UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

BIBLIOTECA ODISSEA

DELITTI ED AMORI NEL RACCONTO DI CALABRìA


Chi scrive, al giorno d’oggi, ha di fronte a sé un tempo che tutto fagocita, che scorre rapido, spesso rabbioso, sempre più asettico di emozioni. Rendere il pathos con la penna diventa, pertanto, complesso e a tratti inesprimibile. Ci riesce, e bene, Alessandro Calabrìa, giovane avvocato e scrittore, che in “Notturno canaglia a Milano” (pubblicato per Edizioni Nuove Scritture nella collana Letteratura diretta da Angelo Gaccione) ci accompagna in un vortice tumultuoso di emozioni: il suo è un racconto poliziesco e sentimentale insieme che porta il lettore a scandagliare gli abissi della mente umana per risalire, sul finale, verso più positivi lidi. Da laureato in legge Calabrìa conosce le mille sfaccettature che la giustizia (quando non l’ingiustizia se summum ius summa iniuria) assume, di fronte al criminale più efferato che crede di avere in mano le carte vincenti di una partita a poker con la legge. Faide e vendette mafiose si intersecano con esplosioni improvvise e “pericolose” dei sentimenti tra un avvocato ed un pubblico ministero. Sullo sfondo una Milano opaca e incolore, ben descritta dall’immagine di copertina. Sull’asse Italia-Moldavia si snoda un susseguirsi di avvenimenti che l’autore arricchisce con dotte citazioni tratte in alcuni casi da capolavori della letteratura. Un bel racconto, dal gusto dolceamaro e dal sapore forte, che tiene desta l’attenzione del lettore sino alla fine.
Federico Migliorati  

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POETI
Due testi inediti di Gaetano Capuano

Gaetano Capuano

TIEMPU DICIEMMIRARU

Duòppu se’ anni, quattru iorna
e midemma tièmpu dicièmmiraru
riassummavanu i fantasimi
di na putìa azzizzata a Natali
e u scantatizzu d’arristari arriè
luntanu dȏ pani travagghiatu

Tannu fu na sciddicunata
supra na lastra di giacciu
stavota a lausu di na machina
ca mpaia arrimazzannuti
supra na banchina di strata

Stissu spitali, stissu scinariu 

Anzicà cincu misi cu un vrazzu ruttu
fuòru cincu iorna cu un pedi scavigghiatu

C’è cu’ dici ca chiovi supra u vagnatu
e cu’ ca ci vulissi un parrinu
cu un catu d’acqua santa

Ognunu àvi un àncilu custodi
u miu àvi l’ali d’oru
e svulazza sempri ntuòrnu

Cridu! Ma nun sugnu manciasignuri:
pi mia fu sulu sulu culu ruttu

Mi va di pinsari a ma matri
ca binidiciènnumi ogni ura miraculìa
cà s’annunca a dd’àncilu
astura alivoti facìa cumpagnia.


Tempo di dicembre - Dopo sei anni, quattro giorni / e medesimo tempo di dicembre / riemergevano gli spettri / di una bottega adornata a Natale / e la paura di restare ancora / lontano dal pane lavorato. // Allora fu una scivolata / su una lastra di ghiaccio / stavolta a merito di un’automobile / che investe stramazzandoti / su un marciapiedi. // Stesso ospedale, stesso scenario. // Anziché cinque mesi con un braccio rotto / furono cinque giorni con un piede e caviglia storta. // C’è chi dice che piove sul bagnato / e chi che ci vorrebbe un prete / con un secchio d’acqua santa. // Ognuno ha un angelo custode / il mio ha le ali d’oro / e svolazza sempre intorno. // Credo! Ma non sono un mangia Signore: / per me fu solamente una botta di fortuna. // Mi va di pensare a mia madre / che benedicendomi ogni ora miracola / perché sennò a quell’angelo / a quest’ora forse facevo compagnia.


I PALORI

Âiu già scrivutu supra ssu tema
e cȏ miu scariri funnu
dicu st’atri quattru cusuzzi

Iddi
i mȋ sànu essiri virrina
i vuòstri e chiddi di l’autri
’ntra d’iddi su’ iucaluòri
i palori…
su’ stizzusi, nguttumanu
tiranu l’aricchi
astruppianu sparti
Quannu tiri a cu’ miri
e nzièrti a cu’ nun vidi
a usu mbasciati ȏ talefunièddu
senza virguli, ntirrucativi
e punti fermi…
quantu ncumprinsioni, staviamiènti

Si misi niuru nto iancu
vànu addabbanna dȇ cincu siènsira :
si capisci, vidunu
toccanu, sentunu, ҫiaranu
si ssapuranu
ma sparti si ccarizzanu 
si vasanu e si rrittunu

Una supra l’autra
fànu macari l’amuri…
i palori.

Le parole – Ho già scritto su questo tema / e col mio sbirciare profondo / dico quest’altre piccole cose. // Loro / le mie sanno essere trivella / le vostre e quelle degli altri / tra di loro sono giocherellone / le parole … / sono biliose, importunano / tirano le orecchie / fanno male inoltre . // Quando tiri a chi miri / e colpisci a chi non vedi / come ambasciate al telefonino / senza virgole, interrogativi / e punti fermi … / quante incomprensioni, stravolgimenti. // Se messe nero sul bianco / vanno aldilà dei cinque sensi : / ovviamente, vedono / toccano, sentono, annusano / si assaporano / ma inoltre si accarezzano / si baciano e si eccitano. // Una sull’altra / fanno anche l’amore … / le parole.  

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QUALCHE RIGO PER "LA STRISCIA DI CUOIO"
di Federico Migliorati

La copertina del libro

Racconti "pastosi", pennellate di colore offerte su un elegante vassoio alfabetico con un acuto tratteggio di atmosfere, personaggi, luoghi e situazioni. C'è tutto questo in La striscia di cuoio, dello scrittore Angelo Gaccione, edito da Viennepierre Edizion: la mano sensibile dell'autore si sposta con abilità in epoche stanche, tra crisi sentimentali e affetti illusori, in periferie di città con il loro carico di umana indifferenza. Gaccione "cammina" con sagacia nei livelli narrativi e ci dona un piccolo saggio del suo ricco lessico, appagante per l'occhio critico del lettore. C'è sempre qualcosa che non riusciamo ad afferrare, qualcosa di insondabile e misterioso che ruota attorno alle nostre vite: siamo noi, la nostra personalità multiforme, dalle mille sfaccettature, una e trina, in bilico tra salvezza e perdizione, tra eroismo e crudeltà, tra banalità e coraggio. Gaccione ce la spiattella talvolta con crudezza, sul rigo tremolante di luce, in un occaso che è noir come il nostro destino.

Angelo Gaccione
La striscia di cuoio
Viennepierre ed. 2005
Pagg. 120 € 12,00

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LETTERATURA
GALLERIA DEL MILLENNIO
DI ALESSANDRO MOSCÈ
Intervista di Laura Margherita Volante

La copertina del saggio


L.M.V. Il tuo libro Galleria del millennio è un viaggio attraverso tappe letterarie con un filo conduttore che va dal 2004 al 2014. Come mai hai scelto questo decennio e perché proprio dal 2004? Qual e l’obiettivo culturale che ti ha spinto in tale indagine critica?

A.M. Ho unito, idealmente, la maggior parte dei miei scritti critici che sono stati pubblicati da dieci anni a questa parte in quotidiani e riviste. Quindi è stata un’operazione di raccolta, nulla di più. Il 2004 è l’anno spartiacque del mio lavoro, perché ho iniziato alcune collaborazioni che sono durate nel tempo e che mi hanno permesso di esercitare la critica militante. Non c’è un obiettivo culturale, ma semplicemente un’indagine determinata dalle mie preferenze, dal mio sguardo che oscilla nelle tre branche della letteratura: poesia, narrativa e critica. Una critica nella critica, possiamo dire, che illumina un decennio controverso, affastellato, dispersivo e che è alimentata non solo dalla lettura dei libri ma anche dalla conoscenza e dalla frequentazione di alcuni scrittori “compagni di via” con i quali ho condiviso un percorso formativo. Tra gli altri Giorgio Saviane, con il quale intrattenevo lunghe conversazioni telefoniche, Alberto Bevilacqua, che andavo a trovare nella sua casa romana a Vigna Clara, e i conterranei Umberto Piersanti e Massimo Raffaeli, nella loro residenzialità che è diventata anche un modo di dire, qui nelle Marche. Il viaggio letterario, per chi lo compie, ha bisogno di punti di riferimento. Tra le nuove generazioni emerge un’estemporaneità fine a se stessa, una sorta di ipertrofia dell’io e di ipervisività priva di conoscenza, di approfondimento, di studio. Credo che sia necessario virare in tutt’altra direzione perché la letteratura non diventi puro intrattenimento, qualcosa di simile al mondo dello spettacolo. L’antropologo Marc Augé dice che viviamo di stagioni sportive, scolastiche e politiche. Anche i libri rischiano questo processo di dissolvimento fugace.

L.M.V. Nella presentazione parli di letteratura dell’esperienza contrapponendola a quella sperimentale.Vuoi approfondire la differenza fra questi due concetti e cosa intendi trasmettere?

A.M. La letteratura dell’esperienza nasce dalla vita, nel cerchio esistenziale, iniziale e finale, vita-morte. Nella clessidra che attraversa il tempo ci sono l’amore, la perdita, il bene,il male, cioè gli archetipi. La poesia nasce con l’uomo, perché nessuno sarebbe ciò che è senza amore, senza il ricordo personale o la memoria collettiva. Lo sperimentalismo privilegia una scrittura programmatica studiata a tavolino, gergale, tipica degli accademici sofisticati e spesso decontestualizzati dalla realtà quotidiana. Io propendo per la prima opzione, e non a caso cito Carlo Bo e i suoi Otto studi che delineano una traccia in tutto il Novecento. Jorges Borges diceva che la letteratura è un sogno guidato. E’ una difesa, una resistenza, ma non ideologica. E’ umanità espressa nella disperata vitalità di Pier Paolo Pasolini, nella fantasessualità di Alberto Moravia, nell’utopia reale di Paolo Volponi, nell’eco del mare caraibico di Derek Walcott, nella poesia orfica di Milo De Angelis.

L.M.V. Indaghi il presente in una prospettiva-guida verso il futuro per una vita motivata e interrogativa fra ésprit de geometrie ed ésprit de finesse. Il passato, che ruolo ha in tutto questo? Rappresenta una guida personale che diventa guida per tutti? Non è un po’ presuntuoso?

A.M. Non c’è un intento sociologico, né tanto meno pedagogico in questa prospettiva-guida, perché non rientra nella mia volontà di scrittore. Il libro non è neppure una guida con l’aspirazione che diventi guida per tutti. Il passato, come il presente, è un punto d’osservazione, nient’altro. Senza pretese e senza presunzione. Ma un critico deve esporsi, selezionare, discernere secondo una mappa orientativa. Credo che siano chiare le direttrici che hanno mosso la mia indagine, anche perché le ho esplicitate nella premessa, che è già una definizione di poetica. I luoghi sono un altro comun denominatore, ma in Galleria del millennio risulta un’infinita gamma di elementi aggreganti: l’infanzia, la giovinezza, la depressività, il dolore, il metasogno, la provincia, la donna ecc. Susanna Tamaro nel romanzo Per sempre (Giunti 2011) fa dire alla protagonista: “Tutti noi abbiamo una definizione che ci permette di esistere e questa definizione è la nostra zattera”.

L.M.V. Galleria del millennio si compone, fra testi editi e inediti, di tre parti suddivise in “Fuori pagina” - “Interviste” - “Appunti quotidiani”, con recensioni di autori di grande impatto, da Pasolini a Scataglini, per rendere l’idea. A questo proposito c’è stata una selezione attenta: con quale criterio?

