica
borghese, si iscrisse al partito socialdemocratico tedesco e fece parte della
Resistenza contro l’avanzata nazista. Nel 1935 si trasferì in Italia, sposò
Eugenio Colorni e vari anni dopo divenne
compagna di Altiero Spinelli, ebbe sei figlie, si impegnò per la formazione del
Movimento Federalista Europeo e nel 1975
fondò a Bruxelles l’associazione “Femmes pour l’Europe”.
Dopo
queste scorribande nel tempo e nello spazio ritorno definitivamente alle 21
Madri costituenti del 1946-47.
Nel
libro di Grazia Gotti le costituenti sono presentate non in base
all’appartenenza partitica o all’ordine alfabetico, come in altri scritti, ma
in base al territorio - città, Comune o Provincia - di appartenenza: scelta
quanto mai felice, in quanto sottolinea il legame tra personaggi e personagge con l’ambiente politico-culturale
del luogo di nascita o del luogo scelto per viverci e operare o del luogo
imposto da circostanze esterne alla loro volontà.
Considerando
il luogo di nascita abbiamo tre torinesi, due lombarde, due trentine, una
ligure, una veneta, due emiliane, una toscana, una marchigiana, due abruzzesi,
due laziali, una pugliese, due siciliane, una donna nata a Tunisi ma sarda di adozione, che ben rappresentano dal
punto di vista territoriale l’unità del Paese.
La
prima narrazione del libro di Gotti riguarda però Angela Guidi Cingolani,
romana, in quanto fu lei la prima donna a prendere la parola in Parlamento e la prima a far
parte di una compagine governativa, nel 1951 come sottosegretaria all’Industria
e al commercio. La prima volta di una ministra fu con Tina Anselmi, 25 anni
dopo, nel 1976, come ministra del Lavoro
e della previdenza sociale.
Inizia
quindi un ideale giro d’Italia, che parte da Torino, città della classe operaia
e di una intellettualità particolarmente vivace, in cui fu accarezzato il sogno
di una rivoluzione che per un breve momento parve possibile e alle porte, in
cui vissero e operarono, per tempi più o meno lunghi, non solo Piero Gobetti,
Antonio Gramsci, Leone Ginzburg, Luigi Einaudi, Palmiro Togliatti, Umberto
Terracini, Luigi Longo, ma anche Camilla Ravera, Ada Prospero Gobetti, Rita
Levi Montalcini, oltre alle tre costituenti Rita Montagnana, Teresa Noce e
Angela Minella, militanti del Partito Comunista.
Nelle
successive comunicazioni - a loro scelta - Nunzia Augeri approfondirà le figure
di Angela Guidi Cingolani, Bianca Bianchi e Ottavia Penna Buscemi e Giovanna
Frisoli quelle di Teresa Noce, Adele Bei e Teresa Mattei. In questa comunicazione introduttiva sul libro
nel suo complesso ritengo però di dover realizzare una carrellata di cenni riguardanti tutte le donne costituenti,
proprio per rispettare lo spirito del saggio di Gotti. Su alcune questioni ho
aggiunto notizie su ciò che avvenne dopo le vicende narrate nel libro e sulla
situazione attuale, per segnalare il cammino ancora da compiere.
RITA MONTAGNANA TOGLIATTI
partecipò giovanissima alle rivolte per il pane del 1917 e poi alle occupazioni
delle fabbriche nel 1919, collaborò alla fondazione del PCI, fu costretta a
riparare all’estero (prima in Francia e Svizzera e poi in Unione Sovietica),
dal 1936 al 1938 combatté nella guerra civile spagnola, diresse la sezione
femminile del PCI e favorì la nascita dell’UDI (Unione Donne Italiane), fu la
promotrice della Giornata Internazionale della Donna.
TERESA NOCE a
causa delle ristrettezze familiari non potè realizzare il sogno di diventare
insegnante, fu costretta a scegliere il lavoro, ma si istruì come autodidatta, lesse
e scrisse. Fu tra i fondatori del Partito Comunista e combattente nella guerra
civile spagnola con il nome di Estella, internata nel campo francese di
Rieucros, successivamente deportata a
Ravensbruek. Dopo la Costituente - dal 1947 al 1955 – diresse la Federazione
nazionale degli impiegati e degli operai tessili della CGIL. Soprattutto a lei
si deve, in base alla sua esperienza di operaia e di sindacalista, la legge 26
agosto 1950 n° 860 per la “Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri”.
Celebre è la sua autobiografia “Rivoluzionaria professionale”, uscita nel 1974.
Apprese l’annullamento del suo matrimonio con Luigi Longo, allora
vicesegretario del PCI, da un trafiletto sul “Corriere della Sera” nel novembre
1953. Non c’erano ancora stati gli anni ’70 con la loro ondata di
modernizzazione e di laicizzazione e Longo aveva pensato bene di andare a
divorziare nella Repubblica di San Marino falsificando la firma di Teresa… Noce
merita di essere ricordata anche perché tentò di convincere Palmiro Togliatti a
non inserire in Costituzione il Concordato del 1929 firmato da Benito Mussolini
con il Vaticano e poi si astenne in sede di votazione suscitando grande
scandalo, anche perché era allora sposata con Luigi Longo.
ANGELA MINELLA MOLINARI
partecipò alla Resistenza, si attivò per i “treni della felicità”, favorendo il
soggiorno al nord e l’adozione di bambini meridionali rimasti orfani da parte
di famiglie settentrionali, ricoprì incarichi parlamentari e di partito, fu dirigente
dell’UDI e rappresentò il Movimento femminile democratico italiano nella segreteria della Federazione
Internazionale femminile a Berlino dal 1953 al 1958.
Da
Torino si passa a Reggio Emilia, città rossa, la città in cui nacque il Tricolore,
medaglia d’oro al valor militare per la lotta di liberazione e protagonista
della canzone “Per i morti di Reggio Emilia”. Vi nacque anche NILDE IOTTI,
allieva di Giuseppe Dossetti all’Università Cattolica di Milano, partigiana,
militante del PCI, organizzatrice e responsabile dei Gruppi di Difesa della
Donna, parlamentare molto attiva, la prima donna a ricoprire l’incarico di
presidente della Camera dei Deputati, che tenne per tredici anni. Compagna di
vita di Palmiro Togliatti, ruolo che le fu ufficialmente riconosciuto solo dopo
la morte di lui e che – lui in vita – le era stato negato, oppure elargito,
quando proprio era indispensabile, con avaro fastidio.
Dopo
Reggio Emilia un salto all’insù, in Provincia di Brescia, a Castenedolo, ove
nacque LAURA BIANCHINI, insegnante
di storia e filosofia, autrice di testi scolastici, cattolica, partigiana,
costretta a fuggire a Milano, città in cui organizzò i soccorsi ai detenuti e
ai perseguitati politici. Per l’Assemblea Costituente animò il dibattito sui
temi dell’educazione e della cultura, da cui risultò il fondamentale art. 33,
che merita di essere riportato integralmente: “L’arte e la scienza sono libere
e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione
e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno
il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo
Stato”. Norma basilare quest’ultima, disattesa fin dai decreti ministeriali 261/98
e 279/99 del ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer, presupposto
per la successiva sistematica concessione di finanziamenti alle scuole private.
Questa vergognosa violazione del dettato
costituzionale fu poi pienamente sancita - in varie forme - da leggi dei
governi successivi (D’Alema bis, e Berlusconi). In Lombardia i buoni scuola
furono introdotti da Roberto Formigoni nel 2000.
Si
passa poi a Vicchio, in Provincia di Firenze, la prima città a essere insignita
della medaglia d’oro al valor militare. A Vicchio nacque BIANCA BIANCHI, anche
lei insegnante di storia e filosofia, esule, partigiana con il Partito
d’Azione, socialista, giornalista e scrittrice. Particolare rilievo rivestirono
la sua opposizione alle sovvenzioni statali alle scuole private e il suo
impegno per la tutela dei figli naturali, i figli di N.N., come si diceva
allora. Nel 1949 presentò in merito in Parlamento una proposta normativa
divenuta legge nel 1953.
A
Firenze si laureò in lettere TERESA
MATTEI, genovese, che nella stessa città fondò i Gruppi di difesa della
Donna. Per quanto riguarda la Costituzione, a Mattei si deve il fondamentale 2°
comma dell’art. 3, in base al quale: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e
l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana
e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese”. La Costituzione, dunque, non si limita a
enunciare principi avanzati, ma assegna alla Repubblica il compito di rimuovere
gli ostacoli all’attuazione concreta di tali principi e in questo consiste un
elemento di socialismo. Un compito
analogo fu attribuito alla Repubblica
con una frase aggiunta nel 2003 al 1° comma dell’art. 51 sulla parità tra
uomini e donne nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive: “A
tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità
tra donne e uomini”. Quasi inutile dire che tale aggiunta fu dovuta a
parlamentari donne in modo trasversale. Si tratta di una formulazione generica
e debole, che costituì comunque un passo avanti, successivamente concretizzato
con leggi ordinarie sulla doppia preferenza di genere.
Da
Firenze Grazia Gotti risale al Trentino di Alcide de Gasperi, dove a Ossana
nacque MARIA UNTERRICHTER JERVOLINO,
che fu presidente nazionale della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica
Italiana), si trasferì a Napoli, dove si impegnò in opere sociali a favore
delle donne e dei più bisognosi e, insieme alle colleghe della Costituente
Agamben, Guidi e Merlin, fondò il CIDD, Comitato Italiano Difesa morale e
sociale della Donna per l’assistenza
alle donne che riuscivano a uscire dalla prostituzione, sottosegretaria alla
Pubblica istruzione da maggio 1957 a luglio 1958 ( periodo in cui lavorò
affinché il servizio sociale pubblico diventasse disciplina di studio
universitario), presidente
dell’Organizzazione mondiale dell’educazione prescolastica dal 1968 al 1973. Nacque a Trento e prevalentemente vi operò anche ELISABETTA CONCI, democristiana,
giornalista, che in Parlamento si batté per ottenere e migliorare leggi a
tutela delle donne, nella sua città fondò
e gestì una famiglia-comunità per ragazzi orfani e bisognosi e contribuì a
sviluppare un sistema educativo di elevata qualità che coniuga competenza
pedagogica e creatività didattica.
Dal
Trentino ci si dirige al Veneto della Provincia di Padova, a Pozzonovo, in cui
nacque LINA MERLIN, socialista, la
più conosciuta tra le 21 insieme a Nilde Iotti. Notorietà ben meritata, a
partire dalla sua legge per l’abolizione delle “case chiuse”, il cui obiettivo
non era - e non poteva essere - “eliminare la prostituzione, ma eliminare la
complicità dello Stato nel considerare il corpo femminile un piatto da servire
su un vassoio “, come scrisse Anna Garofalo in un suo libro del 1956. Molto
istruttiva è una considerazione della stessa Merlin: “non sono lieta della
notorietà che (tale legge) mi ha dato, perché in fondo non viene
dall’importanza della legge in se stessa, ma dall’accanimento degli italiani
nel non accettarla, come l’hanno accettata i paesi di tutto il mondo a
eccezione di venti come la Turchia, la Cina di Chiang Kai-shek e pochi altri
dell’Africa”. Giudizio assai grave, confermato in peggio dal libro di Riccardo
Iacona “Utilizzatori finali”, Chiarelettere, 2014, che dà voce ad alcuni dei
milioni di clienti soliti frequentare escort di lusso, prostitute di strada o
bordelli oltreconfine.
In
Senato Lina Merlin si batté nel 1948 contro la tragedia dei bimbi del delta del
Po, resi ciechi da una malattia derivante dalla denutrizione, in una terra di
miseria, pellagra, malaria, tubercolosi e oppressione feroce da parte degli
agrari, e nel 1951 alla Camera contro l’inadeguatezza del governo nella
protezione del Polesine colpito da una alluvione particolarmente devastante.
Una delle donne più rivoluzionarie del paese la definisce Grazia Gotti. Per
quanto riguarda la Costituzione a lei dobbiamo l’aggiunta “senza distinzione di
sesso” all’art. 3, che inneggia alla pari dignità sociale e all’uguaglianza di
tutti i cittadini di fronte alla legge.
Saltando
un po’ qua e là per la penisola Grazia Gotti ritorna in Lombardia, a Codevilla
in provincia di Pavia, ove nacque MARIA
MADDALENA ROSSI, comunista, confinata, esule, prima presidente dell’UDI. La
sua lotta si concentrò su due obiettivi
primari: nella Costituente l’abolizione
del divieto di accesso delle donne alla
magistratura, introdotto dal regime fascista, su cui un’assemblea composta per il 97,20% da
uomini respinse un apposito emendamento
presentato da lei e da Teresa Mattei; e
in Parlamento il riconoscimento dello
stupro come la peggior violenza che una
donna possa subire, pochi anni dopo gli stupri di massa compiuti in Italia
centrale durante l’avanzata degli Alleati negli ultimi tempi della seconda
guerra mondiale, con il tacito via libera degli alti comandi. Riguardo al primo
obiettivo riporto un brano, citato da Gotti e contenuto in un libro del 1996 di
Anna Rossi-Doria: “Già nel 1948 una donna avvocato rilevava che con il voto
della Costituente era passata l’assurda ipotesi di un individuo (donna) capace
politicamente di partecipare alla formazione della legge (mediante l’elettorato
attivo e passivo), capace di far parte del governo (cioè del potere che rende esecutiva la legge)
e incapace poi, per una non chiarita insufficienza mentale, di applicarla ai
casi concreti”. Solo con la sentenza n° 33 del 1960 la Corte Costituzionale
annullò la norma che escludeva le donne dalla magistratura, così come da altri
impieghi pubblici. Fu ovviamente una
donna - Rosanna Oliva - a portare la questione davanti alla Corte
Costituzionale, difesa dal famoso costituzionalista Costantino Mortati con cui
si era laureata.
Grazia
Gotti approda in Italia centrale, presentandoci MARIA AGAMBEN FEDERICI e Filomena Delli Castelli, abruzzesi, nate
rispettivamente all’Aquila e a Pescara, cattoliche, laureate. La prima è da
ricordare non solo per il suo contributo alla stesura della Costituzione e come
presidente per 6 anni del CIF, Centro Italiano Femminile, ma per un suo libro
uscito nel 1957 con Vallecchi “Il cesto di lana”, con cui invita le donne a
riflettere sulla loro condizione, avendo presente il magistero della Chiesa
accanto al marxismo, la psicanalisi e l’esistenzialismo. FILOMENA DELLI CASTELLI, militante dell’Azione Cattolica e della
FUCI, fu apprezzata parlamentare sia nella Costituente sia poi in Parlamento
fino al 1958. In RAI fino al 1975, si occupò di trasmissioni per i ragazzi e
diede vita, insieme ad Alberto Manzi, a una esperienza avanzatissima: “Non è
mai troppo tardi. Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto
analfabeta”.
Ancora
un ritorno in Emilia, ad Alboreto in Provincia di Parma, ove nacque ANGELA GOTELLI, attivista del movimento
femminile cattolico e della FUCI, partigiana, partecipò nel luglio 1943 alla
stesura del cosiddetto “Codice di Camaldoli”, documento programmatico di
politica economica che affrontò il tema dell’arricchimento eccessivo di pochi e
dello strapotere che questo genera di fronte alla disuguaglianze nella
distribuzione della ricchezza; tema quanto mai attuale. Dopo la Costituente ebbe
molti incarichi governativi, avendo come ambiti di competenza l’assistenza
sociale e la scuola elementare.
ELETTRA POLLASTRINI, nata
a Rieti, comunista, combattente in Spagna con le Brigate Internazionali, esule
in Francia, internata nel campo di
Rieucros, dove trovò Teresa Noce e la compagna e la figlia di Giuseppe Di
Vittorio, successivamente condannata a tre anni di lavori forzati ad Aichach in
Alta Baviera, da cui venne liberata dagli Alleati nell’aprile 1945.
Nell’Assemblea costituente, insieme ad altre colleghe anche di schieramento
opposto, fu determinante per l’adozione di vari articoli, tra cui il 37 sulla
parità retributiva tra donne e
uomini a parità di lavoro. Fino al 1958 affiancò la sua funzione di deputata
con quella di testimone sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti.
Da
questo punto in poi Grazia Gotti si dedica alle costituenti dell’Italia
meridionale e delle isole, facendo notare che al tempo del primo voto femminile
il Sud pagava il suo ritardo storico: nessuna donna entrò nella Costituente
dalla Puglia né dalla Calabria, e una sola dalla Campania (Vittoria Titomanlio),
mentre la Sicilia elesse due costituenti e la Sardegna fu rappresentata da una
sarda di adozione.
VITTORIA TITOMANLIO, nata
a Barletta, ma partenopea a tutti gli effetti, votata alla Costituente nel
collegio Napoli-Caserta da oltre ventimila elettori ed elettrici, insegnante
elementare, ricoprì numerosi incarichi nell’ambito dell’associazionismo
cattolico e nella sua attività di costituente prima e di parlamentare poi si
dedicò alle questioni lavorative e alla previdenza sociale.
ADELE BEI CIUFOLI, nata
a Cantiano in Provincia di Pesaro, per la sua militanza comunista fu arrestata
e condannata a 18 anni di carcere, scontati in parte a Roma e in parte a
Perugia prima di arrivare al confino a Ventotene. Ebbe due figli nati in
clandestinità e mandati in URSS per proteggerli, che potè rivedere solo qualche
anno dopo. Dopo il 25 luglio 1943 e l’arresto di Benito Mussolini ritornò a
Roma, dove dedicò il suo impegno principalmente al coinvolgimento e alla tutela
di varie categorie di lavoratrici della città. Ebbe numerosi incarichi di
responsabilità nella CGIL, nel PCI, nell’UDI e nell’ANPI. Nel 1948 fu nominata
senatrice di diritto per meriti
antifascisti. L’opera più importante della sua vita fu di fondare, insieme alle
lavoratrici pugliesi, il Sindacato nazionale delle Tabacchine, lavoratrici
sottoposte a uno sfruttamento e a una fatica particolarmente inumani. Nel 1952
ne fu eletta segretaria nazionale.
Si
arriva ora alle due costituenti siciliane. La baronessa OTTAVIA PENNA BUSCEMI,
monarchica, nata a Caltagirone in Provincia di Catania, alla Costituente perorò in particolare l’istituzione delle
Regioni. Fu una donna coraggiosa e assai attiva. Dopo aver lasciato la politica
romana, ritenendola non adatta alle sue attitudini, con amici sacerdoti fondò
la Città dei Ragazzi. MARIA FIORINI
NICOTRA VERZOTTO, nata a Catania, operò nelle associazioni cattoliche e durante
la seconda guerra mondiale fu infermiera volontaria della Croce Rossa, per cui
ricevette la medaglia d’oro al valore. In Parlamento si dedicò al disegno di
legge sulla tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri e alla
commissione di inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla.
Dal 1949 al 1953 fu impegnata, unica donna tra 12 senatori e deputati, con la
commissione parlamentare di vigilanza sulle condizioni dei detenuti nelle
carceri. In occasione del sessantesimo anniversario dell’Assemblea costituente
l’allora presidente Giorgio Napolitano le conferì la massima onorificenza della
Repubblica, quella di cavaliere di Gran Croce.
In
questo giro d’Italia giunto ormai al termine, approdiamo in Sardegna, la terra
di Eleonora d’Arborea, in cui operò, tanto da farla considerare sarda di
adozione, NADIA GALLICO SPANO, nata
e cresciuta a Tunisi, arrivata in Italia
nel 1943, inviata dal PCI in Sardegna due anni dopo per verificare la
consistenza del movimento femminile sardo e per rafforzarlo. Per la sua duplice
attività - come costituente e poi come parlamentare - e come organizzatrice
delle donne dell’isola, fece la spola tra Roma e la Sardegna. Il suo impegno fu
premiato con una straordinaria partecipazione al primo Congresso delle donne
sarde nel 1952. Neppure da anziana smise i panni dell’attivista e nel 1981
partecipò a Roma alla campagna referendaria sull’interruzione volontaria di
gravidanza.
E
Milano, la città in cui nel 1943 nacquero i Gruppi di difesa della donna,
aperti a tutte, di ogni ceto sociale e appartenenza politica o anche senza
partito? Questi gruppi si prefiggevano non solo di appoggiare e assistere
moralmente e materialmente i partigiani, ma anche di dare alle donne il mezzo
per elevarsi nella società e pretendere gli stessi diritti degli uomini.
Milano non diede i natali a nessuna delle
costituenti, ma fu milanese Gisella Floreanini, ministra della Repubblica dell’Ossola
nel 1944, presidente del Comitato di Liberazione Nazionale di Novara nel 1945,
candidata alla Costituente nel 1946 ma non eletta perché il PCI la presentò nel
collegio di Milano e non a Novara o nell’Ossola, territori dove di lei c’era un
ricordo leggendario. Floreanini soffrì molto per il fatto di non poter
partecipare all’elaborazione di quella Carta delle libertà e dei diritti di cui
la Costituzione dell’Ossola era stata l’antesignana. Cerco
ora di tirare le fila di questa carrellata sulle Madri costituenti, che andarono
oltre la maternità come comune denominatore femminile e che seppero fare squadra nonostante le differenti
appartenenze partitiche, come del resto fecero le parlamentari che dopo di loro
ottennero importanti leggi, soprattutto per
far riconoscere i diritti di donne e minori, ma non solo, e che fecero
aggiungere il 2° comma dell’art. 51 in merito all’accesso alle cariche elettive
in condizioni di effettiva uguaglianza.
5 delle
costituenti entrarono nella famosa “Commissione dei 75” preposta alla stesura
della Costituzione: Maria Federici (Pci), Angela Gotelli (Dc); Nilde Iotti
(Pci), Lina Merlin (Psi) e Teresa Noce (Pci).
