UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

I DOSSIER

I GUAI DI MILANO
di Jacopo Gardella

Una analisi impietosa sulla Milano contemporanea
dell’architetto e urbanista Jacopo Gardella.

Jacopo Gardella

Milano rinata? Solo in apparenza.
Da un po' di tempo, in seguito alla chiusura dell’EXPO 2015, corre la voce che Milano si sia risvegliata, abbia ripreso a vivere con più vigore sia in ambito commerciale che culturale. In realtà il commercio langue, come dimostra la chiusura di molti negozi, se si escludono i negozi di commestibili, sempre gli ultimi a cessare la loro irrinunciabile attività; e langue anche la cultura come dimostra la fine di molte librerie dopo anni di glorioso servizio informativo e culturale.
Se soltanto si fa un esame obiettivo della attuale situazione questa ottimistica ma illusoria voce occorre avere il coraggio di smentirla.
È bensì vero che alcune grandi istituzioni tradizionali della nostra città, come il Teatro alla Scala, il Piccolo Teatro, le mostre d’arte, e poche altre iniziative, continuano a proporre spettacoli o manifestazioni di grande interesse e di grande successo anche se non sempre di grande qualità. È vero che le “Gallerie d’Arte” presentano periodicamente mostre eccellenti dedicate a movimenti artistici tanto del passato quanto del presente; ed è vero che il “Museo del Novecento” o il “Palazzo Reale” hanno offerto ai milanesi esposizioni di indubbia qualità e di straordinario valore, come pure numerose gallerie private di importanza minore.
Tutto ciò è vero ma non basta a riscattare l’Amministrazione Comunale dalla insufficiente e spesso deludente gestione della intera città. Vediamone alcuni esempi.


Traffico urbano: grave il mancato collegamento tra centro
e periferia
Il traffico urbano in una città è vitale come la circolazione del sangue in un organismo vivente. Se manca l’afflusso del sangue negli organi periferici del corpo questi incancreniscono così come si degradano i quartieri periferici di una città se manca il collegamento con il resto dell’abitato. Qualsiasi iniziativa volta a portare in periferia occasioni di vita e di animazione si rivela inutile e buttata al vento se contemporaneamente non si provvede ad assicurare ai quartieri periferici una efficiente comunicazione con gli altri quartieri e con il centro città. Molte famiglie, soprattutto se formate anche da bambini piccoli, sarebbero contente di vivere in una periferia dotata di larghi spazi e di molto verde se soltanto potessero essere collegate con il centro città da una rete di trasporti veloci, frequenti, e funzionanti con continuità anche nelle ore notturne.
Il centro città ha un fascino intenso, inspiegabile, costante. Lo dimostrano le folle di passanti che si radunano nelle vie del centro durante le giornate di festa. Vengono da luoghi lontani, superano distanze notevoli, impiegano tempi lunghi per spostarsi, ma tutta la loro fatica viene superata dal desiderio di trovarsi nel centro della città e di partecipare allo spettacolo di una folla riunita. Guardano i negozi, ammirano le vetrine, entrano nei bar, osservano i vestiti, commentano le mode, vanno al cinema ed a teatro, danzano nei locali di ritrovo, si animano e si eccitano perché sentono di appartenere ad una comunità di persone uguali ed unite da stesse aspirazioni e da soddisfazioni simili.
Se a questa larga fascia di abitanti provenienti dalla periferia o dai dintorni extraurbani si offre la possibilità di raggiungere facilmente il centro città essi non avranno più la sensazione di sentirsi isolati, dimenticati, emarginati. Una rete di comunicazioni veloci, costanti e funzionanti anche nelle ore serali, è il primo servizio che occorre assicurare a chi vive lontano dal centro ma vuole partecipare alla vita del centro. I progetti di rigenerazione delle periferie proposti dall’arch. Renzo Piano e ideati allo scopo di conferire una dignità sociale ed ambientale a tante desolate e tristi periferie sono pieni di buone intenzioni ma destinate a fallire se non accompagnate da un efficiente servizio di trasporto pubblico che colleghi le aree periferiche alle zone centrali.



Trasporti di Milano soddisfacenti? Quale immensa ingenuità!
Si sente spesso ripetere, in tono quasi meccanico, che il traffico a Milano è molto superiore a quello di altre città italiane. Affermazione che prima di essere inesatta è anche ingenua. Certo, se si paragona il traffico di Milano a quello di Roma o di Napoli non vi è dubbio che esso appaia di molto superiore; ma se lo si paragona a quello di molte città nord-europee paragonabili a Milano per dimensione ed importanza, allora la inferiorità del traffico milanese si manifesta inequivocabile.
Sarebbe come se un insegnante scolastico facesse notare ai suoi allievi la modesta preparazione di una classe alquanto peggiore della sua e si compiacesse della superiorità ottenuta da lui e raggiunta dai suoi allievi. Quale immensa ingenuità! Il suo dovere avrebbe dovuto essere l’opposto: indicare ai suoi allievi non una classe peggiore ma una classe molto migliore della sua ed invitarli a fare di tutto per imitarla e raggiungerla. Soltanto dopo aver fatto un analogo paragone si potrà dire che i trasporti di Milano sono superiori e veramente soddisfacenti.
L’inefficienza dei trasporti pubblici milanesi è generale e si manifesta sia nei trasporti in superficie sia in quelli di sottosuolo.



Trasporti in superficie: troppo poco frequenti.
È riconosciuto da quanti fanno uso dei mezzi di superficie (tram, filobus, corriere) che la frequenza delle corse è inadeguata ad una metropoli internazionale. Il numero delle corse, anche in orario di lavoro, è troppo basso; di sera diventa poi talmente dilazionato da obbligare ad attese indegne di una città che ha più di un milione di abitanti. Fanno eccezione i filobus n. 94 della circolare interna (cerchia dei Navigli) che passerebbero con regolarità accettabile se non fossero ostacolati dalla affluenza di auto private addensate sullo stesso loro percorso; e se non dovessero serpeggiare fra le recinzioni e le attrezzature di cantieri installate per la costruzione della nuova linea metropolitana.
Nelle metropoli europee la frequenza delle corse nelle ore di lavoro si aggira sui 3-5 minuti; a Milano si è costretti ad aspettare un tempo che è più del doppio.

Foto: Giuseppe Denti

I guasti della linea M4: strade ingombre, alberi abbattuti
Può essere utile fare qui una digressione e segnalare le incongruenze dei cantieri distribuiti lungo quasi tutto il percorso della nuova linea, la M4 blu, sia nelle zone centrali (via Francesco Sforza, via Santa Sofia, via Molino delle Armi); sia nelle zone periferiche (via Lorenteggio, Piazza Frattini, via Foppa). Nei tratti centrali ci si domanda perché debbono essere occupati dai cantieri interi tratti di strada di lunghezza non comprensibile e non giustificata. Nei tratti periferici ci si stupisce ed indigna nel vedere abbattuti lunghi filari di alberi d’alto fusto, frondosi e rigogliosi, antidoto utilissimo ad abbassare l’inquinamento atmosferico della intera zona. Sorge un dubbio poco lusinghiero per la nostra Amministrazione. Forse il Comune ha concordato con le imprese esecutrici dei lavori una operazione certamente più economica perché realizzata per lunghi tratti mediante scavi a cielo aperto e senza uso di escavatrici sotterranee. Gli scavi sotterranei, si sa, sono più costosi perché richiedono la estrazione del materiale di scavo, ma sono anche molto meno invadenti e quindi meno disagevoli per il traffico in superficie; soprattutto sono meno inquinanti perché sollevano meno polvere e non obbligano all’abbattimento di alberi secolari e preziosi per la salubrità dell’aria. Il Comune potrà vantare di avere realizzato la nuova linea avendo ottenuto costi inferiori e contenuto le spese, ma dovrà rammaricarsi profondamente di aver inflitto ai cittadini un disagio pesantissimo, difficile da calcolare ma certamente gravoso, iniquo, ed offensivo per molte categorie di persone inutilmente e immeritatamente danneggiate: negozianti costretti a chiudere i loro esercizi; abitanti costretti a vivere in mezzo a nuvole di polvere e frastuono di macchinari; automobilisti privati, taxi pubblici, autobus municipali, tutti indistintamente costretti a rallentare quando incontrano strettoie provocate dalle ingombranti installazioni di cantieri. I disagi sono sotto gli occhi di tutti: code lunghe e lente nei tratti di larghezza ridotta, appena sufficiente al passaggio di un veicolo alla volta; tempi allungati, ritardi imprevisti, fermate improvvise. Il tutto peggiorato dall’aver rinunciato ad imporre alle imprese costruttrici un orario di lavoro continuato, di durata pari a ventiquattro ore su ventiquattro, e quindi dall’avere obbligato tutta la città a sopportare una complessiva durata dei lavori tre volte più lunga del necessario. Non è questo il comportamento di un Comune che voglia prendersi cura del benessere e della salute dei suoi abitanti.
Quando una metropolitana passa al di sotto di isolati interamente costruiti non demolisce le costruzioni soprastanti ma scende al di sotto delle cantine, delle fondazioni e delle eventuali palificazioni. Ci si domanda allora perché non si è proceduto allo stesso modo? Perché non si è lavorato al di sotto della superficie stradale lasciando la via interamente percorribile e libera per la intera durata dei lavori? Solo poche aperture e alquanto distanziate sarebbero state sufficienti per estrarre il materiale di scavo: il rimanente percorso della linea metropolitana si sarebbe svolto interamente interrato e non avrebbe causato nessun disagio alla circolazione dei veicoli, alle attività della città, alla salute dei cittadini.

Foto: Stefano Merlini Bejart

Trasporti in sottosuolo: errori passati ed errori futuri.
Ai disagi provocati in superficie da una carente e sconsiderata impostazione dei lavori vanno aggiunti sia gli errori già commessi nella esecuzione delle precedenti linee metropolitane, sia gli errori in procinto di essere commessi nella progettazione delle linee future.
La metropolitana milanese è partita male già da quando era comparsa poco dopo la metà del secolo scorso. Un primo grave e fondamentale errore è stato commesso quando si è avviata la realizzazione della prima linea, la M1 rossa, senza prima avere preparato un Piano Generale della intera rete e senza avere steso un programma della sua progressiva attuazione nel corso degli anni futuri. Ciò avrebbe permesso di valutare meglio la priorità da assegnare alle singole linee e di verificare se persistevano le condizioni che inizialmente erano valide o se erano subentrati cambiamenti o impreviste necessità che avrebbero costretto ad introdurre modifiche nel Piano Generale della intera rete.
I milanesi non sono mai stati informati dei criteri con cui veniva aperta una nuova linea e quindi non hanno mai saputo in anticipo quale parte della città era in procinto di essere servita. Non fornire pubblicamente le necessarie informazioni è una colpa grave da parte del Comune nei confronti dei cittadini; tenerli all’oscuro di interventi tanto importanti è una pesante offesa alla loro dignità di abitanti e di contribuenti.
Un secondo errore è consistito nell’avere sdoppiato il percorso della linea rossa M1; dopo la stazione di Pagano la linea si biforca e corre verso due direzioni diverse: una va a Bisceglie, l’altra a Rho. Ciò significa dimezzare in entrambe quelle due direzioni il numero delle corse e quindi raddoppiare i tempi di attesa fra una corsa e l’altra. Ci si domanda allora per quale ragione penalizzare le due zone di Milano collocate al di là della stazione Pagano. L’inconveniente si fa sentire oggi in modo ancora più grave dal momento che l’apertura della Nuova Fiera Campionaria nei pressi di Rho ha aumentato sensibilmente il flusso dei viaggiatori attratti in quantità sempre maggiore dal calendario di mostre che si susseguono lungo tutto il corso dell’anno. Paradossalmente proprio là dove aumenterà il numero dei viaggiatori diminuisce il numero delle corse! L’errore è stato ripetuto di nuovo nella linea metropolitana verde, la M2. Arrivata alla periferia nord-est di Milano la linea si sdoppia e prende due direzioni diverse: una va a Cologno Nord l’altra a Gessate. Anche in questo caso i viaggiatori che si servono delle due linee vengono penalizzati perché in entrambe la frequenza delle corse viene dimezzata. Di fronte a questo ripetuto errore i progettisti della Metropolitana Milanese sono da biasimare perché recidivi.
Le malefatte tuttavia non terminano ancora. La linea viola, o linea M5, ancora da ultimare, verrà prolungata in direzione nord fino a raggiungere e superare il capolinea della linea rossa, la M1, e proseguirà oltre il centro di Monza per servire anche il Parco della Villa Reale. Non si capisce perché non si sia fatto proseguire fino al Parco la iniziale linea rossa M1permettendo in tal modo di arrivare in meno di venti minuti di viaggio continuo dal centro di Milano al centro dello straordinario complesso monumentale-naturalistico del Parco di Monza. Ora invece per arrivare al Parco si è costretti ad un assurdo e disagevole cambiamento di treno: arrivati al capolinea della M1 si scende dalle vetture, si attende l’arrivo di un treno della linea lilla M5, si sale sulle vetture e finalmente si arriva al Parco. Il viaggio viene inutilmente allungato come minimo di circa 15 minuti; ed il disagio viene sensibilmente aumentato per le persone anziane, per le madri con carrozzella, per chiunque sia caricato di pesi ingenti o di bagagli faticosi da trasportare.

Foto: Archivio Odissea

Milano città radiocentrica: mancano linee radiali e linee circolari.
Per le future linee di cui è prevista la esecuzione va anteposta una considerazione relativa alla forma della città. Milano è una città dalla planimetria radiocentrica. Le sue principali strade storiche sono di due tipi: o provengono dalla periferia e vanno verso il centro; o si svolgono in cerchi concentrici che diventano sempre più grandi man mano che ci si allontana dal centro. In un caso o nell’altro il tracciato delle linee metropolitane avrebbe dovuto seguire lo schema delle strade. Questo schema è stato seguito solo in parte nelle tre linee fino ad oggi eseguite (M1, M2, M3); mentre nella linea che è ancora in corso di esecuzione, la M4 blu, è stato commesso un grave errore nella scelta dell’itinerario: è stata occupata una considerevole porzione della Cerchia dei Navigli interni; e così si impedirà in futuro il completamento di questa Cerchia perché sarà impossibile realizzare una circolare sotterranea continua, in sostituzione della attuale circolare in superficie percorsa dall’autobus 94.
Se si possedesse un quadro generale della futura rete metropolitana si potrebbe prevedere una seconda linea circolare sotto il perimetro delle mura Spagnole (i Bastioni) oggi servita da un lentissimo tram circolare; ed infine una terza linea circolare sarebbe necessaria sotto i viali periferici esterni oggi percorsi dai filobus 90 e 91.
In una città di forma radiocentrica come è Milano le linee di circonvallazione sono indispensabili e andrebbero programmate fra le prime; esse infatti, intersecando tutte le linee radiali e quindi incrociando anche quelle dirette nel luogo dove si vuole arrivare, permettono di raggiungere qualsiasi località cittadina anche se collocata molto lontana dalla stazione di partenza.
Nella rete metropolitana milanese non avere ancora previsto un sistema coordinato di linee radiali e di linee circolari è una grave mancanza; ed è la conseguenza di non avere predisposto fin dall’inizio dei lavori un Piano Generale di sviluppo della futura rete.


Foto: Angelo Cremonesi

Quante zone di Milano non ancora servite dalla metropolitana!
Milano è una città che per ora non è servita adeguatamente dalla sua attuale rete metropolitana: vi sono molte zone abitate della città non ancora raggiungibili facilmente o non raggiungibili del tutto. Vi sono luoghi civici di importanza primaria ai quali ancora non si può arrivare se non con lenti e poco frequenti mezzi di superficie; ed inoltre la assenza di un Piano generale ha impedito di prevedere come prolungare ben oltre i confini dell’abitato sia le linee esistenti sia quelle future in modo da supplire in parte alla insufficiente Rete Ferroviaria Regionale.
a) Mancano molte linee metropolitane lungo le principali direttrici radiali delle quali si fa qui di seguito un elenco sommario e solo indicativo; esse sono le seguenti a partire dalla periferia Nord di Milano girando in senso orario:
Da Piazzale Maciachini, Via Valassina, Via Ornato, Via Vittorio Veneto, capolinea Cusano Milanino;
Da Piazzale Loreto, Viale Padova, Via Rombon, Via Fratelli Cervi, capolinea Cusano Milanino;
Da Piazza San Babila, Corso Monforte, Corso Indipendenza, Viale Argonne, Via Tucidide, Via Corelli, capolinea Centro Sportino “Saini” (Parco Forlanini);
Da Piazza Missori, Via Larga, Corso di Porta Vittoria (Palazzo di Giustizia), Via Spartaco, Piazza Insubria, Via Bonfadini, capolinea Ponte Lambro;
Da Crocetta, Corso di Porta Vigentina, Via Ripamonti (Istituto I.E.O.), capolinea Noverasco;
Da Piazza Missori, Corso Italia, Via Gianbologna, Via Pezzotti, capolinea Piazza Agrippa;
Da Piazza del Duomo, Via Torino, Corso di Porta Ticinese, via San Gottardo, Via Meda, Via Montegani, Via Missaglia, capolinea Rozzano;
Da Stazione Porta Genova, strada Alzaia Naviglio Grande, capolinea Corsico;
Da Piazzale Cadorna, Corso Magenta, Corso Vercelli, Via Sardegna, Via Soderini, Via Kuliscioff, Via Benozzo Gozzoli, Via Cividale del Friuli, Viale Forze Armate, capolinea Bisceglie;
Da Piazza Wagner, Via Rubens, Via Novara, capolinea Bosco in Città;
Da Piazza Cadorna, Via Monti, Largo Domodossola, Via Gattamelata, Viale Espinasse, Via Grassi, capolinea Ospedale “Sacco”;
Da Piazza Cadorna, Via Canova, Corso Sempione, capolinea Cimitero Maggiore (Musocco);

Foto: archivio Odissea

Da Stazione Garibaldi, Via Pepe, Via Valtellina, Piazza Maciachini, Viale Jenner, Via Maffucci, capolinea Affori.
b) Manca ancora una linea metropolitana che raggiunge i principali Ospedali cittadini: Ospedale di Niguarda che verrà servito soltanto fra qualche anno, Ospedale Sacco, Istituto Europeo di Oncologia (I.E.O.), Ospedale San Carlo, Ospedale San Raffaele oggi servito soltanto da una linea indiretta, Ospedale San Paolo, Ospedale Pio X, Ospedale Sacra Famiglia, Casa di Cura Villa Turro, Ospedale San Camillo, Ospedale Bassini nel Parco di Bresso, Ospedale San Luca, ed alcuni altri ancora.
c) Manca ancora una linea metropolitana che raggiunga i principali luoghi amministrativi o centri commerciali o Istituzioni Pubbliche: Municipio e Palazzo Marino, Palazzo di Giustizia, Mercati Generali, Cimitero Maggiore, Cimitero Monumentale, Palazzo della Triennale, Teatro alla Scala.



Foto: Angelo Cremonesi

Teatro alla Scala: disagevole da raggiungere.
La mancanza di una fermata davanti a questo Teatro famoso in tutto il mondo è un errore non solo irrimediabile ma anche imperdonabile. La linea gialla M3 passa sotto l’ingresso del Teatro ma paradossalmente qui non si ferma. Il Teatro rimane perciò sprovvisto di una propria fermata la quale servirebbe oltre che all’ingresso degli spettatori anche all’accesso dei cittadini agli importanti palazzi civici presenti nella omonima Piazza antistante. Eppure lo slargo che si apre a sinistra del Teatro avrebbe accolto comodamente scale ed ascensore di collegamento con la sottostante stazione della metropolitana. Oggi per raggiungere il Teatro occorre scendere nelle non vicinissime fermate del Duomo e di Cordusio. Nelle serate di maltempo le signore in abito da sera sono costrette ad affrontare pioggia e neve per coprire la considerevole distanza compresa tra il Teatro e queste due stazioni.
A quanti credono di poter giustificare la mancata fermata in Piazza della Scala adducendo la immediata vicinanza delle fermate Duomo e Cordusio si risponde che nei centri civici, commerciali e culturali delle capitali europee le fermate sono collocate a breve distanza le une dalle altre. Nel Centro Storico di Londra, lungo Oxford Street, vi sono quattro fermate vicinissime tra loro. Ciò è del tutto comprensibile se si considera il maggiore affollamento che si verifica nelle zone centrali delle città.
La distanza fra le singole fermate non è una misura costante da applicare uniformemente lungo l’intero percorso della linea, ma è una misura variabile da calcolare in funzione del diverso affollamento di viaggiatori e del numero variabile di funzioni civiche presenti nei vari punti del percorso.
In Piazza della Scala le funzioni civiche sono numerose e tutte richiederebbero una specifica ed indispensabile fermata della linea metropolitana; ma la fermata è stata dimenticata!

Foto: Stefano Merlini Bejart

Riprendendo l’elenco delle linee ancora da realizzare occorre aggiungere che, fatta eccezione per l’ippodromo e lo stadio San Siro raggiungibili soltanto da poco tempo con la linea lilla M5, non sono ancora serviti dalla metropolitana i seguenti centri sportivi: Centro sportivo Giuriati, Centro sportivo XXV Aprile, Centro sportivo Kennedy, Centro sportivo Colombo, Centro sportino “Saini”.
1.Manca inoltre un collegamento con l’aeroporto internazionale di Linate (sarà pronto fra qualche anno) e con l’aeroporto secondario di Bresso.
2.Mancano collegamenti con molti parchi cittadini: Bosco in città, Parco di Trenno, Parco delle Cave, Parco della Barona, Parco Travaglio, Parco della Resistenza, Parco di Cava Bergo, Parco di Bruzzano, Parco della Goccia (Bovisa); ed infine, come già osservato, manca un collegamento diretto con il Parco di Monza, un complesso paesaggistico monumentale tra i più spettacolari d’Europa, oggi gravemente (vergognosamente!) mutilato dalla devastante presenza dell’Autodromo.

Foto: Giuseppe Denti

Parco di Monza: un paesaggio da riscattare.
La ottusità becera ed il campanilismo degli abitanti di Monza, gli interessi grevi ed arroganti del mondo che ruota intorno alle gare di Formula Uno, impediscono di spostare di qualche chilometro il circuito dell’autodromo e di ricostruirlo identico nella campagna circostante. L’attuale autodromo è uno scempio inferto all’ambiente naturale; esso provoca un incalcolabile danno turistico con conseguenze non solo locali ma anche internazionali; mutila il grandioso paesaggio che circonda lo splendido Palazzo Reale; nasconde molte architetture rustiche in gran parte sconosciute benché a suo tempo fossero complementari alle funzioni originali del Parco che erano anche agricole oltre che ricreative.

Foto: S. Merlini Bejart
Piazza del Duomo negli anni Settanta

3.Concludendo l’elenco delle linee ancora da realizzare occorre aggiungere che mancano collegamenti con famosi complessi storico-monumentali poco lontani dalla zona abitata: Abbazia di Chiaravalle, Abbazia di Mirasole, Abbazia di Viboldone, Certosa di Garegnano. Non esiste neppure la possibilità di raggiungere queste preziose mete artistiche con un regolare servizio turistico di corriere o di taxi a prezzi ridotti.
La integrazione del servizio pubblico con una organizzazione di trasporto privato dovrebbe diventare una formula da mettere in programma e da adottare sempre per consentire l’accesso a luoghi altrimenti difficili da raggiungere.
Come si vede dagli elenchi disposti qui sopra è enorme il numero di località non servite dalla metropolitana; strade importanti e centri di ritrovo, di commercio, di affari, di servizi civici sono ancora sprovvisti di una stazione. L’inerzia delle passate Amministrazioni si sta rivelando pesantemente nociva.

Foto: Angelo Cremonesi

Taxi:
Abbondano quando non richiesti, mancano nei monumenti di bisogno.
A volte durante il giorno si vedono lunghe file di taxi fermi ai posteggi in attesa di essere presi o chiamati. Si prova per loro un sentimento di pena e di solidarietà pensando ai lunghi momenti di inattività e di mancato guadagno. A volte al contrario, nelle ore di punta, e nelle giornate di pioggia, si è costretti ad aspettare tempi interminabili per riuscire a trovare un taxi libero. Si prova allora un sentimento di rabbia e di sdegno di fronte al grave disagio causato dalla disfunzione di un servizio istituito per rispondere con urgenza alle necessità dei cittadini.
L’inconveniente si protrae ormai da anni ma nessuno reagisce, nessuno protesta, nessuno propone e cerca un rimedio. Non la Stampa cittadina, non le rappresentanze volontarie della popolazione, non i Comitati di Zona, e men che meno - figuriamoci! - il sempre assente, non vedente, inetto Comune di Milano. Eppure non sarebbe difficile trovare un rimedio. Anzitutto aumentare il numero dei taxi in circolazione facendo pagare agli UBER l’equivalente della licenza versata a suo tempo dai taxi regolarmente autorizzati. In secondo luogo creare un gemellaggio tra Assessore al Traffico e categoria dei taxisti e concordare con questi ultimi una loro prestazione a prezzi convenuti e minori degli attuali affinché diventino accessibili anche ai cittadini meno abbienti. L’accordo con i conduttori di taxi converrebbe al Comune perché eviterebbe la acquisizione alquanto costosa di nuove vetture, la assunzione di nuovo personale viaggiante, la ricerca di nuovi addetti alla manutenzione del materiale rotabile. Converrebbe anche agli stessi conduttori di taxi perché assicurerebbe a tutti loro un introito costante e sicuro in compenso di un determinato numero di ore messe al servizio della Azienda Trasporti Municipali.
Ogni conduttore di taxi avrebbe libera per suo uso privato una frazione di ore giornaliere, mentre la rimanente frazione sarebbe impiegata a potenziare il trasporto pubblico in compenso di una retribuzione elargita dal Comune in modo equo sia per i prestatori del servizio, cioè i taxisti, sia per gli utenti, cioè i cittadini anche meno facoltosi.
L’accordo sarebbe equivalente alla parziale privatizzazione di una attività pubblica e conseguirebbe il triplice obiettivo di migliorare il servizio municipale, di assicurare un margine di sicuro guadagno giornaliero per i conduttori di taxi, di abbassare gli attuali costi delle corse in auto pubbliche ancora proibitive per gran parte dei cittadini.
È paradossale che proprio la nostra epoca, l’età dell’automobile, non sia capace di cogliere tutti i vantaggi offerti dall’automobile, il mezzo di trasporto più popolare; e non sappia usare l’automobile, questo mezzo di diffusione universale, per aiutare a risolvere i problemi del trasporto urbano.

 
Foto: Giuseppe Denti

Ingresso in città concesso solo ai residenti.
In futuro le città saranno costrette a ridurre l’uso dell’auto privata; potranno concederne l’impiego soltanto ai residenti in città; dovranno vietarne l’ingresso nella zona abitata a quanti arrivano da località esterne.
Esiste un diffuso pregiudizio che è convinto sia radicato negli Italiani un appassionato attaccamento all’automobile, un insopprimibile desiderio di possederla, un irrinunciabile piacere di guidarla. Niente di più falso. Se vi fossero servizi di trasporto pubblico veramente efficienti (oggi sono ben lontani dall’esserlo) quanto automobilisti sarebbero contenti di non fare più lunghe attese ai semafori, lunghe code agli incroci, lunghe ricerche di posteggio! Quanti si servirebbero con soddisfazione di trasporti pubblici sia in superfice che in sottosuolo!
La riduzione delle automobili in circolazione all’interno dell’abitato dovrebbe consentire una migliore utilizzazione delle lunghe ingombranti vetture tramviarie dette jumbo: oggi esse viaggiano mezze vuote e quindi poco sfruttate; domani diventeranno utilissimi mezzi di trasporto simultaneo per grossi quantitativi di viaggiatori quando finalmente a questi verrà proibito di usare nella zona centrale della città la propria auto personale.


Foto: S. Merlini Bejart
"Vecchia Milano"

Vigili: dove sono scomparsi?
Come aveva constatato a suo tempo lo scrittore Pier Paolo Pasolini le lucciole sono scomparse, non si vedono più lampeggiare nei prati di campagna e nei giardini di città. Allo stesso modo come possono constatare gli abitanti di Milano i vigili sono scomparsi, non si vedono più presidiare i principali incroci, i nodi di traffico più intenso, i luoghi urbani più affollati.
Si è creduto erroneamente che la installazione di semafori ad ogni crocevia e la collocazione di televisioni nei tratti soggetti a divieti fosse sufficiente a garantire il fluire ordinato del traffico e quindi a giustificare la abolizione dei vigili di servizio nelle strade. Niente di più sbagliato. I semafori scandiscono i tempi e regolano la corsa degli automezzi; i televisori registrano le infrazioni ed individuano i colpevoli. Tutto ciò è necessario ma non sufficiente.
Vi sono funzioni delicate e difficili assegnate al vigile che solo la sua presenza può adempiere; funzioni di assistenza, di aiuto, di protezione che si devono potere assicurare allo smarrito cittadino, al turista disorientato, all’anziano insicuro, all’invalido in carrozzella. Solo un vigile può fermare momentaneamente il traffico, per aiutare l’infermo ad attraversare la strada; può dare una informazione utile a chi non conosce la città; può intervenire a risolvere un diverbio tra due contendenti inferociti. Il vigile non è soltanto responsabile del buon funzionamento del traffico; è anche, come dice la sua stessa denominazione, colui che vigila sulla sicurezza dei cittadini e rappresenta di fronte a loro la rassicurante presenza dell’Autorità. La sua presenza in strada è indispensabile e necessaria.
È vero che oggi questa presenza richiede un maggiore sacrificio per effetto dell’aumentato inquinamento atmosferico, ma è anche vero che in un prossimo futuro tutti i veicoli circolanti in città avranno motori elettrici e quindi non più inquinanti. Ai vigili non sarà più concesso imboscarsi negli uffici o attardarsi nei bar.

Foto: Giuseppe Denti

Sicurezza urbana: è necessario che sia potenziata.
La questione dei Vigili e della loro funzione di protezione ed aiuto in soccorso dei cittadini chiama in causa il problema della sicurezza urbana e della garanzia di difendere da aggressioni, rapine, stupri, omicidi la popolazione oggi minacciata ben più di quanto non lo fosse in passato.
La città non dispiega un sufficiente servizio di difesa pubblica; non fa sentire ai cittadini la presenza di una autorità vigile ed attenta, non assicura la vicinanza di chi può dare soccorso a quanti vengono minacciati. Nelle principali capitali europee si vedono passare le ronde diurne e notturne; si scorgono i tutori dell’ordine nei punti più pericolosi ed esposti del territorio cittadino; si avvertono le intenzioni degli Enti Pubblici, Comune o Stato, di assicurare protezione e di tranquillizzare i passanti. Se chi ha il compito di tutelare l’ordine fosse stato più vigile e più attento non si sarebbe verificato il luttuoso incidente di Arezzo dove un custode del proprio magazzino è diventato involontariamente omicida.
La istituzione di un corpo di Vigili, o di Carabinieri, o di Polizia, non è, come stupidamente alcuni miopi demagoghi vanno blaterando, un sintomo di ritorno del fascismo ma è al contrario un segno di vera democrazia perché assicura la protezione ai meno abbienti, agli indigenti, a chi non ha la possibilità di difendersi ricorrendo alle sue sole forze. I ricchi trovano sempre il modo ed i mezzi per evitare situazioni incresciose e per ripararsi dal pericolo di aggressioni; i poveri restano indifesi e condannati a soccombere.