A.M. Il criterio l’ho già indicato. Ho scritto degli autori che amo di più, che ho letto e riletto, e che appartengono alla nostra contemporaneità. C’è attenzione per il mondo marginale, ad esempio, per i mattocchi di Federico Fellini, di Gianni Celati, di Ermanno Cavazzoni, di Ugo Cornia. La letteratura romagnola ed emiliana mi hanno aperto una finestra per conoscere l’uomo, perché i viaggi sono reali e mentali. Penso ai personaggi (o meglio agli anti personaggi) di Cavazzoni che parlano con la luna e con i pozzi, a quelli di Cornia, che sono ombre evanescenti, voci improbabili. E che dire del viaggio di Fellini, che immagina l’aldilà abitato da grandi orchestre e da treni senza destinazione? Anche l’immaginifico fa parte di questa selezione, ma non è scorporato da una concretezza terrigena.  Qualche anno fa ho vissuto una vicenda simile. Un amico, un omino della casa di riposo di Fabriano, voleva parlare con la Madonna e pensava che fosse nascosta in un fondo al pozzo di un chiostro. Era convinto che attraverso le fenditure dei muri sua madre, deceduta, per farsi sentire dall’altra parte della parete, soffiasse quella dove i morti si muovono di soppiatto. Un critico e uno storico della letteratura come Ezio Raimondi, venuto a mancare da poco, parlava di una “coscienza affettiva” accennando all’amore per le persone mai indeterminate e irrelate.


Moscè col poeta Adonis


L.M.V. La tua analisi critica riguarda anche opere lette occasionalmente che costituiscono, nel loro panorama, un flusso unitario. Che percezione hai avuto alla luce di oggi, in un’ottica universalista, che esclude altre culture? Non ritieni di dover proseguire in un’indagine interculturale, oppure ritieni che la nostra cultura sia il faro dell’umanità?

A.M. Non ritengo che la nostra cultura sia il faro dell’umanità, ma in Galleria del millennio non c’è affatto l’esclusione di altre culture. In un’intervista con il grande poeta siriano Adonis emergono i conflitti del mondo arabo e l’incapacità di distinguere lo Stato dalla religione. Ogni fondamentalismo è sbagliato e provoca dissidi. Il romanziere israeliano David Grossman racconta la perdita del figlio in guerra e la sua angoscia riversata sulla moglie. Tahar Ben Jelloun, il noto autore franco-marocchino, ammonisce la cultura araba e il rapporto con il tempo, con l’individuo, auspicando il riconoscimento del singolo e soprattutto il valore della donna. Yves Bonnefoy, il più grande poeta francese, insegna che la poesia rende più intenso il rapporto con l’altro. Seamus Heaney, l’irlandese che vinse il Premio Nobel, afferma che quando si riesce a dire di sì alle cose anche l’arte può dirsi finalmente riuscita. Lo sguardo, insomma, supera senz’altro i confini italiani, entrando anche a contatto con un universo teatro di scontri e di repressioni.

L.M.V.  Ogni recensione o intervista è datata, lasciando una traccia indelebile nello spazio e nel tempo. Quali progetti hai in mente? Pensi di continuare questa minuziosa ricerca nel 2015? Con quale formula, visto il momento epocale in cui ci troviamo fra ansie e speranze? 
  
A.M. Non so in quale epoca ci troviamo, ma non penso che i nostri nonni che uscivano dalla seconda guerra mondiale stessero meglio di noi. La traccia indelebile non è mai un’intervista o una recensione in sé, ma il senso che racchiude un’intuizione artistica, un messaggio trasmesso attraverso l’opera d’arte. Non credo che continuerò meticolosamente una ricerca critica, perché ho già finito di scrivere la mia nuova raccolta poetica, che sto integrando con altri versi finora inediti e rivisitati in questi giorni. Sta per essere pubblicato il mio nuovo romanzo dal titolo L’età bianca, che è una sorta di prosecuzione del precedente, Il talento della malattia, costituendone con quest’ultimo un dittico. Non ho mai rifiutato la scrittura biografica, che diventa perfino scrittura in prima persona. Tempo e spazio, come dici, sono le coordinate essenziali anche della critica. Le prime e insostituibili coordinate. Nello spazio e nel tempo si annidano le domande ossessive dell’uomo: da dove veniamo e dove stiamo andando? Dal nulla al nulla, o verso un’imprecisata realtà-altra che non possiamo toccare con mano prima della morte? Il mistero del non sapere è già una persuasione fortemente letteraria.
                              ***


 LIBRI
CLAUDIA AZZOLA, IL MONDO VIVIBILE
di Donatella Bisutti
 
Claudia Azzola

Claudia Azzola è una figura che occupa un posto particolare nel nostro panorama non solo poetico ma culturale in senso lato. Una figura che ha delle caratteristiche singolari che la differenziano e la connotano in maniera precisa.
Claudia Azzola ha prima di tutto nel suo lavoro una dimensione europea, non circoscritta nel bene e nel male alla nostra Italia, con i limiti che questo comporta, ma ha uno sguardo che va al di là dei confini nazionali e non solo per interesse intellettuale , ma per una sintonia, una sinergia, una immedesimazione che coinvolge  tutto il suo essere e che quindi permea il suo essere poeta.
Claudia ha vissuto in questi anni intensamente il suo rapporto con la Gran Bretagna al punto da diventare bilingue e scrivere, come faceva Rosselli, indifferentemente in italiano e in inglese. Ha assorbito e fatto sua quella letteratura, quella cultura, tanto  da avere anche un’“anima inglese”.
Però il suo interesse è sempre andato anche alla Francia, dove ha molto viaggiato e ha anche vissuto, e anche questo è un apporto forte e determinante nella sua scrittura.
Aggiungerò che Claudia Azzola ama profondamente la Storia, almeno quanto ama la letteratura, e perciò anche qui la sua attività di scrittrice e di poetessa corre su un doppio binario, come provano anche le novelle che è andata e va scrivendo. Ma di Storia è imbevuta e intessuta anche la sua poesia.
Inoltre Claudia Azzola ha anche da sempre un rapporto intenso con l’arte figurativa, e non dimentichiamo che per vari anni si è occupata di una galleria d’arte.
Quindi molteplici sono i filoni che convergono nella sua scrittura e ne fanno  come dicevo una figura con connotazioni particolari e diverse cui si può accostare, forse,  per quanto riguarda la parte inglese, quella di Roberto Sanesi, che peraltro è uno dei suoi scrittori di riferimento.
Non per caso ha fondato da alcuni anni una rivista che nel titolo unisce la Traduzione alla Tradizione. Claudia Azzola non è solo  traduttrice di testi, molto attiva peraltro, ma traduttrice di culture, ponte fra diverse culture, e la tradizione  per lei si identifica con la Storia: quindi la sua può essere considerata credo una poesia di tipo sperimentale, e perciò molto attuale, molto contemporanea,  ma con delle solide basi in una cultura classica (ho dimenticato di dire anche del suo amore per la Grecia), cioè  la cultura che viene dalla frequentazione di grandi poeti e pensatori che peraltro cita in questo suo ultimo, libro della sua piena e consapevole maturità.
La sua è certamente una poesia intellettuale, in cui sembra prevalere il significante, ma si dà molto peso anche al significato.
La Storia che Claudia Azzola privilegia è quella degli storici che cita, quelli che hanno scritto la storia non dei potenti ma degli sconosciuti, degli umili, come Le Goff, e questo perché è forte in lei anche il senso sociale, della giustizia sociale, il senso di un impegno politico non militante ma che sicuramente s incarna nei suoi versi.
Il fondersi e l’intersecarsi di tutti i vari elementi che sono andata elencando fa sì che la sua scrittura -e questo suo ultimo libro lo prova- abbia una densità che a volte  quasi per un eccesso di sintesi sfida la comprensione, risulta oscura, ma questa è anche un’oscurità cercata, come lei stessa dice nella postfazione che è un effettivo manifesto di poetica. Questa poesia così se vogliamo intellettuale ha in realtà un’origine magmatica, e questo corrisponde non solo all’essenza del poetico, ma anche a una connotazione specifica della personalità di Claudia Azzola, che è la passionalità. Per cui in questo libro passione civile, passione intellettuale e passione poetica sono tutt’uno. Claudia Azzola è contraria a molte cose, che elenca nella sua posta fazione, ma  io vorrei aggiungere che è contraria al nichilismo, all’Harmageddon imperante, perché crede nella vita, nella storia e nella poesia e per questo la  sua è una scrittura vitale. 

La copertina del libro di Azzola



Una lettera di Annamaria De Pietro
sul libro di Claudia Azzola


Nella foto Annamaria De Pietro


Cara Claudia,
ho letto il tuo libro in due lunghe sorsate. È bellissimo. Rispetto ai precedenti mi pare accentui una paratassi-panoplia, un viridario prontuario schedario immaginario erbario salterio e tutte le altre parole che in ario (o erio) squadernano casa per casa, lunario per lunario, gli stuporosi possibili. Insieme acuta fenomenologia, polvere porporina d’oro di libro d’ore, severo urbano manuale di etica e vita e storia e ricordo e tiro con l’arco. Che è tutto un trascorrere le flessibili corsie del tempo, le corde del saio e del gibet e dell’arco ad Azincourt e della viola da gamba E ovunque vige l’arco della parola, della parola poetica, che nobilmente, magistralmente sta, eretta, tra fenomeni, antropologia, storia, ricordo, aspra dolcezza, tiro con l’arco. Essa è la chiave di volta, il contraltare che osta, combatte e (verbigrazia) vince, ma non per il momento, non adesso: ancora molto occorre vegliare. Chiuse accecanti; segmenti indispensabili, versi incontrovertibili; antichissime, lunghissime usanze; la metamorfosi del bagnato; erbaggi: tua magnifica parola. Via dei fienili, Via dei foraggi, a Roma, a Parigi: tra il fieno la prima casa della Sorbona.
E mi pare a posteriori che le corde e i fili e i tiri con l’arco che infilano il tempo, il molteplice disperso e la parola poetica, con l’aiuto dei quali ho cercato di rappresentare quel che mi appariva leggendo, concordino con una risaltante frase della tua postfazione: “La curvatura del reale, pur nella frantumazione, è il filo d’acciaio che tiene insieme un testo che è il moderno ‘cantare’”.
Molte dovrebbero essere le osservazioni, e soprattutto le citazioni di versi e segmenti, ma preferisco un’affettuosa solerzia.
Annamaria 

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LIBRI
Dal buio della terra
di Mariacristina Pianta

La poetessa e scrittrice Donatella Bisutti
Il buio, la notte, la morte che ci accompagnano rappresentano il nucleo centrale della silloge di Donatella Bisutti. Ma è solo apparenza perché la vita ci chiama, ci cattura. Subito emergono pittoricamente le valenze: nero e rosso che si alternano: “…e gli uccelli neri/tagliano la luna”, “Una radice di fuoco/inabissata/una nera radice/una nera/di fuoco”. Le isole sono fiammeggianti, la colata lavica brucia come “bruciano silenziose le stelle”, “bruciano gli alberi”. A volte è, invece, il freddo che prevale, quando “la luna è di ghiaccio”, “la vita si protrae sotto la neve”, “Sulla neve/brevi appunti di un freddo volo”. Una natura, talvolta ostile, diviene sinonimo di palingenesi, di vita. L’angoscia, la sofferenza possono farci rifiorire. Le antitesi giocano un ruolo fondamentale perché morire interiormente significa, in un secondo momento, riscoprire segni di primavera anche durante l’inverno. La scrittura si nutre di dolore, di ansia, di scavo interiore, capace di generare una sorprendente forza emotiva. L’esperienza personale diventa universale, la vita dell’individuo ripercorre quella del cosmo e viceversa. Per questo trovano largo spazio i paesaggi, i luoghi geografici precisi: le isole Eolie, la Grecia, con riferimenti al monte Athos, la piana di Filippi, la città di Genova, le Cévennes si caricano di significati. Ogni elemento naturale, ogni situazione è un correlativo oggettivo, metafora del destino dell’universo e dell’essere umano. Il mito è vissuto nella sua dimensione terrena, è calato in un contesto vivo, vibrante,  vicino a noi nella nostra quotidianità in un impatto visivo. Luci e ombre si contrappongono, come nei dipinti di Caravaggio o di George de La Tour. Sembra di scorgere la magia che emana da una luce intensa di candela, da un raggio di sole che illumina una buia stanza. 
Un altro colore di spicco nella silloge è il bianco: “la pianta di convolvolo/amorosa/con i suoi bianchi fiori molli/le bianche labbra molli…”, i bianchi fiori del cappero “come veli di sposa” si possono ricollegare all’atmosfera sospesa de Il gelsomino notturno di Pascoli: “E s’aprono i fiori notturni nell’ora che penso a’ miei cari” “Sono apparse in mezzo ai viburni le farfalle crepuscolari”.
L’antitesi tra bianco e nero, gioia e dolore, distruzione, rinascita, inverno, primavera ci riporta a Leopardi che ci fa amare la vita proprio perché quell’abisso orrendo che ci aspetta rende affascinante il nostro accidentato cammino. Dal buio della terra riemergiamo in un’avida ricerca di felicità e di valori autentici. La tensione ad una vera spiritualità è molto sentita, diviene protagonista di un itinerario verso una maggiore consapevolezza. Particolare attenzione è rivolta agli altri, dalla prigioniera Aung San Suu Kyi, agli studenti, al padre che si muovono con discrezione e empatia.