Il loro
contributo alla Carta riguardò gli articoli 29 (famiglia ed eguaglianza dei
coniugi), 30 (doveri e diritti dei genitori), 31 (protezione della maternità,
dell’infanzia e della gioventù), 33 (arte, scienza e scuola), 37 (parità di
retribuzione tra uomo e donna a parità di lavoro), 48 (diritto di voto) e 51
(accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di
eguaglianza), oltre al fondamentale art. 3. Da segnalare in particolare che fu
Lina Merlin a introdurre la locuzione “di sesso” nell’elenco delle
discriminazioni da superare e che si deve a Teresa Mattei la fondamentale
aggiunta “di fatto” alla frase “limitando la libertà e l’uguaglianza dei
cittadini” nel comma sugli ostacoli da rimuovere per garantire lo sviluppo
della persona e la partecipazione dei lavoratori alla vita del Paese.
Oltre
all’Assemblea costituente e al Parlamento quasi tutte le Madri praticarono
altre forme della politica: la Resistenza (9 furono partigiane),
l‘associazionismo femminile o misto, di cui furono dirigenti, il sindacato
(Angela Bei e Teresa Noce), le istituzioni locali dopo la conclusione - per
varie cause - dell’attività parlamentare; oppure si dedicarono all’impegno
sociale/assistenziale, quest’ultimo privilegiato dalle cattoliche.
Mi
consentite in chiusura la citazione di un altro libro, piccolo e prezioso,
quanto mai necessario oggi? “In
contropiede. Le donne rileggono la Costituzione”, Ediesse, 2014, dovuto ad
autrici di differente orientamento: Alessandra Bocchetti, Giulia Bongiorno,
Francesca Comenicini, Marilisa D’Amico, Michela Marzano, Lea Melandri, Luisa
Muraro e Lidia Ravera, che ha preso le mosse da una idea di Mariella Gramaglia,
giornalista de Il Manifesto, secondo cui “A noi, donne, la Costituzione, il
nostro contratto sociale della contemporaneità democratica, interessa, e molto.
Non solo perché ricordiamo con commozione e deferenza le 21 pioniere che hanno
contribuito a scriverla…., ma perché pensiamo che, benchè redatto da una
schiacciante maggioranza di uomini, questo contratto ci riguardi, segni dei
perimetri di diritto che ci stanno a cuore, che almeno parzialmente ci
includono”.
Grazia Gotti |
Sintetizzo
a mio modo i contenuti di questa rilettura della Costituzione dalla parte delle
donne. Nell’aula dell’Assemblea le costituenti entrarono consapevoli che la
loro femminilità era una sfida politica e storica e portarono in essa i frutti
della cultura dell’emancipazione che si era venuta formando dalla fine
dell’800; allora in particolare - ma in parte anche oggi - nascere di sesso
femminile comportava molto spesso una situazione sociale più difficile di
quella maschile. Fu quindi importante - allora - sancire per le donne
un’adeguata protezione in quanto madri, per consentir loro di adempiere la loro
essenziale funzione familiare (v. art. 37).
Ma
oggi, ormai nel XXI secolo e dopo il movimento femminista iniziato nei primi
anni ’70 del secolo scorso, occorre riconoscere che la Costituzione entrata in
vigore il 1° gennaio 1948 è espressione di una visione maschile del mondo; che
la differenza tra uomo e donna è fondativa dell’esperienza umana e non è
assimilabile alle distinzioni di etnia, religione e opinioni politiche di cui
all’art. 3; che la famiglia NON è una società naturale fondata sul matrimonio
(art. 29; enunciazione che contiene tra l’altro una contraddizione logica e che
è contraddetta pure dall’antropologia e dalla storia); che la maternità deve
essere una scelta, da rendere sempre concretamente realizzabile mediante
adeguate condizioni materiali, sociali, giuridiche, culturali, e NON un destino
ineludibile da proteggere: per la continuazione della specie? per la tutela
della stirpe?
Tutte e
tutti noi dobbiamo impegnarci per far attuare la nostra Carta Costituzionale
(tra l’altro per concretizzare la parità salariale tra donna e uomo a parità di
lavoro), ma, per quanto riguarda la condizione delle donne, il grande cammino
di civiltà intrapreso dalle coraggiose 21 Donne all’Assemblea deve proseguire:
fino a individuare e poi a realizzare un differente modo di concepire e gestire
il potere politico.
***
NUMERI
ELETTORALI DELLA SINISTRA
TRA GOVERNO E
OPPOSIZIONE
di Franco Astengo
Mi permetto di offrire
alla riflessione collettiva una carrellata tra i numeri delle elezioni
politiche svoltesi tra il 2 giugno 1946 e il 4 marzo 2018 utilizzando quattro sistemi
elettorali diversi. Il riferimento che si è cercato di sviluppare riguarda la
presenza della sinistra divisa tra governo e opposizione, seguendo anche il
filo della partecipazione elettorale, i cui dati sono sempre stati fortemente
sottovalutati nello sviluppo delle analisi compiute di volta in volta. Le
percentuali sono sempre riferite al totale degli aventi diritto e viene
riportato il dato dei voti validi complessivi, comprensivi delle schede bianche
e nulle.
Questo
lavoro, molto approssimativo, è dedicato soprattutto a chi ha risposto in modo
sostanzialmente negativo oppure con un assordante silenzio ad una semplice
proposta di ripresa d’incontro tra le varie componenti, oggi assolutamente
minoritarie, nelle quali si trovano suddivisa ciò che rimane della sinistra
italiana: giusto i richiami all’identità, sbagliate le affermazioni di disporre
in esclusiva della ricetta giusta, superficiale l’analisi che ignora i rischi
incombenti sul fragilissimo sistema politico italiano.
Assemblea Costituente 2
giugno 1946
Iscritti:
28.005. 449; Voti validi 23.010.479 pari all’82,16%, non
espressione di voto 4.994.970.
La
sinistra in quel momento si trova al governo con il programma Repubblica e
Costituzione: il Partito Socialista ancora unitario sotto la sigla PSIUP
ottiene 4.758.129 16,99%,Partito Comunista 4.356.686 15,55%, Partito d’azione
334.748 1,19%. In totale la sinistra vale il 33,73% sul totale degli aventi
diritti al voto.
Camera dei Deputati 18
aprile 1948
Iscritti
29.117.554; Voti Validi 26.264.458 pari al 90.20% (notevole
incremento) non espressione di voto 2.853.096.
Si
presenta la divisione tra sinistra di governo e sinistra d’opposizione, in
seguito alla scissione dello PSI.
Nella
sinistra di governo Unità Socialista 1.858.116
voti 6,38%; nella sinistra d’opposizione il Fronte Popolare raccoglie PCI e PSI,
8.136.637 pari al 27,94%.
Camera dei Deputati 7
giugno 1953
Sono
le elezioni della cosiddetta “legge truffa”.
Iscritti 30.272.236. Voti
validi 27.087.701, 89,48% (lieve
flessione rispetto al 1948). Non espressione di voto: 3.184.535.
Sinistra
d’opposizione: PCI 6.120. 809
20,21%, PSI 3.441.014, 11,36%,
Unione Socialista Indipendente 225.409
0,74, Unità Popolare 171.099 0,56%.
Totale: 32,87 in incremento rispetto
al 1948
Sinistra
di governo: PSDI 1.222.957 4.03% (-
2,35%)
Camera dei Deputati
25/5/1958
Pesano
le vicende legate al XX congresso del PCUS e i fatti d’Ungheria. PCI e PSI
comunque sono ancora assieme all’opposizione. Iscritti: 32.434.852 Voti validi 29.560.269
91,13% (massimo storico). Non espressione di voto: 2.874.583
Sinistra
d’opposizione: PCI 6.704.454,
20,67%; PSI 4.206.726 12,96%. Totale
33,63% (ancora in crescita)
Sinistra
di governo: PSDI 1.345.447 4,14%
Camera dei Deputati
28/4/1963
Ulteriore
divisione tra sinistra di governo e sinistra d’opposizione. Si prepara il
centro-sinistra con il PSI (sarà la legislatura del “tintinnar di sciabole” e
del tentativo di unificazione socialista).
Iscritti:
34.199.184 voti validi 30.752.871 89.92% (lieve flessione). Non espressione di
voto: 3.446.313
Sinistra
d’opposizione: PCI 7.767.201 22,71%
Sinistra di governo: PSI 4.255.836
12,44%, PSDI 1.876.271 4,58%. La
sinistra di governo raggiunge il 17,02%.
Camera dei Deputati 19
maggio 1968
I
socialisti si presentano unificati nell’esperienza di governo, ma si è
verificata la scissione dello PSIUP che si colloca all’opposizione. Iscritti: 35.566.495 voti validi 31.790.428 89.38% (ancora in calo). Non
espressione di voto: 3.776.065.
Sinistra
d’opposizione: PCI 8.551.347 24,04%,
PSIUP 1.414.697 3,97% totale 28,01
(crescita del 5,30%). Sinistra di governo PSI-PSDI unificati 4.603.182 12,94% (flessione del 4,08)
Camera dei Deputati 7
maggio 1972
Nuova
divisione(definitiva) tra PSI e PSDI . All’inizio della legislatura il PSI
resterà fuori dall’area di governo (Andreotti -Malagodi) comprendente i
socialdemocratici. Si affacciano per la prima volta alle elezioni movimenti
usciti dal ’68, sia di area comunista, sia di dissenso cattolico.
Iscritti
37.049.351 voti validi 33.403.548 90.15% (in crescita) Non
espressione di voto: 3.645. 803
Sinistra
d’opposizione: PCI 9.068.961 24,47%,
PSIUP 648.951 1,75. Totale: 26, 22
(in calo) PSI 3.208.497 8,66%, PSDI 1.718.142 4,63. Area della sinistra
extraparlamentare (Manifesto, MPL, PCMl) 439.710
1,17%
Camera dei deputati 20
giugno 1976
Le
elezioni si svolgono dopo il referendum sul divorzio del 1974 e il turno
amministrativo del 15 giugno 1975 che ha fatto registrare un forte spostamento
a sinistra. Si presenta una situazione inedita: PCI, PSI, PSDI faranno parte
dell’area di governo, prima come “maggioranza delle astensioni” poi come
maggioranza d’appoggio a due governi monocolore DC. Nel frattempo si consuma il
dramma del rapimento Moro e la divisione dei partiti tra “fermezza”e
trattativa.
Iscritti:
40.426.658. Voti validi 36.707.578 90. 80% (si torna a superare
il 90%). Non espressioni di voto: 3.719.080.
Sinistra
nell’area di governo: PCI 12.614.650
31,20%, PSI 3.540.309 8,75%, PSDI 1.239.492 3,06%. Totale 43,01%
(ribadisco sul totale degli iscritti nelle liste: affido questo dato alla
riflessione). Sinistra d’opposizione : DP (cartello elettorale comprendente
PdUP, AO, Lotta Continua, MLS) 557.025.
1,37%
Camera dei deputati 3
giugno 1979
In
precedenza a questa tornata elettorale, segnata dall’uscita del PCI dalla
“solidarietà nazionale” occorre ricordare il referendum sul finanziamento
pubblico dei partiti svoltosi nel giugno del 1978. Erano iscritti nelle liste 41.248.657 elettrici ed elettori, i
voti validi furono 31.410.378 pari
al 76,14% e il Sì all’abrogazione (osteggiato
dalla maggioranza di solidarietà nazionale) raggiunse i 9.838.279 voti, 33,19%
Un
risultato che rappresentò il primo vero segnale di rottura “sociale” del
sistema politico, del tutto ignorato dai dirigenti dei grandi partiti di massa
che non avevano compreso la profonda divaricazione che la formazione della
maggioranza delle astensioni aveva provocato. Il primo esito di quella rottura
si ebbe il 3 giugno 1979, elezioni nelle quali ricomparve la divaricazione tra
sinistra di governo e sinistra d’opposizione. Iscritti: 42.203.354. Voti validi 36.671.308
86, 89% (netta flessione). Non espressioni di voto: 5.532.046 (forte incremento).
Sinistra
d’opposizione: PCI 11.139.231 26,39%,
PdUP 502.247 1,19%, NSU 294.462 0,69. Totale: 28,27% Sinistra
di governo: PSI 3.596.802 8,52%,
PSDI 1.407.535 3,33%. Totale 11,85%
Camera dei deputati 26 giugno1983
Nel
frattempo, scoperte le liste della P2, si è spezzato il monopolio DC della Presidenza
del Consiglio e ci si avvia alla presidenza Craxi con la maggioranza di
pentapartito. Iscritti 44.526.357 Voti validi 36.906.005, 82,88% (ancora
evidente flessione).
Sinistra
di governo: PSI 4.223.362 9,48%,
PSDI 1.508,234 , 3,38%. Totale
12,86% (crescita dell’1%)
Sinistra
di opposizione : PCI (comprendente il PdUP) 11.032.218 24,77%, DP 542.039
1,21 . Totale 25,98% (calo del 2,29%)
Camera dei deputati 14
giugno 1987
Precedono
questa tornata elettorale le elezioni europee del 1984 coincidenti con la
tragica morte di Enrico Berlinguer e il referendum sulla scala mobile, al
riguardo del quale vale la pena soffermarsi un attimo.
Referendum
1985: Iscritti 44.904.290. Voti
Validi 33.845.643, non espressioni di voto: 11.058.647
Sì 15.460.855 34,43 % NO 18.384.788, 40,94%.
Il
Sì era appoggiato dal PCI e dalla
componente comunista della CGIL, il NO dal pentapartito, dalla componente
socialista della CGIL e da CISL e UIL. Doppia spaccatura. A sinistra e nel
sindacato.
Riflessi
evidenti si mostrarono nel turno elettorale del 14 giugno 1987, nel corso del
quale entrarono in lizza anche rappresentanti delle nuove fratture post-materialiste
(liste verdi) e di una ideologia di recupero di antiche fratture ( centro-periferia),
allargando così lo spettro nel complesso del sistema politico italiano.
Iscritti
45.692.417 voti validi 38.571.508, 84, 41% (in crescita
rispetto al 1983). Non espressione di voto: 7.120.909.
Sinistra
di governo: PSI 5.501.596 12,04%,
PSDI 1.140.209 2,49%. Totale 12,53%
(in calo dello 0,33%)
Sinistra
d’opposizione: PCI 10.250.644
22,43%, DP 641.901 1,40. Totale
23,83% (calo del 2,65%)
Camera dei Deputati 5
aprile 1992
Si
vota ancora con il sistema proporzionale ma il quadro si è già modificato nel
profondo. Si è sciolto il PCI dividendosi in due formazioni, PDS e Rifondazione
Comunista, il PSI è già stato colpito dai prodromi di Tangentopoli, si è
formata la Rete da un intreccio cattocomunista.
Iscritti
47.686.964 Voti validi 39.247.275 82,30% (in calo). Non
espressione di voto 8.439.689
Sinistra
di governo (nell’immediato si formerà il governo Amato): PSI 5.343.930 11,20%,
PSDI 1.064.647 2,23%. Totale 13,43% (in crescita dello 0,90%)
Area
ex PCI: PDS 6.321.084 13,25%, PRC 2.204.641 4,62%, Rete 730.171 1,53%. Totale 19,40% (in calo
del 4,43%)
Camera dei deputati 27
marzo 1994.
Quadro
completamente mutato. Sistema elettorale misto maggioritario (75%)
proporzionale (25%), Sciolti i grandi partiti di massa DC e PSI, si è formata
Forza Italia e si sta trasformando il MSI in AN. Il centro destra vince le
elezioni con una duplice alleanza: FI/Lega al Nord (polo delle libertà) e FI/AN
(polo del buon governo al Sud). In precedenza all’esposizione dei dati è il
caso di soffermarci sull’esito del referendum abrogativo svoltosi il 18 aprile
1993. Il riferimento è al quesito riguardante il sistema elettorale del Senato
e il cui esito servì da spunto per la modifica del sistema elettorale nel suo
insieme. Si trattò di un referendum che pose una sorta di fondamentale pietra
miliare sulla strada dell’antipartitismo, evocando infatti la semplificazione
del sistema politico e la governabilità quale fattore esaustivo dell’agire
politico. Gli esiti di quell’avventura sono oggi sotto gli occhi di tutti.
Erano iscritti nelle liste 47.946.896,
si ebbero 34.971.387 voti validi
pari al 72,93%. Il rifiuto alla modifica del sistema elettorale raccolse
soltanto 6.034.640 pari al 17,25%,
voti espressi in gran parte all’interno dell’area che si era opposta allo
scioglimento del PCI (successivamente solo parzialmente confluita nel PRC) e
parzialmente anche da chi si era opposto allo scioglimento del PSI e della DC.
Esito
delle elezioni del 27 marzo 1994. Iscritti 48.135.041.
Voti validi 38.720.893, 80.44% (in
netto calo). Non espressione di voto 9.414.148.
Risultato
delle forze di sinistra presenti nella coalizione dei “Progressisti” (si era
votato su di uno schema “tripolare” con la presenza di un’area centrista
formata dal PPI e dal “Patto Segni”): PDS 7.881.646,
16,37%, PRC 2.343.946 4,86%, PSI 849.429 1,76%, Rete 719.841 1,49%,
Socialdemocrazia 179.495 0,37%
Camera dei deputati 21
aprile 1996
Si
forma l’alleanza di centrosinistra, mentre la Lega Nord abbandona il
centrodestra dopo aver contribuito a far cadere il primo governo Berlusconi e
Rifonda Comunista adotta la strategia della “desistenza” verso il centro
sinistra. Iscritti 48.744.846 voti
validi 37.484.398 76,98% (calo
sensibile). Non espressioni di voto 11.260.448
(la maggioranza relativa se si esaminano i risultati dei partiti nella quota
proporzionale).
A
Sinistra il PDS raccoglie 7.894.118
voti pari al 16,19% e i socialisti 149.441
voti pari allo 0,30. Totale all’interno della coalizione dell’Ulivo 16,49%. Il
PRC che attua la “desistenza” raccoglie 3.213.748
voti (896.802 voti in più) pari al 6,59%,massimo storico.
Camera dei deputati 13
maggio 2001
Si
ricostituisce l’alleanza FI/Lega che vince le elezioni con l’apporto di AN e
UDC, mentre l’alleanza di governo del centro-sinistra esce indebolita dopo aver
alternato nei cinque anni tre volte il presidente del Consiglio. Nel frattempo
si è spaccata Rifondazione Comunista con la formazione del Partito dei
Comunisti Italiani che continua ad appoggiare il governo fino alla fine della
legislatura.
Iscritti
49.256.295 voti validi 37.122.776, 75.36% (ancora in calo).
Non espressione di voto 12.133.519.
Sinistra
costretta all’opposizione: DS ( trasformazione del PDS che ha inglobato
Comunisti Unitari, altra scissione del PRC e i Laburisti espressione dell’area
socialista): 6.151.154 12,48% (netto
calo rispetto al 1996 di oltre 1.700.000 voti), Rifondazione Comunista 1.868.659 4,92%, Comunisti Italiani 620.859 1,26%.
PRC
e Comunisti Italiani sommano quindi il 6,18% perdendo lo 0,40% e circa 800.000
voti.
Camera dei Deputati 9
aprile 2006
Si
costituisce l’Unione, massima espressione dell’alleanza a sinistra che colloca
però al proprio centro l’Ulivo, lista elettorale che raccoglie DS e Margherita
e che rappresenta la fase preparatoria della costituzione del PD. La vittoria
elettorale risulta assolutamente stentata. Nel frattempo però e cambiata la
legge elettorale che si presenta come proporzionale con premio di maggioranza e
liste bloccate. Si registra un sensibile incremento nella partecipazione al
voto. Iscritti 46.997.601 (esclusi
gli iscritti all’estero) voti validi 38.153.343
81,18% (si ritorna sopra all’80%). Non espressioni di voto 8.844.258.
L’Ulivo
raccoglie 11.930.983 voti pari al
25,38% ma si tratta di un soggetto auto-denominatosi
di centro -sinistra. A sinistra restano, tutte comprese nell’area di governo,
il PRC (che avrà il presidente della Camera e un ministro) 2.229.464 4,74% (in crescita rispetto al 2001 di quasi 400.000
voti), Comunisti Italiani 884.127
1,88% (anch’essi in crescita di circa 260.000 voti). In posizione del tutto
marginale una lista socialista che raccoglie 115.606 voti (0,24%).
Camera dei Deputati 19
aprile 2008
Elezioni
che possono essere definite davvero come “critiche” di vero e proprio
riallineamento del sistema.
L’Ulivo
si è trasformato in Partito democratico, proclama la propria “vocazione
maggioritaria” e rifiuta alleanze a sinistra ritenendosi esaustivo del profilo
del centro sinistra (a fianco del PD si colloca soltanto il movimento
giustizialista dell’IDV). In questo modo il PD incassa una sonora sconfitta dal
PDL nelle cui fila si sono raccolti Forza Italia, Lega Nord e AN.
A
Sinistra, in posizione di opposizione, si presenta la lista Arcobaleno che
raccoglie assieme il PRC, i Comunisti Italiani, residui delle Liste Verdi e gli
esponenti della Sinistra Democratica che hanno rifiutato la confluenza dei DS
nel PD). Il risultato largamente negativo, al punto da escludere totalmente la
possibilità di presenza in Parlamento. Iscritti 47.041.814, voti validi 36.457.254,
77,49% (nuovamente al di sotto dell’80%). Nessuna espressione di voto 10.584.560.
Arcobaleno
1.124.298 voti, 2,38% (due anni
prima la somma di PRC e Comunisti Italiani superava i 3.000.000, 6,62%). È questo il passaggio nel quale si esprime il
dato di assoluta minorità della sinistra italiana. Si presenta anche una lista
socialista con 355.495 voti 0,75% e
riemergono, sempre per effetto di successiva scissioni del PRC, formazioni
ancora legate alle ideologie del dissenso comunista (in particolare di origine
troskista): Partito Comunista dei Lavoratori e Sinistra Critica che assommano 377.112 voti pari allo 0.79%.
Camera dei deputati 24
febbraio 2013
Si
arriva alle elezioni anticipate attraverso la caduta del governo Berlusconi e
la gestione rigidamente legata all’austerità europeista attuata dal governo
Monti. Il PD torna all’alleanza a sinistra collegandosi con SEL (espressione di
un’ennesima scissione del PRC, in questo caso in senso governista). Alleanza
che non produrrà l’auspicato (dai suoi promotori, ovviamente) esito di governo.