Ipotesi dell'apertura dei Navigli

Traffico dall’esterno diretto al centro città: occorrono stazioni
di interscambio.
Esiste un problema di traffico esterno che è altrettanto grave di quello interno e che si verifica nel punto di tangenza dei due diversi sistemi di trasporto su strada: lungo il perimetro esterno dell’abitato arrivano dalle varie località distribuite nel territorio circostante e convergono verso il centro dell’abitato molte vie di accesso e di penetrazione in città. Nel punto ancora molto periferico in cui queste vie di ingresso in città incontrano i primi semafori urbani si formano ogni mattina lunghe interminabili estenuanti code: i veicoli provenienti dal territorio circostante si arrestano per parecchi minuti e attendono impotenti di riuscire ad entrare in città. Esattamente in questi punti in cui termina il tragitto da fuori città ed incomincia il tragitto all’interno dell’abitato occorre creare dei parcheggi in cui poter depositare le auto private e da cui far partire i mezzi di trasporto pubblico: metropolitane, filobus, autobus, tram. Sono queste le stazioni di interscambio nelle quali avviene il passaggio dal mezzo di trasporto privato a quello pubblico. Tali stazioni ancora oggi sono troppo poche perché ancora troppo poche sono le linee della rete metropolitana che raggiungono l’anello periferico della città.
A Venezia il sistema di interscambio è già in funzione da decine di anni: le auto private si arrestano e trovano parcheggio nelle autorimesse di piazzale Roma o dell’isola del Tronchetto; da dove i viaggiatori diretti al centro città si servono esclusivamente di vaporetti municipali.

Foto: S. Merlini Bejart

Traffico esterno e tangente alla città: raddoppio della tangenziale Nord
Chi osserva la autostrada A4, proveniente da Torino e diretta a Venezia, nel tratto corrispondente alla Tangenziale Nord di Milano e compreso fra il casello di Rho ad ovest ed il casello di Agrate ad est, nota che in parecchie ore del giorno si forma una colonna di automezzi che procede a passo d’uomo quando addirittura non sta ferma per molti minuti. Uno spettacolo che per il sistema delle infrastrutture italiano non può definirsi edificante. Ciò non stupisce: in quel tratto di autostrada transitano contemporaneamente tre tipi di traffico tra loro molto diversi: un traffico internazionale che unisce la Francia con l’Austria; un traffico regionale che unisce il Piemonte con il Veneto; un traffico locale che unisce il territorio ad ovest di Milano con quello ad est. Tre tipi di traffico diversi per destinazione e per tipologia essendo il primo composta da autocarri pesanti, il secondo da camioncini leggeri, il terzo da vetture civili.
Il rallentamento e a tratti l’arresto del traffico è un danno grave che si riflette non solo sui percorsi fra mete lontane ma anche sugli spostamenti che interessano Milano e si muovono da un luogo all’altro all’interno della città. L’inconveniente è comprensibile se si pensa che questi tre flussi di traffico si imbottigliano in una pista di sole quattro corsie e si ostacolano a vicenda.
Ci si domanda: quanti anni dovranno ancora passare prima di realizzare un raddoppio della Tangenziale ed adeguarla al numero di automezzi già oggi esorbitante e domani destinato ad aumentare? In conseguenza della densità delle costruzioni attraverso cui passa la tangenziale il raddoppio non potrà farsi affiancando una nuova pista a quella esistente ma sovrapponendone una nuova alla vecchia e creando un viadotto sopraelevato che consenta di raddoppiare il numero delle corsie senza invadere i terreni adiacenti. La corsia superiore sarà riservata agli auto mezzi leggeri; quelle inferiori agli autotrasporti pesanti.
Si presenteranno alcune difficoltà costruttive in corrispondenza delle uscite e delle entrate dalla città e nella città ma se vengono interpellati bravi progettisti essi sapranno sicuramente risolvere queste difficoltà facendo uso di raccordi aerei che colleghino il livello delle strade urbane con il livello della pista sopraelevata.
Foto: S. Merlini Bejart

La realizzazione di questa opera renderebbe inutile l’ostico progetto della breve ma invadente autostrada che dovrà collegare il casello di Rho con la città di Monza; pensata come espediente per sfuggire alla morsa esasperata delle code ferme ogni giorno sulla Tangenziale Nord l’autostrada in progetto diventerebbe inutile e superflua quando il raddoppio permetterà di avere un traffico fluido e costate di automezzi pesanti lungo la attuale pista bassa e di autovetture leggere lungo la futura pista sopraelevata. L’uscita per raggiungere Monza sarà posta in corrispondenza del casello di Agrate situato a pochi chilometri di distanza dal centro della cittadina brianzola. Evitare un ulteriore nastro di asfalto, difficile da tracciare nel tratto densamente urbanizzato che è compreso fra Rho e Monza, sarebbe una scelta saggia ed encomiabile. Nessuno tuttavia ha saputo proporla, nessuno ha avuto l’idea di sostituirla con il semplice, meno problematico e meno costoso raddoppio in altezza della Tangenziale esistente.


Foto: A. Cremonesi

Percorsi ciclabili: oggi pochi ridicoli spezzoni;
nessun piano organico e completo.
Guardando le coraggiose persone, spesso gentili signore, che viaggiano in bicicletta e che serpeggiano fra le vetture ferme ai semafori, non si può non provare nei loro confronti un senso di solidarietà e di allarmata compassione constatando quanto sia incombente il pericolo a cui esse sono continuamente esposte. Tale pericolo è la triste testimonianza del disinteresse che il Comune di Milano ha sempre mostrato verso il sistema dei percorsi ciclabili.
È giusto parlare di sistema perché gli spostamenti in bicicletta comportano uno studio accurato e complesso che preveda il tracciato di percorsi, la collocazione di semafori, la posa di protezioni, e la garanzia di compatibilità con l’incombente traffico automobilistico. Un vero e proprio sistema di provvedimenti correlati che per motivi igienici e sanitari è diventato urgente e non più procrastinabile. E’ noto infatti che la bicicletta riduce l’inquinamento atmosferico ed acustico e giova alla salute di chi regolarmente la pratica. Le piste ciclabili inoltre, se progettate con attenzione e competenza, evitano gli incidenti causati dalle ruote delle biciclette che si infilano nelle rotaie del tram. Recentemente il Comune ha preso la lodevole iniziativa di predisporre per i cittadini l’uso a noleggio di robuste ed eleganti biciclette gialle; tuttavia a che serve avere un comodo mezzo con cui muoversi se poi mancano piste sicure e protette su cui correre?
Vi è tuttavia un grave problema da risolvere se realmente si vuole realizzare una esauriente e completa rete ciclabile all’interno della intera città; un problema che si presenta ancora più ostico quando si deve agire all’interno del centro storico dove la maggior parte delle strade è stretta e tortuosa e dove ancora oggi sono concesse alle auto abbondanti zone di sosta disposte lungo i marciapiedi.
Ci si trova di fronte ad un dilemma cruciale: o si consente la sosta delle auto e non vi è spazio per la pista delle biciclette oppure si crea la pista delle biciclette e non vi è spazio per la sosta delle auto. Il dilemma chiama in causa la proposta già fatta in precedenza: e cioè il divieto di ingresso in città da imporre alle auto provenienti dal territorio circostante. Il divieto ridurrebbe drasticamente il numero delle auto circolanti (e ciò sarebbe già un grande bene) ma eliminerebbe definitivamente le auto in sosta lungo i marciapiedi (e ciò sarebbe un bene ancora maggiore). Resterebbero ancora in circolazione le auto dei residenti ma essendo la loro quantità complessiva sensibilmente ridotta, sarà facile trovare una loro collocazione in parcheggi privati situati nei cortili o nei cantinati degli immobili oppure creando nel sottosuolo di strade o di piazze autorimesse collettive riservate tuttavia ai soli residenti e non concesse a nessun veicolo proveniente da fuori città.


Foto: archivio Odissea

Le piste ciclabili realizzate fino ad ora dal Comune di Milano sono ridicole e pericolose: ridicole a causa della loro più che modesta estensione e bassissima presenza nella complessiva rete stradale della città; pericolose a causa della loro frammentazione in piccoli tronchi sparsi in varie parti dell’abitato e non collegati fra loro: le piste si interrompono improvvisamente ed i ciclisti si trovano di colpo e senza preavviso immessi nel traffico più caotico.
In via Verdi è stato realizzato un tronco di pista ciclabile nel tratto lungo circa cinquanta metri compreso fra Piazza della Scala e Via Monte di Pietà: la pista compare dal nulla e scompare nel nulla. A che serve questo frammento ciclabile lasciato senza collegamenti nel cuore del Centro Storico? La pista è lastricata con costoso granito rosa. A che serve usare un materiale tanto prezioso se viene subito deturpato da macchie di grasso e di gomma villanamente sputata per terra? Una semplice e poco costosa striscia di vernice bianca tracciata sulla superficie dell’asfalto sarebbe bastata a separare la zona delle auto da quella delle biciclette. Con l’uso del granito si è di fronte ad una sconfortante dimostrazione di imperizia tecnica e di irresponsabile spreco di danaro.

Foto: G. Denti

Treni regionali: le cenerentole del trasporto su ferro.
Le Ferrovie dello Stato, oggi “Trenitalia”, hanno il merito di avere avviato, sebbene non ancora completato, una estesa rete di treni ad alta velocità, ma hanno il torto di avere trascurato le ferrovie regionali oggi ancora pessime. Un servizio di trasporti regionali efficiente, il che significa rapido, continuato, frequente, alleggerirebbe il flusso di auto private provenienti quotidianamente dal territorio circostante e diretto verso il centro città; e contribuirebbe a ridurre l’inquinamento atmosferico diffuso nell’area urbana.
Recentemente la Direzione Generale delle Ferrovie, facente capo al Ministero delle Infrastrutture, ha accumulato ulteriori errori ai molti già commessi: ha rilasciato ad una compagnia privata, facente capo all’imprenditore Montezemolo, la concessione di introdurre ulteriori corse ad alta velocità su linee già esaurientemente servite da treni veloci, ed ha conseguito il deplorevole risultato di aggiungere inutilmente nuovi treni ai treni già in servizio e più che soddisfacenti alle necessità del paese. Ne consegue un aumento non richiesto di treni veloci, mentre i treni regionali restano scarsi, mal gestiti, pessimamente mantenuti. Alla compagnia privata “Italotreno”, interessata ad aprire nuove corse su linee ad alta velocità, le Ferrovie dello Stato avrebbero dovuto negare ogni tipo di concessione per treni veloci ed obbligare la compagnia privata, se intenzionata a fare la sua comparsa sui binari di proprietà statale, ad introdurre non linee ad alta velocità ma linee regionali a velocità normale in aggiunta alle poche esistenti, che spesso sono in ritardo, mal gestite e non più sufficienti a soddisfare i crescenti bisogni dei viaggiatori pendolari.

Foto: S. Merlini Bejart

La compagnia privata di Montezemolo non avrebbe corso nessun rischio di mandare in passivo il proprio bilancio di gestione perché la costante frequenza quotidiana dei viaggiatori avrebbe garantito una sicura vendita di biglietti e di abbonamenti e quindi un introito stabile e certo.
Uno Stato incapace di progettazioni illuminate e servo di interessi privati si rende colpevole delle scelte peggiori sia strategiche sia politiche; strategiche perché è incapace di migliorare la funzionalità delle corse; politiche perché dimentico del tipo di utenza che fa uso del servizio e che non è di élite ma è anzitutto popolare.
Gli errori non finiscono qui. Ormai da anni si tende ad abbandonare linee ferroviarie di importanza minore ed a sostituirle con servizi di corriere affidati a conduzioni private. Il danno è duplice: in primo luogo vi è una perdita patrimoniale secca perché viene buttato via l’ingente costo di investimento reso necessario a suo tempo dalla costruzione della linea ferrata; in secondo luogo viene commesso un discutibile favoritismo politico perché si avvantaggia indebitamente un concessionario Ente privato e si abolisce un servizio di gestione pubblica utile alla intera collettività.
Il trasferimento del trasporto dal treno alla corriera equivale ad un sicuro peggioramento del servizio: il treno corre su di un percorso libero, sicuro, interamente riservato all’uso delle Ferrovie: la regolarità e la puntualità delle corse è assicurata. La corriera al contrario viaggia su strade percorse da innumerevoli altri veicoli; l’eventualità di intoppi, arresti, incidenti è sempre possibile; la puntualità ed il rispetto degli orari è aleatoria; la durata delle corse è incerta e spesso non rispettata. A ciò si aggiungono altri disagi non secondari: l’ulteriore ingombro di strade spesso già sovraccariche di altri automezzi; l’aumento dell’inquinamento atmosferico ed acustico; il minore “conforto” dei viaggiatori in corriera rispetto ai viaggiatori in treno, la ridotta possibilità di applicarsi ad un lavoro di mente se seduti in corriera piuttosto che in treno. Questi numerosi inconvenienti verificatesi recentemente nella gestione delle Ferrovie sono la dimostrazione che i servizi pubblici su ferro stanno peggiorando rapidamente e che la loro Direzione è affidata a persone sempre meno preparate e meno responsabili.

Foto: S. Merlini Bejart

Le ultime considerazioni non riguardano propriamente la città di Milano; ma indirettamente la coinvolgono e la danneggiano in quanto denunciano la presenza di carenze gravi che si riflettono anche sulla vita della nostra città e ne aumentano i già numerosi guai.


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Tre Madri Costituenti
di Nunzia Augeri



“Le donne hanno il diritto di salire sul patibolo, ma non sulla tribuna”, lamentava la protofemminista Olympe de Gouges, avviandosi alla ghigliottina nei giorni più cruenti della Rivoluzione francese. Passò molto tempo prima che le donne conquistassero il diritto di salire sulla tribuna, cioè di prendere la parola sulla scena pubblica ed affermarsi come soggetti attivi della e nella polis. In ogni paese le donne vi arrivarono con percorsi diversi e in tempi diversi, ma con un elemento comune: finché la gestione del potere rimase appannaggio di gruppi di notabili, come nell’Italia liberale, le donne ne furono escluse; solo con il nascere dei partiti di massa, alla fine dell’Ottocento, le donne entrano finalmente sulla scena politica. 
Ma sono in particolare le guerre a dare una spinta alle donne: la prima guerra mondiale, introducendo le donne nel mondo della produzione, dove assumono mansioni e responsabilità che erano sempre state prerogativa degli uomini, accresce la loro consapevolezza e la loro partecipazione alla vita politica: infatti nell’immediato dopoguerra, nel 1919, si comincia a porre la questione del voto alle donne. Ma il sopravvenire del regime fascista, che considera il Parlamento solo un’inutile “aula grigia e sorda”, toglie il diritto di voto anche agli uomini e li obbliga, se volevano guadagnarsi il pane, ad aderire al partito fascista. Le donne vengono espulse dai posti di lavoro, escluse dalle professioni più alte e prestigiose, penalizzate nella retribuzione, seppure ancora lavoravano, e infine ridotte alla funzione di silenziose fattrici di uomini destinati a diventare obbedienti guerrieri.
La seconda guerra mondiale riporta le donne in prima linea nella produzione e nella gestione della famiglia, con il pesante onere di provvedere a figli e anziani, nell’assenza degli uomini dispersi sui fronti bellici e, più tardi, sui monti. La maturazione politica delle donne italiane si afferma infine definitivamente con la Resistenza e nelle vicende, spesso tragiche e sanguinose, della guerra di Liberazione: è quello il momento in cui esse, anche le più umili montanare e operaie, prendono coscienza del loro ruolo politico, del proprio diritto-dovere di partecipazione alla res publica: come dice la partigiana Lidia Menapace: “Entrammo nella resistenza da sudditi, ne uscimmo cittadini”.
Nel particolare contesto della società italiana bisogna peraltro distinguere due grandi filoni: quello di matrice cattolica - particolarmente vivo in Italia - e quello di matrice socialista. In questo le donne entrano prevalentemente portate dalle lotte sociali, senza un’organizzazione distinta, partecipando anche con ruoli di primo piano alla costruzione ideologica e alla formazione dell’indirizzo generale del partito: pensiamo come esempio al ruolo di Anna Kuliscioff nel Partito socialista. Nel mondo cattolico, le donne formano gruppi femminili separati, con piena autonomia, anche se in stretta collaborazione e nella piena coincidenza di interessi con i gruppi maschili.

Angela Guidi Cingolani

Dal mondo cattolico proviene Angela Guidi Cingolani, che abbiamo scelto perché in Italia fu la prima donna in assoluto ad ascendere alla tribuna e a prendere ufficialmente la parola in una istituzione pubblica. Era romana e aveva quasi cinquant’anni: dell’importanza del momento era ben consapevole. Accolta da un cortese applauso, così si rivolge ai colleghi nell’emiciclo: “nel vostro applauso ravviso un saluto per la donna che per la prima volta parla in quest’aula. Non un applauso dunque per la mia persona, ma per me quale rappresentante delle donne italiane che ora per la prima volta partecipano alla vita politica del paese”.
Poco tempo prima, quando Roma ancora era piegata sotto l’occupazione nazista, la signora Angela, irreprensibile persona di buona famiglia e molto pia, si era ritrovata a pregare nella chiesa del Gesù con un’altra anziana e pia signora, Francesca De Gasperi, moglie di Alcide, che a nome del marito le chiese di organizzare le donne democristiane. La scelta non è certo avventata: la signora Angela frequenta con regolarità le riunioni che si tengono per la costituzione della Democrazia cristiana, casa sua è un centro di incontri politici, riunioni clandestine e logistica per gli aiuti. In epoca prefascista era entrata nel 1919 nel Partito popolare di Don Sturzo e si era battuta per il suffragio femminile; si era costruita una carriera importante, occupandosi di lavoro delle donne: nel 1921 aveva fondato il Comitato nazionale per il lavoro e la cooperazione, per favorire il costituirsi di cooperative femminili di produzione. Aveva condotto inchieste fra le lavoratrici agricole, le allevatrici di bachi da seta, le risaiole. Nel 1925, quasi trentenne, vince un concorso per entrare al Ministero dell’Economia nazionale, dove peraltro non fa carriera perché rifiuta di iscriversi al Partito nazionale fascista.
In quei primi anni anche Mario Cingolani, del Partito popolare, è membro del governo, come sottosegretario al lavoro, ma verrà dichiarato decaduto nel 1926. Anni dopo Angela lo incontrerà, vedovo con tre figli, si sposeranno nel 1935 e avranno un figlio nel 1938. La loro abitazione a Roma, in via Settembrini, diventa un centro importante dell’antifascismo, soprattutto nel periodo dello storico passaggio che porterà alla Repubblica italiana. Dal dicembre 1944, da Roma liberata, dirige “Azione femminile”, una rivista dedicata alle donne che esce come supplemento al “Popolo”: al momento delle elezioni, il suo nome è notissimo fra le donne che gravitano intorno alla DC, e viene premiata non con una pioggia di voti, ma con la grandine, commenterà De Gasperi.
Nel 1951 è la prima donna al governo italiano, come sottosegretario all’artigianato, all’industria e al commercio. La sua esperienza parlamentare e governativa è peraltro breve, e termina con le elezioni del 1953. Ma non rinuncia alla politica: trasferitasi a Palestrina, ne sarà sindaca fino al 1965. Aveva sempre sostenuto l’importanza dello studio, della preparazione, della cultura. Come sindaca, la signora Angela si impegna a valorizzare e promuovere il patrimonio culturale della città, e fonda l’Accademia internazionale Giovanni Pierluigi da Palestrina, che presiederà fino alla morte, avvenuta nel 1991. Nel 1986, al compiere i 90 anni, aveva ricevuto una medaglia al merito per la sua costante e coerente attività politica.



Dall’ambiente socialista proveniva invece Bianca Bianchi: toscana di Vicchio, presso Firenze, insegnante. Era nata nel 1914, il padre era un fabbro socialista, il nonno anarchico. Orfana e povera, era diventata una maestrina, come ce ne sono state tante – benemerite – nella storia d’Italia. Iscritta poi a Magistero, si era laureata con Ernesto Codignola con una tesi su Giovanni Gentile. Insegna prima a Genova e poi a Cremona, ma il temperamento ribelle la rende poco incline a piegarsi ai dettami della scuola fascista; viene spedita in Bulgaria, con l’incarico dell’insegnamento in una scuola italiana (la Bulgaria in quel momento è alleata della Germania nazista e dell’Italia fascista). Torna in patria, a Firenze, nel 1942, poi dopo l’8 settembre si accosta alla Resistenza, militando in un primo tempo nel Partito d’Azione e partecipando ad alcune azioni partigiane in città. “Mi improvvisai soccorritrice dei fuggiaschi che vagavano per le campagne e si nascondevano nei boschi. Dall’improvvisazione passai subito all’iniziativa collettiva entrando nella Resistenza col Partito d’Azione. C’erano tutti i miei professori universitari e molti ex compagni di studio. Esordii spingendo insieme a un’amica un carretto carico di armi”.
Nel 1945 passa al Partito socialista di unità proletaria, PSIUP, e viene eletta alla Costituente con il doppio dei voti di Pertini, come egli stesso farà notare. Alla Costituente si occupa dei problemi della scuola e nel 1947, alla scissione di Palazzo Barberini, passa con il Partito socialdemocratico di Giuseppe Saragat. E’ sbocco naturale di tutto il suo passato occuparsi di educazione primaria e quindi di bambini. Inviata in Sicilia per le elezioni del 1948, si dedica ai problemi dell’infanzia del Mezzogiorno. C’è un problema soprattutto che attira la sua attenzione: i figli di N.N., i bambini che nascono fuori dal matrimonio ed entrano nella vita con le stigmate di quell’indicazione anagrafica, che nell’Italia di allora aveva grande importanza e segnava per tutta la vita. Non sono pochi, circa il 5% delle nascite in Italia, ma Roma ha il primato del 10%, e in tutto sono circa 46.000 i bambini che ogni anno vengono bollati come cittadini di second’ordine, in uno stato di assoluta disparità giuridica e sociale. Bianca scrive un libro, “Figli di nessuno”, che nel 1951 viene pubblicato dalle Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti, sempre attento alle questioni dell’istruzione e della formazione professionale. La lotta di Bianca nel Parlamento per modificare la situazione urta contro ipocrisie e interessi costituiti, contro un’idea antica di famiglia che si vuole mantenere viva malgrado tutti i cambiamenti del costume e della società. Dovrà passare l’impeto turbinoso del ’68 e l’ondata di piena del femminismo perché un nuovo diritto di famiglia, nel 1975, dia a tutti i bambini un padre e una madre, cancellando per sempre le due “enne” infamanti.
La vita di deputata di Bianca termina nel 1953. Non ne ha avuto molti privilegi: anni dopo ricordava che nel 1946, a un comizio in Toscana, un bambino mandato da un imprenditore del luogo le aveva consegnato un paio di sandali bianchi. Li portò per tutta l’estate: non aveva altre calzature, la miseria postbellica incombeva su tutti e tutte. Torna ad occuparsi di scuola e di educazione, tiene una rubrica sulla “Nazione” di Firenze, “Occhio ai ragazzi”, e per un periodo dal 1970 al 1975 diventa vicesindaco della città. Fonda una scuola che già dal nome rivela una lungimiranza politica oltre che educativa: Scuola d’Europa, fondata sulla pedagogia popolare di Célestin Freinet. Non è l’unica scuola nuova: la situazione emergenziale del dopoguerra, la massa di bambini orfani, o comunque deprivati di ogni possibilità di istruzione, fanno sorgere iniziative diverse, come Nomadelfia in Toscana, la Garaventa a Genova, o la rete dei Convitti scuola della Rinascita in varie città del Nord, fino a Roma. Tutte iniziative destinate ad essere chiuse nel giro di pochi anni, tant’è vero che della Scuola d’Europa della maestra Bianchi oggi non si ritrova alcuna traccia. A meno che non siano sotto l’ala protettiva di Santa Madre Chiesa.



Come succede con la Città dei Ragazzi, fondata a Caltagirone dalla baronessa Ottavia Penna Buscemi. Il Sud mandò solo tre donne all’Assemblea costituente: una dalla Campania, Vittoria Titomanlio, e due dalla Sicilia, Maria Fiorini Nicotra e la baronessa citata; nessuna dalla Puglia e dalla Calabria. Il fatto che ci fossero due siciliane mi incuriosì. Permettetemi una notazione personale: mio padre era siciliano, aveva lasciato la Sicilia nel 1919 e decise finalmente di tornarci solo nel 1952. Io avevo allora dodici anni e lo seguii, in particolare in una visita che egli volle fare al suo paese natale, Acate in provincia di Ragusa, non lontano da Caltagirone. Arrivammo in una mattinata d’agosto: un paese arido e polveroso, poche case fra distese di stoppie, sotto un sole crudele. Gli anziani, che ancora ricordavano la famiglia di mio padre, si erano messi ordinatamente in fila nella piazza, in attesa, per inginocchiarsi e rendergli l’omaggio feudale del baciamano: non ho mai visto mio padre tanto imbarazzato. Che tipo di deputata poteva essere uscita da quei paesi, dove i bambini razzolavano con i maiali fra nuvole di mosche feroci?
La vita di Ottavia era stata molto diversa: nata nel 1907, da padre barone e madre duchessa, era stata educata prima in casa dalle istitutrici e poi al prestigioso collegio femminile di Poggio Imperiale, in Toscana, dove veniva educata la principessa belga Maria José, destinata a diventare regina d’Italia. La famiglia ha una tradizione di impegno politico: il nonno Guglielmo è stato deputato del Regno d’Italia, don Sturzo e Mario Scelba, entrambi di Caltagirone, sono amici di famiglia. Dopo una vita felice, di agi, abiti eleganti e viaggi all’estero in compagnia del marito, un medico animato da passione civile, arriva il periodo della guerra, che aggrava la miseria del popolo siciliano. La baronessa Ottavia è già una donna matura, madre di tre figlie, quando accoglie l’invito del commediografo Guglielmo Giannini ad entrare nelle fila della nuova formazione politica dell’“Uomo qualunque”. Entra all’Assemblea costituente, unica donna del gruppo di trenta deputati, e subito Giannini, con un tipico coup de théatre, la propone come presidente della Repubblica. Spiace ricordare che la proposta venne accolta con risatine di scherno da parte degli illustri padri costituenti: solo Sandro Pertini intervenne a ricordare che alla Presidenza della repubblica ci può benissimo stare una donna. Il fenomeno, di portata astrale, non si è ancora verificato.
La baronessa Ottavia viene eletta nella Commissione dei settantacinque che dovrà redigere il testo della nuova Costituzione, ma si dimette subito per lasciare il posto a un collega più preparato di lei, e per seguire doveri che lei ritiene più importanti, Dio, la patria e la famiglia, avendo ancora tre figlie bambine. Lascia anche subito il gruppo dell’Uomo qualunque e nel 1947 aderisce al gruppo parlamentare dell’Unione democratica nazionale, con l’illustre compagnia di Luigi Einaudi, Vittorio Emanuele Orlando e Benedetto Croce; passerà poi al Partito nazionale monarchico nel 1953, confermando la sua scelta di conservazione e di rifiuto del “vento del nord”.
Tornata in Sicilia, diventa consigliera comunale a Caltagirone, dove la sorella è sindaca sotto la bandiera della DC. Qui la baronessa ritrova la sua vocazione più autentica nell’attività caritatevole verso i poveri, nell’antica beneficenza. Mette a disposizione il frumento delle sue terre per sfamare i ragazzi senza dimora e senza nulla, raccolti ad abitare nelle chiese e poi nei capannoni dell’esercito. Con l’aiuto di don Sturzo, dell’Opera pontificia e di amici sacerdoti edifica una Città dei ragazzi che ancor oggi esiste, è intitolata a don Luigi Sturzo e funziona sotto la guida del sacerdote don Francesco Di Stefano.
Perché ho scelto queste tre figure? La signora perbene partecipe del partito al potere, la maestrina erede della tradizione umanitaria del socialismo prefascista, la nobildonna siciliana rimasta fedele al papa e al re: tre biografie certo sbiadite rispetto alle fulgide figure femminili dell’antifascismo comunista, come Teresa Noce o Rita Montagnana, dalle vite ricche di vicende e di passioni, di annose sofferenze e quotidiani eroismi. Ma quelle tre,  come le altre, portavano dentro l’Assemblea costituente le proprie diverse esperienze, l’impronta degli ambienti in cui si erano formate, tutte le varie sfaccettature di un paese poliedrico, irto di contraddizioni derivanti dalla storia più antica e da quella recentissima. E in questo senso contribuivano a rappresentare in maniera più completa e compiuta il mondo italiano che si affacciava alla nuova esperienza della repubblica democratica.
Ma oltre le diversità di ambiente, cultura, esperienze di vita, scelte politiche e ideologiche, c’era qualcosa che le accomunava, tutte, senza distinzioni: in primo luogo il coraggio. Per la prima volta in Italia le donne salivano alla tribuna, secondo l’espressione di Olympe de Gouges, il che significava esporsi in pubblico, partecipare a comizi, incontri, dibattiti. In un paese in cui era profondamente radicata la convinzione che l’unica dimensione femminile fosse quella privata, dove la definizione di “uomo pubblico” avvolgeva il maschio di un alone di dignità e di rispetto, mentre il corrispettivo femminile “donna pubblica” era un educato eufemismo per indicare la prostituta; esporsi in pubblico era per una donna sommamente riprovevole e richiedeva un notevole coraggio. Non tutte provenivano dall’esperienza partigiana, dove fra donne e uomini era nato un nuovo rapporto di solidarietà e di rispetto. Eppure tutte le ventuno seppero sfidare pregiudizi secolari, ideologie incancrenite, esporsi alla riprovazione e al dileggio, almeno in certi, ma non pochi, ambienti, e prendere la responsabilità di agire nella vita pubblica.
E in secondo luogo tutte condividevano la lungimiranza; perché nelle attività dell’Assemblea seppero guardare avanti, prefigurare una condizione femminile diversa, più avanzata e moderna. Certo c’erano insigni figure a illuminare il cammino, c’erano Anna Maria Mozzoni, Maria Montessori, Sibilla Aleramo, per non citarne che alcune. Le ventuno seppero fare squadra, insieme portarono avanti delle battaglie come quella relativa ai figli illegittimi, che non fu solo di Bianca Bianchi, ma che ebbe l’appoggio di tutte. Insieme appoggiarono il ripudio della guerra, insieme tentarono una nuova definizione della famiglia. Perfino la baronessa Ottavia, quella più legata a tradizioni conservatrici, si permise nel 1947 di criticare il progetto degasperiano di un Fondo di assistenza per i disoccupati, che “potrebbe essere inteso – sostiene in una lettera – come un’elemosina umiliante per chi ha veramente voglia di lavorare”, e fa presente la necessità di creare infrastrutture, dare lavoro, aprire scuole “per combattere l’ignoranza tremenda del nostro popolo”. L’esperienza fatta nell’arena pubblica le aveva evidentemente insegnato a guardare il suo mondo in maniera nuova anche per lei.