Donatella Bisutti

Notevole il linguaggio utilizzato in una sintesi di immagini. Creano notevole suggestione le anafore in G 8 : “Genova Genova in croce/Genova senza voce/…Genova straniera…” Per citare qualche altro esempio, si può individuare la medesima figura retorica in Canto in morte : “Da dove riappare leggero/…Da dove ritorna ad infrangere”, in  Se : “Se un cavallo fosse…/se non fosse l’occhio visionario e folle/.. se esso non fosse un’oscura montagna”.. Oltre alle metafore, svolgono una funzione di rilievo le similitudini: “Quando l’anima come un cane/ si lascia accarezzare, inerme..” (La vibrazione delle cose), “Come s’accorda un colore ad un colore/ così io cerco di accordarmi a te..” (Come s’accorda un colore ad un colore). Analogicamente ripenso al canto XII del Paradiso: “Sì tosto come l’ultima parola/la benedetta fiamma per dir tolse/a rotar cominciò la santa mola;/ e nel suo giro tutta non si volse/ prima ch’un’altra di cerchio la chiuse,/e moto a moto e canto a canto colse;…”  Determinanti per scandire il ritmo, i versi, a tratti brevi, in certi casi più lunghi: “Tu come morto…/ Eppure a volte ancora la voce mi chiama..” e i frequenti enjambement: “Abbiamo fatto l’amore su/un lenzuolo rosso”.., “ Sei tornato dall’ombra di un passato che ho voluto/dimenticare..” Interessante risulta la presenza del polisindeto in posizione di anafora (Più allegra a tutti), che assume l’aspetto di climax per un crescendo di angoscia, contrapposta al richiamo della vita. Significato e significante si fondono in un binomio inscindibile e nella polisemia di ogni testo.

Donatella Bisutti
Dal buio della terra
Empiria, 2015
La copertina del libro  


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LIBRI
Incombe Tirteo
di Claudio Zanini

La copertina del libro


L’orrido pianeta Tirteo, che incombe minaccioso oltre l’orizzonte -enorme luna butterata-, richiama alla mente certi dipinti di Savinio, dove compaiono, improvvisi, lo smisurato, il mostruoso, il perturbante. Tirteo sovrasta lo scenario in cui si svolgono i fatti narrati in Andavano a sud, uno dei racconti di Prove di città desolata (Mobydick, Faenza, 2003), ma da quel racconto l’orrore sembra uscire e dilatarsi, proiettando la sua ombra sinistra su tutti i racconti di questa raccolta dovuta alla penna di Giuseppe O. Longo.
A una prima lettura il testo rimanda alla psico-fantascienza da incubo (vedi i film Solaris di Tarkowsky e La jetée di Chris Marker) ispirata alle immagini surreali (à la Salvador Dalì) di paesaggi irraggiungibili, ma in cui si è sempre e ineluttabilmente imprigionati, mutevoli e tuttavia sempre ripetuti. Mi è venuto alla memoria anche L'anno scorso a Marienbad di Alain Resnais, con quel falso movimento che attanaglia i personaggi, e quella sorta di sceneggiatura dove tutto potrebbe essere indifferentemente diverso e opposto. Angoscia e spaesamento di personaggi che si sdoppiano, si vedono agire, sono agiti da forze estranee e misteriose. Viviamo in questo mondo d’inspiegabili accadimenti, poiché, come dice Wittgenstein, “Il mondo è tutto ciò che accade”.
I racconti sono stati scritti tra il 1987 al 1999, e nel volume sono disposti in un ordine non cronologico ma piuttosto di contenuto, come si scopre via via leggendoli. È da notare che sono legati da elementi comuni e ricorrenti: temi, scenari, accadimenti, personaggi, tanto da essere quasi i diversi capitoli di una narrazione unitaria. I paesaggi, per esempio: immensi blocchi di edifici in rovina, enormi hangar in uno sconfinato aeroporto abbandonato, un oceano oppresso da un cielo carico di nubi, la costa d’un mare color ocra, sfibrato. Lo spazio è quasi sempre saturo d’una luminosità abbagliante come dopo una deflagrazione atomica. Rimane impresso, in particolare, un padiglione sulla spiaggia, dove sono accampati i profughi, i rifugiati della bomba. All’orizzonte, la colonia di Punta Marina biancheggia fantasmatica, nella calura d’una lontananza brumosa.
Lo stesso paesaggio arido e desolato si ritrova nel già menzionato Andavano a sud, dove la medesima luce abbagliante illumina uno sconfinato drive-in disseminato di carcasse d’auto, sul cui lontanissimo schermo si susseguono freneticamente brani di film diversi, mescolati e sovrapposti, mentre sulla landa deserta e surriscaldata incombe l’enorme e butterato pianeta, o asteroide, Tirteo (protagonista di un curioso racconto à rebours, Premesse a Tirteo, che fa parte della racconta dello stesso Longo, Il Ministro della Muraglia, Trasciatti, Lucca, 2010).

La macchina
La “macchina” appare nel racconto Atlantico, forse. Una macchina che dovrebbe mettere l’uomo in comunicazione con il mondo. Fuori, oltre la finestra, un paesaggio che si prepara, “dilaga in sé stesso, si conosce e riconosce senza fine”. Sono incessanti prove di paesaggio (di controllo o di decifrazione del mondo), tentate dall’uomo?
(Questa macchina mi ha ricordato il congegno misterioso, messo in funzione dalle onde del mare, che nell’Invenzione di Morel, di Bioy Casares replica gli eventi all’infinito). Per entrare nel paesaggio, si dice, l’uomo dovrebbe rinunciare alla macchina. Dovrebbe immergersi in un caos inesplicabile. Fra l’uomo e il mondo c’è una frattura insanabile, che forse nessun meccanismo potrà mai riparare.
Anche la creatura artificiale del primo racconto, Aviatore al tramonto, è una sorta “macchina” ciborganica. È un deposito vivente d’organi di ricambio, una specie di mostro di Frankenstein da scomporre nelle sue parti secondo le necessità di trapianto. La scoperta che nella creatura agisce una misteriosa brama tellurica, una remota coscienza primordiale (quasi umana?), sconvolge Giulia, la protagonista, la cui tragica vicenda è prefigurata in un fiammeggiante e sanguigno tramonto che evoca l’origine o la fine del mondo. Come Giulia, che prova un’oscura fascinazione per la mostruosa creatura, così Else, in Varani a Komodo, è attratta dal pittore Grey-Sanders, il quale nel suo desiderio fatto “di violenza, di sopraffazione, di morsi, come si getta su un animale indifeso per divorarlo il varano di Komodo”, riflette il lato perturbante e tenebroso della natura, di cui la ragazza stessa porta un lieve ma inequivocabile segno: una leggera zoppia, che fomenta il desiderio del pittore e porta a una conclusione inattesa e cruenta.
Un’altra “macchina” domina il racconto La storia centrale. L’uomo impaurito dalla vuota immensità del cielo sereno, colmo d’una luminosità abbagliante, cerca nella casa dove abita una “cosa”, la cosa che può generare il mondo. Nell’ultima stanza della casa la trova: “una cosa intricata e rotonda (…) un lungo filamento avvolto su sé stesso innumerevoli volte, un gomitolo pesante e compatto” che userà per costruire il mondo. L’uomo tesse il suo filo, crea il mondo, “contempla la sua creazione” della quale si compiace (un’eco della Genesi). Dalle sue mani nasce “una macchina intrecciata e complessa che potrà, forse, dare risposta alle sue domande.”
La macchina cresce (…) si sviluppa (…) infine, lo guarda.”
“La macchina vive (…) sente (…) Comincia a parlare con l’uomo.
La macchina allarga le braccia, apre le sue cavità, si offre all’uomo come rifugio.”
L’uomo è accolto nella “macchina”, si adegua e aderisce a lei; lui e la macchina diventano una cosa sola. Il tempo trascorre, il cielo luminoso comincia di nuovo a sgomentarlo, l’uomo sente nascere in sé l’ansiosa esigenza di cercare qualcosa. “Sa che la cosa cercata è un sogno intricato e tenace, che può generare il mondo.” Nell’ultima stanza scopre un gomitolo… la storia si ripete, incessante.
 Nel racconto I sogni viventi, un paesaggio desolato è dominato da due misteriosi operatori -sorta di funzionari kafkiani- che organizzano lo scenario e la vita di un uomo (vedi ancora L’invenzione di Morel), manovrando gli interruttori e le manopole di una grande “macchina”, una megamacchina (collegata a una più piccola e antica, tanto che la macchina grande ha inglobato la piccola da cui pare giungano messaggi o sogni, forse dal profondo dell’inconscio). Nella macchina tempo e spazio si sovrappongono, si ripetono, s’arrestano, si riavvolgono tornando indietro, si contraggono e si dilatano. Già abbiamo visto come la macchina si rigeneri ininterrottamente.
“E se gli cambiassimo mondo?”, dice uno dei funzionari che manovrano la “macchina”. Ciò si tradurrebbe in uno sconvolgimento della vita dell’uomo e in un cambiamento dei suoi ricordi. Per esempio si potrebbe fornirgli una vita “comune, con incidente”, il che significa “che la vita che si dà al personaggio è ordinaria, comune. Gli si dà un passato tranquillo, che però a un certo punto è stato interrotto da un episodio grave e doloroso.”
Lo scenario è surreale, un sogno immaginato da Dalì. C’è la donna, che l’uomo disperatamente cerca di raggiungere; c’è la Bestia, misteriosa e possente: essa “è il centro della montagna, è la voce dei secoli, il canto dell’Universo (…) è un enigma inespugnato.” È un dio imperturbabile, il cui battito delle palpebre dura millenni, un dio che ricorda gli immortali di Borges. Tuttavia, anche la Bestia soggiace alla “macchina”. L’uomo entra nella Bestia enorme e scopre, all’interno, i due funzionari davanti alla macchina che governano pulsanti e manopole, e, tuttavia, accanto alla macchina, c’è, a “una distanza immensa”, la Bestia. Avviene dunque un abissale scambio di dimensioni spaziali (in cui una cosa è dentro l’altra, che è dentro la prima), e d’identità dei personaggi (in cui uno è allo stesso tempo gli altri). I due funzionari sono sosia dell’uomo, sono l’uomo che cerca sua moglie Linda attraverso i piani spaziotemporali. A un certo punto uno dei funzionari sta per premere un Tasto Rosso.
Quello no!” esclama l’altro e gli spiega: “È il tasto di annientamento. Se lo si preme si cancella il programma.(…) Fuzet si arrabbierebbe molto.”
Con Fuzet, si allude forse a un altro dio, a un ulteriore supervisore, a un demiurgo? (Dio, con un nome così buffo? Ma, forse, potrebbe essere il vero nome di Colui che è, il nome taciuto dalle Scritture).
L’uomo teme che Linda stia per essere divorata dalla Bestia, ma la donna l’attraversa come fosse una nuvola (l’uomo piange di gioia!): la Bestia e la donna,sono in due mondi paralleli e non comunicanti.
Se “il mondo è tutto ciò che accade”, qui accade una vertiginosa mise en abîme,