Iscritti
46.905.154 voti validi 34.005.755 72,49% (con un netto
calo).Nessuna espressione di voto 12.899.399
(largamente maggioranza relativa). Sel, collegata come già ricordato con il PD,
raccoglie 1.089.231 voti 2,32%. Per la
sinistra d’opposizione si registra una presentazione unitaria tra PRC,
Comunisti Italiani, altri movimenti e l’apporto dell’IDV con la sigla
“Rivoluzione Civile”: anche in questo caso il risultato è quello
dell’esclusione dal parlamento con 765.189
voti 1,63%. Se si sommano Sel e Rivoluzione Civile si ha un risultato di 1.854.420 voti pari al 3,95% con un
incremento rispetto all’Arcobaleno di circa 730.000 voti e dell’1,57%
Incremento ottenuto però attraverso una divisione di schieramento. Alla
sinistra è presente anche il PCL con 89.643
voti, 019%.
Camera dei deputati 4
marzo 2018
Le
elezioni più recenti, quelle che hanno portato alla formazione del governo
Lega- M5S. Sono le elezioni nelle quali si dimostra più forte un fenomeno come
quello della volatilità elettorale già in atto da diverso tempo. Come esempio
si può prendere il passaggio di voti riguardante il PD tra le elezioni europee
2014 e le elezioni politiche del 2018. Nelle Europee del 2014 il PD raccolse 11.203.231 voti pari al 22,11% su 27.448.906 voti validi (mancarono all’espressione di voto ben 23.213.554 unità: record storico).
Alle
elezioni del 2018 lo stesso PD (dopo aver perso nettamente il referendum sulle
riforma costituzionali del 4 dicembre 2016) si è fermato a 6.161.896 voti 13,24%. In quattro anni un calo di oltre 5.000.000 di voti. Nell’occasione del 4
marzo 2018 la sinistra, tutta all’opposizione, si riduce al proprio minimo
storico.
Iscritti
46.505.350. Voti validi 32.841.075 70,61 (in calo). Nessuna
espressione di voto per 13.664.275.
Da
notare che tra le europee 2014 e le politiche 2018 si recuperano quasi
10.000.000 di espressioni di voto, nessuna delle quali raggiunge i partiti di
sinistra. Supera la barriera dell’ingresso in parlamento soltanto Liberi e
Uguali (che contiene parte di Sel ed esponenti di una scissione da sinistra del
PD) con 1.114.799 pari al 2,39%. Restano
fuori Potere al Popolo (nelle cui fila sono incluse Rifondazione Comunista e i
Comunisti Italiani oltre a diverse espressioni di movimento particolarmente
legati a istanze di centri sociali) con 372.179
voti pari allo 0.80%, un partito comunista di osservanza ortodossa con 106.816 voti pari allo 0,22%, e la
lista di Sinistra Rivoluzionaria (PCL più altre espressioni fuoriuscite dal
PRC) con 29.643 voti. il PCL tra il
2008 e il 2018 ha perso così circa 180.000
voti)pari allo 0,06%.
Un
totale di 1.823.437 voti, pari al
3,47% con un calo di circa 30.000
voti rispetto al 2013.
Questo
l’itinerario riassunto per sommi capi di una sinistra partita unitariamente tra
PSI, PCI, Partito d’Azione con l’insegna Repubblica e Costituzione raccogliendo
9.450.263 suffragi su 23.010.479 voti validi per una
percentuale del 33,73%. Poi le alterne vicende legate soprattutto alla
divisione governo-opposizione.
***
LA LOTTA DEGLI
ESPOSTI ALL’AMIANTO IN ITALIA
di Michele Michelino*
Il
30 maggio scorso si è tenuto a Padova presso il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’ Università degli Studi, un
incontro seminariale dal titolo: Nocività, salute,
lavoro: esperienze italiane e internazionali pubblichiamo l’interessante intervento dell’amico e collaboratore Michele Michelino presidente del Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio di
Sesto San Giovanni, Milano.
La storia della lotta
contro l’amianto in Italia, -detto anche asbesto, il più economico e “ miglior
termo-dispersore al mondo”- è una storia di anni di battaglie collettive di
uomini e donne che spesso sono rimasti senza volto e senza nome, ma sono riusciti
a sfondare il muro di omertà e di complicità eretto da un sistema industriale
basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo che, pur di realizzare il massimo
profitto, non ha esitato consapevolmente di mandare a morte centinaia di miglia
lavoratori nelle fabbriche, le loro mogli e figli e anche tanti cittadini che
mai hanno visto una fabbrica.
La
nostra è una storia che è costata enormi sacrifici economici e umani ed è
tuttora costellata dalle conseguenze mortali sui lavoratori e sulla
popolazione. Se non si bonificherà il territorio, continuerà l’inquinamento
degli esseri umani, degli animali e della natura e si continuerà a morire.
Nonostante
il ricatto fra occupazione e lavoro, la lotta dei lavoratori per la tutela dei
loro diritti, della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro è stata una
lunga lotta che non ha fine. Una lotta difficile e drammatica di sfruttati che
hanno dovuto guadagnarsi il pane in luoghi di lavoro nocivi, esposti a sostanze
cancerogene, dove si lavorava l’amianto o dove quest’agente killer era, ed è,
presente.
La
pericolosità dell’amianto e il danno letale che provocava alla salute di chi ne
veniva in contatto era noto fin dall’inizio del Novecento.
In
Italia fino agli anni 30’ la silicosi e l’asbestosi erano patologie non
riconosciute come professionali, ma alla fine degli anni 30 -anche grazie agli
studi del prof. Vigliani, oltre che per porre fine al contenzioso e per
assecondare lo sforzo bellico in una fase particolare della 2° Guerra Mondiale,
quando le sorti del conflitto sembravano ormai segnate- il legislatore approvò
la legge 455 del 12/4/1943 con la quale era finalmente stabilita la “Estensione
dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali alla silicosi
e all’asbestosi”. Si trattava di un sia pur minimo riconoscimento per i
lavoratori dell’amianto che si erano ammalati. Lo Stato italiano era dunque
consapevole, fin dagli inizi degli anni ’40, del rischio morbigeno legato
all’esposizione a polveri e fibre di amianto aerodisperse nell’ambiente
lavorativo.
Un
ritardo, quello dello Stato Italiano, ingiustificato e colpevole, perché già
nel 1983 l’allora Comunità Europea (Cee), tramite la direttiva 477, aveva
dichiarato fuori legge l’amianto. Tuttavia per sei anni nessun governo accoglie
le seppur timide indicazioni comunitarie e nel 1989 l’Italia viene giudicata
inadempiente, ma la sanzione europea non comporta alcuna reazione immediata.
Bisognerà attendere il 27 marzo di tre anni dopo perché la legge 257 venga
approvata dal Parlamento.
Con
questa legge viene sancito il divieto di estrazione, importazione, lavorazione,
utilizzazione, commercializzazione, trattamento e smaltimento ed esportazione
dell’amianto e dei prodotti che lo contengono. La messa al bando è affiancata
da una proroga di due anni per permettere agli industriali di smaltirlo. Questo
significa che per 9 anni lo Stato Italiano, cioè tutti i governi che si sono
succeduti, sono stati responsabili e complici delle lobbies dell’amianto e di
Confindustria nella mattanza di centinaia di migliaia di operai e di loro
famigliari. Ci sono volute grandi mobilitazioni, battaglie politiche e
sindacali, e anche battaglie giudiziarie per far approvare finalmente, nel
1992, dopo un lungo presidio di due giorni e due notti dei lavoratori dell’Eternit
di Casale Monferrato, della Breda, e rappresentanti di molte altre fabbriche
italiane sotto il parlamento, una legge che mettesse al bando la produzione e
la commercializzazione di questa sostanza killer e disponesse un insieme di
norme rivolte a tutelare la salute degli esposti, prevedendo misure di
risarcimento per coloro che avevano dovuto svolgere una attività così
pericolosa. Purtroppo l’amianto provoca
malattie e morte, anche molti anni dopo che si smesso di lavorarlo a causa dei
lunghi tempi di latenza di tali patologie.
Questo
materiale, contenuto in oltre 3 mila prodotti -dai mastici ai sigillanti, dalle
pasticche dei freni alle corde, dalle conduttore di acqua potabile alle
intercapedini e stucchi per strutture anche pubbliche, come asili, ospedali e
scuole- era considerato il “miglior termodispersore al mondo”. Così pratico e a
buon mercato da essere finito anche sui tetti: 2,5 miliardi di metri quadrati è
la superficie di coperture in eternit in Italia, equivalente a circa 32 milioni
di tonnellate di cemento-amianto. Conveniente ma mortale: quand’è sottoposto a
sforzi si usura, liberando nell’aria miliardi di particelle che, se inalate,
provocano danni enormi. Ogni anno, in Italia, secondo l’Inail, provoca 4mila
vittime. Una parte rilevante delle 90 mila morti censite all’anno
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo cui nel mondo 125 milioni di
persone - ancora oggi- sono esposte all’amianto nei luoghi di lavoro.
Le
patologie interessano l’apparato respiratorio -asbestosi, tumore maligno del
polmone e della laringe, mesotelioma pleurico-; poi c’è il mesotelioma
peritoneale, quello pericardico, della tunica vaginale del testicolo o il
tumore maligno dell’ovaio. Placche e inspessimenti pleurici diffusi. L’amianto
colpisce anche l’apparato digerente. È un attacco invisibile e senza fretta
quello delle particelle di asbesto, con un intervallo di latenza tra l’inizio
dell’esposizione e la comparsa della malattia che in genere dura decenni: 46
anni, secondo i dati pubblicati nel 2012 nel Quarto rapporto del Registro
nazionale dei mesoteliomi dell’Inail. Prima ancora della “malattia” però,
l’amianto evoca la “fabbrica”. Anche perché l’Italia, fino alla fine degli anni
80, è stato il maggior produttore di amianto d’Europa: dal dopoguerra al 1990
ha partorito 3.748.550 tonnellate di amianto grezzo, seconda solo all’ex Unione
Sovietica.
Sono
trascorsi 26 anni dall’entrata in vigore della legge 257/92 che metteva al
bando l’amianto. I tempi lunghi di molti processi hanno salvato gli assassini
per prescrizione, pochi si sono conclusi con condanne, molti con l’assoluzione
degli imputati per “non aver commesso il fatto”, come se fosse stata colpa
degli operai, delle vittime, aver respirato sostanze cancerogene, lasciando
liberi e impuniti i responsabili della morte di migliaia di operai e
lavoratori: alle vittime, oltre al danno, la beffa.
In
ogni caso anche oggi, dal nord al sud, sono diversi i processi in corso: da
quelli a Milano (ATM, Breda/Ansaldo, Pirelli, Alfa Romeo ) a quelli contro la
Fibronit a Palermo e Broni, Fincantieri a Monfalcone, Montefibre a Verbania,
Montedison a Mantova, la Marina
Militare
a Venezia. Ci sono persino procedimenti sulle autostrade ad es. sulla Prebemi
per l’amianto sotterrato, anche qui in veneto sotto la A31 in Val d’Astico
(Vicenza).
La
nostra esperienza prima, e successivamente anche la letteratura scientifica, ci
hanno insegnato che le fibrille di amianto possono entrare nell’organismo sia
attraverso le vie respiratorie sia attraverso il tubo gastroenterico. Le fibre
d’amianto sono pericolose sia se inalate, sia se ingerite, con i cibi, sia
quando vengono in contatto con tessuti di rivestimento, epidermico e/o mucoso.
Tutti i tessuti, nessuno escluso, vengono colpiti da questa azione patogena. Il tessuto
polmonare, le membrane sierose (pleura, peritoneo, pericardio, tonaca vaginale
del testicolo), sono i bersagli più comuni dell’azione cancerogena.
I
Comitati e le Associazioni delle vittime dell’amianto si battono da anni per la
sicurezza nei luoghi di lavoro e sul territorio, per la giustizia. Oltre al
dolore e alla disperazione che provano quando qualcuno di caro viene colpito
per una malattia senza speranza, i famigliari delle vittime restano per anni in
balia dei Tribunali e dell’Inail in attesa un risarcimento che non arriva mai o
che se qualche volta arriva è troppo tardi. La lotta delle associazione e
comitati è una lotta contro un intero sistema capitalista che privilegia il
profitto alla vita umana e che si scontra con muri di gomma, governi e
istituzioni complici, rimandi infiniti di istituti come INAIL e INPS che dovrebbero
garantire i diritti e che invece sembrano voler costruire risparmi sulla pelle
dei lavoratori (si calcola che l’INAIL abbia un “tesoretto” di oltre trenta
miliardi di euro). Infine la rabbia per una giustizia che non c’è, una
giustizia di classe che assolve i colpevoli e condanna spesso le vittime a
pagare anche le spese dei tribunali.
Nel
2008 noi lavoratori, con le nostre Associazioni e Comitati, ed anche
singolarmente, abbiamo deciso di ricorrere alla Corte Europea per i Diritti
dell’Uomo di Strasburgo, per denunciare la violazione dei loro diritti e delle
norme costituzionali sulle quali si fonda la Repubblica Italiana nata dalla
Resistenza, che all’articolo 1 della Costituzione proclama che la Repubblica è
fondata sul lavoro; ma il più delle volte questa è finzione, apparenza; nella
realtà la Repubblica, nel suo manifestarsi concreto ancora oggi, dimentica la
sicurezza sul lavoro e l’integrità fisica di chi ha dedicato e dedica la vita
al progresso individuale e collettivo, producendo la ricchezza di questo
paese. Di fronte alle stragi collettive,
ai morti del lavoro, si alzano per qualche giorno voci di denuncia del capo
dello stato, ministri, politici e sindacalisti; voci impotenti e ipocrite,
perché il giorno dopo tutto continua come prima. Il
motore del sistema capitalista, della nostra società e del sistema economico è
il profitto, il dio denaro, il mercato, che dispone della vita e della morte
degli esseri umani a cui tutti gli altri diritti umani sono subordinati se
compatibili con esso.
Al
centro del mondo ci sono i “diritti” delle multinazionali, delle rendite
finanziarie, dei profitti e non certo il lavoro, la sua difesa, la sua tutela,
quel lavoro che pure la Costituzione considera essere lo strumento di
affermazione e di progresso, personale e collettivo. Se la centralità è
l'impresa, l’intensificazione incessante del lavoro, il ridurne sempre più i
costi, tagliare i tempi, aumentare gli orari, questo è quanto avvenuto
concretamente nel corso degli ultimi anni, ebbene, gli incidenti non solo non
diminuiranno, ma continueranno ad aumentare, così come aumenteranno le malattie
professionali, che per altro le istituzioni si ostinano a non riconoscere. Lunghe
cause che durano anni e che spesso si concludono per la sopraggiunta morte dei
lavoratori già minati nel fisico. Processi penali lunghissimi che, anche in
casi di condanna dei datori di lavoro per omicidio colposo, fanno scattare la
prescrizione e la conseguente impunità per i responsabili della morte di
centinaia di migliaia di lavoratori, colpevoli che tutto sapevano sulla
pericolosità del minerale killer ma che, in nome della ricerca del massimo
profitto, nulla hanno fatto per evitare queste morti annunciate. In questi anni
migliaia di operai, lavoratori italiani, i loro famigliari e intere famiglie
sono state sterminate dal pericoloso e silenzioso killer e molti aspettano
ancora invano giustizia. Sono passati, ormai e purtroppo, molti anni da quando
ci siamo resi conto che tante vittime dell’amianto potevano essere salvate, da quando
abbiamo tutti capito che le responsabilità per la tragedia causata da questa
fibra-killer sono molteplici e di varia origine, da quando persino le aziende
hanno cessato di negare le gravissime e letali conseguenze delle esposizioni
all’amianto (purché a loro non attribuibili).
Ancor più grave è il comportamento dei politici, sindacalisti, medici,
Governi, istituzioni, enti amministrativi preposti (Inail, Inps, ecc), sia pure
a livello di amministrazione delle cause giudiziarie (civili, amministrative e
penali). che, pur riconoscendo i letali influssi sui lavoratori e la popolazione
dell’amianto nulla fanno. La vicenda dell’amianto ci conferma invece che siamo
ancora lontani dal pieno riconoscimento di questo diritto. Anche se siamo
coscienti di combattere contro una società che privilegia il profitto rispetto
alla vita umana questo non ci impedisce però di continuare a lavorare e a
lottare per fare in modo che i diritti dell’uomo, in concreto e non solo in
astratto, possano essere pienamente e pacificamente riconosciuti, a ogni
livello e in ogni settore della nostra vita: da quello politico a quello
giudiziario, da quello sociale a quello amministrativo.
LA MORTE SUL LAVORO E DI
LAVORO NON È MAI UNA FATALITÀ
Sesto
San Giovanni, dove è nato il nostro Comitato, aveva 42.000 operai concentrati
in 8 grandi fabbriche, su una popolazione di 90.000 abitanti. Quando, tra i
nostri compagni di lavoro, cominciavano ad aumentare il numero delle neoplasie
e di altre malattie professionali, riconducibili all’esposizione all’amianto e
ad altri cancerogeni (cromo, nickel, piombo, ecc.), ci siamo convinti della
necessità di non delegare più ad altri la tutela dei nostri diritti se non a
noi stessi e che la morte sul lavoro e di lavoro non è mai una fatalità. Non il
destino, ma la sete di profitto e l’indifferenza di molti è la causa di tante
tragedie.
Il
nostro non è un caso isolato! Noi ci siamo costituiti in Comitato, altri in
associazioni, per svolgere quella essenziale funzione di difesa dei lavoratori
e per la tutela dei loro diritti. Gli studi epidemiologici hanno, purtroppo,
confermato la più alta incidenza di queste patologie tra i lavoratori di Sesto
San Giovanni, rispetto al resto della popolazione. Certo è che, come ha
dimostrato la scienza medico-legale, inalare polveri di amianto favorisce i
processi cancerogeni, li determina e li accelera. L’intera penisola italiana è
percorsa da una silenziosa e strisciante tragedia, cosparsa di lacrime e
sangue.
Dai
dati Inail si rileva che solo nei primi mesi dell’anno (fino al 28 maggio 2018)
ci sono stati 286 morti sul lavoro in Italia, 24 in più del 2017, in crescita
del 9,2%.
Sono
migliaia i morti per infortuni sul lavoro e malattie professionali, quasi un
bollettino di guerra, dove tuttavia a morire sono sempre e solo gli operai. Esiste
una guerra non dichiarata fra sfruttati e sfruttatori in cui i morti, i feriti
e gli invalidi si contano da una parte sola; gli operai, i lavoratori che
producono ricchezza da cui sono esclusi. Così scriveva G. Berlinguer in
(Medicina del lavoro in La salute nella fabbrica, edizioni Italia-URSS, Roma
1972, pag, 32): “Nel ventennio 1946-1966
si sono verificate in Italia 22.860.964 casi di infortunio e di malattia
professionale, con 82.557 morti e con 966.880 invalidi. Quasi un milione di
invalidi, il doppio di quelli causati in Italia dalle due guerre mondiali, che
furono circa mezzo milione. Mentre la media degli infortuni e malattie professionali
nel ventennio 1946-1966 è stata lievemente superiore ad 1 milione di casi
annui, negli anni dal 1967 al 1969 la cifra è salita ad oltre 1,5 milioni di
casi e nel 1970 ad 1.650.000 casi”.
Già
nel 1974, più di quarant’anni fa, lo S.M.A.L. (Servizio di Medicina Preventiva
per gli Ambienti di Lavoro) di Sesto San Giovanni aveva evidenziato, in
rapporti inoltrati alla Direzione Aziendale Breda Fucine, all’Assessorato alla
Sanità, al Servizio Sanitario Aziendale, all’Ufficiale Sanitario,
all’Ispettorato del Lavoro, ai Sindacati CGIL-CISL-UIL e alla FLM (Federazione
Lavoratori Metalmeccanici) i pericoli dell’amianto usato nelle fabbriche..
L’organizzazione del lavoro prescindeva dalla tutela della salute o era quanto
meno inadeguata a quel fine, privilegiando il profitto al rispetto dei diritti.
Molti dei nostri compagni di lavoro sono morti senza ottenere giustizia e non è
migliore la situazione nel resto dell’Italia ed in altri territori. Tuttavia
dobbiamo combattere spesso nell’indifferenza la nostra battaglia di civiltà,
che dalle aule dei Tribunali d’Italia abbiamo, ora, trasferito anche presso la
Corte Europea di Strasburgo, facendo ricorso contro la Repubblica Italiana e
l’Inail, rei di avere ancora una volta, dopo aver dimenticato, discriminato e
conculcato diritti già acquisiti e costituzionalmente rilevanti. La tutela
della salute sancita dalla Carta Costituzionale si è quasi sempre fermata ai
cancelli delle fabbriche e dove è stato possibile farla rispettare è stato solo
grazie alle lotte dei lavoratori.
Abbiamo
dato vita, dunque, al Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro
e nel Territorio intraprendendo una battaglia di giustizia e verità combattendo
contro un muro di omertà e di complicità. Quando lo Stato capitalista padrone
delle industrie pubbliche nasconde, al pari degli industriali privati, o
minimizza la pericolosità dell’amianto killer, diventa esso stesso assassino e
complice di padroni e manager privati che per realizzare il massimo profitto
calpestano la salute e la vita umana.
Più
volte, insieme ai nostri compagni di lavoro, abbiamo protestato per la mancanza
d’aspiratori e delle condizioni di sicurezza, denunciando che, mentre tutti
parlavano di robotica o di fabbrica automatizzata, in fabbrica ci si ammalava e si moriva. Ogni
volta, davanti alle proteste, la direzione aziendale prospettava la chiusura
della fabbrica. I sindacati confederali consigliavano di non scioperare né di
interrompere la produzione. Tuttavia, i “sacrifici” non hanno evitato lo
smembramento della fabbrica, la cassa integrazione e la chiusura della Breda.