Le 21 donne dell’Assemblea costituente (9 comuniste, 9 democristiane, 2 socialiste e una dell’Uomo qualunque) dopo le elezioni del 1948, nella prima legislatura repubblicana, divennero 45 alla Camera e 4 al Senato. Rispettivamente, alla Camera 21 comuniste, 18 democristiane, 2 socialiste e 4 altre, al Senato 2 comuniste e 2 socialiste. Sul piano femminile, la Democrazia cristiana era nettamente in seconda posizione, soprattutto in rapporto al numero complessivo di voti ottenuti, (18 deputate per 12.740.000 voti) mentre il Partito comunista manteneva la maggioranza, (21 deputate e 2 senatrici per 8.136.000 voti) portando alla Camera splendide figure come Gisella Floreanini, la ministra della Repubblica dell’Ossola, o la coraggiosa partigiana Stellina Vecchio, o l’antica e forte militante Camilla Ravera. Ma il numero delle elette resterà sempre molto basso, raggiungendo il punto minimo proprio nell’anno di grazia rivoluzionaria del 1968. Oggi, con il 20% delle elette siamo ancora fra gli ultimi posti in Europa; nessuna donna è mai stata Presidente della repubblica o primo ministro; solo in quest’ultima legislatura una donna è diventata Presidente del Senato, che è la seconda carica della Repubblica.

Resta da chiederci se le capacità politiche e le qualità intellettuali e morali delle nuove elette siano pari a quelle delle loro madri e nonne. In campo maschile, direi che Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti, Concetto Marchesi o Piero Calamandrei non hanno oggi alcun erede nel Parlamento italiano. Le giovani donne elette oggi sono sicuramente diverse dalle donne degli anni 40, possono trarre profitto da una migliore istruzione e da decenni di lotte nazionali e internazionali per la parità, ma le loro capacità e le loro qualità umane e politiche sono ancora tutte da dimostrare.

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MADRI COSTITUENTI
di Maria Carla Baroni

Maria Carla Baroni

“Odissea” propone alle nostre lettrici e ai nostri lettori, gli interventi di Maria Carla Baroni e di Nunzia Augeri tenuti in occasione della presentazione del libro di Grazia Gotti “21 Donne all’Assemblea” avvenuta l’8 novembre scorso a Milano presso la Biblioteca Chiesa Rossa.



Il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, che ha bocciato quello che a sinistra avevamo chiamato la deforma Napolitano Renzi Boschi, ha richiamato l’attenzione sulla nostra Carta Costituzionale: sono stati organizzati convegni, dibattiti e assemblee pubbliche. Gli stessi Comitati per il NO al referendum si erano posti l’obiettivo di trasformarsi in Comitati per l’attuazione della Costituzione, ma subito dopo la loro formazione si erano sciolti come neve al sole.
Possiamo dolercene ma non stupircene: se l’obiettivo di far vincere il No e di respingere la deforma era ben definito e in grado di unire soggetti diversi, differenti forme della politica (partiti, sindacati, associazioni, gruppi di base), riuscire a far applicare una Costituzione avanzata come la nostra, contenente elementi di socialismo, avrebbe significato ribaltare vari assetti di potere. Missione impossibile nella situazione politica attuale del nostro Paese, soprattutto da parte di una aggregazione temporanea e variegata, formata da soggetti troppo piccoli e deboli e con visioni diverse del fare politica.


Il libro di Grazia Gotti sulle Madri costituenti che presentiamo questa sera è uscito nel novembre 2016, dopo anni di incubazione, studio e ricerca, talora laboriosa, sulle fonti, in quanto alcune di loro erano poco note, ma è un bel segnale che il libro sia uscito proprio mentre era in corso l’azione per difendere la nostra Costituzione e, come scrive l’autrice nella nota iniziale, nell’anno in cui si è celebrato il settantesimo anniversario del voto alle donne: voto conquistato - aggiungo io - dalle italiane solo nel 1946, dopo travagliate vicende iniziate nel 1909 e a seguito della loro partecipazione massiccia alla Resistenza.
Così come è utile e bello parlare di Madri costituenti e di Costituzione nel settantesimo anniversario della sua entrata in vigore (1° gennaio 1948).
Non posso trattenermi dal proporre in inciso sul COME si arrivò a riconoscere il voto alle donne e su come andarono le elezioni per l’Assemblea costituente. Dopo la Liberazione era stata nominata una Consulta nazionale con funzioni consultive, che restò attiva fino alle elezioni dell’Assemblea Costituente, di cui furono chiamate a far parte solo 13 donne su 430 componenti. La partecipazione femminile a tale Consulta fu decisiva quando, nel marzo 1946, la Consulta intervenne per correggere l’incredibile cosiddetta “svista” del Decreto luogotenenziale del 1/2/1945 n° 23, che riconosceva alle donne il diritto attivo al voto, ma non quello passivo, cioè il diritto di votare ma non di essere votate e quindi elette… Il nuovo decreto del 10 /3/1946 n° 74, che consentì alle donne anche di essere elette, arrivò appena in tempo per le prime elezioni dell’Italia democratica, quelle del marzo e dell’aprile 1946 per i Consigli comunali, in cui le donne italiane parteciparono al voto per la prima volta e in cui 2000 furono elette consigliere, alcune anche sindache e assessore.  Il 2 giugno 1946 si votò per il referendum monarchia-repubblica e per eleggere i e le rappresentanti nell’Assemblea Costituente. Le donne parteciparono in massa: votò l’89% delle aventi diritto -  12 milioni le donne votanti, 11 milioni gli uomini -, ma risultarono elette solo 21 donne su 226 candidate, il 3,8% dei 556 componenti, le nostre 21 Madri costituenti.
Le donne italiane votarono dunque per la prima volta solo nel 1946, mentre in Nuova Zelanda, come scrive Gotti nel primo capitolo, le donne avevano votato già nel 1893 - prime nel mondo - per merito di Kate Sheppard, di cui tratteggia in sintesi la storia: emigrata a 21 anni con la famiglia dalla Scozia, dopo il matrimonio e la nascita del primo figlio promosse campagne per ottenere, insieme al diritto di voto, contraccezione, divorzio, custodia dei figli, opportunità lavorative. Nonostante molte opposizioni e difficoltà, dopo una campagna di tre anni le donne neozelandesi ottennero di poter votare, nel 1893, appunto. Dobbiamo dunque inserire anche Kate Sheppard - da noi sconosciuta - nel nostro Olimpo di donne che hanno fatto la Storia.

Tornando in Italia, abbiamo avuto una Madre costituente ben prima del 1946-47 e precisamente una principessa sarda del XIV secolo, la Giudicessa - “juiguyssa de Arbore” - Eleonora d’Arborea,  reggente di un principato autonomo che a quei tempi comprendeva circa tre quarti della Sardegna, a nord, a sud e a est di Oristano; principessa di cui conosciamo bene vita e opere per merito di Bianca Pitzorno, scrittrice sarda che nel 1984 diede alle stampe “Vita di Eleonora d’Arborea”, Camunia.
Gotti ne accenna appena, trattando soprattutto delle alterne fortune del libro di Pitzorno, ma a mio parere occorre dirne qualcosa in più. Eleonora fu importante ai suoi tempi perchè resistette con successo agli attacchi degli Aragonesi e dopo quarant’anni di guerra, carestia, lotte intestine e pestilenze riuscì a ripristinare i confini del suo Stato come li aveva ampliati il padre Mariano IV e a ripristinare il relativo equilibrio di forze.  Ma soprattutto Eleonora merita un posto particolare nella storia perché ampliò e migliorò fortemente la “Carta de Logu” , il codice che il padre aveva fatto compilare nel 1346, riunendo per iscritto le leggi consuetudinarie che a quel tempo venivano tramandate oralmente.
La “Carta de Logu” nella versione di Eleonora fu promulgata nel 1392 in volgare arborense (una variante della lingua sarda) comprensibile a tutti,  anziché in latino, lingua della legge e dell’amministrazione della giustizia ancora per molti secoli successivi. La sua importanza sta nell’essere riuscita a contemperare gli interessi contrapposti degli agricoltori e dei pastori riguardo all’uso del territorio e soprattutto sta nella modernità e nell’equità sociale di molte norme. Ad es. lo spirito della Carta era ormai quasi totalmente libero dal principio alto-medioevale della pena del taglione e, almeno di fronte all’omicidio, il ricco e il povero erano trattati in ugual modo, in quanto tale reato non poteva più essere sanato in moneta sonante.  L’art. 21 poi, in materia di stupro, si basava su due principi molto avanzati: il matrimonio veniva considerato riparatore solo se era di gradimento della donna offesa e comunque non estingueva completamente il reato, per il quale era comminata in ogni caso una multa assai consistente, che andava allo Stato; e la pena era identica sia che la donna stuprata fosse vergine o comunque nubile, sia sposata, il che richiama il principio odierno secondo cui lo stupro è un reato contro la persona e non contro la morale. (Per inciso avverto che nella bibliografia posta alla fine della voce “Carta de Logu” di Wikipedia NON è citato il libro di Bianca Pitzorno…, che pure dedica a essa un lungo e documentato capitolo).
Reso un meritatissimo onore alla progenitrice delle nostre Madri costituenti, ritorniamo ai tempi nostri.

Il saggio di Grazia Gotti a mio parere ha un limite: il non uso oppure l’ uso scorretto del linguaggio di genere, che non mi sarei aspettata da parte di una studiosa che vive oggi e che oggi studia la storia delle donne:  consigliere, sindaco, ministro al posto di consigliera, sindaca e ministra e deputatessa e presidentessa al posto di  deputata  e presidente, anche se Gotti afferma di preferire il termine “deputatesse”, coniato allora e non sgradito, o quanto meno indifferente, alle donne che così furono qualificate. Scelta che contesto, in quanto fu nel 1985 che Alma Sabatini, insegnante romana che faceva parte dell’allora Commissione parità tra uomo e donna, pose il problema dell’uso sessista della lingua italiana; effettuò in merito una ricerca che la Presidenza del Consiglio dei ministri (Bettino Craxi) pubblicò nel 1987. Qualcuno scrisse che ciò che non è nominato non esiste: e infatti si è sempre usato il doppio linguaggio di genere per le posizioni servili (schiavo e schiava, servo e serva) e per le basse qualifiche lavorative (operaio e operaia, impiegato e impiegata, infermiere e infermiera), ma ancor oggi molti - e purtroppo anche molte - ritengono contrario alla grammatica italiana utilizzare il doppio linguaggio di genere per le professioni liberali o per gli incarichi politici e istituzionali. Eppure attualmente le donne ci sono eccome ( in alcune categorie professionali sono addirittura in maggioranza ), anche se sono ancora troppo poche in politica.
Il saggio di Gotti  ha un enorme pregio, che lo rende un libro fondamentale, e cioè quello di aver portato alla ribalta TUTTE le Madri costituenti, a differenza di altri testi che hanno approfondito solo le figure più significative:  tutte insieme proprio in quanto Madri costituenti, riconoscendo a tutte (anche alle meno note) lo stesso spazio, mettendone in luce le caratteristiche comuni al di là delle differenze  di ambiente familiare di nascita, età, percorso di istruzione, esperienze professionali e culturali, appartenenza politica. Ad es. quando scrive:
“L’educazione è un tema fortemente sentito dalle donne costituenti; molte hanno frequentato l’istituto magistrale, molte si sono dedicate all’insegnamento. Nei loro cuori che palpitano per la giustizia sociale l’educazione diventa un nodo cruciale, come sempre dovrebbe essere”. Infatti 7 delle Madri costituenti furono insegnanti e anche varie altre si impegnarono sui temi dell’educazione.
In merito alle 21 donne all’Assemblea desidero segnalare anche:
1. il capitolo “Foto di gruppo delle costituenti” di Maria Teresa Antonia Morelli  in “L’Italia delle donne. Settant’anni di lotte e di conquiste” a cura della Fondazione Nilde Iotti, Donzelli, 2018, che ne tratta raggruppandole per appartenenza politica: le nove del PCI (Adele Bei Ciufoli, Nadia Gallico Spano, Nilde Iotti, Teresa Mattei, Angiola Minella Molinari, Rita Montagnana Togliatti, Teresa Noce, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi); le nove della DC (Maria Agamben Federici, Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Filomena Delli Castelli, Maria Unterrichter Jervolino, Angela Gotelli, Angela Guidi Cingolani, Maria  Fiorini Nicotra Verzotto, Vittoria Titomanlio); le due del PSI  (Bianca Bianchi e Lina Merlin) e l’unica del Fronte dell’Uomo qualunque (Ottavia Penna Buscemi);
2. l’opuscolo “Le Madri della Costituzione” a cura di Patrizia Cordone,  elaborato dal movimento delle donne NON UNA DI MENO di Milano e datato 14 aprile 2017, in cui le costituenti sono presentate in ordine alfabetico mediante schede sintetiche, assai utili a inquadrarne la figura e l’attività;
3. un pieghevole della CGIL nazionale distribuito all’assemblea nazionale delle donne del 6 ottobre di quest’anno a Roma, dedicato a “Donne nella Cgil”, “Donne nella Resistenza” e “Madri Costituenti”: queste ultime presentate come “provenienti da tutta la penisola, in maggioranza sposate (14 su 21) e con figli, giovani e dotate di titoli di studio (14 laureate); molte avevano preso parte alla Resistenza, pagando spesso di persona e a caro prezzo le loro scelte, come Adele Bei, condannata nel 1934 dal Tribunale speciale a 18 anni di carcere per attività antifascista, Teresa Noce, messa in carcere e poi deportata, Rita Montagnana”.
Nel corso del suo saggio Grazia Gotti accenna a due donne  particolarmente capaci - Armida Barelli e Ursula Hirschmann - , ignorate dalla cultura maschile e maschilista. La negazione del ruolo delle donne  ha sempre accomunato, tranne eccezioni,  cattolici, socialisti e comunisti: in definitiva la Storia scritta da uomini, che fino a trent’anni fa circa era l’unica Storia che veniva scritta.  Colgo quindi al volo l’occasione per  segnalare anche Barelli e Hirschmann all’attenzione delle donne di oggi prima di ricominciare a occuparmi delle Madri costituenti.
Armida Barelli fu la cofondatrice dell’Università Cattolica di Milano, da tutti ricordata solo come opera di padre Agostino Gemelli. Di lei narra diffusamente Marta Boneschi, nel suo “Di testa loro. Dieci italiane che hanno fatto il Novecento”, Mondadori, 2002. Armida trovò la sede adatta, nel vecchio convento delle Umiliate in via Sant’Agnese,   propose l’intitolazione al Sacro Cuore di Gesù e soprattutto raccolse gli ingenti fondi necessari per far costruire l’università, inaugurata nel dicembre 2017. Sempre nel 1917 fondò la Gioventù femminile dell’Azione Cattolica come associazione diocesana, che due anni dopo fu estesa a livello nazionale.  La G.F., per merito della  determinazione e dell’ attivismo incessante di Armida, nel 1952 (anno della sua morte) arrivò a oltrepassare il milione di socie.  Alle elezioni politiche del 1948 il voto femminile - dopo due anni dal debutto nella storia elettorale - garantì alla Democrazia Cristiana un primato che durò mezzo secolo, risultato in buona parte dovuto ad Armida Barelli. Non solo per la sua appartenenza partitica, ma soprattutto per la sua concezione della donna, a tutti i costi moglie e madre esemplare – come per il fascismo -, considero Armida Barelli una avversaria politica, ma le riconosco di essere stata un grande esempio della forza delle donne.


Ursula Hirschmann fu coautrice insieme ad Altiero Spinelli e a Ernesto Rossi,  nel periodo 1941-44, di “Per una Europa libera e unita. Progetto  d’un manifesto”, noto come Manifesto di Ventotene. A parte questo fondamentale accenno di Grazia Gotti, ho trovato notizie su Ursula solo su Wikipedia, che però la presenta esclusivamente come colei che seguì il marito Eugenio Colorni al confino di Ventotene, ma, non essendo soggetta a provvedimenti restrittivi, poté tornare sulla terraferma a diffondere il Manifesto. Coautrice o semplice divulgatrice? Il che avrebbe comunque la sua importanza. In base alla mia
esperienza sono portata a dar ragione a Grazia Gotti, ma lascio ad altre il compito di approfondire.  Hirschmann nacque  nel 1913 a Berlino in una famiglia ebraica borghese, si iscrisse al partito socialdemocratico tedesco e fece parte della Resistenza contro l’avanzata nazista. Nel 1935 si trasferì in Italia,  sposò  Eugenio Colorni e vari anni dopo  divenne compagna di Altiero Spinelli, ebbe sei figlie, si impegnò per la formazione del Movimento Federalista Europeo  e nel 1975 fondò a Bruxelles l’associazione “Femmes pour l’Europe”.
Dopo queste scorribande nel tempo e nello spazio ritorno definitivamente alle 21 Madri costituenti del 1946-47.
Nel libro di Grazia Gotti le costituenti sono presentate non in base all’appartenenza partitica o all’ordine alfabetico, come in altri scritti, ma in base al territorio - città, Comune o Provincia - di appartenenza: scelta quanto mai felice, in quanto sottolinea il legame tra personaggi e personagge con l’ambiente politico-culturale del luogo di nascita o del luogo scelto per viverci e operare o del luogo imposto da circostanze esterne alla loro volontà.
Considerando il luogo di nascita abbiamo tre torinesi, due lombarde, due trentine, una ligure, una veneta, due emiliane, una toscana, una marchigiana, due abruzzesi, due laziali, una pugliese, due siciliane, una donna nata a Tunisi ma  sarda di adozione, che ben rappresentano dal punto di vista territoriale l’unità del Paese.
La prima narrazione del libro di Gotti riguarda però Angela Guidi Cingolani, romana, in quanto fu lei la prima donna a prendere  la parola in Parlamento e la prima a far parte di una compagine governativa, nel 1951 come sottosegretaria all’Industria e al commercio. La prima volta di una ministra fu con Tina Anselmi, 25 anni dopo, nel  1976, come ministra del Lavoro e della previdenza sociale.
Inizia quindi un ideale giro d’Italia, che parte da Torino, città della classe operaia e di una intellettualità particolarmente vivace, in cui fu accarezzato il sogno di una rivoluzione che per un breve momento parve possibile e alle porte, in cui vissero e operarono, per tempi più o meno lunghi, non solo Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Leone Ginzburg, Luigi Einaudi, Palmiro Togliatti, Umberto Terracini, Luigi Longo, ma anche Camilla Ravera, Ada Prospero Gobetti, Rita Levi Montalcini, oltre alle tre costituenti Rita Montagnana, Teresa Noce e Angela Minella, militanti del Partito Comunista.
Nelle successive comunicazioni - a loro scelta - Nunzia Augeri approfondirà le figure di Angela Guidi Cingolani, Bianca Bianchi e Ottavia Penna Buscemi e Giovanna Frisoli quelle di Teresa Noce, Adele Bei e Teresa Mattei.  In questa comunicazione introduttiva sul libro nel suo complesso ritengo però di dover realizzare  una carrellata di  cenni riguardanti tutte le donne costituenti, proprio per rispettare lo spirito del saggio di Gotti. Su alcune questioni ho aggiunto notizie su ciò che avvenne dopo le vicende narrate nel libro e sulla situazione attuale, per segnalare il cammino ancora da compiere.
RITA MONTAGNANA TOGLIATTI partecipò giovanissima alle rivolte per il pane del 1917 e poi alle occupazioni delle fabbriche nel 1919, collaborò alla fondazione del PCI, fu costretta a riparare all’estero (prima in Francia e Svizzera e poi in Unione Sovietica), dal 1936 al 1938 combatté nella guerra civile spagnola, diresse la sezione femminile del PCI e favorì la nascita dell’UDI (Unione Donne Italiane), fu la promotrice della Giornata Internazionale della Donna.
TERESA NOCE a causa delle ristrettezze familiari non potè realizzare il sogno di diventare insegnante, fu costretta a scegliere il lavoro, ma si istruì come autodidatta, lesse e scrisse. Fu tra i fondatori del Partito Comunista e combattente nella guerra civile spagnola con il nome di Estella, internata nel campo francese di Rieucros,  successivamente deportata a Ravensbruek. Dopo la Costituente - dal 1947 al 1955 – diresse la Federazione nazionale degli impiegati e degli operai tessili della CGIL. Soprattutto a lei si deve, in base alla sua esperienza di operaia e di sindacalista, la legge 26 agosto 1950 n° 860 per la “Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri”. Celebre è la sua autobiografia “Rivoluzionaria professionale”, uscita nel 1974. Apprese l’annullamento del suo matrimonio con Luigi Longo, allora vicesegretario del PCI, da un trafiletto sul “Corriere della Sera” nel novembre 1953. Non c’erano ancora stati gli anni ’70 con la loro ondata di modernizzazione e di laicizzazione e Longo aveva pensato bene di andare a divorziare nella Repubblica di San Marino falsificando la firma di Teresa… Noce merita di essere ricordata anche perché tentò di convincere Palmiro Togliatti a non inserire in Costituzione il Concordato del 1929 firmato da Benito Mussolini con il Vaticano e poi si astenne in sede di votazione suscitando grande scandalo, anche perché era allora sposata con Luigi Longo.



ANGELA MINELLA MOLINARI partecipò alla Resistenza, si attivò per i “treni della felicità”, favorendo il soggiorno al nord e l’adozione di bambini meridionali rimasti orfani da parte di famiglie settentrionali, ricoprì incarichi parlamentari e di partito, fu dirigente dell’UDI e rappresentò il Movimento femminile democratico italiano  nella segreteria della Federazione Internazionale femminile a Berlino dal 1953 al 1958. 

Da Torino si passa a Reggio Emilia, città rossa, la città in cui nacque il Tricolore, medaglia d’oro al valor militare per la lotta di liberazione e protagonista della canzone “Per i morti di Reggio Emilia”. Vi nacque anche NILDE IOTTI, allieva di Giuseppe Dossetti all’Università Cattolica di Milano, partigiana, militante del PCI, organizzatrice e responsabile dei Gruppi di Difesa della Donna, parlamentare molto attiva, la prima donna a ricoprire l’incarico di presidente della Camera dei Deputati, che tenne per tredici anni. Compagna di vita di Palmiro Togliatti, ruolo che le fu ufficialmente riconosciuto solo dopo la morte di lui e che – lui in vita – le era stato negato, oppure elargito, quando proprio era indispensabile, con avaro fastidio.

Dopo Reggio Emilia un salto all’insù, in Provincia di Brescia, a Castenedolo, ove nacque LAURA BIANCHINI, insegnante di storia e filosofia, autrice di testi scolastici, cattolica, partigiana, costretta a fuggire a Milano, città in cui organizzò i soccorsi ai detenuti e ai perseguitati politici. Per l’Assemblea Costituente animò il dibattito sui temi dell’educazione e della cultura, da cui risultò il fondamentale art. 33, che merita di essere riportato integralmente: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Norma basilare quest’ultima, disattesa fin dai decreti ministeriali 261/98 e 279/99 del ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer, presupposto per la successiva sistematica concessione di finanziamenti alle scuole private.                 
Questa  vergognosa violazione del dettato costituzionale fu poi pienamente sancita - in varie forme - da leggi dei governi successivi (D’Alema bis, e Berlusconi). In Lombardia i buoni scuola furono introdotti da Roberto Formigoni nel 2000.

Si passa poi a Vicchio, in Provincia di Firenze, la prima città a essere insignita della medaglia d’oro al valor militare. A Vicchio nacque BIANCA BIANCHI, anche lei insegnante di storia e filosofia, esule, partigiana con il Partito d’Azione, socialista, giornalista e scrittrice. Particolare rilievo rivestirono la sua opposizione alle sovvenzioni statali alle scuole private e il suo impegno per la tutela dei figli naturali, i figli di N.N., come si diceva allora. Nel 1949 presentò in merito in Parlamento una proposta normativa divenuta legge nel 1953.


 
A Firenze si laureò in lettere TERESA MATTEI, genovese, che nella stessa città fondò i Gruppi di difesa della Donna. Per quanto riguarda la Costituzione, a Mattei si deve il fondamentale 2° comma dell’art. 3, in base al quale: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. La Costituzione, dunque, non si limita a enunciare principi avanzati, ma assegna alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli all’attuazione concreta di tali principi e in questo consiste un elemento di socialismo. Un   compito analogo fu attribuito  alla Repubblica con una frase aggiunta nel 2003 al 1° comma dell’art. 51 sulla parità tra uomini e donne nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive: “A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. Quasi inutile dire che tale aggiunta fu dovuta a parlamentari donne in modo trasversale. Si tratta di una formulazione generica e debole, che costituì comunque un passo avanti, successivamente concretizzato con leggi ordinarie sulla doppia preferenza di genere.

Da Firenze Grazia Gotti risale al Trentino di Alcide de Gasperi, dove a Ossana nacque MARIA UNTERRICHTER JERVOLINO, che fu presidente nazionale della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), si trasferì a Napoli, dove si impegnò in opere sociali a favore delle donne e dei più bisognosi e, insieme alle colleghe della Costituente Agamben, Guidi e Merlin, fondò il CIDD, Comitato Italiano Difesa morale e sociale della Donna  per l’assistenza alle donne che riuscivano a uscire dalla prostituzione, sottosegretaria alla Pubblica istruzione da maggio 1957 a luglio 1958 ( periodo in cui lavorò affinché il servizio sociale pubblico diventasse disciplina di studio universitario), presidente  dell’Organizzazione mondiale dell’educazione prescolastica  dal 1968 al 1973. Nacque a Trento  e prevalentemente vi operò anche ELISABETTA CONCI, democristiana, giornalista, che in Parlamento si batté per ottenere e migliorare leggi a tutela delle donne, nella sua città  fondò e gestì una famiglia-comunità per ragazzi orfani e bisognosi e contribuì a sviluppare un sistema educativo di elevata qualità che coniuga competenza pedagogica e creatività didattica.

Dal Trentino ci si dirige al Veneto della Provincia di Padova, a Pozzonovo, in cui nacque LINA MERLIN, socialista, la più conosciuta tra le 21 insieme a Nilde Iotti. Notorietà ben meritata, a partire dalla sua legge per l’abolizione delle “case chiuse”, il cui obiettivo non era - e non poteva essere - “eliminare la prostituzione, ma eliminare la complicità dello Stato nel considerare il corpo femminile un piatto da servire su un vassoio “, come scrisse Anna Garofalo in un suo libro del 1956. Molto istruttiva è una considerazione della stessa Merlin: “non sono lieta della notorietà che (tale legge) mi ha dato, perché in fondo non viene dall’importanza della legge in se stessa, ma dall’accanimento degli italiani nel non accettarla, come l’hanno accettata i paesi di tutto il mondo a eccezione di venti come la Turchia, la Cina di Chiang Kai-shek e pochi altri dell’Africa”. Giudizio assai grave, confermato in peggio dal libro di Riccardo Iacona “Utilizzatori finali”, Chiarelettere, 2014, che dà voce ad alcuni dei milioni di clienti soliti frequentare escort di lusso, prostitute di strada o bordelli oltreconfine.
In Senato Lina Merlin si batté nel 1948 contro la tragedia dei bimbi del delta del Po, resi ciechi da una malattia derivante dalla denutrizione, in una terra di miseria, pellagra, malaria, tubercolosi e oppressione feroce da parte degli agrari, e nel 1951 alla Camera contro l’inadeguatezza del governo nella protezione del Polesine colpito da una alluvione particolarmente devastante. Una delle donne più rivoluzionarie del paese la definisce Grazia Gotti. Per quanto riguarda la Costituzione a lei dobbiamo l’aggiunta “senza distinzione di sesso” all’art. 3, che inneggia alla pari dignità sociale e all’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.

Saltando un po’ qua e là per la penisola Grazia Gotti ritorna in Lombardia, a Codevilla in provincia di Pavia, ove nacque MARIA MADDALENA ROSSI, comunista, confinata, esule, prima presidente dell’UDI. La sua lotta  si concentrò su due obiettivi primari:  nella Costituente l’abolizione del  divieto di accesso delle donne alla magistratura, introdotto dal regime fascista, su cui   un’assemblea composta per il 97,20% da uomini  respinse un apposito emendamento presentato da lei e da Teresa Mattei;  e in Parlamento il riconoscimento  dello stupro come la peggior  violenza che una donna possa subire, pochi anni dopo gli stupri di massa compiuti in Italia centrale durante l’avanzata degli Alleati negli ultimi tempi della seconda guerra mondiale, con il tacito via libera degli alti comandi. Riguardo al primo obiettivo riporto un brano, citato da Gotti e contenuto in un libro del 1996 di Anna Rossi-Doria: “Già nel 1948 una donna avvocato rilevava che con il voto della Costituente era passata l’assurda ipotesi di un individuo (donna) capace politicamente di partecipare alla formazione della legge (mediante l’elettorato attivo e passivo), capace di far parte del governo  (cioè del potere che rende esecutiva la legge) e incapace poi, per una non chiarita insufficienza mentale, di applicarla ai casi concreti”. Solo con la sentenza n° 33 del 1960 la Corte Costituzionale annullò la norma che escludeva le donne dalla magistratura, così come da altri impieghi pubblici.  Fu ovviamente una donna - Rosanna Oliva - a portare la questione davanti alla Corte Costituzionale, difesa dal famoso costituzionalista Costantino Mortati con cui si era laureata.

Grazia Gotti approda in Italia centrale, presentandoci MARIA AGAMBEN FEDERICI e Filomena Delli Castelli, abruzzesi, nate rispettivamente all’Aquila e a Pescara, cattoliche, laureate. La prima è da ricordare non solo per il suo contributo alla stesura della Costituzione e come presidente per 6 anni del CIF, Centro Italiano Femminile, ma per un suo libro uscito nel 1957 con Vallecchi “Il cesto di lana”, con cui invita le donne a riflettere sulla loro condizione, avendo presente il magistero della Chiesa accanto al marxismo, la psicanalisi e l’esistenzialismo. FILOMENA DELLI CASTELLI, militante dell’Azione Cattolica e della FUCI, fu apprezzata parlamentare sia nella Costituente sia poi in Parlamento fino al 1958. In RAI fino al 1975, si occupò di trasmissioni per i ragazzi e diede vita, insieme ad Alberto Manzi, a una esperienza avanzatissima: “Non è mai troppo tardi. Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta”.
Ancora un ritorno in Emilia, ad Alboreto in Provincia di Parma, ove nacque ANGELA GOTELLI, attivista del movimento femminile cattolico e della FUCI, partigiana, partecipò nel luglio 1943 alla stesura del cosiddetto “Codice di Camaldoli”, documento programmatico di politica economica che affrontò il tema dell’arricchimento eccessivo di pochi e dello strapotere che questo genera di fronte alla disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza; tema quanto mai attuale. Dopo la Costituente ebbe molti incarichi governativi, avendo come ambiti di competenza l’assistenza sociale e la scuola elementare.
ELETTRA POLLASTRINI, nata a Rieti, comunista, combattente in Spagna con le Brigate Internazionali, esule in Francia,  internata nel campo di Rieucros, dove trovò Teresa Noce e la compagna e la figlia di Giuseppe Di Vittorio, successivamente condannata a tre anni di lavori forzati ad Aichach in Alta Baviera, da cui venne liberata dagli Alleati nell’aprile 1945. Nell’Assemblea costituente, insieme ad altre colleghe anche di schieramento opposto, fu determinante per l’adozione di vari articoli, tra cui il 37  sulla  parità retributiva  tra donne e uomini a parità di lavoro. Fino al 1958 affiancò la sua funzione di deputata con quella di testimone sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti.