Tirteo e Punta Marina
In Dune, gabbiani, una donna vorrebbe raggiungere Punta Marina, che biancheggia fantasmatica nel barbaglio d’una lontananza caliginosa. Vorrebbe partorire in un luogo meno desolato del padiglione sulla spiaggia popolato dai profughi. La luce è abbagliante come dopo una deflagrazione atomica. Sulla spiaggia decine e decine di balene arenate e agonizzanti, con gabbiani che ne dilaniano le carni emergendo sanguinanti dalle loro ferite. In città sono comparsi i varani.
Lei deve partorire o è soltanto un sogno?
Una volta non li volevo (i bambini).
Adesso me li faccio in sogno
Sei una donna” dice l’uomo.
Il suo destino, dunque, è partorire.
A Punta Marina potrebbe uscire”, dice la donna. Pensai al mio ventre, qualcosa nel buio caldo delle mie viscere. Forse. Quei grumi di sangue.” Durante il tentativo di raggiungere Punta Marina l’uomo è aggredito dai gabbiani e cade dilaniato dai loro becchi. Lei scende nell’acqua, s’immerge.
“Sentii il fresco nel ventre. Là dentro rimaneva qualcosa di lui, una liquida contaminazione.” Altro sangue.”
Uno scenario da catastrofe atomica. Perché partorire figli in questo mondo? Tuttavia, l’amore e la compassione nascono dalla corporeità, dalla carne; non dallo spirito. La carne patisce, soffre, ama; l’intelletto vacilla smarrendosi di fronte a una realtà inesplicabile. Sono due vettori opposti.  
Nel racconto Andavano a sud, il desolato drive-in dominato dall’enorme e butterato pianeta Tirteo, è lo scenario dell’incontro fra Trevor e un bizzarro terzetto: Mullaly, suo padre e una nana. Tutti cercano riparo di fronte alla devastazione che avanza fuggendo verso sud. L’atmosfera e i personaggi vagamente freak evocano certi film americani on the road, in particolare Strade perdute di David Linch e i romanzi di Corman MacCarty, come The road, dove si parla di un’umanità in fuga di fronte a misteriose catastrofi (o al cospetto della propria cattiva coscienza un’oscura colpa, cui in realtà non si può sfuggire).
Oh, le Furie… hai sentito il rumore delle loro ali di notte?” cita Longo.
Un misterioso e tragico destino incombe sull’umanità, forse una colpa terribile e inespiata? La fuga, tuttavia, è impossibile da un mondo che è diventato “il rovescio devastato della creazione”:
la trasformazione delle foreste in circuiti stampati, delle scimmie antropomorfe in automi, delle passioni in campi elettromagnetici; (…) il grande edificio bianco… al quale ci si (può) avvicina(re) senza mai raggiungerlo (come alla colonia di Punta Marina)”;
La realtà è riassunta e illustrata dalla collezione di “traumi”, una raccolta di migliaia di fotografie scattate da Trevor, contenute in due enormi valigie: impietose immagini delle più atroci torture inflitte dall’uomo all’uomo. Un memento che egli porta con sé nel suo viaggio verso il sud.
In questa reinvenzione del mondo, si prefigura una sua fine che si trascina penosamente, con illuminazioni salvifiche di speranza subito trasformate in beffarda disillusione. La “macchina” non funziona, la sua razionalità non serve (come il supercomputer calcolatore Hal di 2001 Odissea nello spazio (e il robot primigenio del racconto di Asimov)), il mondo ricade nel baratro dell’inconoscibilità, sconvolto da cieche forze primordiali e inarrestabili, entro il magma vitale di un susseguirsi di nascite e morti.
Tra l’altro, la fine del modo fa parte del programma di un’agenzia turistica. A ogni gruppo di viaggiatori si mostra una fine del mondo diversa. Dunque, un’infinità di “fini del mondo” che, in ultima analisi, non attraggono più nessuno, tanto che l’agenzia deve chiudere.
Mette in scena una serie di frammenti insensati Che cosa fare a Denver quando si è morti, che, come scrive Longo, potrebbe essere il titolo di un racconto pulp: “Elaborazione: personaggi che vogliono morire ma non ce la fanno. Disappunto per non essere cartoni animati. Fantasmi, ectoplasmi collegati per telefono.” Racconto, questo, che ha l’andamento di un film di Tarantino: dialoghi farneticanti da teatro dell’assurdo, salti incongrui da una situazione all’altra, elenchi di sogni, accenni di vicende gialle in poche righe e così via. (Evidentemente, qui, qualcuno (il narratore?) sta manovrando con arbitraria frenesia le manopole della megamacchina).
Il programma di Fuzet, “situazione comune con incidente”, sottoposto a un montaggio casuale, come nel racconto precedente ma con più profonde zone d’ombra, atrocità e perturbamenti, si replica in Variazioni con boia. Qui, il leitmotiv, ovvero la cornice che lega e racchiude i vari accadimenti, è costituito da un’azione che, appena accennata da un primo folgorante indizio: “la testa” - istantaneo frame filmico -, si precisa (“la testa di porco”), cresce e si sviluppa man mano che procede, prendendo alla fine il sopravvento; e dove orrore, voluttà e morte (tema centrale dei primi due racconti) si mescolano inscindibilmente: la testa di porco putrida e quasi verminosa che un giovane è obbligato a divorare, con ribrezzo e voluttà,(…) mentre una donna gli succhia il pene, e qualcuno avanza verso di lui con un grande coltello. Episodio tremendo, che verrà ripreso, nell’ultimo racconto, dal punto di vista della protagonista.

La rete, i libri
In Questo lo facciamo dire a Posthuma, all’orizzonte brumoso balugina sempre la fantasmatica e inaccessibile Punta Marina, mentre i personaggi sono: ancora la donna - che pensa all’uomo, in fuga verso sud (gli uomini se ne vanno, le donne restano caparbie a partorire o a interrompere una gravidanza) -, il ragazzo e il vecchio Posthuma, il custode della rete, un simbionte con un doloroso chip piantato nel cervello (la rete, tuttavia, non funziona più, è scomparsa, ingoiata dal tempo e da se stessa. Negli ultimi tempi della sua esistenza non si sapeva più scrivere e nessuno leggeva più, facevano tutto le macchine).
Ora restavano i libri, ”i dischetti ormai sono illeggibili. Della rete restano solo quelle bave sugli scogli allumacati (…) Bisogna ricominciare dai libri.” Dalla biblioteca di Punta Marina, circondata da un muraglione rosso, alto, solido, inespugnabile, unico vestigio umano, contro il quale si sfracellano i gabbiani, gli assassini del mare (che, sanguinolenti, rovistano negli squarci sul corpo delle balene…)
“In noi o in nessun altro luogo sta l’eternità con i suoi mondi, il passato e il futuro” dice il giovane. “Ascoltare i passi dei libri è come ascoltare le voci dell’universo riverberanti di echi (il mormorio della galassia).”
Il giovane dice alla donna: “la rete (…) oltre a essere una “megamacchina” (ci si chiede se tale “macchina”, la rete, non sia la stessa “macchina” di La storia centrale o di I sogni viventi, che decide arbitrari destini e scenari con un girar di manopole)… è uno sconfinato ipertesto… esclusivo, autoreferenziale e invincibile… un non luogo e un non tempo, che vive in un eterno presente. In questo universo utopico e ucronico la storia è stata uccisa”
“In questo modo le categorie fondamentali del mondo reale, il tempo, lo spazio, la casualità, vengono sovvertite, s’intrecciano e contaminano per formare categorie nuove o spariscono, generando un vuoto categoriale che viene riempito dall’accumulo (…) di dati, richiami, immagini, testi.”
“Questo accumulo (…) ha ben poco della narrazione tradizionale o del ragionamento argomentativo, (…soffocati) dall’accrezione caotica delle informazioni e scompare tra le quinte del tempo annullato (…) Non si può più ragionare, sistemare, ordinare perché i nuovi dati incalzano, i collegamenti ammiccano invitanti, spingendo il visitatore in altre zone del non-tempo.”
In breve, la fine del nostro mondo, del nostro spazio-tempo.
Qui, nelle parole del giovane, si riverberano le riflessioni del narratore sul testo che sta scrivendo, sulle modalità secondo cui è ancora possibile (o impossibile) redigere un testo che non tradisca il mondo, cioè “tutto ciò che accade”, che non lo violi (anche se non ha senso), poiché tuttavia, nonostante sia ormai scardinato il fondamento della realtà e, quindi, d’ogni narrazione, i libri rimangono, forse unici strumenti di conoscenza. (Ancora un rispecchiamento: il giovane parla del narratore che scrive del giovane che parla del narratore…)
I libri sono quelli che Posthuma preleva dalla biblioteca. Mentre il giovane legge, lui scrive in un miscuglio di lingue, citando da Joyce a Mallarmé, da Novalis a Tolomeo, allo stesso Longo (dalla Gerarchia di Ackermann), ecc.; scrive, soprattutto, del Labirinto, simbolo d’angoscia e speranza; e del Minotauro che espia una colpa di cui non è responsabile. “Nessuno è responsabile: eppure incombe sopra di noi la stessa Moira” (che, insieme al lugubre battito delle ali delle Erinni, dianzi citate, prefigura un futuro gravido d’inspiegabili sciagure).
Nell’ultimo racconto, Prove di città desolata, l’uomo decide di partire (è il suo destino) verso sud, dove “tutto declina verso uno sfinimento” (autostrade, aeroporti abbandonati, deserti colmi di miraggi, laghi prosciugati, cartelloni pubblicitari, tralicci contorti, ecc.).
La donna resta, frequenta le riunioni nel mattatoio comunale. Odore di sangue rappreso, echi di muggiti e urli; al tramonto sacrifici cruenti. La donna ha conosciuto il giovane; sembra innamorato di lei. L’uomo è lontano. Lei scrive, “Vorrei che tu tornassi, ma è un desiderio remoto, allentato. Le tue lettere aprono piccole ferite, ascessi, arricciano squame.”
Al mattatoio hanno scoperto una testa di porco: putrida, verminosa. Hanno obbligato il suo giovane amico a mangiarla. “Non gli possono fare questo, pensavo, mentre qualcuno mi carezzava, una mano s’insinuava sotto la gonna… Mi sono liberata, ho preso il giovane per un braccio, l’ho trascinato via.”
Le donne non partoriscono più; scendono nel fiume immergendosi nell’acqua putre; anche la donna va al fiume, “aspetta che quei liquidi artigli la raschino a sangue”.
S’ipotizzano, in questo racconto finale, diversi sviluppi e prove (di realtà, si fatti), molteplici congetture, ogni cosa potrebbe essere un’altra, il futuro della città, le destinazioni dell’uomo, i sensi e il corpo stesso della donna, che potrebbero mutare in modalità infinite (partorire o abortire, ecc.), in qualità diverse. Infine, un campo lungo sulla città. “Si dovrà decidere se alimentare una speranza (…) (volo di rondini contro un cielo finalmente azzurro, sorriso di madre che allatta un neonato, altalena con un bambino sull’altalena) (...) oppure se condannare definitivamente la città al declino e alla morte. La decisione sarà presa entro i prossimi giorni (o secoli) (…) Il nome della città desolata sarà composto da tutte le lettere di tutte le parole di questo scritto.”