Lo stesso processo è avvenuto nelle altre fabbriche sestesi e italiane, con la
chiusura della Falck, dell’Ercole Marelli, della Magneti Marelli, dell’Ansaldo
e di tutte le altre grandi fabbriche. Ogni anno muoiono nel mondo per cause
legate all’attività lavorativa 2 milioni di persone, 100 mila solo per
l’amianto, mentre gli infortuni totali sono 270 milioni.
Nella
”civile” Italia gli infortuni sul lavoro sono oltre un milione. Solo per le
malattie derivate dall’amianto ogni anno muoiono nel nostro paese più di 4.000
lavoratori. A queste cifre vanno aggiunte le migliaia di morti dovute a
malattie causate all’inquinamento ambientale e quelli derivanti dai 3 milioni e
500 mila lavoratori stranieri e italiani in nero, che non rientrano nei conteggi
Inail. Quindi non è azzardato pensare che i morti sul lavoro e di lavoro in
Italia, siano più di 10 al giorno. Ogni anno il costo sociale degli infortuni
sul lavoro e delle malattie professionali è pari al 4% del PIL mondiale, ma il
costo pagato dai lavoratori è molto più alto. È
in questo contesto che si colloca la nostra battaglia politica, etica e morale,
prima che legale. Le vicenda processuali e le morti certe o sospette per
amianto in Italia assumono un aspetto singolare e per certi versi sconcertante!
Molti processi, a cominciare da quello Eternit di Casale Monferrato, sono
finiti con la assoluzione per prescrizione e cioè per il venir meno della
pretesa punitiva dello Stato per il decorso del tempo. Altro che… giustizia è
fatta!
Non
intendiamo delegare a nessuno la difesa dei nostri diritti. Con le altre
Associazioni stiamo lavorando per costruire un grande movimento che unifichi
tutte le lotte operaie e popolari, nella battaglia contro lo sfruttamento e le
logiche di morte. Lottiamo per imporre condizioni di sicurezza nella
organizzazione del lavoro, affinché altri non debbano subire e patire quello
che abbiamo subito noi, i nostri compagni di lavoro e i nostri famigliari. La
nostra lotta ha fatto comprendere a molti lavoratori che la loro malattia non
era causata da un infausto destino, ma aveva precise responsabilità in chi
sapeva e nulla ha fatto per evitare queste morti annunciate e questo ha dato a
molti un motivo in più per combattere. Crediamo che il primo dovere della
magistratura sia quello di indagare su tutte la morti “innaturali” perseguendo
i responsabili e continueremo a lottare insieme a tutti coloro che vogliono far
valere il principio: “prima di tutto la salute” e far diventare realtà il fatto
che “senza sicurezza non ci può essere lavoro”.
Gli
Imprenditori, agli esordi, hanno avuto la colpa di nascondere le ricerche
scientifiche che hanno evidenziato la nocività dell’asbesto, occultando
dolosamente la conseguenza dell’insorgenza di estese patologie tra i
lavoratori, tra i loro familiari, e tra molti cittadini comuni esposti al
minerale nell’ambiente di vita. Tuttavia in tempi più recenti, la verità
storica ha trovato soddisfazione in alcuni Tribunali con le due recenti
sentenze della Terza e Quarta Sezione della Corte di Cassazione sui morti
d’amianto alla Centrale Enel di Chivasso (To) e Turbigo (Mi) che hanno
condannato i dirigenti per la morte dei lavoratori affermando che: “il
superamento, alla stregua della letteratura scientifica ormai consolidata,
della teoria della cd. dose killer non può che comportare, sul piano logico,
l’adesione all’ipotesi scientifica, avente fondamento epidemiologico, secondo
cui l’aumento della esposizione produce effetti nel periodo di induzione e di
latenza”. Sentenza 4560/2018, III Sezione Penale della Cassazione.
La
recentissima sentenza della IV Sezione Penale della Corte di Cassazione del 18
maggio 2018 ha confermato le condanne per i numerosi casi di lavoratori
deceduti per patologie derivanti dall’amianto presso la Fincantieri di Monfalcone.
Sembra che il vento stia cambiando, e questo avviene grazie a chi non si è mai
arreso, alle lotte dei lavoratori.
Tuttavia,
per decenni, la sete di potere e di guadagno degli imprenditori ha goduto della
complicità esterna, dell’ignoranza passiva e/o attiva di medici, di consulenti
tecnici, di legali, di giudici, di funzionari delle amministrazioni pubbliche,
di detentori del potere esecutivo e/o di quello legislativo che - con la loro
indifferenza, i silenzi e con le bugie - hanno frequentemente fuorviato e
manipolato l’opinione pubblica
Per
troppi anni, in cambio del salario, i lavoratori sono stati costretti a lavorare
in ambienti malsani e insicuri col risultato che milioni di persone che hanno
costruito la ricchezza di questo paese hanno perso la vita , morendo fra atroci
sofferenze, per arricchire i loro padroni.
In
questo panorama desolante, possiamo tuttavia vantare molti, importanti,
risultati per tutti, lavoratori e cittadini: la sorveglianza sanitaria gratuita
per tutti gli esposti all’amianto che, per quanto prevista dalla legge, un
molte regioni non veniva attuata; la costituzione di un Fondo Vittime dell’Amianto
ma soprattutto l’aumento della consapevolezza del rischio amianto, attraverso
manifestazioni di piazza, convegni, pubblicizzazione dei processi intentati ai
responsabili di questo crimine “di pace”.
Infine
continuiamo la nostra battaglia lottando per il futuro nostro e delle
generazioni che verranno: la prevenzione primaria, il “rischio zero” del
cancerogeno asbesto e di tutti gli inquinanti.
***
2° Rapporto sull'infanzia (clicca sull'immagine per scaricare il pdf)Testo integrale della risoluzione UNESCO sulla Palestina occupata
Testo originale :
http://unesdoc.unesco.org/images/0024/002462/246215e.pdf
Gerusalemme |
Di seguito il testo della
risoluzione “Palestina Occupata”, approvata dalla commissione dell’Unesco con
24 voti favorevoli, 6 contrari e 26 astensioni
Voti a favore:
Algeria, Bangladesh, Brasile, Chad, Cina, Repubblica Domenicana, Egitto, Iran,
Libano, Malesia, Marocco, Mauritius, Messico, Mozambico, Nicaragua, Nigeria,
Oman, Pakistan, Qatar, Russia, Senegal, Sud Africa, Sudan e Vietnam.
Voti contrari:
Estonia, Germania, Lituania, Paesi Bassi, Regno Unito e Stati Uniti.
Astenuti:
Albania, Argentina, Cameron, El Salvador, Francia, Ghana, Grecia, Guinea,
Haiti, India, Italia, Costa d’Avorio, Giappone, Kenya, Nepal, Paraguay, Saint
Vincent e Nevis, Slovenia, Korea del Sud, Spagna, Sri Lanka, Svezia, Togo,
Trinidad e Tobago, Uganda e Ucraina.
Assenti:
Serbia e Turkmenistan.
Comitato Esecutivo
Sessione n. 200
Commissione programma e
relazioni esterne (PX)
Oggetto 25: PALESTINA
OCCUPATA
Discussione
Proposta da: Algeria,
Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan
A Gerusalemme
Il comitato esecutivo,
Palestinesi |
1. Avendo
esaminato il documento 200EX/25,
2.
Richiamandosi alle quattro disposizioni della convenzione di Ginevra (1949) ed
ai relativi protocolli (1977), alle regolamentazioni del Tribunale dell’Aia in
territori di guerra, alla convenzione dell’Aia per la protezione dei beni
culturali in caso di conflitto armato (1954) ed ai relativi protocolli, alla
Convenzione sui mezzi per proibire ed impedire l’importazione, l’esportazione
ed il trasferimento illegale di beni culturali (1970) e alla Convenzione per la
protezione del Patrimonio Culturale e Naturale Mondiale (1972), all’inserimento
della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura tra i siti Patrimonio
Culturale dell’Umanità (1972) e tra i siti del Patrimonio a Rischio (1982),
oltre che alle raccomandazioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO sulla
protezione del patrimonio culturale, così come alle risoluzioni e decisioni
dell’UNESCO in riferimento a Gerusalemme, richiamandosi anche alle precedenti
risoluzioni UNESCO in materia di ricostruzione e sviluppo di Gaza ed alle
risoluzioni UNESCO relative ai siti palestinesi di Al-Kahlil/Hebron e Betlemme,
3.
Affermando l’importanza che Gerusalemme e le sue mura rappresentano per le tre
religioni monoteiste, affermando anche che in nessun modo la presente
risoluzione, che intende salvaguardare il patrimonio culturale della Palestina
e di Gerusalemme Est, riguarderà le risoluzioni prese in considerazione dal
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e le risoluzioni relative allo
status legale di Palestina e Gerusalemme,
4. Condanna
fermamente il rifiuto di Israele di implementare le precedenti decisioni UNESCO
riguardanti Gerusalemme, in particolare il punto 185 EX/Ris. 14, sottolineando
come non sia stata rispettata la propria richiesta al Direttore Generale di
nominare, il prima possibile, un rappresentate permanente di stanza a
Gerusalemme Est per riferire regolarmente quanto riguarda ogni aspetto di
competenza UNESCO, né lo siano state le reiterate richieste successive in tal
senso;
5. Condanna
fortemente il mancato rispetto da parte di Israele, potenza occupante, della
cessazione dei continui scavi e lavori a Gerusalemme Est ed in particolare
all’interno e nei dintorni della Città Vecchia, e rinnova la richiesta ad
Israele, la potenza occupante, di proibire tutti questi lavori in base ai
propri obblighi disposti da precedenti convenzioni e risoluzioni UNESCO;
6. Ringrazia
il Direttore Generale per gli sforzi compiuti nel cercare di rendere effettive
le precedenti risoluzioni UNESCO per Gerusalemme e nel cercare di mantenere e
rinnovare tali sforzi;
7. Chiede ad
Israele, la potenza occupante, di ripristinare lo status quo precedente al
settembre 2000, in base al quale il dipartimento giordano “Awqaf ” (Fondazione
religiosa) esercitava senza impedimenti autorità esclusiva sulla moschea
Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif ed il cui mandato si estendeva a tutte le questioni
riguardanti l’amministrazione della moschea Al- Aqsa/Al-Haram Al-Sharif,
inclusi il mantenimento, il restauro e la regolamentazione degli accessi;
8. Condanna
fortemente le sempre maggiori aggresioni israeliane e le misure illegali nei
confronti dell’ Awqaf e del suo personale, e nei confronti della libertà di
culto e dell’accesso dei musulmani alla loro moschea santa Al-Aqsa/Al-Haram
Al-Sharif, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di rispettare lo status
quo storico e di porre fine immediatamente a dette misure;
9. Deplora
fermamente le continue irruzioni di estremisti israeliani di destra e delle
forze armate alla moschea Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif, e sollecita Israele, la
potenza occupante, a mettere in atto le misure necessarie a prevenire
violazioni provocatorie che non rispettino la santità e l’integrità della
Moschea Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif;
10. Denuncia
fermamente le continue aggressioni israeliane nei confronti dei civili, tra cui
figure religiose e sacerdoti islamici, denuncia l’ingresso con la forza nelle
varie moschee ed edifici storici del complesso Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif da
parte di funzionari israeliani, compresi quelli delle cosiddette “Antichità Israeliane”
[IAA, l’autorità israeliana delle antichità, che dipende dal ministero della
Cultura. Ndtr], l’arresto ed il ferimento di musulmani in preghiera e di
guardie dell’Awqaf, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di porre fine a
queste aggressioni ed agli abusi che alimentano le tensioni sul terreno e tra
le religioni;
11.
Disapprova le limitazioni imposte da Israele all’accesso alla Moschea
Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif durante l’Eid Al-Adha del 2015 e le conseguenti
violenze, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di cessare ogni sorta di
abusi contro la Moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif;
12. Condanna
fermamente il rifiuto di Israele di concedere visti agli esperti UNESCO
incaricati del progetto UNESCO presso il “Centro per i Manoscritti Islamici” di
Al-Aqsa /Al-Ḥaram Al-Sharif, e chiede ad Israele di concedere il visto agli
esperti UNESCO senza alcuna restrizione;
13. Condanna
i danni provocati dalle forze di sicurezza israeliane, specialmente a partire
dall’agosto 2015, alle porte e finestre della Moschea al-Qibli all’interno del
complesso Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, e a tale proposito riafferma l’obbligo da
parte di Israele di rispettare l’integrità, l’autenticità ed il patrimonio
culturale della moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, come stabilito dallo status
quo tradizionale, in quanto sito islamico di preghiera e parte del patrimonio
culturale mondiale;
14. Esprime
la propria profonda preoccupazione per il blocco israeliano ed il divieto di
ristrutturare l’edificio della porta di “Al-Rahma”, una delle porte della
moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, e sollecita Israele, la potenza occupante,
a riaprire tale porta e porre fine agli ostacoli posti per la realizzazione dei
necessari lavori di restauro, per poter riparare i danni apportati dalle
condizioni meteorologiche, specialmente dalle infiltrazioni d’acqua all’interno
delle stanze dell’edificio.
15. Chiede
inoltre ad Israele, la potenza occupante, di consentire la messa in opera
immediata di tutti i 18 progetti hashemiti [del re di Giordania. Ndtr.] di
ristrutturazione di Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif;
16. Deplora
la decisione israeliana di costruire una funivia a doppio cavo a Gerusalemme
Est ed il cosiddetto progetto “Liba House” nella Città Vecchia, cosi come la
costruzione del cosiddetto “Kedem Center”, un centro per visitatori nei pressi
del lato sud della moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, la costruzione
dell’edificio “Strauss” ed il progetto di un ascensore nella Piazza Al-Buraq
“Plaza del Muro occidentale”, e invita Israele, la potenza occupante, a
rinunciare ai progetti sopra citati e a fermare i lavori in conformità con i
propri obblighi in base alle convenzioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO;
17. Ribadisce
che la scalinata “Mughrabi” è parte integrante ed inseparabile del complesso
Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif;
18. Prende
atto del sedicesimo verbale di monitoraggio e di tutti i verbali precedenti,
insieme alle relative aggiunte preparate dal World Heritage Center, e dei
verbali sullo stato di conservazione inoltrati al World Heritage Center dal
regno di Giordania e dallo Stato di Palestina;
19. Deplora
le continue misure e decisioni unilaterali da parte israeliana in merito alla
scalinata, inclusi gli ultimi lavori realizzati alla porta “Mughrabi” nel
febbraio 2015, l’installazione di una copertura all’entrata e la creazione di
una tribuna di preghiera ebraica a sud della scalinata nella piazza “Al-Buraq,
o “piazza del Muro occidentale”, e la rimozione dei resti islamici del sito, e
riafferma che nessuna misura unilaterale israeliana dovrà essere presa,
conformemente al proprio status e agli obblighi derivanti dalla convenzione
dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in presenza di conflitti
armati.
20. Esprime
inoltre la propria forte preoccupazione riguardo alla demolizione illegale di
resti omayyadi, ottomani e mamelucchi, così come per altri lavori e scavi
intrusivi attorno al percorso della porta “Mughrabi” e inoltre chiede ad Israele,
la potenza occupante, di fermare tali demolizioni, scavi e lavori e di
attenersi ai propri obblighi in base alle disposizioni dell’UNESCO menzionate
nel paragrafo precedente;
21. Rinnova
i propri ringraziamenti alla Giordania per la sua cooperazione e sollecita
Israele, la potenza occupante, a cooperare con il servizio giordano
dell'”Awqaf”, in conformità con gli obblighi imposti dalla convenzione dell’Aia
del 1954 per la protezione dei beni culturali in presenza di conflitti armati,
e di agevolare l’accesso al sito da parte degli esperti giordani con i propri
strumenti e materiali per permettere l’esecuzione del progetto giordano per la
scalinata della porta “Mughrabi” in base alle disposizioni dell’UNESCO e del
“Comitato per il Patrimonio Mondiale”, in particolare del 37 COM/7A.26, 38
COM/7A.4 and 39 COM/7A.27;
22.
Ringrazia il direttore generale per l’attenzione riservata alla delicata
situazione in oggetto, e le chiede di intraprendere le adeguate misure per
permettere la messa in pratica del progetto giordano;
23.
Sottolinea ancora una volta l’urgenza della messa in pratica della missione di
monitoraggio attivo nella Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura;
24. A questo
proposito ricorda la disposizione 196 EX/Dec. 26 che ha deciso, in caso di
mancata realizzazione, di prendere in considerazione altri mezzi per garantirne
la messa in pratica in conformità con le leggi internazionali;
25.
Sottolinea con forte preoccupazione che Israele, la potenza occupante, non ha
rispettato nessuna delle 12 risoluzioni del comitato esecutivo né le 6 del
“Comitato per il Patrimonio Mondiale” , che richiedono la realizzazione della
missione di monitoraggio nella Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura.
26. Segnala
il continuo rifiuto da parte di Israele di agire in accordo con le decisioni
dell’UNESCO e del “Comitato per il Patrimonio Mondiale” che chiedono un
incontro con gli esperti UNESCO in merito alla missione di monitoraggio della
Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura;
27. Invita
il Direttore Generale ad intraprendere le misure necessarie per mettere in
pratica il succitato monitoraggio in base alla disposizione 34 COM/7A.20 del
“Comitato per il Patrimonio Mondiale” , prima della prossima riunione del
comitato esecutivo, ed invita tutte le parti in causa ad adoperarsi per
agevolare la missione e l’incontro con gli esperti;
28. Chiede
che il verbale e le raccomandazioni evidenziate dalla missione di monitoraggio
ed il verbale dell’incontro tecnico riguardante la scalinata “Mughrabi” siano
presentati a tutte le parti coinvolte;
29.
Ringrazia il direttore generale per i continui sforzi a sostegno della
succitata missione di monitoraggio congiunto dell’UNESCO e delle decisioni e
risoluzioni dell’UNESCO in merito;
30. Condanna
gli scontri militari all’interno ed intorno alla Striscia di Gaza e le vittime
civili da essi provocati, compresi l’uccisione ed il ferimento di migliaia di
civili palestinesi, tra cui bambini, ed il continuo impatto negativo nel campo
di competenza dell’ UNESCO, gli attacchi contro scuole ed altri edifici culturali
ed educativi, incluse le trasgressioni all’inviolabilità delle scuole dell’
“United Nations Relief” [UNRRA, organizzazione ONU per il soccorso alle
popolazioni vittime di conflitti. Ndtr.] e della “Works Agency for Palestine
Refugees” in Medio Oriente (UNRWA) [organizzazione dell’ONU che si occupa dei
profughi palestinesi. Ndtr.];
31. Condanna
fortemente il continuo blocco israeliano della Striscia di Gaza, che condiziona
pesantemente il libero flusso di personale e degli aiuti umanitari, così come
l’intollerabile numero di vittime tra i bambini palestinesi, gli attacchi alle
scuole e ad altri edifici educativi e culturali, e la negazione del diritto
all’istruzione, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di porre
immediatamente fine al blocco;
32. Rinnova
la richiesta al direttore generale di ripristinare, il prima possibile, la
presenza dell’UNESCO a Gaza per poter assicurare la rapida ricostruzione di
scuole, università, siti culturali, istituzioni, centri di comunicazione e
luoghi di culto che sono stati distrutti o danneggiati nelle successive guerre
contro Gaza;
33.
Ringrazia il direttore generale per l’incontro informativo tenutosi nel marzo
2015 sull’attuale situazione a Gaza riguardo alle competenze dell’UNESCO e per
il risultato dei progetti condotti dall’UNESCO nella Striscia di
Gaza-Palestina, e la invita ad organizzare, al più presto, un nuovo incontro
informativo sulle stesse questioni;
34.
Ringrazia inoltre il direttore generale per le iniziative che sono già state
portate avanti a Gaza nel campo dell’educazione, della cultura, dei giovani e
per la sicurezza dei reporter, ed auspica che continui il coinvolgimento attivo
nella ricostruzione dei siti culturali ed educativi di Gaza;
35.
Riafferma che i due siti in oggetto, situati ad Al-Khalil/Hebron ed a Betlemme
sono parte integrante della Palestina;
36.
Condivide la convinzione affermata dalla comunità internazionale secondo cui i
due siti sono importanti dal punto di vista religioso per ebraismo,
cristianesimo e islam;
37.
Disapprova fortemente l’attuale prosecuzione di scavi, lavori e costruzione di
strade private per i coloni da parte di Israele e di un muro di separazione
all’interno della città vecchia di
Al-Khalil/Hebron, che danneggia l’integrità del sito, e condanna il conseguente
impedimento alla liberta di movimento e di accesso a luoghi di preghiera.
Chiede ad Israele, la potenza occupante, di porre fine a tali violazioni in
base alle disposizioni delle importanti convenzioni, decisioni e risoluzioni
dell’UNESCO.
38. Deplora
profondamente il nuovo ciclo di violenza, iniziato nell’ottobre 2015, nel
contesto di una costante aggressione da parte dei coloni israeliani e di altri
gruppi estremisti verso i residenti palestinesi, inclusi studenti, e chiede ad
Israele di impedire tali aggressioni;
39. Denuncia
l’impatto visivo del muro di separazione nel sito della Moschea Bilal Ibn Rabaḥ
Mosque/Tomba di Rachele a Betlemme, così come l’assoluto divieto di accesso per
i fedeli cristiani e musulmani palestinesi al sito, e chiede alle autorità
israeliane di riportare il paesaggio all’aspetto originale e rimuovere il
divieto di accesso;
40. Condanna
decisamente il rifiuto da parte di Israele di dare compimento alla disposizione
185 EX/Dec. 15, che impone ad Israele di rimuovere i due siti palestinesi dal
proprio patrimonio nazionale e chiede alle autorità israeliane di agire in base
a tale decisione;
41. Decide
di includere questi argomenti di discussione sotto il titolo di “Palestina
Occupata” nell’agenda della 201° sessione, ed invita il direttore generale a
sottoporre ad essa un rapporto aggiornato sulla situazione a riguardo.