Da questo punto in poi Grazia Gotti si dedica alle costituenti dell’Italia meridionale e delle isole, facendo notare che al tempo del primo voto femminile il Sud pagava il suo ritardo storico: nessuna donna entrò nella Costituente dalla Puglia né dalla Calabria, e una sola dalla Campania (Vittoria Titomanlio), mentre la Sicilia elesse due costituenti e la Sardegna fu rappresentata da una sarda di adozione.

VITTORIA TITOMANLIO, nata a Barletta, ma partenopea a tutti gli effetti, votata alla Costituente nel collegio Napoli-Caserta da oltre ventimila elettori ed elettrici, insegnante elementare, ricoprì numerosi incarichi nell’ambito dell’associazionismo cattolico e nella sua attività di costituente prima e di parlamentare poi si dedicò alle questioni lavorative e alla previdenza sociale.

ADELE BEI CIUFOLI, nata a Cantiano in Provincia di Pesaro, per la sua militanza comunista fu arrestata e condannata a 18 anni di carcere, scontati in parte a Roma e in parte a Perugia prima di arrivare al confino a Ventotene. Ebbe due figli nati in clandestinità e mandati in URSS per proteggerli, che potè rivedere solo qualche anno dopo. Dopo il 25 luglio 1943 e l’arresto di Benito Mussolini ritornò a Roma, dove dedicò il suo impegno principalmente al coinvolgimento e alla tutela di varie categorie di lavoratrici della città. Ebbe numerosi incarichi di responsabilità nella CGIL, nel PCI, nell’UDI e nell’ANPI. Nel 1948 fu nominata senatrice  di diritto per meriti antifascisti. L’opera più importante della sua vita fu di fondare, insieme alle lavoratrici pugliesi, il Sindacato nazionale delle Tabacchine, lavoratrici sottoposte a uno sfruttamento e a una fatica particolarmente inumani. Nel 1952 ne fu eletta segretaria nazionale.

Si arriva ora alle due costituenti siciliane. La baronessa OTTAVIA PENNA BUSCEMI, monarchica, nata a Caltagirone in Provincia di Catania, alla Costituente  perorò in particolare l’istituzione delle Regioni. Fu una donna coraggiosa e assai attiva. Dopo aver lasciato la politica romana, ritenendola non adatta alle sue attitudini, con amici sacerdoti fondò la Città dei Ragazzi. MARIA FIORINI NICOTRA VERZOTTO, nata a Catania, operò nelle associazioni cattoliche e durante la seconda guerra mondiale fu infermiera volontaria della Croce Rossa, per cui ricevette la medaglia d’oro al valore. In Parlamento si dedicò al disegno di legge sulla tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri e alla commissione di inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla. Dal 1949 al 1953 fu impegnata, unica donna tra 12 senatori e deputati, con la commissione parlamentare di vigilanza sulle condizioni dei detenuti nelle carceri. In occasione del sessantesimo anniversario dell’Assemblea costituente l’allora presidente Giorgio Napolitano le conferì la massima onorificenza della Repubblica, quella di cavaliere di Gran Croce.
In questo giro d’Italia giunto ormai al termine, approdiamo in Sardegna, la terra di Eleonora d’Arborea, in cui operò, tanto da farla considerare sarda di adozione, NADIA GALLICO SPANO, nata e cresciuta  a Tunisi, arrivata in Italia nel 1943, inviata dal PCI in Sardegna due anni dopo per verificare la consistenza del movimento femminile sardo e per rafforzarlo. Per la sua duplice attività - come costituente e poi come parlamentare - e come organizzatrice delle donne dell’isola, fece la spola tra Roma e la Sardegna. Il suo impegno fu premiato con una straordinaria partecipazione al primo Congresso delle donne sarde nel 1952. Neppure da anziana smise i panni dell’attivista e nel 1981 partecipò a Roma alla campagna referendaria sull’interruzione volontaria di gravidanza. 
E Milano, la città in cui nel 1943 nacquero i Gruppi di difesa della donna, aperti a tutte, di ogni ceto sociale e appartenenza politica o anche senza partito? Questi gruppi si prefiggevano non solo di appoggiare e assistere moralmente e materialmente i partigiani, ma anche di dare alle donne il mezzo per elevarsi nella società e pretendere gli stessi diritti degli uomini. 
Milano non diede i natali a nessuna delle costituenti, ma fu milanese Gisella Floreanini, ministra della Repubblica dell’Ossola nel 1944, presidente del Comitato di Liberazione Nazionale di Novara nel 1945, candidata alla Costituente nel 1946 ma non eletta perché il PCI la presentò nel collegio di Milano e non a Novara o nell’Ossola, territori dove di lei c’era un ricordo leggendario. Floreanini soffrì molto per il fatto di non poter partecipare all’elaborazione di quella Carta delle libertà e dei diritti di cui la Costituzione dell’Ossola era stata l’antesignana. Cerco ora di tirare le fila di questa carrellata sulle Madri costituenti, che andarono oltre la maternità come comune denominatore femminile e che seppero fare squadra nonostante le differenti appartenenze partitiche, come del resto fecero le parlamentari che dopo di loro ottennero importanti leggi, soprattutto per far riconoscere i diritti di donne e minori, ma non solo, e che fecero aggiungere il 2° comma dell’art. 51 in merito all’accesso alle cariche elettive in condizioni di effettiva uguaglianza.
5 delle costituenti entrarono nella famosa “Commissione dei 75” preposta alla stesura della Costituzione: Maria Federici (Pci), Angela Gotelli (Dc); Nilde Iotti (Pci), Lina Merlin (Psi) e Teresa Noce (Pci).
Il loro contributo alla Carta riguardò gli articoli 29 (famiglia ed eguaglianza dei coniugi), 30 (doveri e diritti dei genitori), 31 (protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù), 33 (arte, scienza e scuola), 37 (parità di retribuzione tra uomo e donna a parità di lavoro), 48 (diritto di voto) e 51 (accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza), oltre al fondamentale art. 3. Da segnalare in particolare che fu Lina Merlin a introdurre la locuzione “di sesso” nell’elenco delle discriminazioni da superare e che si deve a Teresa Mattei la fondamentale aggiunta “di fatto” alla frase “limitando la libertà e l’uguaglianza dei cittadini” nel comma sugli ostacoli da rimuovere per garantire lo sviluppo della persona e la partecipazione dei lavoratori alla vita del Paese.
Oltre all’Assemblea costituente e al Parlamento quasi tutte le Madri praticarono altre forme della politica: la Resistenza (9 furono partigiane), l‘associazionismo femminile o misto, di cui furono dirigenti, il sindacato (Angela Bei e Teresa Noce), le istituzioni locali dopo la conclusione - per varie cause - dell’attività parlamentare; oppure si dedicarono all’impegno sociale/assistenziale, quest’ultimo privilegiato dalle cattoliche.
Mi consentite in chiusura la citazione di un altro libro, piccolo e prezioso, quanto mai necessario oggi? “In contropiede. Le donne rileggono la Costituzione”, Ediesse, 2014, dovuto ad autrici di differente orientamento: Alessandra Bocchetti, Giulia Bongiorno, Francesca Comenicini, Marilisa D’Amico, Michela Marzano, Lea Melandri, Luisa Muraro e Lidia Ravera, che ha preso le mosse da una idea di Mariella Gramaglia, giornalista de Il Manifesto, secondo cui “A noi, donne, la Costituzione, il nostro contratto sociale della contemporaneità democratica, interessa, e molto. Non solo perché ricordiamo con commozione e deferenza le 21 pioniere che hanno contribuito a scriverla…., ma perché pensiamo che, benchè redatto da una schiacciante maggioranza di uomini, questo contratto ci riguardi, segni dei perimetri di diritto che ci stanno a cuore, che almeno parzialmente ci includono”.


Grazia Gotti

Sintetizzo a mio modo i contenuti di questa rilettura della Costituzione dalla parte delle donne. Nell’aula dell’Assemblea le costituenti entrarono consapevoli che la loro femminilità era una sfida politica e storica e portarono in essa i frutti della cultura dell’emancipazione che si era venuta formando dalla fine dell’800; allora in particolare - ma in parte anche oggi - nascere di sesso femminile comportava molto spesso una situazione sociale più difficile di quella maschile. Fu quindi importante - allora - sancire per le donne un’adeguata protezione in quanto madri, per consentir loro di adempiere la loro essenziale funzione familiare (v. art. 37).
Ma oggi, ormai nel XXI secolo e dopo il movimento femminista iniziato nei primi anni ’70 del secolo scorso, occorre riconoscere che la Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948 è espressione di una visione maschile del mondo; che la differenza tra uomo e donna è fondativa dell’esperienza umana e non è assimilabile alle distinzioni di etnia, religione e opinioni politiche di cui all’art. 3; che la famiglia NON è una società naturale fondata sul matrimonio (art. 29; enunciazione che contiene tra l’altro una contraddizione logica e che è contraddetta pure dall’antropologia e dalla storia); che la maternità deve essere una scelta, da rendere sempre concretamente realizzabile mediante adeguate condizioni materiali, sociali, giuridiche, culturali, e NON un destino ineludibile da proteggere: per la continuazione della specie? per la tutela della stirpe?
Tutte e tutti noi dobbiamo impegnarci per far attuare la nostra Carta Costituzionale (tra l’altro per concretizzare la parità salariale tra donna e uomo a parità di lavoro), ma, per quanto riguarda la condizione delle donne, il grande cammino di civiltà intrapreso dalle coraggiose 21 Donne all’Assemblea deve proseguire: fino a individuare e poi a realizzare un differente modo di concepire e gestire il potere politico.

                                              ***
NUMERI ELETTORALI DELLA SINISTRA
TRA GOVERNO E OPPOSIZIONE
di Franco Astengo

Mi permetto di offrire alla riflessione collettiva una carrellata tra i numeri delle elezioni politiche svoltesi tra il 2 giugno 1946 e il 4 marzo 2018 utilizzando quattro sistemi elettorali diversi. Il riferimento che si è cercato di sviluppare riguarda la presenza della sinistra divisa tra governo e opposizione, seguendo anche il filo della partecipazione elettorale, i cui dati sono sempre stati fortemente sottovalutati nello sviluppo delle analisi compiute di volta in volta. Le percentuali sono sempre riferite al totale degli aventi diritto e viene riportato il dato dei voti validi complessivi, comprensivi delle schede bianche e nulle.
Questo lavoro, molto approssimativo, è dedicato soprattutto a chi ha risposto in modo sostanzialmente negativo oppure con un assordante silenzio ad una semplice proposta di ripresa d’incontro tra le varie componenti, oggi assolutamente minoritarie, nelle quali si trovano suddivisa ciò che rimane della sinistra italiana: giusto i richiami all’identità, sbagliate le affermazioni di disporre in esclusiva della ricetta giusta, superficiale l’analisi che ignora i rischi incombenti sul fragilissimo sistema politico italiano.

Assemblea Costituente 2 giugno 1946
Iscritti: 28.005. 449; Voti validi 23.010.479 pari all’82,16%, non espressione di voto 4.994.970.
La sinistra in quel momento si trova al governo con il programma Repubblica e Costituzione: il Partito Socialista ancora unitario sotto la sigla PSIUP ottiene 4.758.129 16,99%,Partito Comunista 4.356.686 15,55%, Partito d’azione 334.748 1,19%. In totale la sinistra vale il 33,73% sul totale degli aventi diritti al voto.
Camera dei Deputati 18 aprile 1948
Iscritti 29.117.554; Voti Validi 26.264.458 pari al 90.20% (notevole incremento) non espressione di voto 2.853.096.

Si presenta la divisione tra sinistra di governo e sinistra d’opposizione, in seguito alla scissione dello PSI.
Nella sinistra di governo Unità Socialista 1.858.116 voti 6,38%; nella sinistra d’opposizione il Fronte Popolare raccoglie PCI e PSI, 8.136.637 pari al 27,94%.

Camera dei Deputati 7 giugno 1953
Sono le elezioni della cosiddetta “legge truffa”.  Iscritti 30.272.236. Voti validi 27.087.701, 89,48% (lieve flessione rispetto al 1948). Non espressione di voto: 3.184.535.
Sinistra d’opposizione: PCI 6.120. 809 20,21%, PSI 3.441.014, 11,36%, Unione Socialista Indipendente 225.409 0,74, Unità Popolare 171.099 0,56%. Totale: 32,87 in incremento rispetto al 1948
Sinistra di governo: PSDI 1.222.957 4.03% (- 2,35%)

Camera dei Deputati 25/5/1958
Pesano le vicende legate al XX congresso del PCUS e i fatti d’Ungheria. PCI e PSI comunque sono ancora assieme all’opposizione. Iscritti: 32.434.852 Voti validi 29.560.269 91,13% (massimo storico). Non espressione di voto: 2.874.583
Sinistra d’opposizione: PCI 6.704.454, 20,67%; PSI 4.206.726 12,96%. Totale 33,63% (ancora in crescita)
Sinistra di governo: PSDI 1.345.447 4,14%

Camera dei Deputati 28/4/1963
Ulteriore divisione tra sinistra di governo e sinistra d’opposizione. Si prepara il centro-sinistra con il PSI (sarà la legislatura del “tintinnar di sciabole” e del tentativo di unificazione socialista).
Iscritti: 34.199.184 voti validi 30.752.871  89.92% (lieve flessione). Non espressione di voto: 3.446.313
Sinistra d’opposizione: PCI 7.767.201 22,71% Sinistra di governo: PSI 4.255.836 12,44%, PSDI 1.876.271 4,58%. La sinistra di governo raggiunge il 17,02%.

Camera dei Deputati 19 maggio 1968
I socialisti si presentano unificati nell’esperienza di governo, ma si è verificata la scissione dello PSIUP che si colloca all’opposizione. Iscritti: 35.566.495 voti validi 31.790.428 89.38% (ancora in calo). Non espressione di voto: 3.776.065.
Sinistra d’opposizione: PCI 8.551.347 24,04%, PSIUP 1.414.697 3,97% totale 28,01 (crescita del 5,30%). Sinistra di governo PSI-PSDI unificati 4.603.182 12,94% (flessione del 4,08)

Camera dei Deputati 7 maggio 1972
Nuova divisione(definitiva) tra PSI e PSDI . All’inizio della legislatura il PSI resterà fuori dall’area di governo (Andreotti -Malagodi) comprendente i socialdemocratici. Si affacciano per la prima volta alle elezioni movimenti usciti dal ’68, sia di area comunista, sia di dissenso cattolico.
Iscritti 37.049.351 voti validi 33.403.548 90.15% (in crescita) Non espressione di voto: 3.645. 803
Sinistra d’opposizione: PCI 9.068.961 24,47%, PSIUP 648.951 1,75. Totale: 26, 22 (in calo) PSI 3.208.497 8,66%, PSDI 1.718.142 4,63. Area della sinistra extraparlamentare (Manifesto, MPL, PCMl) 439.710 1,17%

Camera dei deputati 20 giugno 1976
Le elezioni si svolgono dopo il referendum sul divorzio del 1974 e il turno amministrativo del 15 giugno 1975 che ha fatto registrare un forte spostamento a sinistra. Si presenta una situazione inedita: PCI, PSI, PSDI faranno parte dell’area di governo, prima come “maggioranza delle astensioni” poi come maggioranza d’appoggio a due governi monocolore DC. Nel frattempo si consuma il dramma del rapimento Moro e la divisione dei partiti tra “fermezza”e trattativa.
Iscritti: 40.426.658. Voti validi 36.707.578 90. 80% (si torna a superare il 90%). Non espressioni di voto: 3.719.080.
Sinistra nell’area di governo: PCI 12.614.650 31,20%, PSI 3.540.309 8,75%, PSDI 1.239.492 3,06%. Totale 43,01% (ribadisco sul totale degli iscritti nelle liste: affido questo dato alla riflessione). Sinistra d’opposizione : DP (cartello elettorale comprendente PdUP, AO, Lotta Continua, MLS) 557.025. 1,37%

Camera dei deputati 3 giugno 1979
In precedenza a questa tornata elettorale, segnata dall’uscita del PCI dalla “solidarietà nazionale” occorre ricordare il referendum sul finanziamento pubblico dei partiti svoltosi nel giugno del 1978. Erano iscritti nelle liste 41.248.657 elettrici ed elettori, i voti validi furono 31.410.378 pari al 76,14% e il all’abrogazione (osteggiato dalla maggioranza di solidarietà nazionale) raggiunse i 9.838.279 voti, 33,19%
Un risultato che rappresentò il primo vero segnale di rottura “sociale” del sistema politico, del tutto ignorato dai dirigenti dei grandi partiti di massa che non avevano compreso la profonda divaricazione che la formazione della maggioranza delle astensioni aveva provocato. Il primo esito di quella rottura si ebbe il 3 giugno 1979, elezioni nelle quali ricomparve la divaricazione tra sinistra di governo e sinistra d’opposizione. Iscritti: 42.203.354. Voti validi 36.671.308 86, 89% (netta flessione). Non espressioni di voto: 5.532.046 (forte incremento).
Sinistra d’opposizione: PCI 11.139.231 26,39%, PdUP 502.247 1,19%, NSU 294.462 0,69. Totale: 28,27% Sinistra di governo: PSI 3.596.802 8,52%, PSDI 1.407.535 3,33%. Totale 11,85%

Camera dei deputati  26 giugno1983
Nel frattempo, scoperte le liste della P2, si è spezzato il monopolio DC della Presidenza del Consiglio e ci si avvia alla presidenza Craxi con la maggioranza di pentapartito. Iscritti 44.526.357 Voti validi 36.906.005, 82,88% (ancora evidente flessione).
Sinistra di governo: PSI 4.223.362 9,48%, PSDI 1.508,234 , 3,38%. Totale 12,86% (crescita dell’1%)
Sinistra di opposizione : PCI (comprendente il PdUP) 11.032.218 24,77%, DP 542.039 1,21 . Totale 25,98% (calo del 2,29%)

Camera dei deputati 14 giugno 1987
Precedono questa tornata elettorale le elezioni europee del 1984 coincidenti con la tragica morte di Enrico Berlinguer e il referendum sulla scala mobile, al riguardo del quale vale la pena soffermarsi un attimo.
Referendum 1985: Iscritti 44.904.290. Voti Validi  33.845.643, non espressioni di voto: 11.058.647
 Sì 15.460.855  34,43 % NO 18.384.788, 40,94%.

Il era appoggiato dal PCI e dalla componente comunista della CGIL, il NO dal pentapartito, dalla componente socialista della CGIL e da CISL e UIL. Doppia spaccatura. A sinistra e nel sindacato.
Riflessi evidenti si mostrarono nel turno elettorale del 14 giugno 1987, nel corso del quale entrarono in lizza anche rappresentanti delle nuove fratture post-materialiste (liste verdi) e di una ideologia di recupero di antiche fratture ( centro-periferia), allargando così lo spettro nel complesso del sistema politico italiano.
Iscritti 45.692.417 voti validi 38.571.508, 84, 41% (in crescita rispetto al 1983). Non espressione di voto: 7.120.909.
Sinistra di governo: PSI 5.501.596 12,04%, PSDI 1.140.209 2,49%. Totale 12,53% (in calo dello 0,33%)
Sinistra d’opposizione: PCI 10.250.644 22,43%, DP 641.901 1,40. Totale 23,83% (calo del 2,65%)

Camera dei Deputati 5 aprile 1992
Si vota ancora con il sistema proporzionale ma il quadro si è già modificato nel profondo. Si è sciolto il PCI dividendosi in due formazioni, PDS e Rifondazione Comunista, il PSI è già stato colpito dai prodromi di Tangentopoli, si è formata la Rete da un intreccio cattocomunista.
Iscritti 47.686.964 Voti validi 39.247.275 82,30% (in calo). Non espressione di voto 8.439.689
Sinistra di governo (nell’immediato si formerà il governo Amato): PSI 5.343.930 11,20%, PSDI 1.064.647 2,23%. Totale 13,43% (in crescita dello 0,90%)
Area ex PCI: PDS 6.321.084 13,25%, PRC 2.204.641 4,62%, Rete 730.171 1,53%. Totale 19,40% (in calo del 4,43%)

Camera dei deputati 27 marzo 1994.
Quadro completamente mutato. Sistema elettorale misto maggioritario (75%) proporzionale (25%), Sciolti i grandi partiti di massa DC e PSI, si è formata Forza Italia e si sta trasformando il MSI in AN. Il centro destra vince le elezioni con una duplice alleanza: FI/Lega al Nord (polo delle libertà) e FI/AN (polo del buon governo al Sud). In precedenza all’esposizione dei dati è il caso di soffermarci sull’esito del referendum abrogativo svoltosi il 18 aprile 1993. Il riferimento è al quesito riguardante il sistema elettorale del Senato e il cui esito servì da spunto per la modifica del sistema elettorale nel suo insieme. Si trattò di un referendum che pose una sorta di fondamentale pietra miliare sulla strada dell’antipartitismo, evocando infatti la semplificazione del sistema politico e la governabilità quale fattore esaustivo dell’agire politico. Gli esiti di quell’avventura sono oggi sotto gli occhi di tutti. Erano iscritti nelle liste 47.946.896, si ebbero 34.971.387 voti validi pari al 72,93%. Il rifiuto alla modifica del sistema elettorale raccolse soltanto 6.034.640 pari al 17,25%, voti espressi in gran parte all’interno dell’area che si era opposta allo scioglimento del PCI (successivamente solo parzialmente confluita nel PRC) e parzialmente anche da chi si era opposto allo scioglimento del PSI e della DC.
Esito delle elezioni del 27 marzo 1994. Iscritti 48.135.041. Voti validi 38.720.893, 80.44% (in netto calo). Non espressione di voto 9.414.148.
Risultato delle forze di sinistra presenti nella coalizione dei “Progressisti” (si era votato su di uno schema “tripolare” con la presenza di un’area centrista formata dal PPI e dal “Patto Segni”): PDS 7.881.646, 16,37%, PRC 2.343.946 4,86%, PSI 849.429 1,76%, Rete 719.841 1,49%, Socialdemocrazia 179.495 0,37%

Camera dei deputati 21 aprile 1996
Si forma l’alleanza di centrosinistra, mentre la Lega Nord abbandona il centrodestra dopo aver contribuito a far cadere il primo governo Berlusconi e Rifonda Comunista adotta la strategia della “desistenza” verso il centro sinistra. Iscritti 48.744.846 voti validi 37.484.398 76,98% (calo sensibile). Non espressioni di voto 11.260.448 (la maggioranza relativa se si esaminano i risultati dei partiti nella quota proporzionale).
A Sinistra il PDS raccoglie 7.894.118 voti pari al 16,19% e i socialisti 149.441 voti pari allo 0,30. Totale all’interno della coalizione dell’Ulivo 16,49%. Il PRC che attua la “desistenza” raccoglie 3.213.748 voti (896.802 voti in più) pari al 6,59%,massimo storico.

Camera dei deputati 13 maggio 2001

Si ricostituisce l’alleanza FI/Lega che vince le elezioni con l’apporto di AN e UDC, mentre l’alleanza di governo del centro-sinistra esce indebolita dopo aver alternato nei cinque anni tre volte il presidente del Consiglio. Nel frattempo si è spaccata Rifondazione Comunista con la formazione del Partito dei Comunisti Italiani che continua ad appoggiare il governo fino alla fine della legislatura.
Iscritti 49.256.295 voti validi 37.122.776, 75.36% (ancora in calo). Non espressione di voto 12.133.519.
Sinistra costretta all’opposizione: DS ( trasformazione del PDS che ha inglobato Comunisti Unitari, altra scissione del PRC e i Laburisti espressione dell’area socialista): 6.151.154 12,48% (netto calo rispetto al 1996 di oltre 1.700.000 voti), Rifondazione Comunista 1.868.659 4,92%, Comunisti Italiani 620.859 1,26%.
PRC e Comunisti Italiani sommano quindi il 6,18% perdendo lo 0,40% e circa 800.000 voti.

Camera dei Deputati 9 aprile 2006
Si costituisce l’Unione, massima espressione dell’alleanza a sinistra che colloca però al proprio centro l’Ulivo, lista elettorale che raccoglie DS e Margherita e che rappresenta la fase preparatoria della costituzione del PD. La vittoria elettorale risulta assolutamente stentata. Nel frattempo però e cambiata la legge elettorale che si presenta come proporzionale con premio di maggioranza e liste bloccate. Si registra un sensibile incremento nella partecipazione al voto. Iscritti 46.997.601 (esclusi gli iscritti all’estero) voti validi 38.153.343 81,18% (si ritorna sopra all’80%). Non espressioni di voto 8.844.258.
L’Ulivo raccoglie 11.930.983 voti pari al 25,38% ma si  tratta di un soggetto auto-denominatosi di centro -sinistra. A sinistra restano, tutte comprese nell’area di governo, il PRC (che avrà il presidente della Camera e un ministro) 2.229.464 4,74% (in crescita rispetto al 2001 di quasi 400.000 voti), Comunisti Italiani 884.127 1,88% (anch’essi in crescita di circa 260.000 voti). In posizione del tutto marginale una lista socialista che raccoglie 115.606 voti (0,24%).

Camera dei Deputati 19 aprile 2008
Elezioni che possono essere definite davvero come “critiche” di vero e proprio riallineamento del sistema.
L’Ulivo si è trasformato in Partito democratico, proclama la propria “vocazione maggioritaria” e rifiuta alleanze a sinistra ritenendosi esaustivo del profilo del centro sinistra (a fianco del PD si colloca soltanto il movimento giustizialista dell’IDV). In questo modo il PD incassa una sonora sconfitta dal PDL nelle cui fila si sono raccolti Forza Italia, Lega Nord e AN.
A Sinistra, in posizione di opposizione, si presenta la lista Arcobaleno che raccoglie assieme il PRC, i Comunisti Italiani, residui delle Liste Verdi e gli esponenti della Sinistra Democratica che hanno rifiutato la confluenza dei DS nel PD). Il risultato largamente negativo, al punto da escludere totalmente la possibilità di presenza in Parlamento. Iscritti 47.041.814, voti validi 36.457.254, 77,49% (nuovamente al di sotto dell’80%). Nessuna espressione di voto 10.584.560.
Arcobaleno 1.124.298 voti, 2,38% (due anni prima la somma di PRC e Comunisti Italiani superava i 3.000.000, 6,62%). È questo il passaggio nel quale si esprime il dato di assoluta minorità della sinistra italiana. Si presenta anche una lista socialista con 355.495 voti 0,75% e riemergono, sempre per effetto di successiva scissioni del PRC, formazioni ancora legate alle ideologie del dissenso comunista (in particolare di origine troskista): Partito Comunista dei Lavoratori e Sinistra Critica che assommano 377.112 voti pari allo 0.79%.

Camera dei deputati 24 febbraio 2013
Si arriva alle elezioni anticipate attraverso la caduta del governo Berlusconi e la gestione rigidamente legata all’austerità europeista attuata dal governo Monti. Il PD torna all’alleanza a sinistra collegandosi con SEL (espressione di un’ennesima scissione del PRC, in questo caso in senso governista). Alleanza che non produrrà l’auspicato (dai suoi promotori, ovviamente) esito di governo.
Iscritti 46.905.154 voti validi 34.005.755 72,49% (con un netto calo).Nessuna espressione di voto 12.899.399 (largamente maggioranza relativa). Sel, collegata come già ricordato con il PD, raccoglie 1.089.231 voti 2,32%. Per la sinistra d’opposizione si registra una presentazione unitaria tra PRC, Comunisti Italiani, altri movimenti e l’apporto dell’IDV con la sigla “Rivoluzione Civile”: anche in questo caso il risultato è quello dell’esclusione dal parlamento con 765.189 voti 1,63%. Se si sommano Sel e Rivoluzione Civile si ha un risultato di 1.854.420 voti pari al 3,95% con un incremento rispetto all’Arcobaleno di circa 730.000 voti  e dell’1,57% Incremento ottenuto però attraverso una divisione di schieramento. Alla sinistra è presente anche il PCL con 89.643 voti, 019%.

Camera dei deputati 4 marzo 2018
Le elezioni più recenti, quelle che hanno portato alla formazione del governo Lega- M5S. Sono le elezioni nelle quali si dimostra più forte un fenomeno come quello della volatilità elettorale già in atto da diverso tempo. Come esempio si può prendere il passaggio di voti riguardante il PD tra le elezioni europee 2014 e le elezioni politiche del 2018. Nelle Europee del 2014 il PD raccolse 11.203.231 voti pari al 22,11% su 27.448.906 voti validi (mancarono all’espressione di voto ben 23.213.554 unità: record storico).
Alle elezioni del 2018 lo stesso PD (dopo aver perso nettamente il referendum sulle riforma costituzionali del 4 dicembre 2016) si è fermato a 6.161.896 voti 13,24%. In quattro anni un calo di oltre 5.000.000 di voti. Nell’occasione del 4 marzo 2018 la sinistra, tutta all’opposizione, si riduce al proprio minimo storico.
Iscritti 46.505.350. Voti validi 32.841.075 70,61 (in calo). Nessuna espressione di voto per 13.664.275.
Da notare che tra le europee 2014 e le politiche 2018 si recuperano quasi 10.000.000 di espressioni di voto, nessuna delle quali raggiunge i partiti di sinistra. Supera la barriera dell’ingresso in parlamento soltanto Liberi e Uguali (che contiene parte di Sel ed esponenti di una scissione da sinistra del PD) con 1.114.799 pari al 2,39%. Restano fuori Potere al Popolo (nelle cui fila sono incluse Rifondazione Comunista e i Comunisti Italiani oltre a diverse espressioni di movimento particolarmente legati a istanze di centri sociali) con 372.179 voti pari allo 0.80%, un partito comunista di osservanza ortodossa con 106.816 voti pari allo 0,22%, e la lista di Sinistra Rivoluzionaria (PCL più altre espressioni fuoriuscite dal PRC) con 29.643 voti. il PCL tra il 2008 e il 2018 ha perso così circa 180.000 voti)pari allo 0,06%.
Un totale di 1.823.437 voti, pari al 3,47% con un calo di circa 30.000 voti rispetto al 2013.
Questo l’itinerario riassunto per sommi capi di una sinistra partita unitariamente tra PSI, PCI, Partito d’Azione con l’insegna Repubblica e Costituzione raccogliendo 9.450.263 suffragi su 23.010.479 voti validi per una percentuale del 33,73%. Poi le alterne vicende legate soprattutto alla divisione governo-opposizione.