 La scrittura
Dicevamo che il narratore congettura, propone, azzarda ipotesi: sembra non dominare più la materia. Pare assalito da immagini perentorie, forti (i “traumi” fotografati da Trevor), che tuttavia subito si sfilacciano, svaniscono, mentre i personaggi gli sfuggono, le loro identità si scambiano e si confondono Anche la narrazione si tronca all’improvviso con brusche interruzioni, come sopravvenisse l’ordine perentorio di ammutolire, la scomparsa d’ogni possibile rappresentazione di ciò che chiamiamo mondo.
L’autore non è più il deus ex machina del romanzo classico, né l’ordinatore di materiali magmatici e torbidi, in quanto è sovvertito il fondamento d’ogni narrazione; giungendo perfino a ignorare ciò che succede nella materia che, in re, sta lavorando; né riesce a governare le manopole della “macchina/scrittura”, visto che essa dipende da un severo ma incognito Fuzet, il cui nome già rivela un’evidente inconsistenza (Godot, suona più autorevole e rispettabile), come pare ineffabile e beffardo il suo programma.
La scrittura che descrive questo mescolarsi insensato d’accadimenti, tuttavia, è ricca, magmatica, fluente (e singhiozzante), incendiata spesso d’immagini abbaglianti che rendono con grande efficacia l’ininterrotto costituirsi di mondi e il loro consumarsi. Una scrittura pervasa da una costante tensione e da una ininterrotta angoscia, ma animata da una profonda pietas che, sotto traccia, percorre il susseguirsi casuale dei fatti; da un’intima compassione nei confronti degli umani manovrati dagli occulti macchinari.  La fantasmatica Punta Marina (raggiunta, infine) è l’immensa biblioteca, dove il libro e la scrittura si riscattano? È l’unica cosa che resta? La stessa “Fine del Mondo”, termine ineluttabile del Tutto, viene vanificata (anche con il concorso delle agenzie turistiche): essa non ha fine, si ripete stancamente, non sussiste univoca e decisiva. Avviene in ogni istante, replicata all’infinito dalla “macchina”. Anche il minaccioso Tirteo, dunque, non sarebbe che una maschera di cartapesta replicante orrore, un patetico travestimento di pianeta butterato (come nel film di Meliés!)?.
I primi racconti sono una specie di prologo, esercizi d’antropofagia e sbranamento disseminati d’indizi folgoranti di catastrofi; ma il cuore rovente della raccolta sta, a mio parere, nell’irridente “megamacchina” provvista di manopole, tasti e pulsanti, una sorda ferraglia che presiede ai destini del cosmo, governata dalla mente d’un folle. Come dice Shakespeare in Macbeth, “La vita è un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, significante niente”.

***

OMAGGIO A LORENZA FRANCO



PAGHERÒ

Pagherò le mie colpe con la morte,
sarà una punizione sufficiente.
Dimentichiamoci del trascendente,
che lascia sempre chiuse le sue porte.

Se credere è anche bestemmiare,
misfatti attribuendo al proprio dio,
la fede, consegniamola all’oblio,
la realtà, la dobbiamo sopportare.

L’osservatore altera l’evento,
causalità  or non più rigorosa.
Ora l’oggetto non è più la cosa,
ma di concetti un accavallamento.

Caduto il realismo newtoniano,
Einstein reinterpreta la realtà.
Lo spazio non è più o qui, o là,
il tempo? Un concetto solo umano.

Dell’infinito Sartre ha nostalgia,
ma c’è un’antinomia non risolta
tra libertà e necessità . Raccolta
la sfida fu dalla astrologia.

Pur di fuggire dalla realtà,
 a un  Nulla si ricorre ch’è Mistero,
ma ciò ch’è falso a volte è anche vero,
quel che conta è che dia serenità.


[Milano, 18 aprile 2015


Lettera inedita autografa del compianto amico e scrittore
Giuseppe Pontiggia, indirizzata alla poetessa Lorenza Franco.
(Archivio "Odissea")



***
POETI
Claudia Azzola


Sii a me vicino

Sii a me vicino come la vita
ora che non c’è più il carbone
da seminare,  la povere d’oro
degli almanacchi si stinge in fondi
di cortili, portiamo a casa sporte
di spaesamento. Nuovo sentire?
Il cuore fu quello che non ero io,
per la sapiente opera del servo arbitrio;
la mia voce si chiama Sibilla, Titania,
ma anche  Oberon e Amleto;
è stato pagato il prezzo dei saecula
saeculorum  il divenire, così ti getto
nel sogno  di una notte la poesia:
lo scambio  è tra l’àugure che smangia
pezzi di destino, e la colomba
col ramo della pace  del  tempo
passato, passato via, con taluni
punti oscuri preclusi
                             alla memoria

  
***
POETI
DON BURNESS

Don Burness


Memoria

È un giorno di autunno
A Kyoto
Il vento ha il sapore di
Settembre in Alsazia
Cammino lungo un canale
È bellissimo
Belle le anatre
La testa di un colibrì con una striscia gialla
Un airone decolla
Come una poesia
E improvvisamente
È autunno a Strasburgo
1965
Stiamo camminando
Lungo un canale
Mano nella mano
È bellissimo
Ora stringo le mani
Con la memoria.

[Traduzione Max Luciani]

***

Vermeer a Kyoto
Per Mary-Lou, che come Proust ha amato Vermeer

Vermeer a Kyoto
Vermeer il più
Elegante
Dei pittori occidentali
Kyoto la più
Elegante
Delle città
Una giovane donna con una brocca d'acqua
Semplice bella eterna
Come le rocce a Ryoanji
La mappa del mondo
Sulla parete di fondo
L'olandese a Nagasaki
Vermeer a Kyoto

Museo Civico Kyoto 14 novembre 2015
[Traduzione Max Luciani]

***

No in rosso

Al tempio di Long Shan
A Taiwan
Parlo al dio
Faccio al dio
Una domanda
Troverò mai l'amore di nuovo
O almeno una donna
Che porti la felicità
Lancio la rossa pietra divinatoria
Per terra
La risposta
NO.
È la risposta attesa
È la risposta appropriata
Sorrido
Lo so
Mi allontano con Mary-Lou
L'abbraccio e la bacio
Sorrido.

Taiwan - 7 dicembre 215   [Traduzione Max Luciani]

***
L'INTERVISTA
Laura Margherita Volante conversa con Nabil Al-Zein

Babil Al -Zein


L.V.  Dalla Siria sei venuto in Italia in giovane età, dove vivi dal 1966, stabilendoti definitivamente  a Tolentino, nel maceratese, esercitando oltre all’attività di artista la professione medica. Quanto hanno inciso la famiglia, l’educazione e la formazione culturale siriane nell’integrarti in una paese molto diverso dal tuo? Quali le difficoltà e se ci sono state?
N. Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia di albergatori da generazioni, per cui il contatto con gente di varie provenienze, costumi, arte culinaria, religioni, culture e modi di fare, è stato collaudato sin dalla prima mia infanzia. Inoltre ho avuto la fortuna di avere un padre con una cultura invidiabile a 360° e che concepiva la vacanza solo viaggiando nel mondo. Con lui il mio primo impatto con l'Italia risale a 11 anni, dove abbiamo assistito ad un'opera alle terme di Caracalla, per visitare poi anche l'America a 15 anni.
 Credo nella civiltà mediterranea, risultato delle traversie di questi popoli delle varie sponde e della loro contaminazione, l'una con l'altra sia mediante il commercio, che per le invasioni, ma anche mediante pacifici viaggiatori esploratori. Tutto ciò da formare un unico popolo che si esprime con svariate lingue, simili  usi, costumi  e  abitudini, ma che lo differenziano totalmente dai Nord-Mitteleuropei, popoli dell'Africa Sud Sahariana e da quelli  del lontano Oriente. Detto ciò, credo che né io né nessun altro  Arabo,  abbiamo   mai trovato difficoltà d'inserimento  sia in  Italia che in  Spagna o Grecia.

L.V. Oltre agli studi universitari ti sei cimentato ad esprimere il tuo talento creativo e artistico attraverso una ricerca e una evoluzione concettuale, ottenendo successi e riconoscimenti prestigiosi. Quale ponte hai dovuto attraversare per trovare un punto focale, che unificasse il prima e il dopo delle tue esperienze formative e culturali? Come ti sei approcciato all’Arte Occidentale?
N. Sin da piccolo mi divertivo con i colori e i miei lavori parlavano in qualche mondo nel linguaggio di  Matisse e dell'Espressionismo del Novecento,  con delle puntate di arte concettuale sotto la spinta rivoluzionaria (allora nel mio Paese,  appena raggiunta l'indipendenza e minacciato dalle grandi potenze e da quelle locali "Israele"). Come detto prima la mia frequentazione sin da piccolo con l'arte occidentale, specie durante i viaggi, ha fatto sì che dopo  mi trovassi in mezzo a quella senza sentirmi di attraversare nessun  ponte. Forse molta influenza hanno avuto anche i miei studi scientifici (sono medico) fin da imprimere ai miei lavori specie in  questi ultimi  tempi,  una deriva scientifica.

L.V. Da dove sei partito e in quale espressione artistica, movimento e autore hai trovato il germe per poter individuare e sviluppare nel tuo humus psicosocioculturale un linguaggio che andasse oltre al già esplorato, detto, trovato? Ciò è avvenuto per caso in un crocevia di studi formazione esperienze oppure una motivazione personale ha innescato un meccanismo di ricerca per esprimere la tua interiorità in una nuova visione del mondo, che avesse fondamento fenomenologico?
N. Non posso precisare chi incoscientemente ha avuto influenza sulla mia arte, ma posso dire che la grande spinta dopo una certa timidezza nell'espormi e presentarmi al pubblico (per il fatto di essere autodidatta), me l'ha dato Enrico Baj col suo libro "Impariamo la pittura”, vincendo la titubanza derivante dalla mancata frequentazione di Accademie di Belle Arti. Posso dire comunque che ho sempre ammirato il nostro grande Giò Pomodoro che potrebbe avermi incoscientemente influenzato, ma anche una incondizionata ammirazione per la spontaneità di Van Gogh, per il talento di Kandinski, la libertà espressiva di Michelangelo Pistoletto e tutto quanto meravigliosamente espresso nell'arte di Vaserely. Posso dire anche che un'assidua frequentazione di musei, pinacoteche e mostre nazionali ed internazionali ultimamente più indirizzate verso l'arte moderna e contemporanea e il mio tuffo e immersione senza fiato in una lettura e contemplazione di libri, cataloghi ed enciclopedie di arte moderna e contemporanea, la mia partecipazione ad infiniti appuntamenti artistici con tanti colleghi anche giovanissimi sia in Italia che all'estero, sono stati quelli che hanno costituito il mio bagaglio culturale innovativo che ho interpretato in questo mio linguaggio individuale. Mi divertivo nel non avere una linea espressiva univoca che contraddistingue la mia arte e mi sentivo un artista libero alla Pistoletto, e così andavo dall'iconico al concettuale, astratto, ecc. senza tanti sforzi. È stato poi l'incontro con gli amici del Movimento Iperspazialista che si rifà allo spazialismo di Fontana, ad imprimermi un nuovo corso preferenziale, dedicato ad esplorare ogni punto ancora inesplorato nel mondo della terza dimensione, fino a  quando sono arrivato alla conclusione che dopo un secolo della tematica spazialista era ormai tempo di rivolgere l'attenzione nella ricerca della quarta dimensione temporale coniando il mio motto "Dare più spazio  al Tempo per avere più tempo per lo Spazio" e così sono riuscito a coinvolgere tanti amici iperspazialisti ed altri ad abbracciare una ricerca volta ad individuare il tempo, registrarlo e vederlo mediante la sua influenza su tutto quello che ci circonda ma anche sulla nostra vita stessa,  dal momento  che il Tempo per via dell' incessabile movimento, fa sì che tutto l'Universo sia in continuo  mutamento che segnala la sua vitalità.