COMITATO SARDO “GETTIAMO LE BASI”
Quarta
Commissione Parlamentare d’Inchiesta
Sardegna: poligoni, sindrome
Golfo-Balcani-Quirra-Teulada-
Capo Frasca.
“L’assenza di certezze scientifiche non deve
servire da pretesto agli Stati per ritardare l’adozione di misure” ONU, Protocollo di Rio.
“L’interesse nazionale
cede di fronte al superiore interesse pubblico costituito dalla tutela della
salute (…)” che ha “il valore dell’assolutezza, ciò significa che va protetta
contro ogni iniziativa ostile da chiunque provenga e con la conseguenza che ha
anche una valenza incondizionata. Tale tutela comprende le ipotesi in cui i
rilievi scientifici non hanno raggiunto una chiara prova di nocività (..)
occorre applicare il principio di minimizzazione che costituisce il corollario
del principio di precauzione” (TAR Sardegna, sentenza
di sospensiva all’installazione dei radar, 6/10/2011).
L’attuale quarta Commissione Parlamentare d’Inchiesta
è chiamata a recepire e dare attuazione a risultanze e indirizzi della terza
(art2 c.2 legge istitutiva), chiudere rapidamente e definitivamente
l’inchiesta.
Parrebbe che le sia attribuita solo una funzione
prettamente notarile o di braccio esecutivo delle decisioni della terza
Commissione. La presidenza affidata all’on Scanu è garanzia di continuità.
Per capire le attività dell’attuale Commissione giova
ricapitolare il lavoro delle precedenti. Va tenuto presente che le prime due
hanno avuto circa un anno di vita, la terza circa quattro anni.
CRONISTORIA
La Commissione Parlamentare d’Inchiesta è stata strappata nel 2005 dalla
lotta avviata nel 1999 dal comitato antimilitarista Gettiamo le Basi, dalle
famiglie sarde di militari e dalle associazioni nazionali di tutela dei
militari. Per un decennio abbiamo contrastato i tentativi esterni e interni di
affossamento e sabotaggio.
Prima Commissione (2005-06 parrebbe
condannata alla damnatio memoriae per motivi inspiegabili o troppo spiegabili)
Amplia il ristretto mandato ed estende l’inchiesta alla Sardegna; riconosce ufficialmente il ruolo propulsivo delle
associazioni di base che
da anni documentavano il cluster di tumori nelle aree dei Poligoni Salto di
Quirra e Teulada (seduta18/10/2005); trova rapida conferma delle anomalie
sanitarie in Sardegna (10/11/2005, Audizione del Procuratore militare di
Cagliari); elabora il “Progetto
di biomonitoraggio sul rischio ecologico e sanitario per i militari e la
popolazione” e il “Progetto di studio
sulla salute dei militari e delle popolazioni esposte alle attività militari”,
entrambi, complementari tra loro, appropriati per precedere, accompagnare e
andare oltre la bonifica. I due tipi di monitoraggio non possono essere usati -
come si è fatto, e si programma di fare - per dilazionare ed eludere le misure
imposte dal principio di precauzione: l’obbligo dello Stato di imporre la
moratoria alle attività a rischio anche solo ipotetico.
Seconda
Commissione (2006-2008,
governo Prodi):
Prende atto dei “dati inoppugnabili” di civili e
militari colpiti in modo abnorme da patologie collegate all’inquinamento
bellico; equipara i poligoni ai teatri di guerra, equipara i militari inviati
nei teatri di guerra a militari e popolazioni delle aree adibite ai “giochi di
guerra”. Fa gravare l’onere della prova sul ministero Difesa. Afferma la
valenza del nesso probabilistico, pilastro della normativa italiana e
internazionale[i].
Rigetta la corbelleria cara alle Forze Armate della dimostrazione del nesso diretto causa-effetto, turpe furbata
per evitare di risarcire le vittime, fuggire dalle responsabilità, salvare la
faccia.
Di fatto
stabilisce che anche Amministrazione Difesa e Forze Armate sottostanno alle
leggi della Repubblica. Banale e allo stesso tempo innovativo! Sovverte,
infatti, il regime di vecchia data che i militari definiscono “specificità”,
l’attuale Commissione “amministrazione
domestica”, altri “vulnus allo Stato di Diritto inferto dal settore militare
che si erge a Stato nello Stato”. Scardina il “diritto” che gli Stati Maggiori si sono arrogati di
non rispondere dell’uso della bassa truppa, ieri come carne da cannone, oggi
carne da radiazione.
Grazie all’impegno
di alcuni parlamentari, in particolare del vicepresidente della Commissione, il
senatore Mauro Bulgarelli, la legge 296/2006 stanzia i fondi, sia per attivare
i due sistemi di monitoraggio sanitario e biologico-ambientale indicati dalla
prima Commissione, sia per la bonifica dei poligoni, fondi incrementati
dalla Finanziaria per il 2008 in
prospettiva triennale (dieci miliardi all’anno) e prontamente azzerati dal
successivo governo Berlusconi con il decreto legge 27/5/2008 n. 93 nel totale disinteresse e ignavia di
tutta la classe politica sarda a tutti i livelli, dall’allora sottosegretario alla Difesa Cossiga ai Comuni.
Fine 2007, il ministro alla
Difesa, il sardo Parisi, avvia i due sistemi di monitoraggio che si
concretizzano, gravemente amputati e snaturati, nella creazione del “Centro
Prevenzione Controllo Malattie dei Militari” (l’attenzione alle popolazioni
sparisce!) e nel monitoraggio del Salto di Quirra (sparisce il biologico!).
Febbraio 2008, cade il Governo,
cade la Commissione e parte a velocità luce il Piano di monitoraggio ambientale del Poligono Interforze Salto di
Quirra (PISQ). Macroscopica inadeguatezza, incongruenze, irregolarità sono
prontamente segnalate dal vicepresidente della Commissione (ALL.1 Bulgarelli 19/3/2008). L’ultimo scandaloso raggiro
emerge nel 2012.
INCISO: “L’Operazione Trasparenza” top secret
Il monitoraggio è propagandato
come “operazione trasparenza e verità”.
Nel 2012, però, la Namsa/Nato oppone il “segreto
Nato” alla richiesta della Procura di Lanusei di accesso agli atti della
gara d’appalto (e il gup Clivio rigetta la richiesta della Procura di allegare l’altolà
della Nato agli atti del processo Quirra).
L’attuale quarta Commissione
ignora o finge d’ignorare la gravità del fatto?
L’esigenza di acquisire gli atti
della gara d’appalto è stata posta anche da alcuni senatori della terza
Commissione. La Commissione li ha formalmente richiesti? Li ha ricevuti? L’analoga
richiesta del Comitato Territoriale - specchietto creato per dare ad intendere “la trasparenza e leale collaborazione”
con gli enti locali, spacciati persino come coautori del Piano – è sempre stata
evasa dai vertici militari.
Terza Commissione
I risultati sono sintetizzati da
un commentatore politico specializzato in tematiche militari:“Scritti a quattro mani, due dei generali,
due delle industrie di armi”.
Concordiamo! Non è
da attribuire a semplice negligenza o personali incapacità il disinteresse
totale per la sottrazione dei fondi della bonifica e per il monitoraggio
sanitario (CPCM). La Commissione “vede” il monitoraggio-bidone del Pisq a
operazione conclusa, dopo l’intervento della Magistratura e l’attenzione dei
media sardi e internazionali ed evita di entrare nel merito.
Per il caso Sardegna la Commissione
parte con la “verità” già in tasca, una strana “verità” in totale contrasto con
i risultati delle due precedenti e con la forza dell’evidenza. La linea guida
ribadita in quasi tutte le sedute “tranquillizzare
i militari e la popolazione” è puntualizzata
con estrema chiarezza dal presidente Costa (seduta n. 42): “Contrastare alcuni ingiustificati allarmismi, alimentati
in taluni casi anche dai toni sensazionalisti dei media” e “da
antimilitarismo preconcetto e ideologico” come sempre precisa l’on. Scanu.
Sorvoliamo sulla visione della razionalità prerogativa esclusiva di filo
militaristi e guerrafondai. Invitiamo, però, a rileggere l’audizione del
Procuratore militare di Cagliari (10/11/2005). Anche lui antimilitarista ideologico?
Se così fosse avremo prova che l’antimilitarismo, finalmente, sta diventando
pensiero egemone.
L’obiettivo di osteggiare “l’allarmismo preconcetto”
contiene e anticipa i risultati del lavoro: il disastro ambientale e sanitario
che ha come epicentro il poligono Salto di Quirra (Pisq), registrato dalla
prima e seconda Commissione, comprovato dall’indagine del procuratore
Fiordalisi (2011/12, meno di 15 mesi!) è un falso allarme, non deve esistere.
La “verità” a priori, indipendente dall’esperienza, incompatibile con un serio
lavoro inquirente e rigorosa verifica dei fatti, svela spudoratamente che
l’inchiesta parlamentare è una farsa mirata a sedare la Sardegna. Infatti si
offre ampio spazio alle sarde autorità da sempre ligie alla politica dello struzzo,
a consulenti e auditi che minimizzano, spargono dubbi, disquisiscono di
percezione alterata, deviano i sospetti dalle attività di guerra e, forse,
forniscono false perizie.
PRECISAZIONE:
professor Trenta
Dall’audizione (23/3/2016) del
consulente prof. Trenta parrebbe che la quarta Commissione non sia a conoscenza
della richiesta della Procura di Lanusei, avanzata in corso di udienza al
giudice Clivio, di trasmissione degli atti del processo Quirra alla competente
Procura di Roma e alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta per indagare sul “delitto
di falsa perizia o falsa interpretazione” resa da prof. Trenta, in
qualità di consulente, alla terza Commissione nella seduta del 19/6/2012
affermando che “l'irradiamento del torio, più
blando, è ancora meno pericoloso di quello dell'uranio”.
L’attuale Commissione inquirente ha il dovere di pronunciarsi a prescindere
dall’iter giudiziario.
Le 170 vittime (168 agli atti del
processo, più due respinte dal gup Clivio per scadenza di termini ) individuate
dalla Procura e dalla Polizia di Nuoro non bastano alla Commissione. Non basta
il dato incontestabile del 65% di pastori dell’area a mare e del 33% nell’area
interna del Pisq colpiti da tumori e delle loro greggi devastate da alterazioni
genetiche. Bisogna stabilire la significatività! La Commissione ricorre al collaudato stratagemma della “scienza-pretesto”,
messo al bando dall’ONU. Demanda all’epidemiologia, la scienza più facilmente
taroccabile, il compito di stabilire se i morti e i malati di Quirra siano
insignificanti o significativi. Eppure sarebbe
stato sufficiente raffrontare l’indagine epidemiologica dell’Asl 8 di Cagliari
(2003) con l’indagine della Regione coordinata da professor Biggeri (2005-6): 90% di mortalità per linfoma non
Hodgkin (70% a Villaputzu/Quirra), 75% per tumori linfoematopoietici concentrati
a Villaputzu, Muravera e San Vito, in circa il 50% della popolazione dei 10
Comuni considerati.
Peccato che prof. Biggeri e Asl
non si siano mai accorti del cluster da brivido! (ALL 2 GettBasi EP).
Sarebbe
stato sufficiente un raffronto tra la percentuale degli uccisi dal Pisq con
quella degli assassinati nei campi di sterminio nazisti. E’ da dubitare che le
SS siano riuscite a raggiungere medie del 90% o del 65%.
Incredibilmente
si delega all’epidemiologia persino la missione impossibile “dell'accertamento
di un nesso di causalità tra fattori
patogeni ed insorgere delle malattie” (Scanu sedute 20,42).
TEULADA
I Comandi militari, da decenni,
riconoscono la devastazione ambientale in atti ufficiali, pubblici. La
Commissione registra un ”grave degrado e
criticità”. Paradossalmente da per
scontato che il disastro ambientale non abbia effetti sulla salute. Eppure
alcune informazioni, facilmente verificabili, le aveva. Nell’incontro a Cagliari
(30/3/2011) Gettiamo le Basi ha consegnato, con richiesta di allegare agli
atti, le schede di alcuni colpiti dalla contaminazione bellica: militari in
servizio a Teulada, Capo Frasca, Pisq; 31 abitanti di Teulada (oggi ne contiamo
52); 25 abitanti di Escalaplano, 8 tra Perdasdefogu e Ulassai (area Pisq). Uno
sguardo anche rapido e superficiale avrebbe risparmiato ai senatori la
figuraccia di cascare dal pero all’audizione del procuratore Fiordalisi
(8/5/2012) confermando che “chi non vuole trovare non trova”.
Quarta Commissione
Il presidente Scanu definisce la tranchc
dell’inchiesta focalizzata sulle vertenze di risarcimento dei militari “il lavoro forte, quello importante, dal
quale fare discendere una serie di proposte normative” (seduta N 22,
21/4/2016). Ne discende che il lavoro, ancora da avviare, sui poligoni che devastano
la Sardegna è di poco conto, fatuo e infruttuoso. Si riconferma la direttiva
dell’inchiesta farsa.
DISASTRO SANITARIO
Salto di
Quirra (PISQ)
L’attuale
Commissione è chiamata a validare le risultanze
dell’indagine epidemiologica Musumeci-Biggeri - affidata nel 2011 a Regione e Istituto Superiore Sanità,
conclusa
il 13/9/2015- che promuove l’area del
poligono della morte Salto di Quirra a oasi
felice di salubrità, come volevasi dimostrare.
Il Presidente Scanu, già nel
2011(15/12), ha elevato ufficialmente i risultati dello studio, allora in
embrione, al rango di “Verità Assoluta”, “Ultimativa”. Tralasciamo il fatto
che la scienza ha ripudiato la ricerca di verità assolute già da alcuni secoli.
L’orrore di Stati titolari di “verità scientifiche assolute”, ad esempio la
superiorità/inferiorità delle razze, è impresso nella memoria collettiva. La
classe politica stia alla larga dalla tentazione di “verità assolute,
ultimative”!
Onestà intellettuale e decenza
impongono di sottoporre lo studio a una valutazione
in contradditorio con almeno un epidemiologo di fiducia delle associazioni
che da troppi anni lottano per la corretta informazione sulla sindrome Golfo-Balcani
che falcidia anche militari, popolazioni e animali nelle aree coinvolte dai
poligoni di Capo Teulada, Capo Frasca, Salto di Quirra. Indichiamo il dr
Valerio Gennaro, consulente della prima e seconda Commissione, consulente del
Centro Prevenzione Controllo Malattie dei militari, coautore del “Progetto di
studio sulla salute dei militari e delle popolazioni esposte alle attività
militari” fatto proprio dalla prima
Commissione.
Gettiamo le Basi ribadisce la
valutazione di indagine-pretesto sballata in partenza in considerazione di:
criteri di
aggregazione/disgregazione della popolazione esposta fondati su ipotesi
palesemente errate (come peraltro “ipotizza” persino la dott.ssa Musumeci, dopo
4 anni di studio e a lavoro concluso!);
attenzione gravemente carente ai
contaminanti dei sistemi d’arma e tipici dei poligoni; metodologia molto contestabile;
precedente, discutibile indagine del prof Biggeri (2005/06) ALL 2
Poligono di Capo Teulada
La Commissione dovrà pronunciarsi
sul disastro sanitario che ha come epicentro il poligono di Capo Teulada che la
terza ha finto di non vedere e l’intervento della Procura di Cagliari ha reso
ineludibile
DISASTRO AMBIENTALE
Governo e Parlamento hanno
risolto il problema con solerzia: la contaminazione è legalizzata per decreto
(91/2014, ribattezzato “Inquinatore Protetto, Salva Quirra”) e per legge
(116/2014) sollevando a dismisura i valori soglia dei contaminanti, come da
italica prassi. Gli onorevoli, dimentichi
dello “sdegno e vibrante indignazione” con cui avevano respinto la proposta del
gen. Ludovisi di legittimazione dell’inquinamento (seduta 15/5/2012), sono
scattati sull’attenti.
Nell’area del Pisq la sedicente bonifica pare consista
in quella sorta di pulizia etnica ripetutamente raccomandata dalla terza
Commissione: l’espulsione delle attività agricolo pastorali, la sistemazione di
recinzioni e cartelli di divieto d’accesso.
Come s’intendono fermare nanoparticelle e polveri di
veleni bellici in uscita?
MULTIFATTORIALITÀ
La terza
Commissione e l’attuale, incaricata di seguirne le orme, prestano scarsissima
attenzione al cocktail di veleni (l’uranio è solo una goccia) disperso in
Sardegna, quotidianamente, da ben oltre mezzo secolo. Eppure i contaminanti dei
sistemi d’arma di routine, persino dei cosiddetti inerti, e i connessi effetti
sulla salute sono noti, classificati nelle tabelle di legge, l’informazione è
facilmente accessibile e di facile lettura così come lo è la contaminazione
tipica di un poligono, purtroppo Quirra, Teulada, Capo Frasca sono in numerosa
compagnia (ALL 3 contaminanti ). Per altro verso, con il forte supporto
di alcuni consulenti, si focalizza l’attenzione su cause e concause
che esulano dalle attività militari. Alcune le ricorda il signor Cancedda (seduta 18/5/2016)[ii] ,
le definisce“vilipendio ai morti, vilipendio alla
famiglia”, concordiamo
e aggiungiamo l’oltraggio all’umana intelligenza. Per il caso Quirra i “multi fattori” sono ancora più indegni e grotteschi.
Ricordiamo la causa/concausa delle malformazioni genetiche dei bambini di Escalaplano
che i portavoce militari avevano ordine
scritto di suggerire: l’incestuosità dei sardi. La più gettonata rimane la geologia-litologia,
una correzione di tiro della precedente “verità scientifica di Stato e di
Regione”, la solenne asineria che indicava la miniera d’arsenico di Bacu Locci
madre di tutte le patologie dell’area Pisq.
Vedere pagliuzze
inconsistenti e non vedere la trave emana forte sentore di depistaggio, alimenta il sospetto che la
multifattorialità sarà usata per deviare l’attenzione dalle attività militari,
trovare attenuanti per l’Amministrazione Difesa, rovesciare tutta o parte di
colpa sulle vittime o la geologia, quindi ridurre il risarcimento danni a cifre
da elemosina.
RISARCIMENTI
e INDENNIZZI alle vittime militari
Il riconoscimento
di IARC e OMS delle nanoparticelle causa primaria di tumori ha chiuso la
scappatoia del “nesso diretto causa-effetto”. Le condanne milionarie sempre più
frequenti della Magistratura hanno reso disastroso per l’Amministrazione Difesa
persistere nel bieco negazionismo ad oltranza, sia dal punto di vista
economico, sia per il discredito che getta sulle Forze Armate.
Parrebbe che Amministrazione
Difesa e vertici militari abbiano capito che è più conveniente risolvere le
vertenze per via amministrativa, molto meno costosa e molto meno visibile dall’opinione
pubblica, e più vantaggioso seguire l’esempio del Vaticano che dopo le condanne
milionarie, partite dai tribunali USA per i casi di pedofilia, si è attivato
per mettere freno al crimine infame sempre tollerato.
Autoincensamento e scoperta dell’acqua calda
Sconcerta l’ampio
spazio che terza e quarta Commissione, in particolare l’on Scanu, dedicano al
ripetitivo auto elogio - accompagnato da
malcelata denigrazione del lavoro delle precedenti Commissioni - per il cambio di rotta (eventuale, ancora da
codificare!) di AD e vertici militari e, soprattutto, per “avere maturato la convinzione unanime del nesso probabilistico e la
pluralità di fattori che possono concorrere all’eventuale manifestarsi delle
patologie”. La scoperta dell’acqua calda! E’patrimonio informativo acquisto
già verso l’età di 5 anni, trasmesso dalla famiglia e rafforzato dalla scuola
elementare. “Perché io mi sono ammalato e mia sorella e mio fratello no?” è una
delle prime domande che pongono i bambini.
Che senso ha
vantarsi ossessivamente della “scoperta”? Puro narcisismo, speculazione per carpire
riconoscenza e voti delle vittime dello strapotere della casta militare oppure
…?
CHIEDIAMO alla Commissione d’Inchiesta e all’intero Parlamento
di confutare con i fatti l’opinione dominante che il sistema più
efficace per eludere problemi scottanti è istituire una Commissione
Parlamentare d’Inchiesta. Noi non desistiamo dall’esigere che Governo e
Parlamento assumano le loro responsabilità, l’obbligo di fermare la strage di
Stato e la devastazione della Sardegna, di ripristinare la legalità adottando
le misure imposte dalle leggi, sintetizzate nell’acronimo SERRAI (CHIUDERE)
S Sospensione delle attività dei poligoni dove si sono registrate le patologie di
guerra;
E Evacuazione dei militari esposti alla contaminazione dei poligoni di Teulada,
Decimomanno-Capo Frasca, Quirra
R
Ripristino ambientale, bonifica seria e credibile delle aree contaminate a terra e a
mare;
R Risarcimento alle famiglie degli uccisi, ai
malati, agli esposti, Risarcimento del
danno inferto all’isola.
A Annichilimento, ripudio della guerra e delle sue
basi illegalmente concentrate in Sardegna in misura iniqua;
I Impiego delle risorse a fini di pace.
CHIEDIAMO AL POPOLO SARDO, COMITATI e
ASSOCIAZIONI di BASE di
attivarsi per dare vita a una "Commissione POPOLARE di Inchiesta sui crimini ambientali,
sanitari ed economici perpetrati da Italia/Nato”. Le risorse umane NON mancano di
certo! Non siamo soli. Abbiamo esperienza diretta, in Italia e in molti Paesi
del pianeta, della volontà e capacità di lotta per estirpare dalla propria
terra e dalla Storia il mostro guerra, le sue armi, le sue basi, i suoi
poligoni, i suoi arsenali. Molti sono da anni al nostro fianco, hanno sostenuto
attivamente le nostre lotte e le loro lotte hanno dato preziosi input alla
liberazione della Sardegna dal giogo militare, alla liberazione
dell’umanità dalla barbarie bellica. Ci
vorrà tempo, ma basta solo dare impulso e favorire sinergie. Le risorse
economiche non sono un problema, sono facilmente reperibili.