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LA LOTTA DEGLI ESPOSTI ALL’AMIANTO IN ITALIA
di Michele Michelino*


Il 30 maggio scorso si è tenuto a Padova presso il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’ Università degli Studi, un incontro seminariale dal titolo: Nocività, salute, lavoro: esperienze italiane e internazionali pubblichiamo l’interessante intervento dell’amico e collaboratore Michele Michelino presidente del Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio di Sesto San Giovanni, Milano.



La storia della lotta contro l’amianto in Italia, -detto anche asbesto, il più economico e “ miglior termo-dispersore al mondo”- è una storia di anni di battaglie collettive di uomini e donne che spesso sono rimasti senza volto e senza nome, ma sono riusciti a sfondare il muro di omertà e di complicità eretto da un sistema industriale basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo che, pur di realizzare il massimo profitto, non ha esitato consapevolmente di mandare a morte centinaia di miglia lavoratori nelle fabbriche, le loro mogli e figli e anche tanti cittadini che mai hanno visto una fabbrica.
La nostra è una storia che è costata enormi sacrifici economici e umani ed è tuttora costellata dalle conseguenze mortali sui lavoratori e sulla popolazione. Se non si bonificherà il territorio, continuerà l’inquinamento degli esseri umani, degli animali e della natura e si continuerà a morire.
Nonostante il ricatto fra occupazione e lavoro, la lotta dei lavoratori per la tutela dei loro diritti, della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro è stata una lunga lotta che non ha fine. Una lotta difficile e drammatica di sfruttati che hanno dovuto guadagnarsi il pane in luoghi di lavoro nocivi, esposti a sostanze cancerogene, dove si lavorava l’amianto o dove quest’agente killer era, ed è, presente.
La pericolosità dell’amianto e il danno letale che provocava alla salute di chi ne veniva in contatto era noto fin dall’inizio del Novecento.
In Italia fino agli anni 30’ la silicosi e l’asbestosi erano patologie non riconosciute come professionali, ma alla fine degli anni 30 -anche grazie agli studi del prof. Vigliani, oltre che per porre fine al contenzioso e per assecondare lo sforzo bellico in una fase particolare della 2° Guerra Mondiale, quando le sorti del conflitto sembravano ormai segnate- il legislatore approvò la legge 455 del 12/4/1943 con la quale era finalmente stabilita la “Estensione dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali alla silicosi e all’asbestosi”. Si trattava di un sia pur minimo riconoscimento per i lavoratori dell’amianto che si erano ammalati. Lo Stato italiano era dunque consapevole, fin dagli inizi degli anni ’40, del rischio morbigeno legato all’esposizione a polveri e fibre di amianto aerodisperse nell’ambiente lavorativo.
Un ritardo, quello dello Stato Italiano, ingiustificato e colpevole, perché già nel 1983 l’allora Comunità Europea (Cee), tramite la direttiva 477, aveva dichiarato fuori legge l’amianto. Tuttavia per sei anni nessun governo accoglie le seppur timide indicazioni comunitarie e nel 1989 l’Italia viene giudicata inadempiente, ma la sanzione europea non comporta alcuna reazione immediata. Bisognerà attendere il 27 marzo di tre anni dopo perché la legge 257 venga approvata dal Parlamento.


Con questa legge viene sancito il divieto di estrazione, importazione, lavorazione, utilizzazione, commercializzazione, trattamento e smaltimento ed esportazione dell’amianto e dei prodotti che lo contengono. La messa al bando è affiancata da una proroga di due anni per permettere agli industriali di smaltirlo. Questo significa che per 9 anni lo Stato Italiano, cioè tutti i governi che si sono succeduti, sono stati responsabili e complici delle lobbies dell’amianto e di Confindustria nella mattanza di centinaia di migliaia di operai e di loro famigliari. Ci sono volute grandi mobilitazioni, battaglie politiche e sindacali, e anche battaglie giudiziarie per far approvare finalmente, nel 1992, dopo un lungo presidio di due giorni e due notti dei lavoratori dell’Eternit di Casale Monferrato, della Breda, e rappresentanti di molte altre fabbriche italiane sotto il parlamento, una legge che mettesse al bando la produzione e la commercializzazione di questa sostanza killer e disponesse un insieme di norme rivolte a tutelare la salute degli esposti, prevedendo misure di risarcimento per coloro che avevano dovuto svolgere una attività così pericolosa.  Purtroppo l’amianto provoca malattie e morte, anche molti anni dopo che si smesso di lavorarlo a causa dei lunghi tempi di latenza di tali patologie.
Questo materiale, contenuto in oltre 3 mila prodotti -dai mastici ai sigillanti, dalle pasticche dei freni alle corde, dalle conduttore di acqua potabile alle intercapedini e stucchi per strutture anche pubbliche, come asili, ospedali e scuole- era considerato il “miglior termodispersore al mondo”. Così pratico e a buon mercato da essere finito anche sui tetti: 2,5 miliardi di metri quadrati è la superficie di coperture in eternit in Italia, equivalente a circa 32 milioni di tonnellate di cemento-amianto. Conveniente ma mortale: quand’è sottoposto a sforzi si usura, liberando nell’aria miliardi di particelle che, se inalate, provocano danni enormi. Ogni anno, in Italia, secondo l’Inail, provoca 4mila vittime. Una parte rilevante delle 90 mila morti censite all’anno dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo cui nel mondo 125 milioni di persone - ancora oggi- sono esposte all’amianto nei luoghi di lavoro.
Le patologie interessano l’apparato respiratorio -asbestosi, tumore maligno del polmone e della laringe, mesotelioma pleurico-; poi c’è il mesotelioma peritoneale, quello pericardico, della tunica vaginale del testicolo o il tumore maligno dell’ovaio. Placche e inspessimenti pleurici diffusi. L’amianto colpisce anche l’apparato digerente. È un attacco invisibile e senza fretta quello delle particelle di asbesto, con un intervallo di latenza tra l’inizio dell’esposizione e la comparsa della malattia che in genere dura decenni: 46 anni, secondo i dati pubblicati nel 2012 nel Quarto rapporto del Registro nazionale dei mesoteliomi dell’Inail. Prima ancora della “malattia” però, l’amianto evoca la “fabbrica”. Anche perché l’Italia, fino alla fine degli anni 80, è stato il maggior produttore di amianto d’Europa: dal dopoguerra al 1990 ha partorito 3.748.550 tonnellate di amianto grezzo, seconda solo all’ex Unione Sovietica.


Sono trascorsi 26 anni dall’entrata in vigore della legge 257/92 che metteva al bando l’amianto. I tempi lunghi di molti processi hanno salvato gli assassini per prescrizione, pochi si sono conclusi con condanne, molti con l’assoluzione degli imputati per “non aver commesso il fatto”, come se fosse stata colpa degli operai, delle vittime, aver respirato sostanze cancerogene, lasciando liberi e impuniti i responsabili della morte di migliaia di operai e lavoratori: alle vittime, oltre al danno, la beffa.
In ogni caso anche oggi, dal nord al sud, sono diversi i processi in corso: da quelli a Milano (ATM, Breda/Ansaldo, Pirelli, Alfa Romeo ) a quelli contro la Fibronit a Palermo e Broni, Fincantieri a Monfalcone, Montefibre a Verbania, Montedison a Mantova, la Marina
Militare a Venezia. Ci sono persino procedimenti sulle autostrade ad es. sulla Prebemi per l’amianto sotterrato, anche qui in veneto sotto la A31 in Val d’Astico (Vicenza).
La nostra esperienza prima, e successivamente anche la letteratura scientifica, ci hanno insegnato che le fibrille di amianto possono entrare nell’organismo sia attraverso le vie respiratorie sia attraverso il tubo gastroenterico. Le fibre d’amianto sono pericolose sia se inalate, sia se ingerite, con i cibi, sia quando vengono in contatto con tessuti di rivestimento, epidermico e/o mucoso. Tutti i tessuti, nessuno escluso, vengono colpiti  da questa azione patogena. Il tessuto polmonare, le membrane sierose (pleura, peritoneo, pericardio, tonaca vaginale del testicolo), sono i bersagli più comuni dell’azione cancerogena.
I Comitati e le Associazioni delle vittime dell’amianto si battono da anni per la sicurezza nei luoghi di lavoro e sul territorio, per la giustizia. Oltre al dolore e alla disperazione che provano quando qualcuno di caro viene colpito per una malattia senza speranza, i famigliari delle vittime restano per anni in balia dei Tribunali e dell’Inail in attesa un risarcimento che non arriva mai o che se qualche volta arriva è troppo tardi. La lotta delle associazione e comitati è una lotta contro un intero sistema capitalista che privilegia il profitto alla vita umana e che si scontra con muri di gomma, governi e istituzioni complici, rimandi infiniti di istituti come INAIL e INPS che dovrebbero garantire i diritti e che invece sembrano voler costruire risparmi sulla pelle dei lavoratori (si calcola che l’INAIL abbia un “tesoretto” di oltre trenta miliardi di euro). Infine la rabbia per una giustizia che non c’è, una giustizia di classe che assolve i colpevoli e condanna spesso le vittime a pagare anche le spese dei tribunali.
Nel 2008 noi lavoratori, con le nostre Associazioni e Comitati, ed anche singolarmente, abbiamo deciso di ricorrere alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo, per denunciare la violazione dei loro diritti e delle norme costituzionali sulle quali si fonda la Repubblica Italiana nata dalla Resistenza, che all’articolo 1 della Costituzione proclama che la Repubblica è fondata sul lavoro; ma il più delle volte questa è finzione, apparenza; nella realtà la Repubblica, nel suo manifestarsi concreto ancora oggi, dimentica la sicurezza sul lavoro e l’integrità fisica di chi ha dedicato e dedica la vita al progresso individuale e collettivo, producendo la ricchezza di questo paese.  Di fronte alle stragi collettive, ai morti del lavoro, si alzano per qualche giorno voci di denuncia del capo dello stato, ministri, politici e sindacalisti; voci impotenti e ipocrite, perché il giorno dopo tutto continua come prima. Il motore del sistema capitalista, della nostra società e del sistema economico è il profitto, il dio denaro, il mercato, che dispone della vita e della morte degli esseri umani a cui tutti gli altri diritti umani sono subordinati se compatibili con esso.


Al centro del mondo ci sono i “diritti” delle multinazionali, delle rendite finanziarie, dei profitti e non certo il lavoro, la sua difesa, la sua tutela, quel lavoro che pure la Costituzione considera essere lo strumento di affermazione e di progresso, personale e collettivo. Se la centralità è l'impresa, l’intensificazione incessante del lavoro, il ridurne sempre più i costi, tagliare i tempi, aumentare gli orari, questo è quanto avvenuto concretamente nel corso degli ultimi anni, ebbene, gli incidenti non solo non diminuiranno, ma continueranno ad aumentare, così come aumenteranno le malattie professionali, che per altro le istituzioni si ostinano a non riconoscere. Lunghe cause che durano anni e che spesso si concludono per la sopraggiunta morte dei lavoratori già minati nel fisico. Processi penali lunghissimi che, anche in casi di condanna dei datori di lavoro per omicidio colposo, fanno scattare la prescrizione e la conseguente impunità per i responsabili della morte di centinaia di migliaia di lavoratori, colpevoli che tutto sapevano sulla pericolosità del minerale killer ma che, in nome della ricerca del massimo profitto, nulla hanno fatto per evitare queste morti annunciate. In questi anni migliaia di operai, lavoratori italiani, i loro famigliari e intere famiglie sono state sterminate dal pericoloso e silenzioso killer e molti aspettano ancora invano giustizia. Sono passati, ormai e purtroppo, molti anni da quando ci siamo resi conto che tante vittime dell’amianto potevano essere salvate, da quando abbiamo tutti capito che le responsabilità per la tragedia causata da questa fibra-killer sono molteplici e di varia origine, da quando persino le aziende hanno cessato di negare le gravissime e letali conseguenze delle esposizioni all’amianto (purché a loro non attribuibili).  Ancor più grave è il comportamento dei politici, sindacalisti, medici, Governi, istituzioni, enti amministrativi preposti (Inail, Inps, ecc), sia pure a livello di amministrazione delle cause giudiziarie (civili, amministrative e penali). che, pur riconoscendo i letali influssi sui lavoratori e la popolazione dell’amianto nulla fanno. La vicenda dell’amianto ci conferma invece che siamo ancora lontani dal pieno riconoscimento di questo diritto. Anche se siamo coscienti di combattere contro una società che privilegia il profitto rispetto alla vita umana questo non ci impedisce però di continuare a lavorare e a lottare per fare in modo che i diritti dell’uomo, in concreto e non solo in astratto, possano essere pienamente e pacificamente riconosciuti, a ogni livello e in ogni settore della nostra vita: da quello politico a quello giudiziario, da quello sociale a quello amministrativo.



LA MORTE SUL LAVORO E DI LAVORO NON È MAI UNA FATALITÀ
Sesto San Giovanni, dove è nato il nostro Comitato, aveva 42.000 operai concentrati in 8 grandi fabbriche, su una popolazione di 90.000 abitanti. Quando, tra i nostri compagni di lavoro, cominciavano ad aumentare il numero delle neoplasie e di altre malattie professionali, riconducibili all’esposizione all’amianto e ad altri cancerogeni (cromo, nickel, piombo, ecc.), ci siamo convinti della necessità di non delegare più ad altri la tutela dei nostri diritti se non a noi stessi e che la morte sul lavoro e di lavoro non è mai una fatalità. Non il destino, ma la sete di profitto e l’indifferenza di molti è la causa di tante tragedie.
Il nostro non è un caso isolato! Noi ci siamo costituiti in Comitato, altri in associazioni, per svolgere quella essenziale funzione di difesa dei lavoratori e per la tutela dei loro diritti. Gli studi epidemiologici hanno, purtroppo, confermato la più alta incidenza di queste patologie tra i lavoratori di Sesto San Giovanni, rispetto al resto della popolazione. Certo è che, come ha dimostrato la scienza medico-legale, inalare polveri di amianto favorisce i processi cancerogeni, li determina e li accelera. L’intera penisola italiana è percorsa da una silenziosa e strisciante tragedia, cosparsa di lacrime e sangue.
Dai dati Inail si rileva che solo nei primi mesi dell’anno (fino al 28 maggio 2018) ci sono stati 286 morti sul lavoro in Italia, 24 in più del 2017, in crescita del 9,2%.


Sono migliaia i morti per infortuni sul lavoro e malattie professionali, quasi un bollettino di guerra, dove tuttavia a morire sono sempre e solo gli operai. Esiste una guerra non dichiarata fra sfruttati e sfruttatori in cui i morti, i feriti e gli invalidi si contano da una parte sola; gli operai, i lavoratori che producono ricchezza da cui sono esclusi. Così scriveva G. Berlinguer in (Medicina del lavoro in La salute nella fabbrica, edizioni Italia-URSS, Roma 1972, pag, 32):  “Nel ventennio 1946-1966 si sono verificate in Italia 22.860.964 casi di infortunio e di malattia professionale, con 82.557 morti e con 966.880 invalidi. Quasi un milione di invalidi, il doppio di quelli causati in Italia dalle due guerre mondiali, che furono circa mezzo milione. Mentre la media degli infortuni e malattie professionali nel ventennio 1946-1966 è stata lievemente superiore ad 1 milione di casi annui, negli anni dal 1967 al 1969 la cifra è salita ad oltre 1,5 milioni di casi e nel 1970 ad 1.650.000 casi”.
Già nel 1974, più di quarant’anni fa, lo S.M.A.L. (Servizio di Medicina Preventiva per gli Ambienti di Lavoro) di Sesto San Giovanni aveva evidenziato, in rapporti inoltrati alla Direzione Aziendale Breda Fucine, all’Assessorato alla Sanità, al Servizio Sanitario Aziendale, all’Ufficiale Sanitario, all’Ispettorato del Lavoro, ai Sindacati CGIL-CISL-UIL e alla FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici) i pericoli dell’amianto usato nelle fabbriche.. L’organizzazione del lavoro prescindeva dalla tutela della salute o era quanto meno inadeguata a quel fine, privilegiando il profitto al rispetto dei diritti. Molti dei nostri compagni di lavoro sono morti senza ottenere giustizia e non è migliore la situazione nel resto dell’Italia ed in altri territori. Tuttavia dobbiamo combattere spesso nell’indifferenza la nostra battaglia di civiltà, che dalle aule dei Tribunali d’Italia abbiamo, ora, trasferito anche presso la Corte Europea di Strasburgo, facendo ricorso contro la Repubblica Italiana e l’Inail, rei di avere ancora una volta, dopo aver dimenticato, discriminato e conculcato diritti già acquisiti e costituzionalmente rilevanti. La tutela della salute sancita dalla Carta Costituzionale si è quasi sempre fermata ai cancelli delle fabbriche e dove è stato possibile farla rispettare è stato solo grazie alle lotte dei lavoratori.


Abbiamo dato vita, dunque, al Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio intraprendendo una battaglia di giustizia e verità combattendo contro un muro di omertà e di complicità. Quando lo Stato capitalista padrone delle industrie pubbliche nasconde, al pari degli industriali privati, o minimizza la pericolosità dell’amianto killer, diventa esso stesso assassino e complice di padroni e manager privati che per realizzare il massimo profitto calpestano la salute e la vita umana.
Più volte, insieme ai nostri compagni di lavoro, abbiamo protestato per la mancanza d’aspiratori e delle condizioni di sicurezza, denunciando che, mentre tutti parlavano di robotica o di fabbrica automatizzata,  in fabbrica ci si ammalava e si moriva. Ogni volta, davanti alle proteste, la direzione aziendale prospettava la chiusura della fabbrica. I sindacati confederali consigliavano di non scioperare né di interrompere la produzione. Tuttavia, i “sacrifici” non hanno evitato lo smembramento della fabbrica, la cassa integrazione e la chiusura della Breda. Lo stesso processo è avvenuto nelle altre fabbriche sestesi e italiane, con la chiusura della Falck, dell’Ercole Marelli, della Magneti Marelli, dell’Ansaldo e di tutte le altre grandi fabbriche. Ogni anno muoiono nel mondo per cause legate all’attività lavorativa 2 milioni di persone, 100 mila solo per l’amianto, mentre gli infortuni totali sono 270 milioni.
Nella ”civile” Italia gli infortuni sul lavoro sono oltre un milione. Solo per le malattie derivate dall’amianto ogni anno muoiono nel nostro paese più di 4.000 lavoratori. A queste cifre vanno aggiunte le migliaia di morti dovute a malattie causate all’inquinamento ambientale e quelli derivanti dai 3 milioni e 500 mila lavoratori stranieri e italiani in nero, che non rientrano nei conteggi Inail. Quindi non è azzardato pensare che i morti sul lavoro e di lavoro in Italia, siano più di 10 al giorno. Ogni anno il costo sociale degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali è pari al 4% del PIL mondiale, ma il costo pagato dai lavoratori è molto più alto. È in questo contesto che si colloca la nostra battaglia politica, etica e morale, prima che legale. Le vicenda processuali e le morti certe o sospette per amianto in Italia assumono un aspetto singolare e per certi versi sconcertante! Molti processi, a cominciare da quello Eternit di Casale Monferrato, sono finiti con la assoluzione per prescrizione e cioè per il venir meno della pretesa punitiva dello Stato per il decorso del tempo. Altro che… giustizia è fatta!


Non intendiamo delegare a nessuno la difesa dei nostri diritti. Con le altre Associazioni stiamo lavorando per costruire un grande movimento che unifichi tutte le lotte operaie e popolari, nella battaglia contro lo sfruttamento e le logiche di morte. Lottiamo per imporre condizioni di sicurezza nella organizzazione del lavoro, affinché altri non debbano subire e patire quello che abbiamo subito noi, i nostri compagni di lavoro e i nostri famigliari. La nostra lotta ha fatto comprendere a molti lavoratori che la loro malattia non era causata da un infausto destino, ma aveva precise responsabilità in chi sapeva e nulla ha fatto per evitare queste morti annunciate e questo ha dato a molti un motivo in più per combattere. Crediamo che il primo dovere della magistratura sia quello di indagare su tutte la morti “innaturali” perseguendo i responsabili e continueremo a lottare insieme a tutti coloro che vogliono far valere il principio: “prima di tutto la salute” e far diventare realtà il fatto che “senza sicurezza non ci può essere lavoro”.
Gli Imprenditori, agli esordi, hanno avuto la colpa di nascondere le ricerche scientifiche che hanno evidenziato la nocività dell’asbesto, occultando dolosamente la conseguenza dell’insorgenza di estese patologie tra i lavoratori, tra i loro familiari, e tra molti cittadini comuni esposti al minerale nell’ambiente di vita. Tuttavia in tempi più recenti, la verità storica ha trovato soddisfazione in alcuni Tribunali con le due recenti sentenze della Terza e Quarta Sezione della Corte di Cassazione sui morti d’amianto alla Centrale Enel di Chivasso (To) e Turbigo (Mi) che hanno condannato i dirigenti per la morte dei lavoratori affermando che: “il superamento, alla stregua della letteratura scientifica ormai consolidata, della teoria della cd. dose killer non può che comportare, sul piano logico, l’adesione all’ipotesi scientifica, avente fondamento epidemiologico, secondo cui l’aumento della esposizione produce effetti nel periodo di induzione e di latenza”. Sentenza 4560/2018, III Sezione Penale della Cassazione.


La recentissima sentenza della IV Sezione Penale della Corte di Cassazione del 18 maggio 2018 ha confermato le condanne per i numerosi casi di lavoratori deceduti per patologie derivanti dall’amianto presso la Fincantieri di Monfalcone. Sembra che il vento stia cambiando, e questo avviene grazie a chi non si è mai arreso, alle lotte dei lavoratori.
Tuttavia, per decenni, la sete di potere e di guadagno degli imprenditori ha goduto della complicità esterna, dell’ignoranza passiva e/o attiva di medici, di consulenti tecnici, di legali, di giudici, di funzionari delle amministrazioni pubbliche, di detentori del potere esecutivo e/o di quello legislativo che - con la loro indifferenza, i silenzi e con le bugie - hanno frequentemente fuorviato e manipolato l’opinione pubblica
Per troppi anni, in cambio del salario, i lavoratori sono stati costretti a lavorare in ambienti malsani e insicuri col risultato che milioni di persone che hanno costruito la ricchezza di questo paese hanno perso la vita , morendo fra atroci sofferenze, per arricchire i loro padroni.
In questo panorama desolante, possiamo tuttavia vantare molti, importanti, risultati per tutti, lavoratori e cittadini: la sorveglianza sanitaria gratuita per tutti gli esposti all’amianto che, per quanto prevista dalla legge, un molte regioni non veniva attuata; la costituzione di un Fondo Vittime dell’Amianto ma soprattutto l’aumento della consapevolezza del rischio amianto, attraverso manifestazioni di piazza, convegni, pubblicizzazione dei processi intentati ai responsabili di questo crimine “di pace”.
Infine continuiamo la nostra battaglia lottando per il futuro nostro e delle generazioni che verranno: la prevenzione primaria, il “rischio zero” del cancerogeno asbesto e di tutti gli inquinanti.

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 2° Rapporto sull'infanzia (clicca sull'immagine per scaricare il pdf)


https://www.dropbox.com/home/blog%20odissea/pdf%20scaricabili?preview=2%C2%B0Rapporto+sull%27infanzia.pdf


Testo integrale della risoluzione UNESCO sulla Palestina occupata
Testo originale : http://unesdoc.unesco.org/images/0024/002462/246215e.pdf

Gerusalemme


Di seguito il testo della risoluzione “Palestina Occupata”, approvata dalla commissione dell’Unesco con 24 voti favorevoli, 6 contrari e 26 astensioni

Voti a favore: Algeria, Bangladesh, Brasile, Chad, Cina, Repubblica Domenicana, Egitto, Iran, Libano, Malesia, Marocco, Mauritius, Messico, Mozambico, Nicaragua, Nigeria, Oman, Pakistan, Qatar, Russia, Senegal, Sud Africa, Sudan e Vietnam.
Voti contrari: Estonia, Germania, Lituania, Paesi Bassi, Regno Unito e Stati Uniti.
Astenuti: Albania, Argentina, Cameron, El Salvador, Francia, Ghana, Grecia, Guinea, Haiti, India, Italia, Costa d’Avorio, Giappone, Kenya, Nepal, Paraguay, Saint Vincent e Nevis, Slovenia, Korea del Sud, Spagna, Sri Lanka, Svezia, Togo, Trinidad e Tobago, Uganda e Ucraina.
Assenti: Serbia e Turkmenistan.

Comitato Esecutivo
Sessione n. 200
Commissione programma e relazioni esterne (PX)
Oggetto 25: PALESTINA OCCUPATA