Quarta dimensione


L.V. Da italo siriano qual è il tuo punto di vista di fronte alla tragedia siriana del suo popolo? Quale soluzione proporresti per fronteggiare tale crisi planetaria ed epocale? Ci sarebbe una soluzione? Cosa dobbiamo aspettarci?
N. Gli Arabi sono un popolo unito nella loro lingua, tradizioni, usi e costumi, storia, religioni e cultura in generale. L'ondata nazionalistica che ha travolto i popoli europei con conseguente unità d'Italia, tedesca ecc. ha fatto nascere il sentimento nazionalistico anche tra gli i Arabi, i quali  ribellandosi al dominio turco-ottomano nella 1a Guerra Mondiale, aspiravano alla realizzazione di tale unità. Invece si sono trovati intrappolati dal colonialismo occidentale anglo-francese che li ha suddivisi artificiosamente in una ventina di Paesi mai autosufficienti e che a causa del dramma del popolo palestinese e dei conseguenti continui conflitti con lo stato ebraico, si è creata una ipertrofia militare di quei Paesi che ha travolto le loro istituzioni finendo il popolo  sotto il giogo di feroci dittatori,  che hanno reso loro la vita ancora più difficile di quanto era sotto gli usurpatori colonialisti. Cinque anni fa la Primavera Araba: una gigantesca ma pacifica ribellione di tutto il popolo arabo senza rispettare i confini disegnati dagli imperialisti, ha invaso come marea incontenibile, piazze e centri delle maggiori città reclamando  libertà, dignità e uguaglianza. Era una rivolta di orgoglio di tutto un popolo senza distinzioni sociali, razziali, politiche o religiose; finita purtroppo come strumento in mano alle grandi potenze e a quelle locali che l'hanno trasformata in una insensata guerra civile tra razze e religioni,  mai state in conflitto tra loro dai tempi più remoti, il tutto per realizzare il maledetto disegno della nuova destra americana "Dividere il già diviso", il solo modo per annullare i nemici intorno ad Israele. Solo quando questi malfattori si accorgeranno che l'incendio appiccato rischia di bruciare le dita proprie (vedi emigrazione e crollo dell'economia della vecchia Europa) forse si sveglieranno e si daranno da fare a convincere gli USA a darsi una regolata, essendo ormai questa interessata ai soli suoi rapporti con i Paesi del Pacifico, considerando il patto Atlantico  ormai non più funzionale a suoi nuovi interessi, visto che la Russia del  nuovo Zar non presenta  più pericolo anzi è un socio nella spartizione del vecchio continente.

L.V. Quale lo stato d’animo di un artista di fronte agli accadimenti attuali di violenze, guerre, terrorismo, fame, malattia, ecc? Il messaggio di un artista trova ancora interlocutori disposti a confrontarsi con ideali di uguaglianza giustizia pace? Cosa proporresti per realizzare la formazione dell’uomo e della donna planetari superando le differenze e i conflitti di religione?
N. L'artista ha il dovere (anzi anche il piacere) di vivere tutto quanto che lo circonda tra gioie e dolori e i suoi lavori quando è onesto con se stesso, interpretano sempre questo. La pace, l'amore tra tutti gli uomini e tra loro e tutto il creato (intendo con questo sia mondo animale che quello  vegetale e anche il così definito inanimato) è il messaggio primario di tutte le religioni comprese quelle monoteistiche (Ebraismo, Cristianesimo e Islam), nati nella stessa terra, dalla stessa famiglia a poca distanza chilometrica l'uno dall'altro. Tutti figli di Abramo e dell'Unicità di Dio, ed è per questo è una pura invenzione del materialismo l'idea del "conflitto inevitabile tra civiltà". Non si può dare la colpa alla religione di provocare le guerre come sostengono i materialisti infami, altrimenti non capiamo il perché della 1a e della 2a Guerra Mondiale e di tante altre se le vogliamo capire sotto quest'ottica di lettura. Il Corano recita: "Oh gente, vi abbiamo creato da un maschio e una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù affinché vi conosciate. Il migliore di voi è il più timorato del Creatore". Come si vede questo annuncio coranico è rivolto a tutti gli uomini senza nessuna distinzione e non è indirizzato ai soli Musulmani né a qualsiasi credente,  ma a tutto il genere umano,  con precisa 'uguaglianza tra uomo e donna,  in quanto  mai nessuna religione ha predicato l'attuale prevaricazione nei confronti delle donne che oggi si vuol pretendere  in nome di Dio. L'arte è una lingua universale che non ha frontiere, è uno strumento efficacissimo che deve essere sempre utilizzato per promuovere amore, pace, uguaglianza, libertà per combattere guerre, deturpazione dell'ambiente e delle coscienze. Gli artisti devono sempre essere all'avanguardia in questo compito e mai strumenti al soldo del potere politico né di quello  economico. Ho cercato nel mio piccolo di affrontare queste tematiche, vedi le installazioni: "Oil", "Oil 2", "Watch the watch", ecc.  (http://www.nabil-art.it/?page_id=30) 


Tecnica mista


L.V. Oltre i Tagli di Fontana… ci vuoi spiegare sintetizzando la tua opera artistica, i traguardi e le prospettive?
N. Nella mia visione lo spazialismo e la terza dimensione di Lucio Fontana, ritornano oggi  a rifiorire,  dopo un secolo,  quando vengono agganciati al loro gemello siamese inseparabile il Tempo. Spazio-Tempo sin dagli anni '50, da Einstein in poi, sono stati sempre considerati una cosa unica e le mie opere mettono in concreto questo gemellaggio. Opere che fotografano il Tempo per via del movimento segno di vita, che cambia lo Spazio. Così estroflessioni, introflessioni, tagli, ecc. non sono più fisse ma subiscono aumenti e diminuzioni, apparizioni e sparizioni in un'alternanza meravigliosa di vuoto-pieno nello spazio ad esprimere armonia di evoluzioni, caratteristica essenziale del  nostro universo. Nelle mie opere ho voluto anche individuare l'artefice del taglio e delle estro-introflessioni in un oggetto comune di vita che può essere una forchetta, una palla o altro ancora definendo cosi il mio spazio "Spazio Vitale" per distinguerlo da uno spazialismo immutabile nel tempo che non esprime la vera realtà.

L.V.  Progetti prossimi e futuri in tale clima caotico come pensi di realizzarli e come raggiungere un’ottica universalista, accessibile a tutti?
N. La mia arte è stata sempre sperimentale, attraversa percorsi accidentati mai esplorati e questo mi mette davanti a tanti ostacoli sia di natura economica che progettistica nello studio di materiali e la loro compatibilità fisico-chimica. Ciò rende la nascita di una mia opera, frutto di un lungo e gravoso travaglio, anche perché il mio intento è sempre il coinvolgimento del fruitore  dandogli  un prodotto giustamente comprensibile eL stimolante indipendentemente dalla sua preparazione artistica. 




L'INTERVISTA                                                 
Laura Margherita Volante conversa con Giancarlo Trapanese

Giancarlo Trapanese


Volante. Tu Giancarlo, che hai iniziato l’attività di giornalista scrivendo per il Resto del Carlino e Corriere Adriatico e poi in Rai collaborando con importanti trasmissioni sportive, come sei passato a quel fuoco sacro della scrittura letteraria con romanzi di indubbio successo, percorso che inizia nel 1990  proseguendo fino al tuo ultimo romanzo "Chi mi ha ucciso?" (Italic-Pequod editore)?
Trapanese. Forse è stata proprio la constatazione che per tanti, tantissimi anni (ora sono 42) di giornalismo e di impegno in questo settore, la dittatura del tempo e dello spazio (le trenta righe o il minuto e mezzo) l’ho sempre sofferta troppo, nel senso che era per me difficilissimo esprimere in modo esaustivo e compiuto le sensazioni e le riflessioni che tanti fatti (soprattutto di cronaca nera) mi provocavano. Così piano piano è maturato il desiderio di mettermi davanti al computer senza un limite, di ascoltare ciò che mente e cuore suggerivano senza lacci e confini e affrontare temi importanti e delicati che sentivo miei.
V. I premi legati all’attività di scrittore e non solo ormai non si contano più. La passione per la psicologia e il couseling quanto hanno inciso sui temi centrali dei tuoi romanzi e quanto invece le tue esperienze personali ed esistenziali? Si intrecciano o fanno parte di un’innata sensibilità volta ad esplorare i meandri  anche più oscuri dell’anima umana?
T. Sono decisamente uno psicologo mancato, è vero. Alla mia epoca (parliamo del 1972) la facoltà di psicologia di Roma era unica e ai primi passi, non esisteva ancora l’ordine degli psicologi e quando espressi il desiderio di andare in quella direzione trovai comprensibili opposizioni in famiglia perché si trattava di una professione tutta da delineare dove Freud ancora dettava legge (o quasi) . Così mi limitai a leggere molto di psicologia, mi iscrissi a Legge e nel frattempo seguivo gli studi (in psicologia) di una mia amica leggendo i suoi testi, approfondendo argomenti. Chiaro che questa passione unita poi al mio lavoro hanno creato grandi opportunità di analisi e riflessione e che quindi le due passioni si siano saldate più che intrecciate. Devo dire che senza alcuna spinta da parte mia (anzi…) mia figlia Gloria ha intrapreso quella strada ed è divenuta psicologa ed anche direi una psicologa di grande sensibilità.
V. Nella raccolta di racconti “Se son fiori” sviluppi attraverso la narrazione il tema dell’indifferenza: dodici storie di amori impossibili, ansia di autenticità anche attraverso la trasgressione, speranze e tradimenti, ecc… L’indifferenza a cui ti riferisci è frutto di una società malata: di irrelati in cerca di un’identità mancata o di solitudini incapaci a trovare la strada di casa, quella che porta alla realizzazione del sé, attraverso la memoria di esperienze condivise?
T. Assolutamente vero: l’indifferenza è uno dei grandi cancri di quest’epoca malata di egoismo e di interesse. Quasi tutti i miei libri hanno profondi riferimenti a questo problema e Se son fiori, il primo, fu il mio approccio d’esordio ad una tematica complessa. Sono dodici racconti ma in realtà, erano dodici romanzi in fasce…


Giancarlo Trapanese


V. In “Luna traversa” affronti attraverso i suoi protagonisti, genitori alle prese con un adolescente in cui le dinamiche familiari affondano le loro radici nei vissuti d’infanzia di ognuno. Quanto è difficile oggi essere genitori, primi educatori di queste nuove generazioni destinate a vivere una realtà ingestibile, imprevedibile e piena di insidie? Quanta l’influenza dei mass media e quanta invece l’incapacità a crescere come genitori affetti da adolescenza interminata?
T. La coppia che scoppia, il diverso da sé che raramente viene accettato, l’amore che è possesso e non donazione, persino la coesistenza di cristianesimo e islam sono al centro di quel libro per me molto importante. Le dinamiche familiari e la difficoltà di una relazione positiva con i propri figli sono la riflessione che propongo con una storia di “fantasia” ma che affonda le radici in tante storie e testimonianze che ho raccolto sia in un periodo durante il quale facevo il consulente di coppia”on line” sia in una frequentazione di amici e coppie islamiche. Un modo per capire e per capirsi.
V.Madre vendetta” offre uno spaccato inquietante dei giorni nostri. Romanzo dalle forti tinte del giallo, nel quale le donne diventano martiri e vittime di uomini deboli e per questo violenti. Il rapporto fra giustizia e punizione è spesso inadeguato. Cosa ti ha spinto a scrivere un romanzo da piegature delicate e forti allo stesso tempo? Quale lo stato d’animo di uomo di fronte a tanti femminicidi?
T. La conoscenza occasionale (face book) della madre di una vittima di femminicidio, Rossana Wade, uccisa dal fidanzato nel 1991, con condanna del’assassino che ha scontato solo 12 anni di carcere, diede il via a questa storia. Lunghi confronti e colloqui con una madre che non è mai riuscita a perdonare e che odio e rabbia hanno letteralmente distrutto e che non è mai riuscita ad avere giustizia tanto che non ha ricevuto mai una sola lira… Da lì l’idea di un romanzo-denuncia, dalle forti tinte gialle come dicevi, ma anche dall’analisi di come la tragedia non si annunci con squilli di tromba, ma spesso covi in atteggiamento sottovalutati ed incompresi.
V. Il romanzo “La giusta scelta” mi riporta alla memoria il racconto di Pirandello “Il treno ha fischiato”. Infatti, il protagonista del tuo romanzo Sauro Rocchi, impiegato di banca, frustrato per un senso di fallimento deve scegliere se mantenersi onesto o intraprendere una via illecita per cambiare la propria esistenza in una società che non premia il merito, ma i “senza scrupolo”. Mentre al protagonista di Pirandello, anch’egli impiegato, contabile affidabile e ligio al dovere, con un carico familiare incredibile la soluzione avviene nella sua immaginazione tanto da decidere di fingersi pazzo. Cosa è cambiato oggi? Esiste una giusta scelta o è una provocazione per…?
T. Pirandelliano anche il riferimento a “Il fu Mattia Pascal” perché in fondo Sauro Rocchi decide poi di sparire al mondo con la sua identità e crearsene un’altra scoprendo poi che i soldi non sempre garantiscono la chiusura con il proprio passato da “ sfigato” e non consentono la chiusura dei conti con il proprio passato. Ma c’è un altro riferimento molto forte: quello ad una società dove se “non conosci qualcuno” non sei considerato, non vai avanti, non vieni considerato per quello che realmente vali. La meritocrazia che manca e che è uno dei mali più grandi, uno dei problemi più devastanti della società in genere ma dell’Italia in particolare.