Comitato sardo Gettiamo le Basi,
[Tel. 3467059885]
[1] L’Organizzazione Mondiale della
Sanità classifica e fissa in tabelle livelli di probabilità e grado di certezza
( es. nanopartice causa primaria di tumori )
[2] Franco Nobile,
consulente della terza e della quarta
Commissione, indica cause e concause della sindrome: vaccini e abitudini
“patogene” dei militari come uso di telefonini, tatuaggi, insetticidi,
sigarette, alcool, in alcuni casi il bicchierino di superalcolici bevuto
addirittura una volta al mese! ( “La prevenzione oncologica nei reduci dai
Balcani” pag. 41,42,47,73).
***
"LA STRAGE DI VIAREGGIO"
RAPPORTO SULLA SALUTE DELLA REGIONE SARDEGNA
Rapporto dello stato di salute delle popolazioni residenti in zone interessate da poli industriali, minerari, militari della Regione Sardegna.
RISOLUZIONE DEL PARLAMENTO EUROPEO ADOTTATA L'8/9/2015
con 363 voti favorevoli, 96 contrari e 231 astenuti
Foto di Livia Corona |
Rapporto di Iniziativa condotto da Lynn Boylan GUE NGL
sul seguito
all'iniziativa dei cittadini europei "L'acqua è un diritto"
(Right2Water)
(2014/2239(INI))
Il Parlamento europeo,
– vista la direttiva 98/83/CE del
Consiglio, del 3 novembre 1998, concernente la qualità delle acque destinate al
consumo umano (la "direttiva sull'acqua potabile")[1],
– vista la direttiva 2000/60/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2000, che istituisce un
quadro per l'azione comunitaria in materia di acque (la "direttiva quadro
sulle acque – DQA")[2],
– visto il regolamento (UE) n. 211/2011
del Parlamento europeo e del Consiglio riguardante l'iniziativa dei cittadini[3],
– vista la direttiva 2014/23/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull'aggiudicazione
dei contratti di concessione[4],
– vista la comunicazione della Commissione
del 14 novembre 2012 intitolata "Piano per la salvaguardia delle risorse
idriche europee" (COM(2012)0673),
– vista la comunicazione della Commissione
del 19 marzo 2014 sull'iniziativa dei cittadini europei "Acqua potabile e
servizi igienico-sanitari: un diritto umano universale! L'acqua è un bene
comune, non una merce!" (COM(2014)0177) (la "comunicazione"),
– vista la "Relazione di sintesi
sulla qualità dell'acqua potabile nell'UE basata sull'esame delle relazioni
degli Stati membri per il periodo 2008-2010 a norma della direttiva
98/83/CE" della Commissione (COM(2014)0363),
– visto il parere del Comitato economico e
sociale europeo sulla summenzionata comunicazione della Commissione del 19
marzo 2014[5],
– vista la relazione dell'Agenzia europea
dell'ambiente (EEA) dal titolo "L'ambiente in Europa ‒ Stato e prospettive
nel 2015",
– viste la risoluzione dell'Assemblea
generale delle Nazioni Unite del 28 luglio 2010 dal titolo "The human
right to water and sanitation"[6] e la risoluzione
dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del 18 dicembre 2013 dal titolo
"The human right to safe drinking water and sanitation"[7],
– viste tutte le risoluzioni sul diritto
umano all'acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari adottate dal Consiglio
per i diritti dell'uomo delle Nazioni Unite,
– vista la sua risoluzione del 9 ottobre
2008 su come affrontare il problema della carenza idrica e della siccità
nell'Unione europea[8],
– vista la sua risoluzione del 3 luglio
2012 sull'attuazione della normativa UE sulle acque in attesa di un necessario
approccio globale alle sfide europee in materia di acque[9],
– vista la sua risoluzione del 25 novembre
2014 sull'UE e sul quadro di sviluppo globale post 2015[10],
– visto l'articolo 52 del suo regolamento,
– visti la relazione della commissione per
l'ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare e i pareri della
commissione per lo sviluppo e della commissione per le petizioni
(A8-0228/2015),
A. considerando che l'iniziativa
"L'acqua è un diritto" (Right2Water) è la prima iniziativa dei
cittadini europei (ICE) ad avere soddisfatto i requisiti stabiliti dal
regolamento (UE) n. 211/2011 riguardante l'iniziativa dei cittadini nonché la
prima a essere stata presentata in un'audizione al Parlamento dopo aver
ricevuto il sostegno di quasi 1,9 milioni di cittadini;
B. considerando che il diritto umano
all'acqua e ai servizi igienico-sanitari comprende gli aspetti della
disponibilità, dell'accessibilità, dell'accettabilità, dell'accessibilità
economica e della qualità;
C. considerando che la piena applicazione del
diritto umano universale all'acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari,
quale riconosciuto dalle Nazioni Unite e sostenuto dagli Stati membri dell'UE,
è essenziale per la vita, e che la corretta gestione delle risorse idriche
svolge un ruolo cruciale nel garantire un uso sostenibile dell'acqua nonché la
salvaguardia del capitale naturale mondiale; che gli effetti combinati delle
attività umane e del cambiamento climatico fanno sì che la totalità della
regione del Mediterraneo e alcune regioni dell'Europa centrale dell'UE siano
ora classificate come regioni caratterizzate da penuria d'acqua e
semidesertiche;
D. considerando che, come indicato nella
relazione 2015 dell'EEA sullo stato dell'ambiente, il tasso di perdite dovuto a
fughe dalle condutture in Europa è compreso tra il 10% e il 40%;
E. considerando che l'accesso all'acqua
figura tra gli elementi chiave per raggiungere uno sviluppo sostenibile; che un
approccio teso a privilegiare, nell'ambito dell'assistenza allo sviluppo, il
miglioramento dell'approvvigionamento di acqua potabile e dei servizi
igienico-sanitari è un modo efficiente per perseguire obiettivi fondamentali di
eliminazione della povertà, nonché per promuovere l'uguaglianza sociale, la
salute pubblica, la sicurezza alimentare e la crescita economica;
F. considerando
che almeno 748 milioni di persone non hanno un accesso sostenibile all'acqua
potabile, mentre un terzo della popolazione mondiale non dispone dei servizi
igienico-sanitari di base; che, come risultato, il diritto alla salute è a
rischio e si diffondono malattie che, oltre a provocare sofferenze e morte,
ostacolano seriamente lo sviluppo; che ogni giorno circa 4 000 bambini
muoiono di malattie che si trasmettono attraverso l'acqua o a causa di
condizioni inadeguate per quanto riguarda l'acqua, i servizi igienico-sanitari
e l'igiene; che la mancanza di accesso all'acqua potabile uccide più bambini
dell'AIDS, della malaria e del vaiolo messi insieme; che si registra, tuttavia,
una chiara tendenza alla riduzione delle cifre sopra riportate e che il loro
calo può e deve essere accelerato;
G. considerando
che l'accesso all'acqua presenta anche un aspetto legato alla sicurezza, il
quale necessita di una migliore cooperazione regionale;
H. considerando
che la mancanza di accesso all'acqua e ai servizi igienico-sanitari si
ripercuote sulla realizzazione di altri diritti umani; che le sfide idriche
colpiscono in modo sproporzionato le donne, dato che in molti paesi in via di
sviluppo esse sono tradizionalmente responsabili della fornitura di acqua per
uso domestico; che le donne e le ragazze sono maggiormente colpite dalla
mancanza di accesso a servizi igienico-sanitari adeguati e dignitosi, il che
frequentemente limita il loro accesso all'istruzione e le rende più vulnerabili
alle malattie;
I. considerando
che, ogni anno, tre milioni e mezzo di persone muoiono di malattie che si
trasmettono attraverso l'acqua;
J. considerando
che il protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti economici,
sociali e culturali, entrato in vigore nel 2013, ha istituito un meccanismo di
denuncia che consente a singoli o gruppi di presentare reclami formali sulle
violazioni del diritto umano all'acqua e ai servizi igienico-sanitari, oltre a
quelle di altri diritti;
K. considerando
che nei paesi in via di sviluppo e nelle economie emergenti la domanda di acqua
è in aumento in tutti i settori, in particolare l'energia e l'agricoltura; che
il cambiamento climatico, l'urbanizzazione e le evoluzioni demografiche possono
rappresentare una seria minaccia per la disponibilità di acqua in molti paesi
in via di sviluppo e che si stima che circa due terzi della popolazione
mondiale sono destinati a vivere in paesi con problemi idrici entro il 2025;
L. considerando
che l'UE è il principale donatore nel settore dell'acqua e dei servizi
igienico-sanitari (WASH), dato che il 25% del suo finanziamento umanitario
annuo globale è dedicato esclusivamente al sostegno dei partner per lo sviluppo
in questo settore; che, tuttavia, una relazione speciale della Corte dei conti
europea del 2012, concernente l'assistenza allo sviluppo fornita dall'UE a
favore dell'acqua potabile e dei servizi igienico-sanitari di base nei paesi
subsahariani, ha sottolineato la necessità di migliorare l'efficacia degli
aiuti e la sostenibilità dei progetti promossi dall'UE;
M. considerando
che l'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ha dichiarato che
"l'accesso all'acqua deve essere riconosciuto quale diritto umano
fondamentale, essendo l'acqua una risorsa essenziale per la vita sulla terra
che va condivisa dall'umanità";
N. considerando
che la privatizzazione dei servizi di base nell'Africa subsahariana negli anni
Novanta ha, tra le altre cose, ostacolato il raggiungimento degli obiettivi di
sviluppo del millennio (OSM) in materia di acqua e servizi sanitari, poiché
l'attenzione degli investitori al recupero dei costi ha intensificato tra
l'altro le disuguaglianze nella fornitura di tali servizi a spese dei nuclei
familiari a basso reddito; che, alla luce del fallimento della privatizzazione
dell'acqua, il trasferimento dei servizi idrici dalle imprese private agli enti
locali è una tendenza in crescita nel settore idrico in tutto il mondo;
O. considerando che l'erogazione di servizi
idrici è un monopolio naturale e che tutti i profitti derivanti dal ciclo di
gestione dell'acqua dovrebbero coprire i costi e la protezione dei servizi
idrici e del miglioramento del ciclo di gestione dell'acqua ed essere sempre
destinati a tal fine, a condizione che sia tutelato l'interesse pubblico;
P. considerando che l'assenza di un
approvvigionamento idrico e di servizi igienico-sanitari adeguati ha gravi
conseguenze per la salute e lo sviluppo sociale, in particolare dei bambini;
che la contaminazione delle risorse idriche è una delle principali cause della
diarrea e la seconda causa di morte per i bambini dei paesi in via di sviluppo
e provoca ulteriori malattie gravi quali il colera, la schistosomiasi e il
tracoma;
Q. considerando che l'acqua svolge funzioni
sociali, economiche ed ecologiche e che una gestione corretta del ciclo
dell'acqua, a vantaggio di tutti, non potrà che salvaguardare la sua
disponibilità stabile e duratura nell'attuale contesto di cambiamento
climatico;
R. considerando che l'Europa è
particolarmente sensibile al cambiamento climatico e che l'acqua è uno dei
primi settori a risentirne;
S. considerando che l'iniziativa dei
cittadini europei è stata istituita come uno strumento di democrazia
partecipativa con l'obiettivo di incoraggiare il dibattito a livello dell'UE e
la partecipazione diretta dei cittadini al processo decisionale dell'UE, e
costituisce un'eccellente opportunità per consentire alle istituzioni dell'UE
di coinvolgere nuovamente i cittadini;
T. considerando che i sondaggi
dell'Eurobarometro hanno sistematicamente rilevato, negli ultimi anni, livelli
di fiducia molto bassi nei confronti dell'UE tra i cittadini europei;
L'iniziativa dei cittadini europei
come strumento di democrazia partecipativa
1. ritiene che l'iniziativa dei cittadini
europei sia uno strumento democratico unico, dotato di un potenziale importante
per contribuire a ridurre il divario tra i movimenti sociali e della società
civile europei e nazionali e per promuovere la democrazia partecipativa a
livello dell'UE; ritiene tuttavia che, per poter sviluppare ulteriormente il
meccanismo democratico, sia indispensabile effettuare una valutazione delle
esperienze passate e una riforma dell'iniziativa dei cittadini e che le azioni
della Commissione ‒ le quali possono includere, se del caso, la possibilità di
introdurre elementi appropriati nelle revisioni legislative o in nuove proposte
legislative ‒ debbano rispecchiare meglio le richieste formulate dalle ICE quando
queste rientrano nel suo ambito di competenza, e soprattutto quando esprimono
preoccupazioni relative ai diritti umani;
2. sottolinea
che la Commissione dovrebbe garantire la massima trasparenza durante la fase di
analisi di due mesi, che un'ICE che abbia avuto successo dovrebbe ottenere un
sostegno e un'assistenza legali adeguati da parte della Commissione ed essere
adeguatamente pubblicizzata, e che promotori e sostenitori dovrebbero essere
pienamente informati e aggiornati nel corso dell'intero processo dell'ICE;
3. insiste
sulla necessità che la Commissione attui in modo efficace il regolamento ICE e
proceda a rimuovere tutti gli oneri amministrativi incontrati dai cittadini
nell'atto di presentare un'ICE o darle il proprio sostegno, e la esorta a prendere
in considerazione l'attuazione di un sistema di registrazione dell'ICE comune a
tutti gli Stati membri;
4. si compiace del fatto che il sostegno
espresso da quasi 1,9 milioni di cittadini di tutti gli Stati membri dell'UE
nei confronti di questa ICE sia concorde con la decisione della Commissione di
escludere i servizi idrici e igienico-sanitari dalla direttiva sulle
concessioni;
5 invita la Commissione a mantenere e a
confermare l'esclusione dei servizi idrici e igienico-sanitari dalla direttiva
sulle concessioni nel quadro di un'eventuale revisione di tale direttiva;
6. ritiene deplorevole il fatto che la
comunicazione sia priva di vera ambizione, non risponda alle richieste
specifiche espresse nell'ICE e si limiti a ribadire impegni esistenti; sottolinea
che la risposta formulata dalla Commissione all'ICE "L'acqua è un
diritto" è insufficiente, poiché non apporta contributo e non introduce tutte
le misure che potrebbero contribuire al raggiungimento degli obiettivi; chiede
alla Commissione, per quanto riguarda questa particolare iniziativa dei
cittadini europei, di condurre una campagna informativa esaustiva sulle misure
che sono già state adottate in materia di acqua e di come queste misure
potrebbero contribuire al conseguimento degli obiettivi dell'iniziativa dei
cittadini europei "L'acqua è un diritto";
7. ritiene
che molte delle petizioni in materia di qualità dell'acqua e gestione idrica
provengano da Stati membri che non sono ben rappresentati nel quadro della
consultazione pubblica a livello UE lanciata nel giugno 2014 e sottolinea che
potrebbe quindi esservi un'incongruenza tra i risultati della consultazione
pubblica e la situazione evidenziata dalle petizioni;
8. auspica
un chiaro impegno politico da parte della Commissione europea e del vicepresidente
incaricato della sostenibilità onde garantire che siano intraprese azioni
adeguate per dare risposta alle preoccupazioni sollevate dall'ICE in oggetto;
9. ribadisce l'impegno della sua
commissione per le petizioni a dare voce ai firmatari su questioni concernenti
i diritti fondamentali e ricorda che i firmatari che hanno presentato l'ICE
"L'acqua è un diritto" hanno espresso il loro accordo affinché
l'acqua sia dichiarata un diritto umano garantito a livello dell'UE;
10. invita la Commissione, in linea con
l'obiettivo primario dell'iniziativa dei cittadini europei "L'acqua è un
diritto", a presentare proposte legislative, tra cui ‒ se del caso ‒ una
revisione della direttiva quadro sulle acque che riconosca l'accesso universale
e il diritto umano all'acqua; chiede inoltre che l'accesso universale ad acqua
potabile sicura e ai servizi igienico-sanitari sia riconosciuto nella Carta dei
diritti fondamentali dell'Unione europea;
11. sottolinea che se la Commissione ignorerà
ICE riuscite e ampiamente sostenute nel quadro del meccanismo democratico
istituito dal trattato di Lisbona, l'UE in quanto tale perderà credibilità agli
occhi dei cittadini;
12. invita la Commissione ad adottare misure di
informazione ed educazione a livello europeo per promuovere la cultura
dell'acqua come bene comune, misure di sensibilizzazione e promozione a favore
di comportamenti individuali più consapevoli (risparmio idrico) e misure per la
definizione consapevole di politiche di gestione delle risorse naturali, nonché
per il sostegno di una gestione pubblica, partecipativa e trasparente;
13. reputa necessaria l'elaborazione di
politiche delle acque che incoraggino l'uso razionale, il riciclo e il riuso
della risorsa idrica, elementi essenziali per una gestione integrata; ritiene
che ciò consentirà di ridurre i costi, contribuirà alla tutela delle risorse
naturali e assicurerà una gestione adeguata dell'ambiente;
14. invita la Commissione a disincentivare e ad
assoggettare a studi di impatto ambientale le pratiche dell'accaparramento
delle acque e della fratturazione idraulica;
Diritto all'acqua e ai servizi
igienico-sanitari
15. ricorda che l'ONU afferma che il diritto
umano all'approvvigionamento idrico e alle strutture igienico-sanitarie
riconosce a chiunque il diritto all'acqua per l'utilizzo personale e domestico
che sia di elevata qualità, sicura, accessibile fisicamente ed economicamente,
sufficiente e accettabile; sottolinea che un'ulteriore raccomandazione dell'ONU
prevede che i pagamenti per i servizi idrici, ove siano previsti, debbano
ammontare al massimo al 3% del reddito familiare;
16. sostiene il relatore speciale delle Nazioni
Unite sul diritto umano all'acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari e
pone l'accento sull'importanza del suo lavoro e di quello del suo predecessore
ai fini del riconoscimento di tale diritto;
17. deplora
che nell'UE a 28 vi sia ancora più di un milione di persone che non hanno
accesso a forniture di acqua potabile e sicura e che quasi il 2 % della
popolazione non abbia accesso a servizi igienico-sanitari, stando al programma World Water Assessment (WWAP); esorta,
pertanto, la Commissione ad agire immediatamente;
18. invita la Commissione a riconoscere
l'importanza del diritto umano all'acqua e alle strutture igienico-sanitarie
come bene pubblico e valore fondamentale per tutti i cittadini dell'UE, e non
come merce; esprime preoccupazione per il fatto che dal 2008, a causa della
crisi finanziaria ed economica e delle politiche di austerità che hanno causato
un aumento della povertà in Europa e un incremento delle famiglie a basso
reddito, un sempre maggior numero di persone abbia difficoltà a pagare le
bollette per i servizi idrici e che l'accessibilità economica stia diventando
un problema che desta crescente preoccupazione; si oppone alla sospensione dei
servizi idrici e all'interruzione forzata della fornitura di acqua e chiede
agli Stati membri di porre immediatamente fine a situazioni siffatte, quando
sono dovute a fattori socioeconomici nelle famiglie a basso reddito; valuta
positivamente il fatto che in alcuni Stati membri vengano utilizzate
"banche dell'acqua" o quote minime di acqua nel tentativo di aiutare
le persone più vulnerabili a far fronte ai costi delle utenze, in modo da
garantire l'acqua in quanto componente inalienabile dei diritti fondamentali;
19. invita la Commissione, in considerazione
degli effetti della recente crisi economica, a collaborare con gli Stati membri
e con le autorità regionali e locali per condurre uno studio sulle questioni
relative alla povertà idrica, compresi gli aspetti dell'accesso all'acqua e
della sua accessibilità economica; sollecita la Commissione a sostenere e ad
agevolare ulteriormente la cooperazione senza scopo di lucro tra gli operatori
idrici onde fornire un aiuto alle zone meno sviluppate e rurali e favorire
l'accesso a un'acqua di buona qualità per tutti i cittadini in tali zone;
20. invita
la Commissione a individuare i settori in cui la scarsità d'acqua è un problema
esistente o potenziale e ad aiutare gli Stati membri, le regioni e le zone
interessate, in particolare le zone rurali e le aree urbane degradate, ad
affrontare adeguatamente la questione;
21. sottolinea
che la presunta neutralità della Commissione per quanto riguarda la proprietà e
la gestione dell'acqua è in contraddizione con i programmi di privatizzazione
imposti ad alcuni Stati membri dalla troika;
22. riconosce che, come affermato nella
direttiva quadro sulle acque, l'acqua non è un prodotto di scambio ma un bene
pubblico essenziale per la vita e la dignità umane e ricorda alla Commissione
che le norme del trattato impongono all'UE di rimanere neutrale rispetto alle
decisioni nazionali che disciplinano il regime di proprietà delle imprese
erogatrici di servizi idrici, e che pertanto la Commissione non dovrebbe in
nessun caso promuovere la privatizzazione delle aziende idriche nel quadro di
un programma di aggiustamento economico o nell'ambito di qualsiasi altra
procedura in materia di coordinamento della strategia economica dell'UE;
invita, pertanto, la Commissione, dato che si tratta di servizi di interesse
generale e quindi prevalentemente nell'interesse pubblico, a escludere in modo
permanente l'acqua e i servizi igienico-sanitari dalle norme sul mercato
interno e da qualsiasi accordo commerciale e a far sì che tali servizi siano
forniti a prezzi accessibili, e invita la Commissione e gli Stati membri a
provvedere affinché tali servizi siano gestiti sotto il profilo tecnico,
finanziario e amministrativo in modo efficiente, efficace e trasparente;
23. invita gli Stati membri e la Commissione a
ripensare e a rifondare la gestione della politica idrica sulla base di una
partecipazione attiva, intesa come trasparenza e apertura del processo
decisionale ai cittadini;
24. ritiene che, in merito alla
regolamentazione e al controllo, sia necessario tutelare la proprietà pubblica
dell'acqua incoraggiando il ricorso a modelli di gestione pubblici, trasparenti
e partecipativi in cui l'autorità che detiene la proprietà pubblica abbia la
facoltà, soltanto in alcuni casi, di attribuire all'iniziativa privata alcuni
compiti di gestione, secondo condizioni rigorosamente regolamentate e
salvaguardando costantemente il diritto ad avvalersi della risorsa e di