Discussione
Proposta da: Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan

A Gerusalemme
Il comitato esecutivo,

Palestinesi

1. Avendo esaminato il documento 200EX/25,
2. Richiamandosi alle quattro disposizioni della convenzione di Ginevra (1949) ed ai relativi protocolli (1977), alle regolamentazioni del Tribunale dell’Aia in territori di guerra, alla convenzione dell’Aia per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato (1954) ed ai relativi protocolli, alla Convenzione sui mezzi per proibire ed impedire l’importazione, l’esportazione ed il trasferimento illegale di beni culturali (1970) e alla Convenzione per la protezione del Patrimonio Culturale e Naturale Mondiale (1972), all’inserimento della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura tra i siti Patrimonio Culturale dell’Umanità (1972) e tra i siti del Patrimonio a Rischio (1982), oltre che alle raccomandazioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO sulla protezione del patrimonio culturale, così come alle risoluzioni e decisioni dell’UNESCO in riferimento a Gerusalemme, richiamandosi anche alle precedenti risoluzioni UNESCO in materia di ricostruzione e sviluppo di Gaza ed alle risoluzioni UNESCO relative ai siti palestinesi di Al-Kahlil/Hebron e Betlemme,
3. Affermando l’importanza che Gerusalemme e le sue mura rappresentano per le tre religioni monoteiste, affermando anche che in nessun modo la presente risoluzione, che intende salvaguardare il patrimonio culturale della Palestina e di Gerusalemme Est, riguarderà le risoluzioni prese in considerazione dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e le risoluzioni relative allo status legale di Palestina e Gerusalemme,
4. Condanna fermamente il rifiuto di Israele di implementare le precedenti decisioni UNESCO riguardanti Gerusalemme, in particolare il punto 185 EX/Ris. 14, sottolineando come non sia stata rispettata la propria richiesta al Direttore Generale di nominare, il prima possibile, un rappresentate permanente di stanza a Gerusalemme Est per riferire regolarmente quanto riguarda ogni aspetto di competenza UNESCO, né lo siano state le reiterate richieste successive in tal senso;
5. Condanna fortemente il mancato rispetto da parte di Israele, potenza occupante, della cessazione dei continui scavi e lavori a Gerusalemme Est ed in particolare all’interno e nei dintorni della Città Vecchia, e rinnova la richiesta ad Israele, la potenza occupante, di proibire tutti questi lavori in base ai propri obblighi disposti da precedenti convenzioni e risoluzioni UNESCO;
6. Ringrazia il Direttore Generale per gli sforzi compiuti nel cercare di rendere effettive le precedenti risoluzioni UNESCO per Gerusalemme e nel cercare di mantenere e rinnovare tali sforzi;
7. Chiede ad Israele, la potenza occupante, di ripristinare lo status quo precedente al settembre 2000, in base al quale il dipartimento giordano “Awqaf ” (Fondazione religiosa) esercitava senza impedimenti autorità esclusiva sulla moschea Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif ed il cui mandato si estendeva a tutte le questioni riguardanti l’amministrazione della moschea Al- Aqsa/Al-Haram Al-Sharif, inclusi il mantenimento, il restauro e la regolamentazione degli accessi;
8. Condanna fortemente le sempre maggiori aggresioni israeliane e le misure illegali nei confronti dell’ Awqaf e del suo personale, e nei confronti della libertà di culto e dell’accesso dei musulmani alla loro moschea santa Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di rispettare lo status quo storico e di porre fine immediatamente a dette misure;
9. Deplora fermamente le continue irruzioni di estremisti israeliani di destra e delle forze armate alla moschea Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif, e sollecita Israele, la potenza occupante, a mettere in atto le misure necessarie a prevenire violazioni provocatorie che non rispettino la santità e l’integrità della Moschea Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif;
10. Denuncia fermamente le continue aggressioni israeliane nei confronti dei civili, tra cui figure religiose e sacerdoti islamici, denuncia l’ingresso con la forza nelle varie moschee ed edifici storici del complesso Al-Aqsa/Al-Haram Al-Sharif da parte di funzionari israeliani, compresi quelli delle cosiddette “Antichità Israeliane” [IAA, l’autorità israeliana delle antichità, che dipende dal ministero della Cultura. Ndtr], l’arresto ed il ferimento di musulmani in preghiera e di guardie dell’Awqaf, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di porre fine a queste aggressioni ed agli abusi che alimentano le tensioni sul terreno e tra le religioni;
11. Disapprova le limitazioni imposte da Israele all’accesso alla Moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif durante l’Eid Al-Adha del 2015 e le conseguenti violenze, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di cessare ogni sorta di abusi contro la Moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif;
12. Condanna fermamente il rifiuto di Israele di concedere visti agli esperti UNESCO incaricati del progetto UNESCO presso il “Centro per i Manoscritti Islamici” di Al-Aqsa /Al-Ḥaram Al-Sharif, e chiede ad Israele di concedere il visto agli esperti UNESCO senza alcuna restrizione;
13. Condanna i danni provocati dalle forze di sicurezza israeliane, specialmente a partire dall’agosto 2015, alle porte e finestre della Moschea al-Qibli all’interno del complesso Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, e a tale proposito riafferma l’obbligo da parte di Israele di rispettare l’integrità, l’autenticità ed il patrimonio culturale della moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, come stabilito dallo status quo tradizionale, in quanto sito islamico di preghiera e parte del patrimonio culturale mondiale;
14. Esprime la propria profonda preoccupazione per il blocco israeliano ed il divieto di ristrutturare l’edificio della porta di “Al-Rahma”, una delle porte della moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, e sollecita Israele, la potenza occupante, a riaprire tale porta e porre fine agli ostacoli posti per la realizzazione dei necessari lavori di restauro, per poter riparare i danni apportati dalle condizioni meteorologiche, specialmente dalle infiltrazioni d’acqua all’interno delle stanze dell’edificio.
15. Chiede inoltre ad Israele, la potenza occupante, di consentire la messa in opera immediata di tutti i 18 progetti hashemiti [del re di Giordania. Ndtr.] di ristrutturazione di Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif;
16. Deplora la decisione israeliana di costruire una funivia a doppio cavo a Gerusalemme Est ed il cosiddetto progetto “Liba House” nella Città Vecchia, cosi come la costruzione del cosiddetto “Kedem Center”, un centro per visitatori nei pressi del lato sud della moschea Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif, la costruzione dell’edificio “Strauss” ed il progetto di un ascensore nella Piazza Al-Buraq “Plaza del Muro occidentale”, e invita Israele, la potenza occupante, a rinunciare ai progetti sopra citati e a fermare i lavori in conformità con i propri obblighi in base alle convenzioni, risoluzioni e decisioni dell’UNESCO;
17. Ribadisce che la scalinata “Mughrabi” è parte integrante ed inseparabile del complesso Al-Aqsa/Al-Ḥaram Al-Sharif;
18. Prende atto del sedicesimo verbale di monitoraggio e di tutti i verbali precedenti, insieme alle relative aggiunte preparate dal World Heritage Center, e dei verbali sullo stato di conservazione inoltrati al World Heritage Center dal regno di Giordania e dallo Stato di Palestina;
19. Deplora le continue misure e decisioni unilaterali da parte israeliana in merito alla scalinata, inclusi gli ultimi lavori realizzati alla porta “Mughrabi” nel febbraio 2015, l’installazione di una copertura all’entrata e la creazione di una tribuna di preghiera ebraica a sud della scalinata nella piazza “Al-Buraq, o “piazza del Muro occidentale”, e la rimozione dei resti islamici del sito, e riafferma che nessuna misura unilaterale israeliana dovrà essere presa, conformemente al proprio status e agli obblighi derivanti dalla convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in presenza di conflitti armati.
20. Esprime inoltre la propria forte preoccupazione riguardo alla demolizione illegale di resti omayyadi, ottomani e mamelucchi, così come per altri lavori e scavi intrusivi attorno al percorso della porta “Mughrabi” e inoltre chiede ad Israele, la potenza occupante, di fermare tali demolizioni, scavi e lavori e di attenersi ai propri obblighi in base alle disposizioni dell’UNESCO menzionate nel paragrafo precedente;
21. Rinnova i propri ringraziamenti alla Giordania per la sua cooperazione e sollecita Israele, la potenza occupante, a cooperare con il servizio giordano dell'”Awqaf”, in conformità con gli obblighi imposti dalla convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in presenza di conflitti armati, e di agevolare l’accesso al sito da parte degli esperti giordani con i propri strumenti e materiali per permettere l’esecuzione del progetto giordano per la scalinata della porta “Mughrabi” in base alle disposizioni dell’UNESCO e del “Comitato per il Patrimonio Mondiale”, in particolare del 37 COM/7A.26, 38 COM/7A.4 and 39 COM/7A.27;
22. Ringrazia il direttore generale per l’attenzione riservata alla delicata situazione in oggetto, e le chiede di intraprendere le adeguate misure per permettere la messa in pratica del progetto giordano;
23. Sottolinea ancora una volta l’urgenza della messa in pratica della missione di monitoraggio attivo nella Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura;
24. A questo proposito ricorda la disposizione 196 EX/Dec. 26 che ha deciso, in caso di mancata realizzazione, di prendere in considerazione altri mezzi per garantirne la messa in pratica in conformità con le leggi internazionali;
25. Sottolinea con forte preoccupazione che Israele, la potenza occupante, non ha rispettato nessuna delle 12 risoluzioni del comitato esecutivo né le 6 del “Comitato per il Patrimonio Mondiale” , che richiedono la realizzazione della missione di monitoraggio nella Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura.
26. Segnala il continuo rifiuto da parte di Israele di agire in accordo con le decisioni dell’UNESCO e del “Comitato per il Patrimonio Mondiale” che chiedono un incontro con gli esperti UNESCO in merito alla missione di monitoraggio della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura;
27. Invita il Direttore Generale ad intraprendere le misure necessarie per mettere in pratica il succitato monitoraggio in base alla disposizione 34 COM/7A.20 del “Comitato per il Patrimonio Mondiale” , prima della prossima riunione del comitato esecutivo, ed invita tutte le parti in causa ad adoperarsi per agevolare la missione e l’incontro con gli esperti;
28. Chiede che il verbale e le raccomandazioni evidenziate dalla missione di monitoraggio ed il verbale dell’incontro tecnico riguardante la scalinata “Mughrabi” siano presentati a tutte le parti coinvolte;
29. Ringrazia il direttore generale per i continui sforzi a sostegno della succitata missione di monitoraggio congiunto dell’UNESCO e delle decisioni e risoluzioni dell’UNESCO in merito;
30. Condanna gli scontri militari all’interno ed intorno alla Striscia di Gaza e le vittime civili da essi provocati, compresi l’uccisione ed il ferimento di migliaia di civili palestinesi, tra cui bambini, ed il continuo impatto negativo nel campo di competenza dell’ UNESCO, gli attacchi contro scuole ed altri edifici culturali ed educativi, incluse le trasgressioni all’inviolabilità delle scuole dell’ “United Nations Relief” [UNRRA, organizzazione ONU per il soccorso alle popolazioni vittime di conflitti. Ndtr.] e della “Works Agency for Palestine Refugees” in Medio Oriente (UNRWA) [organizzazione dell’ONU che si occupa dei profughi palestinesi. Ndtr.];
31. Condanna fortemente il continuo blocco israeliano della Striscia di Gaza, che condiziona pesantemente il libero flusso di personale e degli aiuti umanitari, così come l’intollerabile numero di vittime tra i bambini palestinesi, gli attacchi alle scuole e ad altri edifici educativi e culturali, e la negazione del diritto all’istruzione, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di porre immediatamente fine al blocco;
32. Rinnova la richiesta al direttore generale di ripristinare, il prima possibile, la presenza dell’UNESCO a Gaza per poter assicurare la rapida ricostruzione di scuole, università, siti culturali, istituzioni, centri di comunicazione e luoghi di culto che sono stati distrutti o danneggiati nelle successive guerre contro Gaza;
33. Ringrazia il direttore generale per l’incontro informativo tenutosi nel marzo 2015 sull’attuale situazione a Gaza riguardo alle competenze dell’UNESCO e per il risultato dei progetti condotti dall’UNESCO nella Striscia di Gaza-Palestina, e la invita ad organizzare, al più presto, un nuovo incontro informativo sulle stesse questioni;
34. Ringrazia inoltre il direttore generale per le iniziative che sono già state portate avanti a Gaza nel campo dell’educazione, della cultura, dei giovani e per la sicurezza dei reporter, ed auspica che continui il coinvolgimento attivo nella ricostruzione dei siti culturali ed educativi di Gaza;
35. Riafferma che i due siti in oggetto, situati ad Al-Khalil/Hebron ed a Betlemme sono parte integrante della Palestina;
36. Condivide la convinzione affermata dalla comunità internazionale secondo cui i due siti sono importanti dal punto di vista religioso per ebraismo, cristianesimo e islam;
37. Disapprova fortemente l’attuale prosecuzione di scavi, lavori e costruzione di strade private per i coloni da parte di Israele e di un muro di separazione all’interno della  città vecchia di Al-Khalil/Hebron, che danneggia l’integrità del sito, e condanna il conseguente impedimento alla liberta di movimento e di accesso a luoghi di preghiera. Chiede ad Israele, la potenza occupante, di porre fine a tali violazioni in base alle disposizioni delle importanti convenzioni, decisioni e risoluzioni dell’UNESCO.
38. Deplora profondamente il nuovo ciclo di violenza, iniziato nell’ottobre 2015, nel contesto di una costante aggressione da parte dei coloni israeliani e di altri gruppi estremisti verso i residenti palestinesi, inclusi studenti, e chiede ad Israele di impedire tali aggressioni;
39. Denuncia l’impatto visivo del muro di separazione nel sito della Moschea Bilal Ibn Rabaḥ Mosque/Tomba di Rachele a Betlemme, così come l’assoluto divieto di accesso per i fedeli cristiani e musulmani palestinesi al sito, e chiede alle autorità israeliane di riportare il paesaggio all’aspetto originale e rimuovere il divieto di accesso;
40. Condanna decisamente il rifiuto da parte di Israele di dare compimento alla disposizione 185 EX/Dec. 15, che impone ad Israele di rimuovere i due siti palestinesi dal proprio patrimonio nazionale e chiede alle autorità israeliane di agire in base a tale decisione;
41. Decide di includere questi argomenti di discussione sotto il titolo di “Palestina Occupata” nell’agenda della 201° sessione, ed invita il direttore generale a sottoporre ad essa un rapporto aggiornato sulla situazione a riguardo.


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COMITATO SARDO “GETTIAMO LE BASI”
Quarta Commissione Parlamentare d’Inchiesta
Sardegna: poligoni, sindrome Golfo-Balcani-Quirra-Teulada-
Capo Frasca.



 “L’assenza di certezze scientifiche non deve servire da pretesto agli Stati per ritardare l’adozione di misure”  ONU, Protocollo di Rio.
“L’interesse nazionale cede di fronte al superiore interesse pubblico costituito dalla tutela della salute (…)” che ha “il valore dell’assolutezza, ciò significa che va protetta contro ogni iniziativa ostile da chiunque provenga e con la conseguenza che ha anche una valenza incondizionata. Tale tutela comprende le ipotesi in cui i rilievi scientifici non hanno raggiunto una chiara prova di nocività (..) occorre applicare il principio di minimizzazione che costituisce il corollario del principio di precauzione” (TAR Sardegna, sentenza di sospensiva all’installazione dei radar, 6/10/2011).

L’attuale quarta Commissione Parlamentare d’Inchiesta è chiamata a recepire e dare attuazione a risultanze e indirizzi della terza (art2 c.2 legge istitutiva), chiudere rapidamente e definitivamente l’inchiesta.
Parrebbe che le sia attribuita solo una funzione prettamente notarile o di braccio esecutivo delle decisioni della terza Commissione. La presidenza affidata all’on Scanu è garanzia di continuità.
Per capire le attività dell’attuale Commissione giova ricapitolare il lavoro delle precedenti. Va tenuto presente che le prime due hanno avuto circa un anno di vita, la terza circa quattro anni.

CRONISTORIA
La Commissione Parlamentare d’Inchiesta è stata strappata nel 2005 dalla lotta avviata nel 1999 dal comitato antimilitarista Gettiamo le Basi, dalle famiglie sarde di militari e dalle associazioni nazionali di tutela dei militari. Per un decennio abbiamo contrastato i tentativi esterni e interni di affossamento e sabotaggio.

Prima Commissione (2005-06 parrebbe condannata alla damnatio memoriae per motivi inspiegabili o troppo spiegabili)
Amplia il ristretto mandato ed estende l’inchiesta alla Sardegna; riconosce ufficialmente il ruolo propulsivo delle associazioni di base che da anni documentavano il cluster di tumori nelle aree dei Poligoni Salto di Quirra e Teulada (seduta18/10/2005); trova rapida conferma delle anomalie sanitarie in Sardegna (10/11/2005, Audizione del Procuratore militare di Cagliari); elabora il “Progetto di biomonitoraggio sul rischio ecologico e sanitario per i militari e la popolazione” e il “Progetto di studio sulla salute dei militari e delle popolazioni esposte alle attività militari”, entrambi, complementari tra loro, appropriati per precedere, accompagnare e andare oltre la bonifica. I due tipi di monitoraggio non possono essere usati - come si è fatto, e si programma di fare - per dilazionare ed eludere le misure imposte dal principio di precauzione: l’obbligo dello Stato di imporre la moratoria alle attività a rischio anche solo ipotetico.

Seconda Commissione (2006-2008, governo Prodi):
Prende atto dei “dati inoppugnabili” di civili e militari colpiti in modo abnorme da patologie collegate all’inquinamento bellico; equipara i poligoni ai teatri di guerra, equipara i militari inviati nei teatri di guerra a militari e popolazioni delle aree adibite ai “giochi di guerra”. Fa gravare l’onere della prova sul ministero Difesa. Afferma la valenza del nesso probabilistico, pilastro della normativa italiana e internazionale[i]. Rigetta la corbelleria cara alle Forze Armate della dimostrazione  del nesso diretto causa-effetto, turpe furbata per evitare di risarcire le vittime, fuggire dalle responsabilità, salvare la faccia.
Di fatto stabilisce che anche Amministrazione Difesa e Forze Armate sottostanno alle leggi della Repubblica. Banale e allo stesso tempo innovativo! Sovverte, infatti, il regime di vecchia data che i militari definiscono “specificità”, l’attuale  Commissione “amministrazione domestica”, altri “vulnus allo Stato di Diritto inferto dal settore militare che si erge a Stato nello Stato”. Scardina il “diritto”  che gli Stati Maggiori si sono arrogati di non rispondere dell’uso della bassa truppa, ieri come carne da cannone, oggi carne da radiazione.  
Grazie all’impegno di alcuni parlamentari, in particolare del vicepresidente della Commissione, il senatore Mauro Bulgarelli, la legge 296/2006 stanzia i fondi, sia per attivare i due sistemi di monitoraggio sanitario e biologico-ambientale indicati dalla prima Commissione, sia per la bonifica dei poligoni, fondi incrementati dalla  Finanziaria per il 2008 in prospettiva triennale (dieci miliardi all’anno) e prontamente azzerati dal successivo governo Berlusconi  con il decreto legge 27/5/2008 n. 93 nel totale disinteresse e ignavia di tutta la classe politica sarda a tutti i livelli, dall’allora  sottosegretario alla Difesa Cossiga ai Comuni.
Fine 2007, il ministro alla Difesa, il sardo Parisi, avvia i due sistemi di monitoraggio che si concretizzano, gravemente amputati e snaturati, nella creazione del “Centro Prevenzione Controllo Malattie dei Militari” (l’attenzione alle popolazioni sparisce!) e nel monitoraggio del Salto di Quirra (sparisce il biologico!).
Febbraio 2008, cade il Governo, cade la Commissione e parte a velocità luce il Piano di monitoraggio ambientale del Poligono Interforze Salto di Quirra (PISQ). Macroscopica inadeguatezza, incongruenze, irregolarità sono prontamente segnalate dal vicepresidente della Commissione (ALL.1 Bulgarelli 19/3/2008). L’ultimo scandaloso raggiro emerge nel 2012.

INCISO: “L’Operazione Trasparenza” top secret
Il monitoraggio è propagandato come “operazione trasparenza e verità”. Nel 2012, però, la Namsa/Nato oppone il “segreto Nato” alla richiesta della Procura di Lanusei di accesso agli atti della gara d’appalto (e il gup Clivio rigetta la richiesta della Procura di allegare l’altolà della Nato agli atti del processo Quirra).
L’attuale quarta Commissione ignora o finge d’ignorare la gravità del fatto?
L’esigenza di acquisire gli atti della gara d’appalto è stata posta anche da alcuni senatori della terza Commissione. La Commissione li ha formalmente richiesti? Li ha ricevuti? L’analoga richiesta del Comitato Territoriale - specchietto creato per dare ad intendere “la trasparenza e leale collaborazione” con gli enti locali, spacciati persino come coautori del Piano – è sempre stata evasa dai vertici militari.

Terza Commissione
I risultati sono sintetizzati da un commentatore politico specializzato in tematiche militari:“Scritti a quattro mani, due dei generali, due delle industrie di armi”. Concordiamo! Non è da attribuire a semplice negligenza o personali incapacità il disinteresse totale per la sottrazione dei fondi della bonifica e per il monitoraggio sanitario (CPCM). La Commissione “vede” il monitoraggio-bidone del Pisq a operazione conclusa, dopo l’intervento della Magistratura e l’attenzione dei media sardi e internazionali ed evita di entrare nel merito.   

Per il caso Sardegna la Commissione parte con la “verità” già in tasca, una strana “verità” in totale contrasto con i risultati delle due precedenti e con la forza dell’evidenza. La linea guida ribadita in quasi tutte le sedute “tranquillizzare i militari e la popolazione” è  puntualizzata con estrema chiarezza dal presidente Costa (seduta n. 42): “Contrastare alcuni ingiustificati allarmismi, alimentati in taluni casi anche dai toni sensazionalisti dei media” e “da antimilitarismo preconcetto e ideologico” come sempre precisa l’on. Scanu. Sorvoliamo sulla visione della razionalità prerogativa esclusiva di filo militaristi e guerrafondai. Invitiamo, però, a rileggere l’audizione del Procuratore militare di Cagliari (10/11/2005). Anche lui antimilitarista ideologico? Se così fosse avremo prova che l’antimilitarismo, finalmente, sta diventando pensiero egemone. 
L’obiettivo  di osteggiare “l’allarmismo preconcetto” contiene e anticipa i risultati del lavoro: il disastro ambientale e sanitario che ha come epicentro il poligono Salto di Quirra (Pisq), registrato dalla prima e seconda Commissione, comprovato dall’indagine del procuratore Fiordalisi (2011/12, meno di 15 mesi!) è un falso allarme, non deve esistere. La “verità” a priori, indipendente dall’esperienza, incompatibile con un serio lavoro inquirente e rigorosa verifica dei fatti, svela spudoratamente che l’inchiesta parlamentare è una farsa mirata a sedare la Sardegna. Infatti si offre ampio spazio alle sarde autorità da sempre ligie alla politica dello struzzo, a consulenti e auditi che minimizzano, spargono dubbi, disquisiscono di percezione alterata, deviano i sospetti dalle attività di guerra e, forse, forniscono false perizie.

PRECISAZIONE: professor Trenta
Dall’audizione (23/3/2016) del consulente prof. Trenta parrebbe che la quarta Commissione non sia a conoscenza della richiesta della Procura di Lanusei, avanzata in corso di udienza al giudice Clivio, di trasmissione degli atti del processo Quirra alla competente Procura di Roma e alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta per indagare sul “delitto di falsa perizia o falsa interpretazione” resa da prof. Trenta, in qualità di consulente, alla terza Commissione nella seduta del 19/6/2012 affermando che l'irradiamento del torio, più blando, è ancora meno pericoloso di quello dell'uranio”.
L’attuale Commissione inquirente ha il dovere di pronunciarsi a prescindere dall’iter giudiziario. 

Le 170 vittime (168 agli atti del processo, più due respinte dal gup Clivio per scadenza di termini ) individuate dalla Procura e dalla Polizia di Nuoro non bastano alla Commissione. Non basta il dato incontestabile del 65% di pastori dell’area a mare e del 33% nell’area interna del Pisq colpiti da tumori e delle loro greggi devastate da alterazioni genetiche. Bisogna stabilire la significatività! La Commissione ricorre al collaudato stratagemma della “scienza-pretesto”, messo al bando dall’ONU. Demanda all’epidemiologia, la scienza più facilmente taroccabile, il compito di stabilire se i morti e i malati di Quirra siano insignificanti o significativi. Eppure sarebbe stato sufficiente raffrontare l’indagine epidemiologica dell’Asl 8 di Cagliari (2003) con l’indagine della Regione coordinata da professor Biggeri (2005-6): 90% di mortalità per linfoma non Hodgkin (70% a Villaputzu/Quirra), 75% per tumori linfoematopoietici concentrati a Villaputzu, Muravera e San Vito, in circa il 50% della popolazione dei 10 Comuni considerati.
Peccato che prof. Biggeri e Asl non si siano mai accorti del cluster da brivido! (ALL 2 GettBasi EP).
Sarebbe stato sufficiente un raffronto tra la percentuale degli uccisi dal Pisq con quella degli assassinati nei campi di sterminio nazisti. E’ da dubitare che le SS siano riuscite a raggiungere medie del 90% o del 65%.

Incredibilmente si delega all’epidemiologia persino la missione impossibile “dell'accertamento di un nesso di  causalità tra fattori patogeni ed insorgere delle malattie” (Scanu sedute 20,42). 

TEULADA
I Comandi militari, da decenni, riconoscono la devastazione ambientale in atti ufficiali, pubblici. La Commissione registra un ”grave degrado e criticità”. Paradossalmente da per scontato che il disastro ambientale non abbia effetti sulla salute. Eppure alcune informazioni, facilmente verificabili, le aveva. Nell’incontro a Cagliari (30/3/2011) Gettiamo le Basi ha consegnato, con richiesta di allegare agli atti, le schede di alcuni colpiti dalla contaminazione bellica: militari in servizio a Teulada, Capo Frasca, Pisq; 31 abitanti di Teulada (oggi ne contiamo 52); 25 abitanti di Escalaplano, 8 tra Perdasdefogu e Ulassai (area Pisq). Uno sguardo anche rapido e superficiale avrebbe risparmiato ai senatori la figuraccia di cascare dal pero all’audizione del procuratore Fiordalisi (8/5/2012) confermando che “chi non vuole trovare non trova”.





Quarta Commissione

Il presidente Scanu definisce la tranchc dell’inchiesta focalizzata sulle vertenze di risarcimento dei militari “il lavoro forte, quello importante, dal quale fare discendere una serie di proposte normative” (seduta N 22, 21/4/2016). Ne discende che il lavoro, ancora da avviare, sui poligoni che devastano la Sardegna è di poco conto, fatuo e infruttuoso. Si riconferma la direttiva dell’inchiesta farsa.

DISASTRO SANITARIO
Salto di Quirra (PISQ)
L’attuale Commissione è chiamata a validare le risultanze dell’indagine epidemiologica Musumeci-Biggeri - affidata nel 2011 a Regione e Istituto Superiore Sanità, conclusa il 13/9/2015-  che promuove l’area del poligono della morte Salto di Quirra a oasi felice di salubrità, come volevasi dimostrare.
Il Presidente Scanu, già nel 2011(15/12), ha elevato ufficialmente i risultati dello studio, allora in embrione, al rango di “Verità Assoluta”,  “Ultimativa”. Tralasciamo il fatto che la scienza ha ripudiato la ricerca di verità assolute già da alcuni secoli. L’orrore di Stati titolari di “verità scientifiche assolute”, ad esempio la superiorità/inferiorità delle razze, è impresso nella memoria collettiva. La classe politica stia alla larga dalla tentazione di “verità assolute, ultimative”!
Onestà intellettuale e decenza impongono di sottoporre lo studio a una valutazione in contradditorio con almeno un epidemiologo di fiducia delle associazioni che da troppi anni lottano per la corretta informazione sulla sindrome Golfo-Balcani che falcidia anche militari, popolazioni e animali nelle aree coinvolte dai poligoni di Capo Teulada, Capo Frasca, Salto di Quirra. Indichiamo il dr Valerio Gennaro, consulente della prima e seconda Commissione, consulente del Centro Prevenzione Controllo Malattie dei militari, coautore del “Progetto di studio sulla salute dei militari e delle popolazioni esposte alle attività militari” fatto proprio  dalla prima Commissione.
Gettiamo le Basi ribadisce la valutazione di indagine-pretesto sballata in partenza in considerazione di:
criteri di aggregazione/disgregazione della popolazione esposta fondati su ipotesi palesemente errate (come peraltro “ipotizza” persino la dott.ssa Musumeci, dopo 4 anni di studio e a lavoro concluso!);
attenzione gravemente carente ai contaminanti dei sistemi d’arma e tipici dei poligoni; metodologia molto contestabile; precedente, discutibile indagine del prof Biggeri (2005/06)  ALL 2 


Poligono di Capo Teulada
La Commissione dovrà pronunciarsi sul disastro sanitario che ha come epicentro il poligono di Capo Teulada che la terza ha finto di non vedere e l’intervento della Procura di Cagliari ha reso ineludibile

DISASTRO AMBIENTALE
Governo e Parlamento hanno risolto il problema con solerzia: la contaminazione è legalizzata per decreto (91/2014, ribattezzato “Inquinatore Protetto, Salva Quirra”) e per legge (116/2014) sollevando a dismisura i valori soglia dei contaminanti, come da italica prassi. Gli onorevoli, dimentichi dello “sdegno e vibrante indignazione” con cui avevano respinto la proposta del gen. Ludovisi di legittimazione dell’inquinamento (seduta 15/5/2012), sono scattati sull’attenti.
Nell’area del Pisq la sedicente bonifica pare consista in quella sorta di pulizia etnica ripetutamente raccomandata dalla terza Commissione: l’espulsione delle attività agricolo pastorali, la sistemazione di recinzioni e cartelli di divieto d’accesso.
Come s’intendono fermare nanoparticelle e polveri di veleni bellici in uscita?

MULTIFATTORIALITÀ
La terza Commissione e l’attuale, incaricata di seguirne le orme, prestano scarsissima attenzione al cocktail di veleni (l’uranio è solo una goccia) disperso in Sardegna, quotidianamente, da ben oltre mezzo secolo. Eppure i contaminanti dei sistemi d’arma di routine, persino dei cosiddetti inerti, e i connessi effetti sulla salute sono noti, classificati nelle tabelle di legge, l’informazione è facilmente accessibile e di facile lettura così come lo è la contaminazione tipica di un poligono, purtroppo Quirra, Teulada, Capo Frasca sono in numerosa compagnia (ALL 3 contaminanti ).  Per altro verso, con il forte supporto di  alcuni consulenti, si  focalizza l’attenzione su cause e concause che esulano dalle attività militari. Alcune le ricorda il signor Cancedda (seduta 18/5/2016)[ii] , le definiscevilipendio ai morti, vilipendio alla famiglia”, concordiamo e aggiungiamo l’oltraggio all’umana intelligenza. Per il caso Quirra  i “multi fattori”  sono ancora più indegni e grotteschi. Ricordiamo la causa/concausa delle malformazioni genetiche dei bambini di Escalaplano che i portavoce  militari avevano ordine scritto di suggerire: l’incestuosità dei sardi. La più gettonata rimane la geologia-litologia, una correzione di tiro della precedente “verità scientifica di Stato e di Regione”, la solenne asineria che indicava la miniera d’arsenico di Bacu Locci madre di tutte le patologie dell’area Pisq.
Vedere pagliuzze inconsistenti e non vedere la trave emana forte sentore  di depistaggio, alimenta il sospetto che la multifattorialità sarà usata per deviare l’attenzione dalle attività militari, trovare attenuanti per l’Amministrazione Difesa, rovesciare tutta o parte di colpa sulle vittime o la geologia, quindi ridurre il risarcimento danni a cifre da elemosina.

RISARCIMENTI e INDENNIZZI alle vittime militari
Il riconoscimento di IARC e OMS delle nanoparticelle causa primaria di tumori ha chiuso la scappatoia del “nesso diretto causa-effetto”. Le condanne milionarie sempre più frequenti della Magistratura hanno reso disastroso per l’Amministrazione Difesa persistere nel bieco negazionismo ad oltranza, sia dal punto di vista economico, sia per il discredito che getta sulle Forze Armate.
Parrebbe che Amministrazione Difesa e vertici militari abbiano capito che è più conveniente risolvere le vertenze per via amministrativa, molto meno costosa e molto meno visibile dall’opinione pubblica, e più vantaggioso seguire l’esempio del Vaticano che dopo le condanne milionarie, partite dai tribunali USA per i casi di pedofilia, si è attivato per mettere freno al crimine infame sempre tollerato.



Autoincensamento e scoperta dell’acqua calda
Sconcerta l’ampio spazio che terza e quarta Commissione, in particolare l’on Scanu, dedicano al ripetitivo  auto elogio - accompagnato da malcelata denigrazione del lavoro delle precedenti Commissioni -  per il cambio di rotta (eventuale, ancora da codificare!) di AD e vertici militari e, soprattutto, per “avere maturato la convinzione unanime del nesso probabilistico e la pluralità di fattori che possono concorrere all’eventuale manifestarsi delle patologie”. La scoperta dell’acqua calda! E’patrimonio informativo acquisto già verso l’età di 5 anni, trasmesso dalla famiglia e rafforzato dalla scuola elementare. “Perché io mi sono ammalato e mia sorella e mio fratello no?” è una delle prime domande che pongono i bambini.
Che senso ha vantarsi ossessivamente della “scoperta”? Puro narcisismo, speculazione per carpire riconoscenza e voti delle vittime dello strapotere della casta militare oppure …?

CHIEDIAMO alla Commissione d’Inchiesta e all’intero Parlamento
 di confutare con i fatti  l’opinione dominante che il sistema più efficace per eludere problemi scottanti è istituire una Commissione Parlamentare d’Inchiesta. Noi non desistiamo dall’esigere che Governo e Parlamento assumano le loro responsabilità, l’obbligo di fermare la strage di Stato e la devastazione della Sardegna, di ripristinare la legalità adottando le misure imposte dalle leggi, sintetizzate nell’acronimo SERRAI (CHIUDERE)

     S     Sospensione delle attività dei poligoni dove si sono registrate le patologie di guerra;
     E     Evacuazione dei militari esposti alla contaminazione dei poligoni di Teulada, Decimomanno-Capo Frasca, Quirra                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  
    R     Ripristino ambientale, bonifica seria e credibile delle aree contaminate a terra e a mare;
     R     Risarcimento alle famiglie degli uccisi, ai malati, agli esposti, Risarcimento del danno inferto all’isola.
    A     Annichilimento, ripudio della guerra e delle sue basi illegalmente concentrate in Sardegna in misura iniqua;
 I       Impiego delle risorse a fini di pace.


 CHIEDIAMO AL POPOLO SARDO, COMITATI e ASSOCIAZIONI di BASE di attivarsi per dare vita a una "Commissione POPOLARE di Inchiesta sui crimini ambientali, sanitari ed economici perpetrati da Italia/Nato”. Le risorse umane NON mancano di certo! Non siamo soli. Abbiamo esperienza diretta, in Italia e in molti Paesi del pianeta, della volontà e capacità di lotta per estirpare dalla propria terra e dalla Storia il mostro guerra, le sue armi, le sue basi, i suoi poligoni, i suoi arsenali. Molti sono da anni al nostro fianco, hanno sostenuto attivamente le nostre lotte e le loro lotte hanno dato preziosi input alla liberazione della Sardegna dal giogo militare, alla liberazione dell’umanità  dalla barbarie bellica. Ci vorrà tempo, ma basta solo dare impulso e favorire sinergie. Le risorse economiche non sono un problema, sono facilmente reperibili.
Comitato sardo Gettiamo le Basi, [Tel. 3467059885]






[1] L’Organizzazione Mondiale della Sanità classifica e fissa in tabelle livelli di probabilità e grado di certezza ( es. nanopartice causa primaria di tumori )
[2] Franco Nobile, consulente della terza e della quarta Commissione, indica cause e concause della sindrome: vaccini e abitudini “patogene” dei militari come uso di telefonini, tatuaggi, insetticidi, sigarette, alcool, in alcuni casi il bicchierino di superalcolici bevuto addirittura una volta al mese! ( “La prevenzione oncologica nei reduci dai Balcani” pag. 41,42,47,73).

***
"LA STRAGE DI VIAREGGIO"




 RAPPORTO SULLA SALUTE DELLA REGIONE SARDEGNA




Rapporto dello stato di salute delle popolazioni residenti in zone interessate da poli industriali, minerari, militari della Regione Sardegna.