La copertina del libro


V. L’ultimo tuo romanzo “Chi mi ha ucciso” esce dalla dimensione di introspezione psicologica dei personaggi per avventurarsi in un giallo-triller in atmosfere surreali, i cui confini con la realtà diventano specchi deformanti in un labirinto di universi paralleli. È la proiezione di questo mondo incerto indefinito e complesso oppure ansia di assoluto per oltrepassare quella soglia o quella siepe di leopardiana memoria?    
T. Chiusi in una villa del ’700 con un classico del giallo mondiale (cena con il delitto) i personaggi di questo giallo sono in fondo una..perifrasi dei mali della nostra epoca con i quali dobbiamo fare i conti per “uscire” dal circolo chiuso dell’esistenza che è volta al sé e non all’altro. Perdono, amore, accettazione e un po’ di speranza sono i condimenti di un giallo insolito nel quale ho anche voluto affrontare il tema della “dimensione del tempo e dello spazio” di straordinaria attualità dopo la conferma della teoria della relatività di Einstein. È un libro per me molto importante, un qualcosa che mi permette di spaziare sia nella mia passione per il “thriller” (forse figlia del mio vecchio lavoro di cronista di nera) sia negli argomenti trattati in tutti gli altri libri. Un giallo a sorpresa con una serie infinita di colpi di scena e di occasione di meditazione.

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LIBRI
LA LOGOFENICA. TRA PENSIERO ED ESISTENZA 
di  Laura Margherita Volante

 "Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto una    risposta i nostri problemi di vita non sono neppure ancora toccati. Certo allora non resta più   domanda alcuna; e appunto questa è la risposta".                             
L. Wittgenstein

La copertina del libro

Si studiano infatti le singole scienze, ma separatamente, senza affrontare il problema del sapere scientifico come tale, nel suo formarsi, attraverso un’evoluzione socio-culturale. Il superamento della dicotomia fra sapere umanistico e sapere scientifico e la proposizione di un’ottica realmente interdisciplinare, non possono porsi tanto come punto di partenza quanto come punto di arrivo. Non competizione, ma un “arrivare insieme” nello studio, nella ricerca, nella esperienza su uno sforzo di scambi di idee organizzando un’adeguata rete di rapporti. Nessuno nega l'utilità di ricercare nel passato le radici umane ed in particolare le remote origini della volontà e capacità di comportamento etico. Se il sapere scientifico fallisce nel tentativo di costruire una "teologia della storia" come può allora rispondere ai "problemi di vita" sulla base dei puri dati della scienza? E per le giovani generazioni la maturazione psicologica e la ricerca del proprio ruolo sociale è reso più difficile proprio per la molteplicità e la complessità dei modelli e delle informazioni proposte. Bisogna qui tenere presente il fenomeno che gli antropologi chiamano “irrazionalità delle culture” e di “vischiosità dei fatti culturali”.La psichiatria più evoluta dialoga con le neuroscienze che prendono in esame: la coscienza, gli aspetti cognitivi, gli aspetti inconsci che rivelano la sfera emotiva. Il rapporto fra questi tre elementi, dove l’aspetto emotivo e motivazionale determinano/condizionano il cognitivo, è la via possibile per recuperare, riscoprire, accogliere, reinventando rapporti capaci di ricondurre all’interazione ciò che ora appare diviso: il dialogo tra famiglia e società. Fatta questa premessa, l’opera “La Logofenica Tra Pensiero ed Esistenza” di Gil Gallo e Bruno Gallo mi riconduce all’Educazione Sentimentale di Flaubert, romanzo in antitesi alla struttura tradizionale dei romanzi romantici dell’800 europeo. Infatti, la narrativa di Flaubert si contrappone con un rincorrersi di vicende, di incontri, di un amore mancato, dove gli individui hanno difficoltà a costruire un progetto di vita regolare, razionale. In una lettera Flaubert dice che ogni opera deve fare la “punta” come una piramide, ossia raccogliere tutte le linee e le spinte narrative in un punto chiave, ossia come punto di irradiazione e scioglimento della vicenda. Flaubert stesso avverte che l’Arte non è la Natura. Infatti, essa chiede una dose di combinazione e di artificio, che egli tuttavia rifiuta, con un sottile senso di malinconia: per la giovinezza che svanisce, per gli amori che si estinguono, per le disillusioni e la vita che inesorabilmente s’invola: “L’arte non è fatta per dipingere le eccezioni”. Flaubert con i suoi personaggi mette in scena una psiche che non riusciamo a comprendere semplicemente con giudizi morali e neanche con una diagnosi “caratteriale”. L’educazione sentimentale è un libro destinato a chi è disposto a percepire i legami tra sfera delle passioni, meccanismi della libido e azioni dell’intelligenza. Per questo motivo, il caso, la visione interna del mondo legato all’esperienza e ad una educazione sentimentale e su quali valori, restano inesplorati. Il tema rimane aperto in questa sospensione di relazioni intraprese, perse in un’esistenza ciclica: un ciclo ne apre un altro e poi un altro ancora, dove gli individui sono gli strumenti di un pensiero universale, che dal caos facendosi caso, si muove armonicamente in piccole esistenze piene di contraddizioni, di contrasti in una ricerca ansiosa di unitarietà all’esterno, senza la comprensione di una unicità, non fuori ma dentro, in una interazione fra ragione istinto sentimento. Ecco che il pensiero esistenziale/sentimentale degli autori, in una visione bi-logica dell’esistenza, varca nuovi orizzonti, che sorgono e risorgono esplodendo in un rinnovato big-bang di fatti ed eventi fra morte e vita: l’una la creazione dell’altra, destinata a morire per dar vita  ad una creazione continua in un vitalismo infinito il cui respiro, fra vita e morte, è il battito senza tempo dell’Universo. Ma il battito fa parte dell’uno che scandisce verso l’unità esistenziale, contraddistinta da miriadi di energie complesse e indeterminate ad continuum. La memoria non si spegne, radicata nell’inconscio collettivo distinto e unito fra cultura prima e dopo, in un susseguirsi di parallelismi attraverso un viaggio di diverse umanità scortate dalla Natura e dall’Esperienza. In tutte le culture dell'antichità musica e medicina erano praticamente una cosa sola. Lo sciamano, ad esempio, sapeva che il mondo è costituito secondo principi musicali, che la vita del cosmo, ma anche quella dell'uomo, è dominata dal ritmo e dall'armonia. Sapeva che la musica ha un potere incantatorio sulla parte irrazionale, che procura benessere e che nei casi di malattia può ricostituire l'armonia perduta. L’azione dei suoni sull’essere umano è molto profonda e reale perché, effettivamente, la nostra costituzione interiore è conformata come un vivente strumento musicale, le cui corde sono il tessuto animico sovrasensibile del corpo astrale che, vibrando, riproducono le armonie e la musica del cosmo, risuonando nell’elemento “acqua” del corpo vitale. Secondo il mito, quando la Luna si staccò dalla Terra, Osiride trasferì la sua azione su questa e, suonando l’entità astrale umana, fece scaturire dal midollo spinale le ventotto paia di nervi in collegamento con le ventotto fasi lunari (il fatto che i doppi nervi siano trentuno dovuto allo sfasamento tra il ciclo lunare e quello solare). Strumenti come la lira, la cetra ed altri simili nascono, quindi, come vere immaginazioni spirituali, essendo concrete realtà dell’interiorità umana. Il violino lunare rappresenta le tre facoltà dell’anima: pensare sentire volere. Nella chitarra a cinque corde la parte inferiore della cassa armonica rappresenta la Luna “volere”; la rosa (apertura al centro della tavola armonica) corrisponde al Sole “sentire”; la testa dello strumento (parte terminale del manico) richiama lo Zodiaco attraverso la sfera di Saturno “pensare”. Le cinque corde rappresentano i pianeti: Saturno, Giove, Marte, Venere e Mercurio. C'erano determinate melodie, composte per le passioni dell'anima -gli stati di scoraggiamento e di depressione- che pensavano fossero di grandissimo giovamento. Altre erano per l'ira e l'eccitazione e ogni altra consimile perturbazione dell'animo. Inoltre esisteva una musica di genere differente, escogitata al fine di contrastare il desiderio. I pitagorici usavano anche danzare, e lo strumento di cui si servivano a questo fine era la lira, perché il suono del flauto lo consideravano violento, adatto alle feste popolari e del tutto indegno di uomini di condizione libera. Per favorire l'emendazione dell'animo usavano inoltre recitare versi scelti di Omero e di Esiodo. Gli antichi, quindi, hanno colto l’impalpabile linguaggio dell’Universo estendibile e circoscritto entro dimensioni parallele e infinite, in un reticolo di corde vocali dell’esistenza entro altre esistenze, in corpi sonori che risvegliano le coscienze dal coma per quell’Eco ancestrale evocata. In tal modo la cultura ha perso ogni vincolante rinvio ad un universo etnico stabile, per venire a connotare una fragile ragnatela di significati generati continuamente dall'interazione sociale e non solo.

Gil Gallo e Bruno Gallo
La logofenica. Tra pensiero ed Esistenza
Corso editore Ravenna 2006
Pagg. 90  € 15,00            

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AFORISMI
di Laura Margherita Volante

 
Laura M. Volante

Ogni morale ha la sua storia.
I segreto della felicità è tagliare i rami secchi.
La poesia è colpire l’anima con il pugno di ferro in un guanto di velluto.
Cur” Carpe diem?” Memento mori…!
L’intelligenza dei montati è idiozia.
Le parole velenose sono le bacche di chi è sempre pieno di veleno.
Il buono e il bello sono i pilastri dell’anima amorevole.
Dal vero amico si scopre l’inimicizia di un altro…
Il tempo corre e i veri amici restano scolpiti nel cuore.
Il sapere senza esperienza non porta alla vera conoscenza.
Chi ne sa di più succede che non capisca niente…
Chi si circonda di adulatori è privo di autostima.
Le delusioni arrivano da persone non funzionali alle aspettative.
Mulinelli sociali. Chi sa galleggiare…non affoga.
Erotomania da intellettuale. Quando il cervello fuma l’espresso è pronto.
De gustibus…C’è chi si rilassa solo con i pompaggi alla cervicale.
I perdenti nel ritrovarsi… diventano vincenti.
Non accettare i segni del vissuto è come non aver guardato la vita…
Chi soffia contro il tempo… si gonfia!
Il mondo in una frase. Troppe frasi al mondo si disperdono 
alla velocità della luce.
Il mondo questo sconosciuto. Chi si concentra su di sé vive fuori dal mondo…
Chi abbandona ha già abbandonato se stesso all’inferno.
La mancanza di accoglienza è fuga da qualsiasi responsabilità.
Il quadro d’arte fa quadrato fra i suoi cultori.
Il bacio è un soffio di rugiada per un nuovo giorno.