adeguate strutture igienico-sanitarie;
25. invita la Commissione e gli Stati membri a
garantire un approvvigionamento idrico capillare caratterizzato da prezzi
abbordabili, elevata qualità e condizioni di lavoro eque, che sia soggetto a
controllo democratico;
26. invita gli Stati membri a sostenere la
promozione dell'educazione e le campagne di sensibilizzazione rivolte ai
cittadini onde preservare e risparmiare le risorse idriche e garantire una
maggiore partecipazione civica;
27. invita gli Stati membri a garantire un
accesso indiscriminato ai servizi idrici assicurandone la fornitura a tutti,
compresi i gruppi di utenti emarginati;
28. invita la Commissione, la Banca europea per
gli investimenti e gli Stati membri a sostenere i comuni dell'UE che non
dispongono del capitale necessario per accedere all'assistenza tecnica, ai
finanziamenti dell'UE disponibili e a prestiti a lungo termine a tassi
d'interesse agevolati, in particolare allo scopo di provvedere alla
manutenzione e al rinnovamento delle infrastrutture idriche in modo da
garantire servizi idrici di elevata qualità ed estendere i servizi di
approvvigionamento idrico e igienico-sanitari ai gruppi più vulnerabili della
popolazione, tra cui gli indigenti e coloro che risiedono nelle regioni
ultraperiferiche e remote; pone l'accento sull'importanza di una governance
aperta, democratica e partecipativa per garantire che nella gestione delle
risorse idriche siano adottate le soluzioni più efficaci sotto il profilo dei
costi, a vantaggio della società; invita la Commissione e gli Stati membri ad
assicurare piena trasparenza delle risorse finanziarie generate attraverso il
ciclo di gestione dell'acqua;
29. riconosce che l'approvvigionamento idrico e
la fornitura di servizi igienico-sanitari sono servizi di interesse generale e
che l'acqua non è una merce, ma un bene comune, e dovrebbe pertanto essere
fornita a prezzi accessibili nel rispetto del diritto delle persone a una
qualità minima dell'acqua, prevedendo l'applicazione di una tariffa
progressiva; chiede agli Stati membri di garantire che la fatturazione
dell'acqua e dei servizi igienico-sanitari sia basata su un sistema giusto,
equo, trasparente e adeguato, in modo da assicurare a tutti i cittadini, a
prescindere dal reddito, l'accesso a servizi di qualità elevata;
30. osserva che l'acqua deve essere considerata
una risorsa ecosociale e non un mero fattore di produzione;
31. ricorda
che l'accesso all'acqua è essenziale per l'agricoltura al fine di realizzare il
diritto a un'alimentazione adeguata;
32. invita
la Commissione a sostenere attivamente gli sforzi degli Stati membri volti a
sviluppare e migliorare l'infrastruttura che fornisce accesso ai servizi di
irrigazione, alle fognature e all'approvvigionamento di acqua potabile;
33. ritiene che la direttiva sull'acqua
potabile abbia contribuito notevolmente alla disponibilità di acqua potabile di
qualità elevata nell'UE e chiede che la Commissione e gli Stati membri
intraprendano azioni risolute per realizzare i benefici ambientali e sanitari
che si possono ottenere incoraggiando il consumo di acqua di rubinetto;
34. ricorda
agli Stati membri la loro responsabilità in termini di attuazione del diritto
dell'UE; li esorta ad attuare pienamente la direttiva sull'acqua potabile e
tutta la legislazione afferente; ricorda loro di individuare le loro priorità
di spesa e di sfruttare appieno le opportunità di sostegno finanziario dell'UE
nel settore dell'acqua offerte dal nuovo periodo di programmazione finanziaria
(2014-2020), in particolare attraverso investimenti prioritari incentrati
proprio sulla gestione delle risorse idriche;
35. ricorda le conclusioni della relazione
speciale della Corte dei conti relativa all'integrazione nella PAC degli
obiettivi della politica dell'UE in materia di acque, in cui viene rilevato che
"gli strumenti attualmente utilizzati dalla PAC per affrontare le questioni
in materia di risorse idriche non hanno sinora consentito sufficienti progressi
nel conseguire gli ambiziosi obiettivi strategici fissati per quanto riguarda
le acque"; ritiene che una migliore integrazione tra la politica in
materia di acque e altre politiche, come quella agricola, sia essenziale per
migliorare la qualità delle risorse idriche in tutta Europa;
36. pone in rilievo l'importanza di una piena
ed efficace attuazione della direttiva quadro sulle acque, della direttiva
sulle acque sotterranee, della direttiva sull'acqua potabile e della direttiva
sul trattamento delle acque reflue urbane e ritiene fondamentale coordinare
meglio la loro attuazione con quella delle direttive relative all'ambiente
marino, alla biodiversità e alla protezione dalle inondazioni; esprime la
preoccupazione che gli strumenti di politica settoriale dell'Unione non
contribuiscano in misura sufficiente al raggiungimento degli standard di
qualità ambientale per le sostanze prioritarie e alla riduzione progressiva di
scarichi, emissioni e perdite delle sostanze pericolose prioritarie
conformemente all'articolo 4, paragrafo 1, lettera a), e all'articolo 16,
paragrafo 6, della direttiva quadro sulle acque; invita la Commissione e gli
Stati membri a tenere presente che la gestione dell'acqua deve essere integrata
quale elemento trasversale nella legislazione relativa ad altri aspetti
essenziali per tale risorsa, quali ad esempio l'energia, l'agricoltura, la
pesca e il turismo, al fine di prevenire l'inquinamento causato ad esempio da siti
illegali e non regolamentati di deposito dei rifiuti pericolosi o di estrazione
o prospezione petrolifere; ricorda che la condizionalità prevista dalla PAC
stabilisce criteri di gestione obbligatori basati sulle norme dell'UE esistenti
applicabili agli agricoltori, come pure norme in materia di buone condizioni
agronomiche e ambientali, anche in relazione all'acqua; ricorda che gli
agricoltori devono rispettare tali norme per ricevere integralmente i pagamenti
a titolo della PAC;
37. chiede agli Stati membri di:
- prevedere l'obbligo per i
distributori di acqua di indicare le caratteristiche fisico-chimiche dell'acqua
nella relativa bolletta;
- elaborare piani urbani secondo la
disponibilità delle risorse idriche;
- aumentare i controlli e il monitoraggio
degli inquinanti, nonché prevedere azioni immediate intese a eliminare le
sostanze tossiche e provvedere all'igienizzazione;
- adottare misure intese a ridurre le
notevoli perdite dalle tubature in Europa e ammodernare le reti per la
fornitura d'acqua inadeguate;
38. reputa necessario stabilire un ordine di
priorità o una gerarchia per l'uso sostenibile delle risorse idriche; invita la
Commissione a presentare un'analisi e delle proposte, a seconda dei casi;
39. sottolinea che gli Stati membri si sono impegnati
a garantire il diritto umano all'acqua attraverso il loro appoggio alla
dichiarazione delle Nazioni Unite, e che tale diritto è sostenuto dalla maggior
parte dei cittadini e degli operatori dell'UE;
40. sottolinea che il sostegno all'iniziativa dei
cittadini europei "L'acqua è un diritto" e ai suoi obiettivi è stato
ulteriormente dimostrato dal grande numero di cittadini che, in paesi come
Germania, Austria, Belgio, Slovacchia, Slovenia, Grecia, Finlandia, Spagna,
Lussemburgo, Italia e Irlanda hanno espresso il proprio parere sulla questione
dell'acqua e della sua proprietà e fornitura;
41. rileva
che, dal 1988, la sua commissione per le petizioni ha ricevuto una notevole
mole di petizioni di cittadini di vari Stati membri dell'UE che esprimono preoccupazione
per la fornitura e la qualità dell'acqua e il trattamento delle acque reflue;
richiama l'attenzione su una serie di fattori negativi deplorati dai firmatari
– come le discariche di rifiuti, l'assenza di controlli efficaci della qualità
delle acque da parte delle autorità nonché le pratiche agricole e industriali
irregolari o illecite – che sono responsabili della cattiva qualità dell'acqua
e hanno quindi un impatto sull'ambiente e sulla salute dell'uomo e degli
animali; ritiene che queste petizioni dimostrino un interesse reale dei
cittadini per l'applicazione completa e l'ulteriore sviluppo di una
legislazione europea sostenibile sulle risorse idriche;
42. esorta
vivamente la Commissione a prendere seriamente in considerazione le
preoccupazioni e gli allarmi espressi dai cittadini in tali petizioni e di
darvi seguito, data soprattutto la necessità urgente di affrontare il problema
della diminuzione delle risorse idriche a causa dell'uso smodato e del
cambiamento climatico, finché c'è ancora tempo per prevenire l'inquinamento e
la cattiva gestione; esprime la propria preoccupazione per il numero di
procedure di infrazione in materia di qualità e gestione delle acque;
43. invita
gli Stati membri a completare i propri piani di gestione dei bacini idrografici
con urgenza e come elemento chiave dell'applicazione della direttiva quadro in
materia di acque e ad attuarli in modo corretto e nel pieno rispetto dei
preminenti criteri ecologici; richiama l'attenzione sul fatto che alcuni Stati
membri si trovano sempre di più ad affrontare alluvioni dannose che hanno un
grave impatto sulla popolazione locale; sottolinea che i piani di gestione dei
bacini idrografici nell'ambito della direttiva quadro in materia di acque e i
piani di gestione del rischio di alluvioni nell'ambito della direttiva sulle
alluvioni costituiscono una grande opportunità per sfruttare le sinergie
esistenti tra questi strumenti, contribuendo così a garantire acqua potabile in
quantità sufficiente, riducendo nel contempo i rischi di alluvione; ricorda,
inoltre, che ogni Stato membro dovrebbe disporre di una pagina web
centralizzata per fornire informazioni sull'attuazione della direttiva quadro
in materia di acque, in modo da facilitare una panoramica della gestione e
della qualità delle acque;
Servizi idrici e mercato interno
44. segnala che paesi di tutta l'UE, tra cui
Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda, Germania e Italia, hanno constatato che la
perdita potenziale o effettiva della proprietà pubblica dei servizi idrici è
diventata una fonte di grande preoccupazione per i cittadini; ricorda che la
scelta del metodo relativo alla gestione idrica è basata sul principio di
sussidiarietà, come previsto dall'articolo 14 del trattato sul funzionamento
dell'Unione europea e dal protocollo (n. 26) sui servizi di interesse generale,
il quale sottolinea la particolare importanza che rivestono i servizi pubblici
ai fini della coesione sociale e territoriale dell'Unione; ricorda che le
società responsabili dell'approvvigionamento idrico e dei servizi fognari sono
operatori che forniscono servizi di interesse generale e hanno la missione
globale di fornire a tutta la popolazione acqua di qualità elevata a prezzi
socialmente accettabili, riducendo al minimo l'impatto negativo sull'ambiente
delle acque reflue;
45. sottolinea che, in linea con il principio
di sussidiarietà, la Commissione dovrebbe rimanere neutrale in merito alle
decisioni degli Stati membri riguardanti la proprietà dei servizi idrici e non
dovrebbe promuovere la privatizzazione di questi ultimi, per via legislativa o
per altre vie;
46. ricorda che la scelta di riassegnare i
servizi idrici ai comuni dovrebbe continuare a essere garantita in futuro senza
alcuna limitazione e può essere mantenuta nell'ambito della gestione locale, se
così stabilito dalle autorità pubbliche competenti; ricorda che l'acqua è un
diritto umano fondamentale che dovrebbe essere accessibile e alla portata di
tutti; evidenzia che gli Stati membri hanno il dovere di assicurare che
l'accessibilità dell'acqua sia garantita per tutti, indipendentemente
dall'operatore, e di provvedere affinché gli operatori forniscano acqua
potabile sicura e servizi igienici adeguati;
47. sottolinea che la natura speciale dei
servizi idrici e igienico-sanitari, in termini ad esempio di produzione,
distribuzione e trattamento, rende assolutamente necessaria la loro esclusione
da qualsiasi accordo commerciale oggetto di negoziazione o di esame da parte
dell'UE; esorta la Commissione a garantire l'esclusione giuridicamente
vincolante dei servizi idrici, igienico-sanitari e concernenti le acque reflue
dai negoziati in corso per il partenariato transatlantico su commercio e
investimenti (TTIP) e per l'accordo sugli scambi di servizi; sottolinea che
qualsiasi futuro accordo in materia di scambi e investimenti dovrebbe
comprendere clausole relative a un accesso reale all'acqua potabile per la
popolazione del paese terzo interessato dall'accordo, in linea con l'impegno di
lunga data dell'Unione a favore di uno sviluppo sostenibile e dei diritti umani,
e che un effettivo accesso all'acqua potabile per la popolazione del paese
terzo interessato dall'accordo deve rappresentare un presupposto fondamentale
di qualsiasi futuro accordo di libero scambio;
48. ricorda
l'elevato numero di petizioni contrarie all'inclusione di servizi pubblici
essenziali, come l'acqua e i servizi igienico-sanitari, nelle trattative del
partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP); invita
la Commissione a rafforzare la responsabilità dei fornitori di acqua;
49. invita la Commissione a fungere da
facilitatore per promuovere la cooperazione fra gli operatori idrici tramite la
condivisione delle migliori prassi normative e di altra natura nonché di altre
iniziative, dell'apprendimento reciproco e di esperienze comuni, come pure
favorendo l'analisi comparativa volontaria; si compiace dell'invito, contenuto
nella comunicazione della Commissione, a una maggiore trasparenza nel settore
idrico e riconosce gli sforzi sinora profusi, constatando nel contempo che le analisi
comparative non possono che essere di natura volontaria, date le enormi
differenze tra i servizi idrici in tutta Europa dovute alle chiare specificità
regionali e locali; constata altresì che eventuali analisi siffatte che
includano unicamente indicatori finanziari non dovrebbero essere equiparate a
misure a favore della trasparenza e che occorre includere anche altri criteri
di importanza fondamentale per i cittadini, quali ad esempio la qualità
dell'acqua, le misure intese ad attenuare i problemi dell'accessibilità
economica, le informazioni su quale percentuale della popolazione ha accesso a
forniture idriche adeguate e i livelli di partecipazione pubblica alla gestione
delle risorse idriche, in un modo che risulti comprensibile sia per i cittadini
che per gli organi di regolamentazione;
50. sottolinea l'importanza delle autorità di
regolamentazione nazionali nel garantire condizioni di concorrenza eque e
libere tra i fornitori di servizi, agevolando un'attuazione più rapida per
quanto concerne le soluzioni innovative e il progresso tecnico, promuovendo
l'efficienza e la qualità dei servizi idrici e assicurando la tutela degli
interessi dei consumatori; invita la Commissione a sostenere le iniziative a
favore della cooperazione normativa nell'UE onde imprimere un'accelerazione
all'analisi comparativa, all'apprendimento reciproco e allo scambio delle
migliori pratiche in materia di regolamentazione;
51. ritiene
che occorra effettuare una valutazione dei progetti e dei programmi europei in
materia di acqua e di servizi igienico-sanitari dal punto di vista dei diritti
umani, al fine di sviluppare politiche, linee guida e pratiche adeguate; invita
la Commissione a istituire un sistema di parametri di riferimento (qualità
dell'acqua, accessibilità, sostenibilità, copertura, ecc.) al fine di
migliorare la qualità dell'approvvigionamento idrico pubblico e dei servizi
igienico-sanitari in tutta l'UE, nell'intento di favorire la partecipazione
attiva dei cittadini;
52. ricorda che le concessioni in materia di
servizi idrici e igienico-sanitari sono soggette ai principi stabiliti nel
trattato e devono pertanto essere aggiudicati conformemente ai principi di
trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione;
53. sottolinea che i servizi di produzione,
distribuzione e trattamento dell'acqua e i servizi igienico-sanitari devono
restare esclusi dalla direttiva in materia di concessioni, anche nel caso di
una futura revisione della direttiva;
54. ricorda
che la direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno ha
suscitato una forte opposizione da parte della società civile per quanto
riguarda numerosi aspetti, tra cui le questioni relative ai servizi di
interesse economico generale quali i servizi di distribuzione e di fornitura
idrica e la gestione delle acque reflue; ricorda che le istituzioni dell'UE
sono state infine costrette a includere questi settori fra i servizi che non
possono essere liberalizzati;
55. sottolinea
l'importanza dello scambio di migliori prassi nei partenariati
pubblico-pubblico e pubblico-privato sulla base di una cooperazione senza scopo
di lucro tra gli operatori idrici e si rallegra del fatto che la Commissione
abbia riconosciuto per la prima volta, nella comunicazione, l'importanza dei
partenariati pubblico-pubblico;
56. accoglie con favore gli sforzi efficaci di
alcuni comuni volti a rafforzare la partecipazione pubblica al miglioramento
della prestazione di servizi idrici e alla protezione delle risorse idriche e
ricorda che le istituzioni locali svolgono un ruolo importante nel processo
decisionale per quanto riguarda la gestione delle acque;
57. invita
il Comitato delle regioni ad accrescere il proprio coinvolgimento in questa
ICE, al fine di incoraggiare una maggiore partecipazione al problema da parte
delle autorità regionali;
58. rammenta
l'obbligo di garantire l'accesso alla giustizia e alle informazioni in materia
ambientale nonché la partecipazione pubblica al processo decisionale, come
stabilito dalla convenzione di Aarhus; invita pertanto la Commissione, gli
Stati membri e i relativi enti locali e regionali a rispettare i principi e i
diritti sanciti dalla convenzione di Aarhus; ricorda che sensibilizzare i
cittadini ai loro diritti è fondamentale per ottenerne la più ampia
partecipazione al processo decisionale; esorta pertanto la Commissione a
definire in modo proattivo una campagna di informazione per i cittadini europei
sulle conquiste sancite dalla convenzione in materia di trasparenza e riguardo
agli strumenti efficaci già a loro disposizione, nonché a rispettare le
disposizioni relative alle istituzioni dell'UE; invita la Commissione a
sviluppare criteri di trasparenza, assunzione di responsabilità e
partecipazione quali strumenti per migliorare le prestazioni, la sostenibilità
e il rapporto costi-benefici dei servizi idrici;
59. esorta gli Stati membri e le autorità
regionali e locali a progredire verso un autentico accordo sociale per l'acqua,
allo scopo di garantire la disponibilità, la stabilità e la gestione sicura di
tale risorsa, in particolare attuando politiche come l'istituzione di fondi di
solidarietà per l'acqua e altri meccanismi di azione sociale per sostenere le
persone che non sono in grado di permettersi l'accesso ai servizi idrici e
igienico-sanitari, in modo da soddisfare i requisiti in materia di sicurezza
dell'approvvigionamento ed evitare di mettere a repentaglio il diritto umano
all'acqua; incoraggia tutti gli Stati membri a introdurre meccanismi di azione
sociale come quelli già in atto in alcuni Stati membri dell'UE, per assicurare
la fornitura di acqua potabile ai cittadini in seria difficoltà;
60. invita la Commissione a organizzare una
condivisione di esperienze tra gli Stati membri in relazione all'aspetto
sociale della politica in materia di acque;
61. condanna il fatto che la negazione
dell'erogazione di servizi idrici e igienico-sanitari alle comunità
svantaggiate e vulnerabili sia usata in modo coercitivo in alcuni Stati membri;
ribadisce che in alcuni Stati membri la chiusura delle fonti pubbliche da parte
delle autorità ha reso difficile l'accesso all'acqua per i gruppi più
vulnerabili;
62. osserva che gli Stati membri dovrebbero
prestare una particolare attenzione alle esigenze dei gruppi vulnerabili della
società e garantire inoltre l'accessibilità economica e la disponibilità di acqua
di qualità per coloro che si trovano in uno stato di necessità;
63. invita gli Stati membri a designare un
mediatore per i servizi idrici onde garantire che le questioni legate
all'acqua, come i reclami e i suggerimenti in merito alla qualità del servizio
idrico e al relativo accesso, siano trattati da un organo indipendente;
64. incoraggia le aziende di distribuzione
dell'acqua a reinvestire i profitti economici generati dal ciclo di gestione
dell'acqua nel mantenimento e nel miglioramento dei servizi idrici e nella
protezione delle risorse idriche; ricorda che il principio del recupero dei
costi dei servizi idrici comprende i costi ambientali e relativi alle risorse,
rispettando nel contempo sia i principi di equità e trasparenza e il diritto
umano all'acqua, sia il dovere che spetta agli Stati membri di adempiere agli
obblighi in materia di recupero dei costi nel miglior modo possibile, nella
misura in cui ciò non compromette le finalità e il conseguimento degli
obiettivi della direttiva quadro in materia di acque; raccomanda di porre fine
alle pratiche che sottraggono risorse economiche dal settore idrico per
finanziare altre politiche, ad esempio la prassi di includere nelle bollette
per i servizi idrici diritti di concessione che non sono stati destinati alle
infrastrutture idriche; segnala lo stato preoccupante delle infrastrutture in
alcuni Stati membri, dove l'acqua viene sprecata a causa di perdite dovute al
cattivo stato e all'obsolescenza delle reti di distribuzione, e chiede agli
Stati membri di potenziare gli investimenti destinati al miglioramento di tali
infrastrutture nonché di altri servizi idrici, come premessa per poter
garantire in futuro il diritto umano all'acqua;
65. invita
la Commissione ad assicurare che le autorità competenti mettano a disposizione
dei cittadini interessati tutte le informazioni sulla qualità e la gestione
delle acque, in un formato facilmente accessibile e comprensibile, e che i
cittadini siano pienamente informati e consultati in tempo utile riguardo a