RISOLUZIONE DEL PARLAMENTO EUROPEO ADOTTATA L'8/9/2015
con 363 voti favorevoli, 96 contrari e 231 astenuti

Foto di Livia Corona

Rapporto di Iniziativa condotto da Lynn Boylan GUE NGL
sul seguito all'iniziativa dei cittadini europei "L'acqua è un diritto" (Right2Water)
(2014/2239(INI))
Il Parlamento europeo,
–        vista la direttiva 98/83/CE del Consiglio, del 3 novembre 1998, concernente la qualità delle acque destinate al consumo umano (la "direttiva sull'acqua potabile")[1],
–        vista la direttiva 2000/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2000, che istituisce un quadro per l'azione comunitaria in materia di acque (la "direttiva quadro sulle acque – DQA")[2],
–        visto il regolamento (UE) n. 211/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio riguardante l'iniziativa dei cittadini[3],
–        vista la direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull'aggiudicazione dei contratti di concessione[4],
–        vista la comunicazione della Commissione del 14 novembre 2012 intitolata "Piano per la salvaguardia delle risorse idriche europee" (COM(2012)0673),
–        vista la comunicazione della Commissione del 19 marzo 2014 sull'iniziativa dei cittadini europei "Acqua potabile e servizi igienico-sanitari: un diritto umano universale! L'acqua è un bene comune, non una merce!" (COM(2014)0177) (la "comunicazione"),
–        vista la "Relazione di sintesi sulla qualità dell'acqua potabile nell'UE basata sull'esame delle relazioni degli Stati membri per il periodo 2008-2010 a norma della direttiva 98/83/CE" della Commissione (COM(2014)0363),
–        visto il parere del Comitato economico e sociale europeo sulla summenzionata comunicazione della Commissione del 19 marzo 2014[5],
–        vista la relazione dell'Agenzia europea dell'ambiente (EEA) dal titolo "L'ambiente in Europa ‒ Stato e prospettive nel 2015",
–        viste la risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del 28 luglio 2010 dal titolo "The human right to water and sanitation"[6] e la risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del 18 dicembre 2013 dal titolo "The human right to safe drinking water and sanitation"[7],
–        viste tutte le risoluzioni sul diritto umano all'acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari adottate dal Consiglio per i diritti dell'uomo delle Nazioni Unite,
–        vista la sua risoluzione del 9 ottobre 2008 su come affrontare il problema della carenza idrica e della siccità nell'Unione europea[8],
–        vista la sua risoluzione del 3 luglio 2012 sull'attuazione della normativa UE sulle acque in attesa di un necessario approccio globale alle sfide europee in materia di acque[9],
–        vista la sua risoluzione del 25 novembre 2014 sull'UE e sul quadro di sviluppo globale post 2015[10],
–        visto l'articolo 52 del suo regolamento,
–        visti la relazione della commissione per l'ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare e i pareri della commissione per lo sviluppo e della commissione per le petizioni (A8-0228/2015),
A.      considerando che l'iniziativa "L'acqua è un diritto" (Right2Water) è la prima iniziativa dei cittadini europei (ICE) ad avere soddisfatto i requisiti stabiliti dal regolamento (UE) n. 211/2011 riguardante l'iniziativa dei cittadini nonché la prima a essere stata presentata in un'audizione al Parlamento dopo aver ricevuto il sostegno di quasi 1,9 milioni di cittadini;
B.      considerando che il diritto umano all'acqua e ai servizi igienico-sanitari comprende gli aspetti della disponibilità, dell'accessibilità, dell'accettabilità, dell'accessibilità economica e della qualità;
C.      considerando che la piena applicazione del diritto umano universale all'acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari, quale riconosciuto dalle Nazioni Unite e sostenuto dagli Stati membri dell'UE, è essenziale per la vita, e che la corretta gestione delle risorse idriche svolge un ruolo cruciale nel garantire un uso sostenibile dell'acqua nonché la salvaguardia del capitale naturale mondiale; che gli effetti combinati delle attività umane e del cambiamento climatico fanno sì che la totalità della regione del Mediterraneo e alcune regioni dell'Europa centrale dell'UE siano ora classificate come regioni caratterizzate da penuria d'acqua e semidesertiche;
D.      considerando che, come indicato nella relazione 2015 dell'EEA sullo stato dell'ambiente, il tasso di perdite dovuto a fughe dalle condutture in Europa è compreso tra il 10% e il 40%;
E.      considerando che l'accesso all'acqua figura tra gli elementi chiave per raggiungere uno sviluppo sostenibile; che un approccio teso a privilegiare, nell'ambito dell'assistenza allo sviluppo, il miglioramento dell'approvvigionamento di acqua potabile e dei servizi igienico-sanitari è un modo efficiente per perseguire obiettivi fondamentali di eliminazione della povertà, nonché per promuovere l'uguaglianza sociale, la salute pubblica, la sicurezza alimentare e la crescita economica;
F.      considerando che almeno 748 milioni di persone non hanno un accesso sostenibile all'acqua potabile, mentre un terzo della popolazione mondiale non dispone dei servizi igienico-sanitari di base; che, come risultato, il diritto alla salute è a rischio e si diffondono malattie che, oltre a provocare sofferenze e morte, ostacolano seriamente lo sviluppo; che ogni giorno circa 4 000 bambini muoiono di malattie che si trasmettono attraverso l'acqua o a causa di condizioni inadeguate per quanto riguarda l'acqua, i servizi igienico-sanitari e l'igiene; che la mancanza di accesso all'acqua potabile uccide più bambini dell'AIDS, della malaria e del vaiolo messi insieme; che si registra, tuttavia, una chiara tendenza alla riduzione delle cifre sopra riportate e che il loro calo può e deve essere accelerato;
G.      considerando che l'accesso all'acqua presenta anche un aspetto legato alla sicurezza, il quale necessita di una migliore cooperazione regionale;
H.      considerando che la mancanza di accesso all'acqua e ai servizi igienico-sanitari si ripercuote sulla realizzazione di altri diritti umani; che le sfide idriche colpiscono in modo sproporzionato le donne, dato che in molti paesi in via di sviluppo esse sono tradizionalmente responsabili della fornitura di acqua per uso domestico; che le donne e le ragazze sono maggiormente colpite dalla mancanza di accesso a servizi igienico-sanitari adeguati e dignitosi, il che frequentemente limita il loro accesso all'istruzione e le rende più vulnerabili alle malattie;
I.       considerando che, ogni anno, tre milioni e mezzo di persone muoiono di malattie che si trasmettono attraverso l'acqua;
J.       considerando che il protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, entrato in vigore nel 2013, ha istituito un meccanismo di denuncia che consente a singoli o gruppi di presentare reclami formali sulle violazioni del diritto umano all'acqua e ai servizi igienico-sanitari, oltre a quelle di altri diritti;
K.      considerando che nei paesi in via di sviluppo e nelle economie emergenti la domanda di acqua è in aumento in tutti i settori, in particolare l'energia e l'agricoltura; che il cambiamento climatico, l'urbanizzazione e le evoluzioni demografiche possono rappresentare una seria minaccia per la disponibilità di acqua in molti paesi in via di sviluppo e che si stima che circa due terzi della popolazione mondiale sono destinati a vivere in paesi con problemi idrici entro il 2025;
L.      considerando che l'UE è il principale donatore nel settore dell'acqua e dei servizi igienico-sanitari (WASH), dato che il 25% del suo finanziamento umanitario annuo globale è dedicato esclusivamente al sostegno dei partner per lo sviluppo in questo settore; che, tuttavia, una relazione speciale della Corte dei conti europea del 2012, concernente l'assistenza allo sviluppo fornita dall'UE a favore dell'acqua potabile e dei servizi igienico-sanitari di base nei paesi subsahariani, ha sottolineato la necessità di migliorare l'efficacia degli aiuti e la sostenibilità dei progetti promossi dall'UE;
M.     considerando che l'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ha dichiarato che "l'accesso all'acqua deve essere riconosciuto quale diritto umano fondamentale, essendo l'acqua una risorsa essenziale per la vita sulla terra che va condivisa dall'umanità";
N.      considerando che la privatizzazione dei servizi di base nell'Africa subsahariana negli anni Novanta ha, tra le altre cose, ostacolato il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del millennio (OSM) in materia di acqua e servizi sanitari, poiché l'attenzione degli investitori al recupero dei costi ha intensificato tra l'altro le disuguaglianze nella fornitura di tali servizi a spese dei nuclei familiari a basso reddito; che, alla luce del fallimento della privatizzazione dell'acqua, il trasferimento dei servizi idrici dalle imprese private agli enti locali è una tendenza in crescita nel settore idrico in tutto il mondo;
O.      considerando che l'erogazione di servizi idrici è un monopolio naturale e che tutti i profitti derivanti dal ciclo di gestione dell'acqua dovrebbero coprire i costi e la protezione dei servizi idrici e del miglioramento del ciclo di gestione dell'acqua ed essere sempre destinati a tal fine, a condizione che sia tutelato l'interesse pubblico;
P.      considerando che l'assenza di un approvvigionamento idrico e di servizi igienico-sanitari adeguati ha gravi conseguenze per la salute e lo sviluppo sociale, in particolare dei bambini; che la contaminazione delle risorse idriche è una delle principali cause della diarrea e la seconda causa di morte per i bambini dei paesi in via di sviluppo e provoca ulteriori malattie gravi quali il colera, la schistosomiasi e il tracoma;
Q.      considerando che l'acqua svolge funzioni sociali, economiche ed ecologiche e che una gestione corretta del ciclo dell'acqua, a vantaggio di tutti, non potrà che salvaguardare la sua disponibilità stabile e duratura nell'attuale contesto di cambiamento climatico;
R.      considerando che l'Europa è particolarmente sensibile al cambiamento climatico e che l'acqua è uno dei primi settori a risentirne;
S.      considerando che l'iniziativa dei cittadini europei è stata istituita come uno strumento di democrazia partecipativa con l'obiettivo di incoraggiare il dibattito a livello dell'UE e la partecipazione diretta dei cittadini al processo decisionale dell'UE, e costituisce un'eccellente opportunità per consentire alle istituzioni dell'UE di coinvolgere nuovamente i cittadini;
T.      considerando che i sondaggi dell'Eurobarometro hanno sistematicamente rilevato, negli ultimi anni, livelli di fiducia molto bassi nei confronti dell'UE tra i cittadini europei;
L'iniziativa dei cittadini europei come strumento di democrazia partecipativa
1.       ritiene che l'iniziativa dei cittadini europei sia uno strumento democratico unico, dotato di un potenziale importante per contribuire a ridurre il divario tra i movimenti sociali e della società civile europei e nazionali e per promuovere la democrazia partecipativa a livello dell'UE; ritiene tuttavia che, per poter sviluppare ulteriormente il meccanismo democratico, sia indispensabile effettuare una valutazione delle esperienze passate e una riforma dell'iniziativa dei cittadini e che le azioni della Commissione ‒ le quali possono includere, se del caso, la possibilità di introdurre elementi appropriati nelle revisioni legislative o in nuove proposte legislative ‒ debbano rispecchiare meglio le richieste formulate dalle ICE quando queste rientrano nel suo ambito di competenza, e soprattutto quando esprimono preoccupazioni relative ai diritti umani;
2.       sottolinea che la Commissione dovrebbe garantire la massima trasparenza durante la fase di analisi di due mesi, che un'ICE che abbia avuto successo dovrebbe ottenere un sostegno e un'assistenza legali adeguati da parte della Commissione ed essere adeguatamente pubblicizzata, e che promotori e sostenitori dovrebbero essere pienamente informati e aggiornati nel corso dell'intero processo dell'ICE;
3.       insiste sulla necessità che la Commissione attui in modo efficace il regolamento ICE e proceda a rimuovere tutti gli oneri amministrativi incontrati dai cittadini nell'atto di presentare un'ICE o darle il proprio sostegno, e la esorta a prendere in considerazione l'attuazione di un sistema di registrazione dell'ICE comune a tutti gli Stati membri;
4.       si compiace del fatto che il sostegno espresso da quasi 1,9 milioni di cittadini di tutti gli Stati membri dell'UE nei confronti di questa ICE sia concorde con la decisione della Commissione di escludere i servizi idrici e igienico-sanitari dalla direttiva sulle concessioni;
5        invita la Commissione a mantenere e a confermare l'esclusione dei servizi idrici e igienico-sanitari dalla direttiva sulle concessioni nel quadro di un'eventuale revisione di tale direttiva;
6.       ritiene deplorevole il fatto che la comunicazione sia priva di vera ambizione, non risponda alle richieste specifiche espresse nell'ICE e si limiti a ribadire impegni esistenti; sottolinea che la risposta formulata dalla Commissione all'ICE "L'acqua è un diritto" è insufficiente, poiché non apporta contributo e non introduce tutte le misure che potrebbero contribuire al raggiungimento degli obiettivi; chiede alla Commissione, per quanto riguarda questa particolare iniziativa dei cittadini europei, di condurre una campagna informativa esaustiva sulle misure che sono già state adottate in materia di acqua e di come queste misure potrebbero contribuire al conseguimento degli obiettivi dell'iniziativa dei cittadini europei "L'acqua è un diritto";
7.       ritiene che molte delle petizioni in materia di qualità dell'acqua e gestione idrica provengano da Stati membri che non sono ben rappresentati nel quadro della consultazione pubblica a livello UE lanciata nel giugno 2014 e sottolinea che potrebbe quindi esservi un'incongruenza tra i risultati della consultazione pubblica e la situazione evidenziata dalle petizioni;
8.       auspica un chiaro impegno politico da parte della Commissione europea e del vicepresidente incaricato della sostenibilità onde garantire che siano intraprese azioni adeguate per dare risposta alle preoccupazioni sollevate dall'ICE in oggetto;
9.       ribadisce l'impegno della sua commissione per le petizioni a dare voce ai firmatari su questioni concernenti i diritti fondamentali e ricorda che i firmatari che hanno presentato l'ICE "L'acqua è un diritto" hanno espresso il loro accordo affinché l'acqua sia dichiarata un diritto umano garantito a livello dell'UE;
10.     invita la Commissione, in linea con l'obiettivo primario dell'iniziativa dei cittadini europei "L'acqua è un diritto", a presentare proposte legislative, tra cui ‒ se del caso ‒ una revisione della direttiva quadro sulle acque che riconosca l'accesso universale e il diritto umano all'acqua; chiede inoltre che l'accesso universale ad acqua potabile sicura e ai servizi igienico-sanitari sia riconosciuto nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea;
11.     sottolinea che se la Commissione ignorerà ICE riuscite e ampiamente sostenute nel quadro del meccanismo democratico istituito dal trattato di Lisbona, l'UE in quanto tale perderà credibilità agli occhi dei cittadini;
12.     invita la Commissione ad adottare misure di informazione ed educazione a livello europeo per promuovere la cultura dell'acqua come bene comune, misure di sensibilizzazione e promozione a favore di comportamenti individuali più consapevoli (risparmio idrico) e misure per la definizione consapevole di politiche di gestione delle risorse naturali, nonché per il sostegno di una gestione pubblica, partecipativa e trasparente;
13.     reputa necessaria l'elaborazione di politiche delle acque che incoraggino l'uso razionale, il riciclo e il riuso della risorsa idrica, elementi essenziali per una gestione integrata; ritiene che ciò consentirà di ridurre i costi, contribuirà alla tutela delle risorse naturali e assicurerà una gestione adeguata dell'ambiente;
14.     invita la Commissione a disincentivare e ad assoggettare a studi di impatto ambientale le pratiche dell'accaparramento delle acque e della fratturazione idraulica;
Diritto all'acqua e ai servizi igienico-sanitari
15.     ricorda che l'ONU afferma che il diritto umano all'approvvigionamento idrico e alle strutture igienico-sanitarie riconosce a chiunque il diritto all'acqua per l'utilizzo personale e domestico che sia di elevata qualità, sicura, accessibile fisicamente ed economicamente, sufficiente e accettabile; sottolinea che un'ulteriore raccomandazione dell'ONU prevede che i pagamenti per i servizi idrici, ove siano previsti, debbano ammontare al massimo al 3% del reddito familiare;
16.     sostiene il relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto umano all'acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari e pone l'accento sull'importanza del suo lavoro e di quello del suo predecessore ai fini del riconoscimento di tale diritto;
17.     deplora che nell'UE a 28 vi sia ancora più di un milione di persone che non hanno accesso a forniture di acqua potabile e sicura e che quasi il 2 % della popolazione non abbia accesso a servizi igienico-sanitari, stando al programma World Water Assessment (WWAP); esorta, pertanto, la Commissione ad agire immediatamente;
18.     invita la Commissione a riconoscere l'importanza del diritto umano all'acqua e alle strutture igienico-sanitarie come bene pubblico e valore fondamentale per tutti i cittadini dell'UE, e non come merce; esprime preoccupazione per il fatto che dal 2008, a causa della crisi finanziaria ed economica e delle politiche di austerità che hanno causato un aumento della povertà in Europa e un incremento delle famiglie a basso reddito, un sempre maggior numero di persone abbia difficoltà a pagare le bollette per i servizi idrici e che l'accessibilità economica stia diventando un problema che desta crescente preoccupazione; si oppone alla sospensione dei servizi idrici e all'interruzione forzata della fornitura di acqua e chiede agli Stati membri di porre immediatamente fine a situazioni siffatte, quando sono dovute a fattori socioeconomici nelle famiglie a basso reddito; valuta positivamente il fatto che in alcuni Stati membri vengano utilizzate "banche dell'acqua" o quote minime di acqua nel tentativo di aiutare le persone più vulnerabili a far fronte ai costi delle utenze, in modo da garantire l'acqua in quanto componente inalienabile dei diritti fondamentali;
19.     invita la Commissione, in considerazione degli effetti della recente crisi economica, a collaborare con gli Stati membri e con le autorità regionali e locali per condurre uno studio sulle questioni relative alla povertà idrica, compresi gli aspetti dell'accesso all'acqua e della sua accessibilità economica; sollecita la Commissione a sostenere e ad agevolare ulteriormente la cooperazione senza scopo di lucro tra gli operatori idrici onde fornire un aiuto alle zone meno sviluppate e rurali e favorire l'accesso a un'acqua di buona qualità per tutti i cittadini in tali zone;
20.     invita la Commissione a individuare i settori in cui la scarsità d'acqua è un problema esistente o potenziale e ad aiutare gli Stati membri, le regioni e le zone interessate, in particolare le zone rurali e le aree urbane degradate, ad affrontare adeguatamente la questione;
21.     sottolinea che la presunta neutralità della Commissione per quanto riguarda la proprietà e la gestione dell'acqua è in contraddizione con i programmi di privatizzazione imposti ad alcuni Stati membri dalla troika;
22.     riconosce che, come affermato nella direttiva quadro sulle acque, l'acqua non è un prodotto di scambio ma un bene pubblico essenziale per la vita e la dignità umane e ricorda alla Commissione che le norme del trattato impongono all'UE di rimanere neutrale rispetto alle decisioni nazionali che disciplinano il regime di proprietà delle imprese erogatrici di servizi idrici, e che pertanto la Commissione non dovrebbe in nessun caso promuovere la privatizzazione delle aziende idriche nel quadro di un programma di aggiustamento economico o nell'ambito di qualsiasi altra procedura in materia di coordinamento della strategia economica dell'UE; invita, pertanto, la Commissione, dato che si tratta di servizi di interesse generale e quindi prevalentemente nell'interesse pubblico, a escludere in modo permanente l'acqua e i servizi igienico-sanitari dalle norme sul mercato interno e da qualsiasi accordo commerciale e a far sì che tali servizi siano forniti a prezzi accessibili, e invita la Commissione e gli Stati membri a provvedere affinché tali servizi siano gestiti sotto il profilo tecnico, finanziario e amministrativo in modo efficiente, efficace e trasparente;
23.     invita gli Stati membri e la Commissione a ripensare e a rifondare la gestione della politica idrica sulla base di una partecipazione attiva, intesa come trasparenza e apertura del processo decisionale ai cittadini;
24.     ritiene che, in merito alla regolamentazione e al controllo, sia necessario tutelare la proprietà pubblica dell'acqua incoraggiando il ricorso a modelli di gestione pubblici, trasparenti e partecipativi in cui l'autorità che detiene la proprietà pubblica abbia la facoltà, soltanto in alcuni casi, di attribuire all'iniziativa privata alcuni compiti di gestione, secondo condizioni rigorosamente regolamentate e salvaguardando costantemente il diritto ad avvalersi della risorsa e di adeguate strutture igienico-sanitarie;
25.     invita la Commissione e gli Stati membri a garantire un approvvigionamento idrico capillare caratterizzato da prezzi abbordabili, elevata qualità e condizioni di lavoro eque, che sia soggetto a controllo democratico;
26.     invita gli Stati membri a sostenere la promozione dell'educazione e le campagne di sensibilizzazione rivolte ai cittadini onde preservare e risparmiare le risorse idriche e garantire una maggiore partecipazione civica;
27.     invita gli Stati membri a garantire un accesso indiscriminato ai servizi idrici assicurandone la fornitura a tutti, compresi i gruppi di utenti emarginati;
28.     invita la Commissione, la Banca europea per gli investimenti e gli Stati membri a sostenere i comuni dell'UE che non dispongono del capitale necessario per accedere all'assistenza tecnica, ai finanziamenti dell'UE disponibili e a prestiti a lungo termine a tassi d'interesse agevolati, in particolare allo scopo di provvedere alla manutenzione e al rinnovamento delle infrastrutture idriche in modo da garantire servizi idrici di elevata qualità ed estendere i servizi di approvvigionamento idrico e igienico-sanitari ai gruppi più vulnerabili della popolazione, tra cui gli indigenti e coloro che risiedono nelle regioni ultraperiferiche e remote; pone l'accento sull'importanza di una governance aperta, democratica e partecipativa per garantire che nella gestione delle risorse idriche siano adottate le soluzioni più efficaci sotto il profilo dei costi, a vantaggio della società; invita la Commissione e gli Stati membri ad assicurare piena trasparenza delle risorse finanziarie generate attraverso il ciclo di gestione dell'acqua;
29.     riconosce che l'approvvigionamento idrico e la fornitura di servizi igienico-sanitari sono servizi di interesse generale e che l'acqua non è una merce, ma un bene comune, e dovrebbe pertanto essere fornita a prezzi accessibili nel rispetto del diritto delle persone a una qualità minima dell'acqua, prevedendo l'applicazione di una tariffa progressiva; chiede agli Stati membri di garantire che la fatturazione dell'acqua e dei servizi igienico-sanitari sia basata su un sistema giusto, equo, trasparente e adeguato, in modo da assicurare a tutti i cittadini, a prescindere dal reddito, l'accesso a servizi di qualità elevata;
30.     osserva che l'acqua deve essere considerata una risorsa ecosociale e non un mero fattore di produzione;
31.     ricorda che l'accesso all'acqua è essenziale per l'agricoltura al fine di realizzare il diritto a un'alimentazione adeguata;
32.     invita la Commissione a sostenere attivamente gli sforzi degli Stati membri volti a sviluppare e migliorare l'infrastruttura che fornisce accesso ai servizi di irrigazione, alle fognature e all'approvvigionamento di acqua potabile;
33.     ritiene che la direttiva sull'acqua potabile abbia contribuito notevolmente alla disponibilità di acqua potabile di qualità elevata nell'UE e chiede che la Commissione e gli Stati membri intraprendano azioni risolute per realizzare i benefici ambientali e sanitari che si possono ottenere incoraggiando il consumo di acqua di rubinetto;
34.     ricorda agli Stati membri la loro responsabilità in termini di attuazione del diritto dell'UE; li esorta ad attuare pienamente la direttiva sull'acqua potabile e tutta la legislazione afferente; ricorda loro di individuare le loro priorità di spesa e di sfruttare appieno le opportunità di sostegno finanziario dell'UE nel settore dell'acqua offerte dal nuovo periodo di programmazione finanziaria (2014-2020), in particolare attraverso investimenti prioritari incentrati proprio sulla gestione delle risorse idriche;
35.     ricorda le conclusioni della relazione speciale della Corte dei conti relativa all'integrazione nella PAC degli obiettivi della politica dell'UE in materia di acque, in cui viene rilevato che "gli strumenti attualmente utilizzati dalla PAC per affrontare le questioni in materia di risorse idriche non hanno sinora consentito sufficienti progressi nel conseguire gli ambiziosi obiettivi strategici fissati per quanto riguarda le acque"; ritiene che una migliore integrazione tra la politica in materia di acque e altre politiche, come quella agricola, sia essenziale per migliorare la qualità delle risorse idriche in tutta Europa;
36.     pone in rilievo l'importanza di una piena ed efficace attuazione della direttiva quadro sulle acque, della direttiva sulle acque sotterranee, della direttiva sull'acqua potabile e della direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane e ritiene fondamentale coordinare meglio la loro attuazione con quella delle direttive relative all'ambiente marino, alla biodiversità e alla protezione dalle inondazioni; esprime la preoccupazione che gli strumenti di politica settoriale dell'Unione non contribuiscano in misura sufficiente al raggiungimento degli standard di qualità ambientale per le sostanze prioritarie e alla riduzione progressiva di scarichi, emissioni e perdite delle sostanze pericolose prioritarie conformemente all'articolo 4, paragrafo 1, lettera a), e all'articolo 16, paragrafo 6, della direttiva quadro sulle acque; invita la Commissione e gli Stati membri a tenere presente che la gestione dell'acqua deve essere integrata quale elemento trasversale nella legislazione relativa ad altri aspetti essenziali per tale risorsa, quali ad esempio l'energia, l'agricoltura, la pesca e il turismo, al fine di prevenire l'inquinamento causato ad esempio da siti illegali e non regolamentati di deposito dei rifiuti pericolosi o di estrazione o prospezione petrolifere; ricorda che la condizionalità prevista dalla PAC stabilisce criteri di gestione obbligatori basati sulle norme dell'UE esistenti applicabili agli agricoltori, come pure norme in materia di buone condizioni agronomiche e ambientali, anche in relazione all'acqua; ricorda che gli agricoltori devono rispettare tali norme per ricevere integralmente i pagamenti a titolo della PAC;
37.     chiede agli Stati membri di:
          - prevedere l'obbligo per i distributori di acqua di indicare le caratteristiche fisico-chimiche dell'acqua nella relativa bolletta;
          - elaborare piani urbani secondo la disponibilità delle risorse idriche;
          - aumentare i controlli e il monitoraggio degli inquinanti, nonché prevedere azioni immediate intese a eliminare le sostanze tossiche e provvedere all'igienizzazione;
          - adottare misure intese a ridurre le notevoli perdite dalle tubature in Europa e ammodernare le reti per la fornitura d'acqua inadeguate;
38.     reputa necessario stabilire un ordine di priorità o una gerarchia per l'uso sostenibile delle risorse idriche; invita la Commissione a presentare un'analisi e delle proposte, a seconda dei casi;
39.     sottolinea che gli Stati membri si sono impegnati a garantire il diritto umano all'acqua attraverso il loro appoggio alla dichiarazione delle Nazioni Unite, e che tale diritto è sostenuto dalla maggior parte dei cittadini e degli operatori dell'UE;
40.     sottolinea che il sostegno all'iniziativa dei cittadini europei "L'acqua è un diritto" e ai suoi obiettivi è stato ulteriormente dimostrato dal grande numero di cittadini che, in paesi come Germania, Austria, Belgio, Slovacchia, Slovenia, Grecia, Finlandia, Spagna, Lussemburgo, Italia e Irlanda hanno espresso il proprio parere sulla questione dell'acqua e della sua proprietà e fornitura;
41.     rileva che, dal 1988, la sua commissione per le petizioni ha ricevuto una notevole mole di petizioni di cittadini di vari Stati membri dell'UE che esprimono preoccupazione per la fornitura e la qualità dell'acqua e il trattamento delle acque reflue; richiama l'attenzione su una serie di fattori negativi deplorati dai firmatari – come le discariche di rifiuti, l'assenza di controlli efficaci della qualità delle acque da parte delle autorità nonché le pratiche agricole e industriali irregolari o illecite – che sono responsabili della cattiva qualità dell'acqua e hanno quindi un impatto sull'ambiente e sulla salute dell'uomo e degli animali; ritiene che queste petizioni dimostrino un interesse reale dei cittadini per l'applicazione completa e l'ulteriore sviluppo di una legislazione europea sostenibile sulle risorse idriche;
42.     esorta vivamente la Commissione a prendere seriamente in considerazione le preoccupazioni e gli allarmi espressi dai cittadini in tali petizioni e di darvi seguito, data soprattutto la necessità urgente di affrontare il problema della diminuzione delle risorse idriche a causa dell'uso smodato e del cambiamento climatico, finché c'è ancora tempo per prevenire l'inquinamento e la cattiva gestione; esprime la propria preoccupazione per il numero di procedure di infrazione in materia di qualità e gestione delle acque;
43.     invita gli Stati membri a completare i propri piani di gestione dei bacini idrografici con urgenza e come elemento chiave dell'applicazione della direttiva quadro in materia di acque e ad attuarli in modo corretto e nel pieno rispetto dei preminenti criteri ecologici; richiama l'attenzione sul fatto che alcuni Stati membri si trovano sempre di più ad affrontare alluvioni dannose che hanno un grave impatto sulla popolazione locale; sottolinea che i piani di gestione dei bacini idrografici nell'ambito della direttiva quadro in materia di acque e i piani di gestione del rischio di alluvioni nell'ambito della direttiva sulle alluvioni costituiscono una grande opportunità per sfruttare le sinergie esistenti tra questi strumenti, contribuendo così a garantire acqua potabile in quantità sufficiente, riducendo nel contempo i rischi di alluvione; ricorda, inoltre, che ogni Stato membro dovrebbe disporre di una pagina web centralizzata per fornire informazioni sull'attuazione della direttiva quadro in materia di acque, in modo da facilitare una panoramica della gestione e della qualità delle acque;
Servizi idrici e mercato interno
44.     segnala che paesi di tutta l'UE, tra cui Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda, Germania e Italia, hanno constatato che la perdita potenziale o effettiva della proprietà pubblica dei servizi idrici è diventata una fonte di grande preoccupazione per i cittadini; ricorda che la scelta del metodo relativo alla gestione idrica è basata sul principio di sussidiarietà, come previsto dall'articolo 14 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea e dal protocollo (n. 26) sui servizi di interesse generale, il quale sottolinea la particolare importanza che rivestono i servizi pubblici ai fini della coesione sociale e territoriale dell'Unione; ricorda che le società responsabili dell'approvvigionamento idrico e dei servizi fognari sono operatori che forniscono servizi di interesse generale e hanno la missione globale di fornire a tutta la popolazione acqua di qualità elevata a prezzi socialmente accettabili, riducendo al minimo l'impatto negativo sull'ambiente delle acque reflue;
45.     sottolinea che, in linea con il principio di sussidiarietà, la Commissione dovrebbe rimanere neutrale in merito alle decisioni degli Stati membri riguardanti la proprietà dei servizi idrici e non dovrebbe promuovere la privatizzazione di questi ultimi, per via legislativa o per altre vie;
46.     ricorda che la scelta di riassegnare i servizi idrici ai comuni dovrebbe continuare a essere garantita in futuro senza alcuna limitazione e può essere mantenuta nell'ambito della gestione locale, se così stabilito dalle autorità pubbliche competenti; ricorda che l'acqua è un diritto umano fondamentale che dovrebbe essere accessibile e alla portata di tutti; evidenzia che gli Stati membri hanno il dovere di assicurare che l'accessibilità dell'acqua sia garantita per tutti, indipendentemente dall'operatore, e di provvedere affinché gli operatori forniscano acqua potabile sicura e servizi igienici adeguati;
47.     sottolinea che la natura speciale dei servizi idrici e igienico-sanitari, in termini ad esempio di produzione, distribuzione e trattamento, rende assolutamente necessaria la loro esclusione da qualsiasi accordo commerciale oggetto di negoziazione o di esame da parte dell'UE; esorta la Commissione a garantire l'esclusione giuridicamente vincolante dei servizi idrici, igienico-sanitari e concernenti le acque reflue dai negoziati in corso per il partenariato transatlantico su commercio e investimenti (TTIP) e per l'accordo sugli scambi di servizi; sottolinea che qualsiasi futuro accordo in materia di scambi e investimenti dovrebbe comprendere clausole relative a un accesso reale all'acqua potabile per la popolazione del paese terzo interessato dall'accordo, in linea con l'impegno di lunga data dell'Unione a favore di uno sviluppo sostenibile e dei diritti umani, e che un effettivo accesso all'acqua potabile per la popolazione del paese terzo interessato dall'accordo deve rappresentare un presupposto fondamentale di qualsiasi futuro accordo di libero scambio;
48.     ricorda l'elevato numero di petizioni contrarie all'inclusione di servizi pubblici essenziali, come l'acqua e i servizi igienico-sanitari, nelle trattative del partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP); invita la Commissione a rafforzare la responsabilità dei fornitori di acqua;
49.     invita la Commissione a fungere da facilitatore per promuovere la cooperazione fra gli operatori idrici tramite la condivisione delle migliori prassi normative e di altra natura nonché di altre iniziative, dell'apprendimento reciproco e di esperienze comuni, come pure favorendo l'analisi comparativa volontaria; si compiace dell'invito, contenuto nella comunicazione della Commissione, a una maggiore trasparenza nel settore idrico e riconosce gli sforzi sinora profusi, constatando nel contempo che le analisi comparative non possono che essere di natura volontaria, date le enormi differenze tra i servizi idrici in tutta Europa dovute alle chiare specificità regionali e locali; constata altresì che eventuali analisi siffatte che includano unicamente indicatori finanziari non dovrebbero essere equiparate a misure a favore della trasparenza e che occorre includere anche altri criteri di importanza fondamentale per i cittadini, quali ad esempio la qualità dell'acqua, le misure intese ad attenuare i problemi dell'accessibilità economica, le informazioni su quale percentuale della popolazione ha accesso a forniture idriche adeguate e i livelli di partecipazione pubblica alla gestione delle risorse idriche, in un modo che risulti comprensibile sia per i cittadini che per gli organi di regolamentazione;
50.     sottolinea l'importanza delle autorità di regolamentazione nazionali nel garantire condizioni di concorrenza eque e libere tra i fornitori di servizi, agevolando un'attuazione più rapida per quanto concerne le soluzioni innovative e il progresso tecnico, promuovendo l'efficienza e la qualità dei servizi idrici e assicurando la tutela degli interessi dei consumatori; invita la Commissione a sostenere le iniziative a favore della cooperazione normativa nell'UE onde imprimere un'accelerazione all'analisi comparativa, all'apprendimento reciproco e allo scambio delle migliori pratiche in materia di regolamentazione;
51.     ritiene che occorra effettuare una valutazione dei progetti e dei programmi europei in materia di acqua e di servizi igienico-sanitari dal punto di vista dei diritti umani, al fine di sviluppare politiche, linee guida e pratiche adeguate; invita la Commissione a istituire un sistema di parametri di riferimento (qualità dell'acqua, accessibilità, sostenibilità, copertura, ecc.) al fine di migliorare la qualità dell'approvvigionamento idrico pubblico e dei servizi igienico-sanitari in tutta l'UE, nell'intento di favorire la partecipazione attiva dei cittadini;
52.     ricorda che le concessioni in materia di servizi idrici e igienico-sanitari sono soggette ai principi stabiliti nel trattato e devono pertanto essere aggiudicati conformemente ai principi di trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione;
53.     sottolinea che i servizi di produzione, distribuzione e trattamento dell'acqua e i servizi igienico-sanitari devono restare esclusi dalla direttiva in materia di concessioni, anche nel caso di una futura revisione della direttiva;
54.     ricorda che la direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno ha suscitato una forte opposizione da parte della società civile per quanto riguarda numerosi aspetti, tra cui le questioni relative ai servizi di interesse economico generale quali i servizi di distribuzione e di fornitura idrica e la gestione delle acque reflue; ricorda che le istituzioni dell'UE sono state infine costrette a includere questi settori fra i servizi che non possono essere liberalizzati;
55.     sottolinea l'importanza dello scambio di migliori prassi nei partenariati pubblico-pubblico e pubblico-privato sulla base di una cooperazione senza scopo di lucro tra gli operatori idrici e si rallegra del fatto che la Commissione abbia riconosciuto per la prima volta, nella comunicazione, l'importanza dei partenariati pubblico-pubblico;
56.     accoglie con favore gli sforzi efficaci di alcuni comuni volti a rafforzare la partecipazione pubblica al miglioramento della prestazione di servizi idrici e alla protezione delle risorse idriche e ricorda che le istituzioni locali svolgono un ruolo importante nel processo decisionale per quanto riguarda la gestione delle acque;
57.     invita il Comitato delle regioni ad accrescere il proprio coinvolgimento in questa ICE, al fine di incoraggiare una maggiore partecipazione al problema da parte delle autorità regionali;
58.     rammenta l'obbligo di garantire l'accesso alla giustizia e alle informazioni in materia ambientale nonché la partecipazione pubblica al processo decisionale, come stabilito dalla convenzione di Aarhus; invita pertanto la Commissione, gli Stati membri e i relativi enti locali e regionali a rispettare i principi e i diritti sanciti dalla convenzione di Aarhus; ricorda che sensibilizzare i cittadini ai loro diritti è fondamentale per ottenerne la più ampia partecipazione al processo decisionale; esorta pertanto la Commissione a definire in modo proattivo una campagna di informazione per i cittadini europei sulle conquiste sancite dalla convenzione in materia di trasparenza e riguardo agli strumenti efficaci già a loro disposizione, nonché a rispettare le disposizioni relative alle istituzioni dell'UE; invita la Commissione a sviluppare criteri di trasparenza, assunzione di responsabilità e partecipazione quali strumenti per migliorare le prestazioni, la sostenibilità e il rapporto costi-benefici dei servizi idrici;
59.     esorta gli Stati membri e le autorità regionali e locali a progredire verso un autentico accordo sociale per l'acqua, allo scopo di garantire la disponibilità, la stabilità e la gestione sicura di tale risorsa, in particolare attuando politiche come l'istituzione di fondi di solidarietà per l'acqua e altri meccanismi di azione sociale per sostenere le persone che non sono in grado di permettersi l'accesso ai servizi idrici e igienico-sanitari, in modo da soddisfare i requisiti in materia di sicurezza dell'approvvigionamento ed evitare di mettere a repentaglio il diritto umano all'acqua; incoraggia tutti gli Stati membri a introdurre meccanismi di azione sociale come quelli già in atto in alcuni Stati membri dell'UE, per assicurare la fornitura di acqua potabile ai cittadini in seria difficoltà;
60.     invita la Commissione a organizzare una condivisione di esperienze tra gli Stati membri in relazione all'aspetto sociale della politica in materia di acque;
61.     condanna il fatto che la negazione dell'erogazione di servizi idrici e igienico-sanitari alle comunità svantaggiate e vulnerabili sia usata in modo coercitivo in alcuni Stati membri; ribadisce che in alcuni Stati membri la chiusura delle fonti pubbliche da parte delle autorità ha reso difficile l'accesso all'acqua per i gruppi più vulnerabili;
62.     osserva che gli Stati membri dovrebbero prestare una particolare attenzione alle esigenze dei gruppi vulnerabili della società e garantire inoltre l'accessibilità economica e la disponibilità di acqua di qualità per coloro che si trovano in uno stato di necessità;
63.     invita gli Stati membri a designare un mediatore per i servizi idrici onde garantire che le questioni legate all'acqua, come i reclami e i suggerimenti in merito alla qualità del servizio idrico e al relativo accesso, siano trattati da un organo indipendente;
64.     incoraggia le aziende di distribuzione dell'acqua a reinvestire i profitti economici generati dal ciclo di gestione dell'acqua nel mantenimento e nel miglioramento dei servizi idrici e nella protezione delle risorse idriche; ricorda che il principio del recupero dei costi dei servizi idrici comprende i costi ambientali e relativi alle risorse, rispettando nel contempo sia i principi di equità e trasparenza e il diritto umano all'acqua, sia il dovere che spetta agli Stati membri di adempiere agli obblighi in materia di recupero dei costi nel miglior modo possibile, nella misura in cui ciò non compromette le finalità e il conseguimento degli obiettivi della direttiva quadro in materia di acque; raccomanda di porre fine alle pratiche che sottraggono risorse economiche dal settore idrico per finanziare altre politiche, ad esempio la prassi di includere nelle bollette per i servizi idrici diritti di concessione che non sono stati destinati alle infrastrutture idriche; segnala lo stato preoccupante delle infrastrutture in alcuni Stati membri, dove l'acqua viene sprecata a causa di perdite dovute al cattivo stato e all'obsolescenza delle reti di distribuzione, e chiede agli Stati membri di potenziare gli investimenti destinati al miglioramento di tali infrastrutture nonché di altri servizi idrici, come premessa per poter garantire in futuro il diritto umano all'acqua;
65.     invita la Commissione ad assicurare che le autorità competenti mettano a disposizione dei cittadini interessati tutte le informazioni sulla qualità e la gestione delle acque, in un formato facilmente accessibile e comprensibile, e che i cittadini siano pienamente informati e consultati in tempo utile riguardo a tutti i progetti di gestione delle acque; rileva inoltre che, nell'ambito della consultazione pubblica avviata dalla Commissione, l'80% dei partecipanti ha considerato essenziale migliorare la trasparenza del monitoraggio della qualità dell'acqua;
66.     invita la Commissione a monitorare attentamente l'utilizzo diretto e indiretto dei finanziamenti dell'UE per progetti di gestione idrica e ad assicurare che tali finanziamenti siano utilizzati solo per i progetti per i quali sono stati stanziati, tenendo conto del fatto che l'accesso all'acqua è fondamentale per ridurre le disparità tra i cittadini dell'UE e incrementare la coesione economica, sociale e territoriale dell'UE; invita, in tale contesto, la Corte dei conti a verificare che i criteri di efficacia e di sostenibilità siano rispettati in modo soddisfacente;
67.     invita la Commissione a prendere in considerazione l'attuale mancanza di investimenti a favore di una gestione equilibrata delle acque, tenendo conto che si tratta di uno dei beni comuni dei cittadini dell'UE;
68.     chiede, pertanto, una maggiore trasparenza tra gli operatori idrici, in particolare mediante lo sviluppo di un codice di governance pubblica e privata per le aziende di distribuzione dell'acqua nell'UE; ritiene che tale codice debba essere basato sul principio di efficienza ed essere sempre soggetto alle disposizioni ambientali ed economiche nonché relative alle infrastrutture e alla partecipazione del pubblico di cui alla direttiva quadro sulle acque; chiede altresì l'istituzione di un organo di regolamentazione nazionale;
69.     invita la Commissione a rispettare il principio di sussidiarietà e le competenze in materia di acque per quanto riguarda sia i vari livelli di governo sia le associazioni locali che gestiscono i servizi idrici (le sorgenti e la loro conservazione);
70.     si rammarica che la direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane non sia stata ancora pienamente attuata negli Stati membri; chiede che siano utilizzate, in via prioritaria, risorse finanziarie dell'Unione nei settori in cui la normativa ambientale dell'UE non è rispettata, compreso il trattamento delle acque reflue; osserva che i tassi di conformità risultano più elevati laddove i costi sono stati recuperati ed è stato applicato il principio "chi inquina paga" e invita la Commissione a rivedere l'adeguatezza degli attuali strumenti per assicurare un livello elevato di protezione e il miglioramento della qualità dell'ambiente;
71.     segnala che il settore dei servizi in campo idrico presenta un enorme potenziale per la creazione di posti di lavoro attraverso l'integrazione ambientale, come pure per la promozione dell'innovazione mediante il trasferimento di tecnologie tra i settori e l'applicazione di ricerca, sviluppo e innovazione all'intero ciclo dell'acqua; chiede pertanto che sia prestata una particolare attenzione al potenziamento dell'utilizzo sostenibile dell'acqua in quanto energia rinnovabile;
71 bis. incoraggia la Commissione a mettere a punto un quadro legislativo europeo per il riutilizzo degli effluenti trattati, soprattutto al fine di proteggere le attività e le aree sensibili; invita altresì la Commissione a promuovere la condivisione di esperienze tra le agenzie sanitarie dei diversi Stati membri;
72.     esorta la Commissione a garantire che, in tutte le revisioni della direttiva quadro in materia di acque, le valutazioni quantitative dei problemi di accessibilità economica dell'acqua diventino un requisito obbligatorio delle relazioni stilate dagli Stati membri per quanto concerne l'attuazione della direttiva quadro in materia di acque;
73.     chiede alla Commissione di prendere in esame la possibilità che la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (Eurofound) controlli le questioni relative all'accessibilità economica dell'acqua nei 28 Stati membri e riferisca in proposito;
74.     ricorda che la sana gestione dell'acqua si sta rivelando una sfida prioritaria per i prossimi decenni, sia sul piano ecologico che su quello ambientale, in quanto soddisfa il fabbisogno energetico e agricolo e risponde agli imperativi economici e sociali;
Internalizzazione del costo dell'inquinamento
75.     ricorda che, attraverso le bollette per i servizi idrici, i cittadini dell'UE sostengono il costo della purificazione e del trattamento delle acque ed evidenzia che l'attuazione di politiche che permettono di coniugare e conciliare efficacemente la tutela delle risorse idriche con il contenimento dei costi, come ad esempio l'approccio basato sul "controllo alla fonte", è più efficiente ed è preferibile sotto il profilo finanziario; ricorda che, come indicato nella relazione 2015 dell'Agenzia europea dell'ambiente, oltre il 40% dei fiumi e delle acque costiere risente di un vasto inquinamento causato dall'agricoltura, mentre tra il 20% e il 25% risente dell'inquinamento derivante da fonti puntuali quali impianti industriali, sistemi fognari e reti di gestione delle acque reflue; sottolinea l'importanza di un'efficace attuazione della direttiva quadro sulle acque e della direttiva sull'acqua potabile, di un migliore coordinamento per quanto riguarda la loro attuazione, di una maggiore coerenza in sede di elaborazione della legislazione e dell'adozione di misure più proattive per favorire il risparmio delle risorse idriche e aumentare in modo significativo l'efficienza nell'uso dell'acqua in tutti i settori (industrie, famiglie, agricolture, reti di distribuzione); rammenta che garantire la tutela sostenibile delle aree naturali, come gli ecosistemi di acqua dolce, non soltanto è fondamentale ai fini dello sviluppo e determinante per fornire acqua potabile, ma riduce anche i costi per cittadini e operatori;
Politica esterna e politica di sviluppo dell'UE nel settore delle acque
76.     sottolinea che le politiche di sviluppo dell'UE devono integrare pienamente l'accesso universale all'acqua e ai servizi igienico-sanitari tramite la promozione di partenariati pubblico-pubblico e pubblico-privato basati sulla solidarietà tra gli operatori idrici e i lavoratori in diversi paesi, nonché ricorrere a una gamma di strumenti per promuovere le migliori pratiche mediante il trasferimento di conoscenze e i programmi di sviluppo e di cooperazione nel settore; ribadisce che le politiche di sviluppo degli Stati membri dell'UE dovrebbero riconoscere la dimensione di diritto umano dell'accesso all'acqua potabile sicura e ai servizi igienico-sanitari, e che un approccio basato sui diritti richiede sia il sostegno nei confronti della legislazione e del finanziamento che il rafforzamento del ruolo della società civile per concretizzare nella pratica il rispetto di tali diritti;
77.     ribadisce che l'accesso all'acqua potabile in quantità e di qualità sufficienti è un diritto umano fondamentale e ritiene che i governi nazionali abbiano il dovere di adempiere a tale obbligo;
78.     sottolinea, a norma dell'attuale legislazione dell'UE e dei relativi requisiti, l'importanza di una valutazione regolare della qualità, della purezza e della sicurezza dell'acqua e delle risorse idriche all'interno dell'Unione come pure fuori dai suoi confini;
79.     sottolinea che, nello stanziamento dei fondi dell'UE e nella programmazione dell'assistenza, è opportuno attribuire un'elevata priorità all'assistenza finalizzata ad assicurare acqua potabile sicura e servizi igienico-sanitari; invita la Commissione a garantire un adeguato sostegno finanziario alle misure di sviluppo delle capacità nel settore idrico, facendo affidamento sulle piattaforme e sulle iniziative esistenti a livello internazionale e collaborando con esse;
80.     insiste sul fatto che occorre attribuire un'elevata priorità al settore WASH nei paesi in via di sviluppo, sia in termini di aiuti pubblici allo sviluppo (APS) che nei bilanci nazionali; ricorda che la gestione delle acque è una responsabilità collettiva; è favorevole a un approccio caratterizzato da apertura mentale per quanto concerne le diverse modalità di aiuto, ma anche da una rigorosa aderenza ai principi di efficacia, alla coerenza politica a favore dello sviluppo e a un'attenzione costantemente rivolta all'eliminazione della povertà e all'ottimizzazione dell'impatto in termini di sviluppo; sostiene, a tal riguardo, il coinvolgimento delle comunità locali nella realizzazione di progetti nei paesi in via di sviluppo, nonché il principio della proprietà comunitaria;
81.     sottolinea che, sebbene i progressi verso l'obiettivo di sviluppo del millennio relativo all'acqua potabile sicura vadano nella giusta direzione, 748 milioni di persone nel mondo sono prive di accesso a un migliore approvvigionamento idrico e si stima che almeno 1,8 miliardi di persone bevano acqua contaminata da feci, mentre l'obiettivo relativo ai servizi igienico-sanitari è lungi dall'essere raggiunto;
82.     ricorda che garantire una gestione sostenibile delle acque sotterranee è indispensabile per la riduzione della povertà e la condivisione della prosperità, in quanto tali acque hanno la potenzialità di fornire una fonte migliorata di acqua potabile a milioni di persone povere nelle zone urbane e rurali;
83.     invita la Commissione a includere l'acqua quale parte dell'Agenda di cambiamento, unitamente all'agricoltura sostenibile;
84.     ritiene che l'acqua debba rivestire un ruolo centrale nei lavori di preparazione ai due grandi eventi internazionali del 2015, ossia il vertice sull'agenda post-2015 e la conferenza COP21 sul cambiamento climatico; sostiene fermamente, a tale riguardo, l'inclusione di obiettivi ambiziosi e di vasta portata relativamente all'acqua e ai servizi igienico-sanitari, come ad esempio l'obiettivo di sviluppo sostenibile n. 6 che consiste nel garantire la disponibilità e una gestione sostenibile dei servizi idrici e igienico-sanitari per tutti entro il 2030, da adottare nel settembre 2015; ribadisce che porre fine alla povertà attraverso il processo post-2015 è possibile soltanto se si garantisce a tutti l'accesso ad acqua pulita, a servizi igienico-sanitari di base e a condizioni igieniche; sottolinea che il raggiungimento di tutti gli obiettivi di sviluppo sostenibile richiede la mobilitazione di finanziamenti da destinare allo sviluppo molto più ingenti di quelli attualmente forniti, da parte sia dei paesi sviluppati che da quelli in via di sviluppo; chiede l'istituzione di un meccanismo di monitoraggio globale volto a valutare i progressi compiuti in termini di accesso universale all'acqua potabile, uso sostenibile e sviluppo delle risorse idriche e rafforzamento di una gestione delle risorse idriche equa, partecipativa e responsabile in tutti i paesi; esorta la Commissione a garantire che gli aiuti siano spesi in modo efficace e siano maggiormente diretti al settore WASH in vista dell'agenda per lo sviluppo post 2015;
85.     sottolinea l'aumento del rischio di scarsità di acqua causato dai cambiamenti climatici; esorta la Commissione e gli Stati membri a includere fra i temi della COP21 anche la gestione strategica delle risorse idriche e piani di adattamento a lungo termine, onde integrare un approccio idrico resiliente al clima nel futuro accordo globale sul clima; sottolinea che un'infrastruttura idrica resiliente ai cambiamenti climatici è fondamentale ai fini dello sviluppo e della riduzione della povertà; ribadisce che, in assenza di sforzi costanti intesi a mitigare le conseguenze del cambiamento climatico, come pure di una migliore gestione delle risorse idriche, potrebbero essere compromessi i progressi compiuti verso gli obiettivi di riduzione della povertà, gli obiettivi di sviluppo del millennio e lo sviluppo sostenibile in tutte le sue dimensioni economiche, sociali e ambientali;
86.     osserva con preoccupazione che la mancanza di accesso all'acqua e ai servizi igienico-sanitari nei paesi in via di sviluppo può avere un effetto sproporzionato sulle ragazze e sulle donne, in particolare quelle in età scolare, dato che i tassi di assenteismo e di abbandono scolastico sono stati collegati alla mancanza di servizi igienico-sanitari puliti, sicuri e accessibili;
87.     chiede che lo stanziamento dei fondi dell'Unione e degli Stati membri rifletta le raccomandazioni del relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto umano all'acqua potabile sicura e ai servizi igienico-sanitari, in particolare per quanto concerne la promozione delle infrastrutture su piccola scala e la distribuzione di maggiori fondi a favore del funzionamento e della manutenzione, della creazione di capacità e della sensibilizzazione;
88.     osserva con preoccupazione che, secondo il relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto umano all'acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari, le persone che vivono in quartieri degradati devono generalmente pagare di più di quelle che vivono in insediamenti ufficiali per ricevere servizi di qualità scadente e non regolamentati; esorta i paesi in via di sviluppo a dare la priorità agli stanziamenti di bilancio a favore dei servizi destinati alle persone svantaggiate e isolate;
89.     ricorda che l'Organizzazione mondiale della sanità ha affermato che, in una fase iniziale, senza l'applicazione delle ultime tecnologie innovative in materia di trattamento e risparmio idrico, il livello ottimale di acqua va dai 100 ai 200 litri per persona al giorno, mentre per soddisfare i bisogni di base e scongiurare l'insorgere di problemi sanitari sono necessari tra 50 e 100 litri di acqua per persona al giorno; segnala che, in base ai diritti umani fondamentali riconosciuti, è indispensabile fissare un quantitativo minimo per persona per soddisfare le esigenze idriche di base delle popolazioni;
90.     sottolinea che l'accesso a un fabbisogno idrico di base dovrebbe essere un diritto umano fondamentale indiscutibile, implicitamente ed esplicitamente sostenuto dal diritto internazionale, dalle dichiarazioni e dalla prassi degli Stati;
91.     invita i governi, le agenzie umanitarie internazionali, le organizzazioni non governative e le comunità locali ad adoperarsi al fine di assicurare a tutti gli esseri umani un fabbisogno idrico di base e a garantire che l'acqua sia un diritto umano;
92.     invita gli Stati membri a introdurre, in base alle linee guida dell'Organizzazione mondiale della sanità, una politica dei prezzi che rispetti il diritto delle persone al quantitativo minimo di acqua per la sussistenza e che colpisca gli sprechi, prevedendo l'applicazione di una tariffa progressiva proporzionale alla quantità di acqua utilizzata;
93.     incoraggia l'adozione di misure che garantiscano l'impiego razionale del fabbisogno idrico, onde evitare sprechi;
94.     elogia alcuni operatori idrici che dedicano una percentuale del loro fatturato annuo a partenariati sull'acqua nei paesi in via di sviluppo e incoraggia gli Stati membri e l'UE a creare il quadro giuridico necessario per attuare tali partenariati;
95.     invita a monitorare efficacemente i progetti realizzati attraverso gli aiuti esterni; sottolinea la necessità di monitorare strategie e dotazioni di finanziamento per garantire che i fondi stanziati tengano conto delle disparità e delle disuguaglianze esistenti in termini di accesso all'acqua e rispettino i principi dei diritti umani alla non discriminazione, all'accesso alle informazioni e alla partecipazione;
96.     invita la Commissione a rendere l'ammodernamento delle reti obsolete di acqua potabile una priorità nell'ambito del piano di investimenti per l'Europa, inserendo questi progetti nell'elenco dei progetti dell'Unione; pone l'accento sull'effetto leva che tali progetti permetterebbero di esercitare su un'occupazione non delocalizzabile, contribuendo così a dare impulso all'economia verde in Europa;
97.     invita la Commissione a promuovere la condivisione di conoscenze affinché gli Stati membri conducano indagini sullo stato delle reti, il che dovrebbe consentire l'avvio di lavori di ammodernamento intesi a porre fine agli sprechi;
98.     chiede una maggiore trasparenza, onde fornire ai consumatori informazioni più approfondite riguardo all'acqua e contribuire a una gestione più economica delle risorse idriche; incoraggia a tal fine la Commissione a continuare a impegnarsi con gli Stati membri nella condivisione di esperienze a livello nazionale per quanto concerne la creazione di sistemi informativi sull'acqua;
99.     invita la Commissione a studiare l'opportunità di estendere a livello europeo gli strumenti di sostegno finanziario nel settore della cooperazione internazionale relativa all'acqua e ai servizi igienico-sanitari;
100.   sottolinea che una gestione efficiente ed equa delle risorse idriche si basa sulla capacità dei governi locali di fornire servizi; invita pertanto l'UE a sostenere ulteriormente il rafforzamento della gestione delle risorse e delle infrastrutture idriche nei paesi in via di sviluppo, tenendo in particolare considerazione, nel contempo, le esigenze delle popolazioni rurali vulnerabili;
101.   sostiene la piattaforma globale della solidarietà dell'acqua lanciata dal programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) per coinvolgere gli enti locali nella ricerca di soluzioni alle sfide idriche; plaude altresì all'iniziativa "1% di solidarietà per l'acqua e i servizi igienico-sanitari" e ad altre iniziative intraprese dai cittadini e dalle autorità di alcuni Stati membri per sostenere progetti in paesi in via di sviluppo con fondi accantonati dalle bollette dei consumi; rileva che tali iniziative sono state messe in pratica da diverse aziende di servizi idrici; ribadisce l'invito rivolto alla Commissione a incoraggiare meccanismi di solidarietà in questo e in altri settori, ad esempio attraverso la divulgazione di informazioni, l'agevolazione di partenariati e lo scambio di esperienze, anche attraverso un potenziale partenariato fra la Commissione e gli Stati membri, con fondi supplementari dell'UE destinati ai progetti realizzati tramite questa iniziativa; incoraggia in particolare la promozione di partenariati pubblico-pubblico nelle aziende di servizi idrici dei paesi in via di sviluppo, in linea con la Global Water Operators' Partnership Alliance (GWOPA) coordinata dall'agenzia Habitat delle Nazioni Unite;
102.   chiede alla Commissione di reintrodurre lo strumento del Fondo per l'acqua, che si è rilevato efficace nel favorire un migliore accesso ai servizi idrici nei paesi in via di sviluppo, favorendo azioni che rafforzino le capacità delle popolazioni locali;
103.   accoglie con favore il fatto che vi sia un considerevole sostegno, in tutta Europa, alla risoluzione dell'ONU volta a riconoscere l'accesso all'acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari come un diritto umano;
°
°     °
104.   incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione al Consiglio e alla Commissione.

Note
1.GU L 330 del 5.12.1998, pag. 32.
2.GU L 327 del 22.12.2000, pag. 1.
3.GU L 65 dell'11.3.2011, pag. 1.
4.GU L 94 del 28.3.2014, pag. 1.
5.Non ancora pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.
6.A/RES/64/292.
7.A/RES/68/157.
8.GU C 9 E del 15.1.2010, pag. 33.
9.GU C 349 E del 29.11.2013, pag. 9.
10.Testi approvati, P8_TA(2014)0059.


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SCORIE NUCLEARI IN SARDEGNA



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CORTE EUROPEA DIRITTI DELL'UOMO

SENTENZA:


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TORTURA ALLA DIAZ

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Il segreto che uccide
di Giovanni Sarubbi

Da sedici anni c'era chi sapeva la verità sui rifiuti tossici in Campania ma i verbali erano stati secretati.
Oggi la presidente della Camera Laura Boldrini ha desecretato un verbale della commissione parlamentare di indagine sui rifiuti del 1997 contenente le dichiarazioni del pentito di camorra Carmine Schiavone che fu ascoltato dalla commissione. Per 16 anni questo verbale è stato tenuto segreto. Man mano che procedevo nella lettura di questo testo sono stato preso da sentimenti via via crescenti di indignazione, rabbia, disgusto e odio profondo per quanti, pur sapendo, hanno nascosto una situazione ambientale devastante già nota e circoscritta ben 16 anni fa. La magistratura sapeva, sapevano i politici, sapevano le forze di polizia, ma nulla è stato fatto né per porre rimedio al male provocato, né per impedire che esso potesse ripetersi, come in effetti si è ripetuto e continua a ripetersi ancora oggi.
Le rivelazioni di Carmine Schiavone sono terribili e dicono, in sostanza, che laddove si da il via ad una opera pubblica che comporti lavori stradali con movimento terra, li c'è sicuramente uno sversamento illecito di rifiuti tossici. Il motivo è semplice. Per fare questi lavori c'è bisogno di scavare buchi enormi. Masse di terra devono essere spostati da una parte all'altra e i buchi, profondi anche 30-40 metri per centinaia di ettari, vanno riempiti. E ci mettono dentro di tutto, fanghi tossici ma anche rifiuti nucleari con un po' di terra per lo mezzo, ed il gioco è fatto. Tutti sanno, tutti hanno saputo, nessuno ha parlato. Mafie, massonerie, politici ma anche e soprattutto imprenditori, veri e propri assassini dell'ambiente e delle persone, che in nome del massimo profitto non guardano in faccia a nessuno. Ho provato, man mano che leggevo, a trascrivere le dichiarazioni principali rese nel 1997 da Carmine Schiavone. Le riporto di seguito ma vi invito a leggere completamente il testo che trovate in fondo all'articolo in allegato in formato PDF. Ricordo che nel 1997 c'era il governo di centro-sinistra, il primo governo Prodi. Leggendo il testo ora reso pubblico si capisce bene perché nulla venne fatto, neppure dal governo di centro-sinistra, e nulla è stato ancora fatto. Gli interessi economici in gioco erano enormi e riguardavano certo i clan camorristici, ma anche e soprattutto le decine e centinaia di imprese che smaltivano i loro rifiuti senza curarsi di troppi problemi. Tanto a morire erano gli altri. Ed è per questo che chiediamo con forza, con tutta l'indignazione e la rabbia e il disgusto possibile, l'abolizione di tutti i segreti di Stato finora esistenti e l'adozione di tutte le misure necessarie a risanare le zone contaminate.
Basta con i segreti che uccidono.

Giovanni Sarubbi
Massimiliano Toscano




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DOSSIER SCHIAVONE
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