tutti i progetti di gestione delle acque; rileva inoltre che, nell'ambito della
consultazione pubblica avviata dalla Commissione, l'80% dei partecipanti ha
considerato essenziale migliorare la trasparenza del monitoraggio della qualità
dell'acqua;
66. invita
la Commissione a monitorare attentamente l'utilizzo diretto e indiretto dei
finanziamenti dell'UE per progetti di gestione idrica e ad assicurare che tali
finanziamenti siano utilizzati solo per i progetti per i quali sono stati
stanziati, tenendo conto del fatto che l'accesso all'acqua è fondamentale per
ridurre le disparità tra i cittadini dell'UE e incrementare la coesione
economica, sociale e territoriale dell'UE; invita, in tale contesto, la Corte
dei conti a verificare che i criteri di efficacia e di sostenibilità siano
rispettati in modo soddisfacente;
67. invita
la Commissione a prendere in considerazione l'attuale mancanza di investimenti
a favore di una gestione equilibrata delle acque, tenendo conto che si tratta
di uno dei beni comuni dei cittadini dell'UE;
68. chiede, pertanto, una maggiore trasparenza
tra gli operatori idrici, in particolare mediante lo sviluppo di un codice di
governance pubblica e privata per le aziende di distribuzione dell'acqua
nell'UE; ritiene che tale codice debba essere basato sul principio di
efficienza ed essere sempre soggetto alle disposizioni ambientali ed economiche
nonché relative alle infrastrutture e alla partecipazione del pubblico di cui
alla direttiva quadro sulle acque; chiede altresì l'istituzione di un organo di
regolamentazione nazionale;
69. invita la Commissione a rispettare il
principio di sussidiarietà e le competenze in materia di acque per quanto
riguarda sia i vari livelli di governo sia le associazioni locali che
gestiscono i servizi idrici (le sorgenti e la loro conservazione);
70. si rammarica che la direttiva sul
trattamento delle acque reflue urbane non sia stata ancora pienamente attuata
negli Stati membri; chiede che siano utilizzate, in via prioritaria, risorse
finanziarie dell'Unione nei settori in cui la normativa ambientale dell'UE non
è rispettata, compreso il trattamento delle acque reflue; osserva che i tassi
di conformità risultano più elevati laddove i costi sono stati recuperati ed è
stato applicato il principio "chi inquina paga" e invita la
Commissione a rivedere l'adeguatezza degli attuali strumenti per assicurare un
livello elevato di protezione e il miglioramento della qualità dell'ambiente;
71. segnala che il settore dei servizi in campo
idrico presenta un enorme potenziale per la creazione di posti di lavoro
attraverso l'integrazione ambientale, come pure per la promozione
dell'innovazione mediante il trasferimento di tecnologie tra i settori e
l'applicazione di ricerca, sviluppo e innovazione all'intero ciclo dell'acqua;
chiede pertanto che sia prestata una particolare attenzione al potenziamento
dell'utilizzo sostenibile dell'acqua in quanto energia rinnovabile;
71
bis. incoraggia la Commissione a mettere a punto un quadro legislativo europeo
per il riutilizzo degli effluenti trattati, soprattutto al fine di proteggere
le attività e le aree sensibili; invita altresì la Commissione a promuovere la
condivisione di esperienze tra le agenzie sanitarie dei diversi Stati membri;
72. esorta la Commissione a garantire che, in
tutte le revisioni della direttiva quadro in materia di acque, le valutazioni
quantitative dei problemi di accessibilità economica dell'acqua diventino un
requisito obbligatorio delle relazioni stilate dagli Stati membri per quanto
concerne l'attuazione della direttiva quadro in materia di acque;
73. chiede alla Commissione di prendere in
esame la possibilità che la Fondazione europea per il miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro (Eurofound) controlli le questioni relative
all'accessibilità economica dell'acqua nei 28 Stati membri e riferisca in
proposito;
74. ricorda
che la sana gestione dell'acqua si sta rivelando una sfida prioritaria per i
prossimi decenni, sia sul piano ecologico che su quello ambientale, in quanto
soddisfa il fabbisogno energetico e agricolo e risponde agli imperativi
economici e sociali;
Internalizzazione del costo dell'inquinamento
75. ricorda che, attraverso le bollette per i
servizi idrici, i cittadini dell'UE sostengono il costo della purificazione e
del trattamento delle acque ed evidenzia che l'attuazione di politiche che
permettono di coniugare e conciliare efficacemente la tutela delle risorse
idriche con il contenimento dei costi, come ad esempio l'approccio basato sul
"controllo alla fonte", è più efficiente ed è preferibile sotto il
profilo finanziario; ricorda che, come indicato nella relazione 2015
dell'Agenzia europea dell'ambiente, oltre il 40% dei fiumi e delle acque
costiere risente di un vasto inquinamento causato dall'agricoltura, mentre tra
il 20% e il 25% risente dell'inquinamento derivante da fonti puntuali quali
impianti industriali, sistemi fognari e reti di gestione delle acque reflue;
sottolinea l'importanza di un'efficace attuazione della direttiva quadro sulle
acque e della direttiva sull'acqua potabile, di un migliore coordinamento per
quanto riguarda la loro attuazione, di una maggiore coerenza in sede di
elaborazione della legislazione e dell'adozione di misure più proattive per
favorire il risparmio delle risorse idriche e aumentare in modo significativo
l'efficienza nell'uso dell'acqua in tutti i settori (industrie, famiglie,
agricolture, reti di distribuzione); rammenta che garantire la tutela
sostenibile delle aree naturali, come gli ecosistemi di acqua dolce, non
soltanto è fondamentale ai fini dello sviluppo e determinante per fornire acqua
potabile, ma riduce anche i costi per cittadini e operatori;
Politica
esterna e politica di sviluppo dell'UE nel settore delle acque
76. sottolinea che le politiche di sviluppo
dell'UE devono integrare pienamente l'accesso universale all'acqua e ai servizi
igienico-sanitari tramite la promozione di partenariati pubblico-pubblico e
pubblico-privato basati sulla solidarietà tra gli operatori idrici e i
lavoratori in diversi paesi, nonché ricorrere a una gamma di strumenti per promuovere
le migliori pratiche mediante il trasferimento di conoscenze e i
programmi di sviluppo e di cooperazione nel settore; ribadisce che le politiche
di sviluppo degli Stati membri dell'UE dovrebbero riconoscere la dimensione di
diritto umano dell'accesso all'acqua potabile sicura e ai servizi
igienico-sanitari, e che un approccio basato sui diritti richiede sia il
sostegno nei confronti della legislazione e del finanziamento che il
rafforzamento del ruolo della società civile per concretizzare nella pratica il
rispetto di tali diritti;
77. ribadisce
che l'accesso all'acqua potabile in quantità e di qualità sufficienti è un
diritto umano fondamentale e ritiene che i governi nazionali abbiano il dovere
di adempiere a tale obbligo;
78. sottolinea, a norma dell'attuale
legislazione dell'UE e dei relativi requisiti, l'importanza di una valutazione
regolare della qualità, della purezza e della sicurezza dell'acqua e delle
risorse idriche all'interno dell'Unione come pure fuori dai suoi confini;
79. sottolinea che, nello stanziamento dei
fondi dell'UE e nella programmazione dell'assistenza, è opportuno attribuire
un'elevata priorità all'assistenza finalizzata ad assicurare acqua potabile
sicura e servizi igienico-sanitari; invita la Commissione a garantire un adeguato
sostegno finanziario alle misure di sviluppo delle capacità nel settore idrico,
facendo affidamento sulle piattaforme e sulle iniziative esistenti a livello
internazionale e collaborando con esse;
80. insiste
sul fatto che occorre attribuire un'elevata priorità al settore WASH nei paesi
in via di sviluppo, sia in termini di aiuti pubblici allo sviluppo (APS) che
nei bilanci nazionali; ricorda che la gestione delle acque è una responsabilità
collettiva; è favorevole a un approccio caratterizzato da apertura mentale per
quanto concerne le diverse modalità di aiuto, ma anche da una rigorosa aderenza
ai principi di efficacia, alla coerenza politica a favore dello sviluppo e
a un'attenzione costantemente rivolta all'eliminazione della povertà e all'ottimizzazione
dell'impatto in termini di sviluppo; sostiene, a tal riguardo, il
coinvolgimento delle comunità locali nella realizzazione di progetti nei paesi
in via di sviluppo, nonché il principio della proprietà comunitaria;
81. sottolinea che, sebbene i progressi verso
l'obiettivo di sviluppo del millennio relativo all'acqua potabile sicura vadano
nella giusta direzione, 748 milioni di persone nel mondo sono prive di accesso
a un migliore approvvigionamento idrico e si stima che almeno 1,8 miliardi di
persone bevano acqua contaminata da feci, mentre l'obiettivo relativo ai
servizi igienico-sanitari è lungi dall'essere raggiunto;
82. ricorda
che garantire una gestione sostenibile delle acque sotterranee è indispensabile
per la riduzione della povertà e la condivisione della prosperità, in quanto
tali acque hanno la potenzialità di fornire una fonte migliorata di acqua
potabile a milioni di persone povere nelle zone urbane e rurali;
83. invita
la Commissione a includere l'acqua quale parte dell'Agenda di cambiamento,
unitamente all'agricoltura sostenibile;
84. ritiene che l'acqua debba rivestire un
ruolo centrale nei lavori di preparazione ai due grandi eventi internazionali
del 2015, ossia il vertice sull'agenda post-2015 e la conferenza COP21 sul
cambiamento climatico; sostiene fermamente, a tale riguardo, l'inclusione di
obiettivi ambiziosi e di vasta portata relativamente all'acqua e ai servizi
igienico-sanitari, come ad esempio l'obiettivo di sviluppo sostenibile n. 6 che
consiste nel garantire la disponibilità e una gestione sostenibile dei servizi
idrici e igienico-sanitari per tutti entro il 2030, da adottare nel settembre
2015; ribadisce che porre fine alla povertà attraverso il processo post-2015 è
possibile soltanto se si garantisce a tutti l'accesso ad acqua pulita, a
servizi igienico-sanitari di base e a condizioni igieniche; sottolinea che il
raggiungimento di tutti gli obiettivi di sviluppo sostenibile richiede la
mobilitazione di finanziamenti da destinare allo sviluppo molto più ingenti di
quelli attualmente forniti, da parte sia dei paesi sviluppati che da quelli in
via di sviluppo; chiede l'istituzione di un meccanismo di monitoraggio globale
volto a valutare i progressi compiuti in termini di accesso universale
all'acqua potabile, uso sostenibile e sviluppo delle risorse idriche e
rafforzamento di una gestione delle risorse idriche equa, partecipativa e
responsabile in tutti i paesi; esorta la Commissione a garantire che gli aiuti
siano spesi in modo efficace e siano maggiormente diretti al settore WASH in
vista dell'agenda per lo sviluppo post 2015;
85. sottolinea l'aumento del rischio di
scarsità di acqua causato dai cambiamenti climatici; esorta la Commissione e
gli Stati membri a includere fra i temi della COP21 anche la gestione
strategica delle risorse idriche e piani di adattamento a lungo termine, onde
integrare un approccio idrico resiliente al clima nel futuro accordo globale
sul clima; sottolinea che un'infrastruttura idrica resiliente ai cambiamenti
climatici è fondamentale ai fini dello sviluppo e della riduzione della
povertà; ribadisce che, in assenza di sforzi costanti intesi a mitigare le
conseguenze del cambiamento climatico, come pure di una migliore gestione delle
risorse idriche, potrebbero essere compromessi i progressi compiuti verso gli
obiettivi di riduzione della povertà, gli obiettivi di sviluppo del millennio e
lo sviluppo sostenibile in tutte le sue dimensioni economiche, sociali e
ambientali;
86. osserva con preoccupazione che la mancanza
di accesso all'acqua e ai servizi igienico-sanitari nei paesi in via di
sviluppo può avere un effetto sproporzionato sulle ragazze e sulle donne, in
particolare quelle in età scolare, dato che i tassi di assenteismo e di
abbandono scolastico sono stati collegati alla mancanza di servizi igienico-sanitari
puliti, sicuri e accessibili;
87. chiede che lo stanziamento dei fondi
dell'Unione e degli Stati membri rifletta le raccomandazioni del relatore
speciale delle Nazioni Unite sul diritto umano all'acqua potabile sicura e ai
servizi igienico-sanitari, in particolare per quanto concerne la promozione
delle infrastrutture su piccola scala e la distribuzione di maggiori fondi a
favore del funzionamento e della manutenzione, della creazione di capacità e
della sensibilizzazione;
88. osserva
con preoccupazione che, secondo il relatore speciale delle Nazioni Unite sul
diritto umano all'acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari, le persone che
vivono in quartieri degradati devono generalmente pagare di più di quelle che
vivono in insediamenti ufficiali per ricevere servizi di qualità scadente e non
regolamentati; esorta i paesi in via di sviluppo a dare la priorità agli
stanziamenti di bilancio a favore dei servizi destinati alle persone
svantaggiate e isolate;
89. ricorda che l'Organizzazione mondiale della
sanità ha affermato che, in una fase iniziale, senza l'applicazione delle
ultime tecnologie innovative in materia di trattamento e risparmio idrico, il
livello ottimale di acqua va dai 100 ai 200 litri per persona al giorno, mentre
per soddisfare i bisogni di base e scongiurare l'insorgere di problemi sanitari
sono necessari tra 50 e 100 litri di acqua per persona al giorno; segnala che,
in base ai diritti umani fondamentali riconosciuti, è indispensabile fissare un
quantitativo minimo per persona per soddisfare le esigenze idriche di base
delle popolazioni;
90. sottolinea
che l'accesso a un fabbisogno idrico di base dovrebbe essere un diritto umano
fondamentale indiscutibile, implicitamente ed esplicitamente sostenuto dal
diritto internazionale, dalle dichiarazioni e dalla prassi degli Stati;
91. invita
i governi, le agenzie umanitarie internazionali, le organizzazioni non
governative e le comunità locali ad adoperarsi al fine di assicurare a tutti
gli esseri umani un fabbisogno idrico di base e a garantire che l'acqua sia un
diritto umano;
92. invita gli Stati membri a introdurre, in
base alle linee guida dell'Organizzazione mondiale della sanità, una politica
dei prezzi che rispetti il diritto delle persone al quantitativo minimo di
acqua per la sussistenza e che colpisca gli sprechi, prevedendo l'applicazione
di una tariffa progressiva proporzionale alla quantità di acqua utilizzata;
93. incoraggia l'adozione di misure che
garantiscano l'impiego razionale del fabbisogno idrico, onde evitare sprechi;
94. elogia alcuni operatori idrici che dedicano
una percentuale del loro fatturato annuo a partenariati sull'acqua nei paesi in
via di sviluppo e incoraggia gli Stati membri e l'UE a creare il quadro
giuridico necessario per attuare tali partenariati;
95. invita
a monitorare efficacemente i progetti realizzati attraverso gli aiuti esterni;
sottolinea la necessità di monitorare strategie e dotazioni di finanziamento
per garantire che i fondi stanziati tengano conto delle disparità e delle
disuguaglianze esistenti in termini di accesso all'acqua e rispettino i
principi dei diritti umani alla non discriminazione, all'accesso alle
informazioni e alla partecipazione;
96. invita la Commissione a rendere
l'ammodernamento delle reti obsolete di acqua potabile una priorità nell'ambito
del piano di investimenti per l'Europa, inserendo questi progetti nell'elenco
dei progetti dell'Unione; pone l'accento sull'effetto leva
che tali progetti permetterebbero di esercitare su un'occupazione non
delocalizzabile, contribuendo così a dare impulso all'economia verde in Europa;
97. invita la Commissione a promuovere la
condivisione di conoscenze affinché gli Stati membri conducano indagini sullo
stato delle reti, il che dovrebbe consentire l'avvio di lavori di ammodernamento
intesi a porre fine agli sprechi;
98. chiede una maggiore trasparenza, onde
fornire ai consumatori informazioni più approfondite riguardo all'acqua e
contribuire a una gestione più economica delle risorse idriche; incoraggia a
tal fine la Commissione a continuare a impegnarsi con gli Stati membri nella
condivisione di esperienze a livello nazionale per quanto concerne la creazione
di sistemi informativi sull'acqua;
99. invita la Commissione a studiare
l'opportunità di estendere a livello europeo gli strumenti di sostegno
finanziario nel settore della cooperazione internazionale relativa all'acqua e
ai servizi igienico-sanitari;
100. sottolinea
che una gestione efficiente ed equa delle risorse idriche si basa sulla
capacità dei governi locali di fornire servizi; invita pertanto l'UE a
sostenere ulteriormente il rafforzamento della gestione delle risorse e delle
infrastrutture idriche nei paesi in via di sviluppo, tenendo in particolare
considerazione, nel contempo, le esigenze delle popolazioni rurali vulnerabili;
101. sostiene
la piattaforma globale della solidarietà dell'acqua lanciata dal programma
delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) per coinvolgere gli enti locali
nella ricerca di soluzioni alle sfide idriche; plaude altresì all'iniziativa
"1% di solidarietà per l'acqua e i servizi igienico-sanitari" e ad
altre iniziative intraprese dai cittadini e dalle autorità di alcuni Stati
membri per sostenere progetti in paesi in via di sviluppo con fondi accantonati
dalle bollette dei consumi; rileva che tali iniziative sono state messe in
pratica da diverse aziende di servizi idrici; ribadisce l'invito rivolto alla
Commissione a incoraggiare meccanismi di solidarietà in questo e in altri
settori, ad esempio attraverso la divulgazione di informazioni, l'agevolazione
di partenariati e lo scambio di esperienze, anche attraverso un potenziale
partenariato fra la Commissione e gli Stati membri, con fondi supplementari
dell'UE destinati ai progetti realizzati tramite questa iniziativa; incoraggia
in particolare la promozione di partenariati pubblico-pubblico nelle aziende di
servizi idrici dei paesi in via di sviluppo, in linea con la Global Water Operators' Partnership Alliance
(GWOPA) coordinata dall'agenzia Habitat delle Nazioni Unite;
102. chiede
alla Commissione di reintrodurre lo strumento del Fondo per l'acqua, che si è
rilevato efficace nel favorire un migliore accesso ai servizi idrici nei paesi
in via di sviluppo, favorendo azioni che rafforzino le capacità delle
popolazioni locali;
103. accoglie con favore il fatto che vi sia un
considerevole sostegno, in tutta Europa, alla risoluzione dell'ONU volta a
riconoscere l'accesso all'acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari come un
diritto umano;
°
° °
104. incarica il suo Presidente di trasmettere la
presente risoluzione al Consiglio e alla Commissione.
Note
1.GU L
330 del 5.12.1998, pag. 32.
2.GU L
327 del 22.12.2000, pag. 1.
3.GU L
65 dell'11.3.2011, pag. 1.
4.GU L
94 del 28.3.2014, pag. 1.
5.Non
ancora pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.
6.A/RES/64/292.
7.A/RES/68/157.
8.GU C 9
E del 15.1.2010, pag. 33.
9.GU C
349 E del 29.11.2013, pag. 9.
10.Testi
approvati, P8_TA(2014)0059.
***
Cliccare per aprire il documento:
***
CORTE EUROPEA DIRITTI DELL'UOMO
SENTENZA:
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Il segreto che uccide
di Giovanni Sarubbi
Da sedici anni c'era
chi sapeva la verità sui rifiuti tossici in Campania ma i verbali erano stati
secretati.
Oggi la presidente
della Camera Laura Boldrini ha desecretato un verbale della commissione
parlamentare di indagine sui rifiuti del 1997 contenente le dichiarazioni del
pentito di camorra Carmine Schiavone che fu ascoltato dalla commissione. Per 16
anni questo verbale è stato tenuto segreto. Man mano che procedevo nella
lettura di questo testo sono stato preso da sentimenti via via crescenti di
indignazione, rabbia, disgusto e odio profondo per quanti, pur sapendo, hanno
nascosto una situazione ambientale devastante già nota e circoscritta ben 16
anni fa. La magistratura sapeva, sapevano i politici, sapevano le forze di polizia,
ma nulla è stato fatto né per porre rimedio al male provocato, né per impedire
che esso potesse ripetersi, come in effetti si è ripetuto e continua a
ripetersi ancora oggi.
Le rivelazioni di Carmine Schiavone sono terribili e dicono,
in sostanza, che laddove si da il via ad una opera pubblica che comporti lavori
stradali con movimento terra, li c'è sicuramente uno sversamento illecito di
rifiuti tossici. Il motivo è semplice. Per fare questi lavori c'è bisogno di
scavare buchi enormi. Masse di terra devono essere spostati da una parte
all'altra e i buchi, profondi anche 30-40 metri per centinaia di ettari, vanno
riempiti. E ci mettono dentro di tutto, fanghi tossici ma anche rifiuti
nucleari con un po' di terra per lo mezzo, ed il gioco è fatto. Tutti sanno,
tutti hanno saputo, nessuno ha parlato. Mafie, massonerie, politici ma anche e
soprattutto imprenditori, veri e propri assassini dell'ambiente e delle
persone, che in nome del massimo profitto non guardano in faccia a nessuno. Ho
provato, man mano che leggevo, a trascrivere le dichiarazioni principali rese
nel 1997 da Carmine Schiavone. Le riporto di seguito ma vi invito a leggere
completamente il testo che trovate in fondo all'articolo in allegato in formato
PDF. Ricordo che nel 1997 c'era il governo di centro-sinistra, il primo governo
Prodi. Leggendo il testo ora reso pubblico si capisce bene perché nulla venne
fatto, neppure dal governo di centro-sinistra, e nulla è stato ancora fatto.
Gli interessi economici in gioco erano enormi e riguardavano certo i clan camorristici,
ma anche e soprattutto le decine e centinaia di imprese che smaltivano i loro
rifiuti senza curarsi di troppi problemi. Tanto a morire erano gli altri. Ed è
per questo che chiediamo con forza, con tutta l'indignazione e la rabbia e il
disgusto possibile, l'abolizione di tutti i segreti di Stato finora esistenti e
l'adozione di tutte le misure necessarie a risanare le zone contaminate.
Basta con i segreti
che uccidono.
Giovanni Sarubbi
Massimiliano ToscanoClicca per aprire il documento: DOSSIER SCHIAVONE |