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Catastrofi in miniatura: un invito all’aforisma.
di Amedeo Ansaldi  
L'albero della sapienza


Definizione di ‘aforisma’
Che cos’è un aforisma? La definizione che possiamo trovare in qualsiasi dizionario, recita più o meno: ‘Breve massima che enuncia una regola pratica, una norma di saggezza o una sentenza filosofica.
Definizione ineccepibile, non esaustiva. La caratteristica subito evidente dell’aforisma è la brevità, l’estrema economia di mezzi espressivi, lo stile disadorno.
La necessità di riuscire stringati nell’esposizione delle idee, a beneficio del lettore non meno che dell’arte, apparivano chiare già in epoca antica. Fin dagli albori della filosofia Talete ammoniva che: “Molte parole non sono mai indizio di molta sapienza.”, e secondo Seneca: “E’ proprio di un grande artista saper racchiudere tutto in un piccolo spazio.” Amleto sosteneva che “la brevità è l’anima della saggezza.” “Poco e buono” sarà il criterio che informa i Ricordi del Guicciardini: meglio “uno fiore che accumulare tanta materia.” Questi appelli alla concisione si ripetono nel corso dei secoli - il che autorizza il sospetto che siano rimasti, in larga misura, inascoltati. Blaise Pascal si scusava con un amico a cui scriveva dicendo: “Ho fatto questa lettera più lunga solo perché non ho avuto il tempo di farla più corta.”: quindi la brevità - anche - come risultato di una lunga e tenace applicazione. L’aforisma non si dilunga in particolari che possano essere vantaggiosamente sottaciuti. “Il segreto per annoiare sta nel dire tutto”, ricordava Voltaire.
Jules Renard, autore, fra l’altro, di diari in forma aforistica, esorta piuttosto a non concedere tregua al lettore: “Avere uno stile esatto, preciso, in risalto, da risvegliare un morto.” E in effetti, l’ambizione - talora malcelata - dell’aforisma, è di togliere il fiato al lettore; magari di farlo sobbalzare sulla sedia. In questo senso va intesa anche la definizione coniata da Giovanni Papini: “L’aforisma: una verità detta in poche parole - epperò in modo da stupire più di una menzogna.” Il critico Alfonso Berardinelli, dal canto suo, rileva: “E’ una piccola leva con cui si possono sollevare interi mondi.”


La semplicità è un’altra delle caratteristiche irrinunciabili. L’aforista rifugge dalle parole strane, ricercate, rare. Nessun lettore comune dovrà mai mettere mano a un vocabolario per penetrare il significato di un aforisma; gli ostacoli che il genere propone sono solo di ordine concettuale.
Montaigne diceva: “Nel linguaggio, la ricerca di frasi nuove e di parole rare proviene da un’ambizione scolastica e puerile. Possa io non usar altre parole che quelle che servono abitualmente a qualunque cittadino”. Mentre Karl Kraus osservava: “Adoperare parole inusuali è un atto di maleducazione letteraria. Solo le difficoltà di pensiero devono essere messe fra i piedi del pubblico.”

Prezzolini, dell’aforisma, preferisce sottolineare il carattere eletto, aristocratico: “Scrivere aforismi è da gran signore: un gran signore regala bottiglie di vino pregiato; un villano regala una botte di vino mediocre.”

Un’avvertenza: non chiedete mai a un autore il significato di un suo aforisma. E’ probabile che non sappia rispondervi. Diceva Michaux: “Si ha voglia di scrivere un romanzo, e si scrive un’opera di filosofia. Non si è mai soli nella propria pelle.” E anche Borges esprimeva un concetto analogo (con riferimento alla poesia, ma altrettanto calzante se riferito all’aforisma): “Ogni poesia è misteriosa; nessuno sa fino in fondo che cosa gli è stato concesso di scrivere.” Mentre Karl Kraus riconosce:“Io domino solo il linguaggio degli altri. Il mio fa di me quello che vuole.”

L’aforisma è sempre il coronamento di una serie di riflessioni che lo precedono e che rimangono implicite, e nello stesso tempo funge anche da punto di partenza per riflessioni nuove, affidate all’iniziativa del lettore avvertito.
Sempre Prezzolini sosteneva: “Gli aforismi sono vasi che il lettore riempie con il suo vino.” E Karl Kraus: “L’aforisma non coincide mai con la verità: o è una mezza verità o una verità e mezzo.” Mentre Carlo Gragnani, grande aforista ticinese sul quale torneremo, scrive: “Talvolta le nostre parole ci ritornano cariche di sensi di cui si era ignari quando le abbiamo licenziate.”  Finiamo con le parole di un altro autore ticinese, Mario Postizzi (presente oggi fra di noi): “Il nucleo di un concetto sprigiona un’energia sempre rinnovabile.”


Rapporti tra aforisma e altri generi letterari. L’aforisma si distingue dalla filosofia per il suo carattere asistematico (Cioran in un’intervista avvertiva: “Scrivo aforismi perché sono un irresponsabile”). L’aforista può permettersi quello che a un filosofo non è consentito: la contraddizione. In un’opera di filosofia i conti alla fine devono sempre tornare, deve esserci coerenza di pensiero nel quadro di una visione organica del mondo; in una silloge aforistica i conti spesso non tornano perché questa forma letteraria, frammentaria per natura, ricalca la vita nei suoi aspetti contradditori. Per comprendere un libro di filosofia bisogna leggerlo fino in fondo, con metodo, dalla prima all’ultima pagina. Con l’aforisma si può procedere diversamente. Sempre Carlo Gragnani: “Cerco un libro che si possa leggere con interesse anche aprendolo a caso. Ogni frase sufficiente a se stessa.”

L’aforisma si differenzia, e anzi si pone agli antipodi, anche rispetto ad altre forme d’espressione quali lo slogan, il motto propagandistico, la  battuta. L’unico aspetto di apparente somiglianza è dato dalla brevità.  Lo slogan vuole trasmettere certezze; l’aforisma spesso, pur nella sua perentorietà, suggerisce il dubbio, obbliga il lettore a rimettere in discussione interi sistemi di valori. Lo slogan si propone di paralizzare il pensiero dopo aver imposto acriticamente un’idea, l’aforisma di offrire alla mente continui stimoli. Gli slogan (per es.: “Colpirne uno per educarne cento”: Mao; “Un popolo, un impero, un capo.”: motto nazista) non offrono alcuna nuova prospettiva al pensiero. L’aforisma, al contrario, sprigiona senso lentamente, nel tempo, e il lettore che vi ritorni sopra col pensiero, magari a distanza di secoli, scoprirà sempre nuove sfumature, significati nascosti, correlazioni impreviste.
La battuta, dal canto suo, non si prefigge altro scopo che quello di far ridere; spesso, come vedremo, anche l’aforisma è divertente, ma la risata che suscita serve solo a mettere in moto il pensiero; non rappresenta il fine ma il mezzo. Più difficile stabilire una distinzione fra aforisma e paradosso, dal momento che l’aforisma, molto spesso, capovolge il senso comune. Oscar Wilde sosteneva che la verità è nel paradosso; e si potrebbe aggiungere che il suo maggior merito è di saperlo nascondere tanto bene. Il dottor Freud sosteneva: “Non si è mai tanto seri come quando si scherza.”. L’aforisma paradossale è spesso anche scorretto:
“Se vi danno uno schiaffo restituitene quattro, non importa su quale guancia.” (Chateaubriand)
“Preferirei avere del sangue sulle mani piuttosto che dell’acqua come Ponzio Pilato.” (Graham Greene)
“Come tutti gli egoisti di buon cuore non sopportava la vista delle persone che rendeva infelici.”  (Wilde)
“La sottigliezza non abbandona mai gli uomini di spirito, specialmente quando sono nel torto.” (Goethe)
“Gli amici si dicono sinceri, i nemici lo sono.” (Schopenauer)
“Certe parole, più che dal seno, sembrano sfuggite dalla scollatura.” (Dino Basili)
Anche il ticinese Carlo Gragnani scrisse spesso aforismi in forma paradossale:
“Non sarei stato contrario a un secondo matrimonio di mio padre. Piuttosto (se avessi potuto) mi sarei fermamente opposto al primo, che ha avuto per me conseguenze incalcolabili.”
“Solo un’esagerata opinione di se stesso gli consentiva di avere tanti rimorsi.”
“Chiarire i malintesi. Sì, ma non facciamone una regola. Ne amministro taluni con profitto.”
“Confessioni di un medico: molti morti pesano sulla mia coscienza, ed anche taluni vivi.”
Foto di Livia Corona

Aforisma e citazione. Esistono raccolte di aforismi propriamente dette (es.: le Massime di La Rochefoucauld o i 111 Pensieri di Leopardi), e ci sono aforismi, anche molto famosi, che sono semplicemente citazioni tratte da romanzi, opere teatrali, saggi, ecc. che possono venir estrapolate dal loro contesto senza perdere nulla della loro autonomia di significato. La più giustamente celebre è forse l’incipit di Anna Karenina  (“Tutte le famiglie felici si assomigliano; ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.”); ma molto noti (anzi, i più universalmente citati e venduti) sono anche gli Aforismi di Oscar Wilde, mere citazioni da sue commedie o saggi critici. Questa breve presentazione del genere letterario contiene sia aforismi ‘puri’, cioè concepiti in quanto tali, sia citazioni di carattere aforistico da opere appartenenti ad altri generi. Una caratteristica connaturata all’aforisma è l’universalità dei significati, favorita dalla sua stessa sostanziale ambiguità. Meno parole un aforisma contiene, maggiore è il numero di significati che sarà possibile attribuirgli, anche al di là delle intenzioni dell’autore.
Un tratto comune alla maggioranza degli aforisti, almeno da La Rochefoucauld in poi, è il sostanziale pessimismo: uno degli aspetti che maggiormente contribuisce ad allontanare il grande pubblico. Che non è un pessimismo per partito preso, compiaciuto, gratuito, ma una onesta presa d’atto della natura umana e delle storture della società, che deriva dalla viva esperienza e si esprime in modi ora amari, ora ironici, ora beffardi. L’aforista è un uomo, prima ancora che uno scrittore, con una visione sconsolata del mondo, che guarda alle cose per quello che sono e non per come si vorrebbe che fossero, e che descrive la realtà senza sconti.

Tiziano Rovelli "Opera in rosso"

L’aforisma nell’antichità greco-romana
Nell’antichità l’aforisma assolve soprattutto alla funzione di massima di saggezza. In qualche caso si tratta davvero di forme letterarie brevi, cioè raccolti di pensieri, sparsi o legati l’uno all’altro, quindi, diremmo oggi, opere a carattere prevalentemente aforistico (come nel caso del Manuale di Epitteto, o i Ricordi dell’imperatore Marco Aurelio); in altri di frammenti superstiti di opere andate perdute (per es. i frammenti eraclitei, e dei presocratici in genere), che compendiano in poche parole (l’eracliteo ‘Tutto scorre”; o l’epicureo “Vivi nascosto”) interi sistemi filosofici; altri ancora sono semplici citazioni, ma che dimostrano come lo spirito sentenzioso fosse tutt’altro che estraneo all’antichità classica. Ecco alcune formule capaci di sintetizzare in un breve giro di frase l’intera opera di un filosofo, o la visione del mondo di un poeta, di un drammaturgo, di un favolista:
“Non scenderai due volte nello stesso fiume.” (Eraclito: l’idea del ‘divenire’)
“Non è facile fermare un sasso quando è uscito dalla mano, né un discorso quando è uscito dalla bocca.” (Euripide, l’idea di ‘destino’.)
“Nessuna cosa basta a colui, al quale il poco non basta.” (Epicuro)
“Taluni pensano che commettere ingiustizie sia il solo modo di esercitare il potere.” (Sallustio)
“Nulla è più duro di una pietra e nulla più molle dell’acqua, eppure la molle acqua scava la dura pietra.” (Ovidio)
“L’alleanza con uno più potente non è mai sicura.” (Fedro)
“Niente è più contrario alla guarigione quanto il cambiare spesso i rimedi.” (Seneca)
“Non sono le cose reali a turbare gli uomini, ma le opinioni che essi si fanno delle cose.”
“Checché dica qualcuno sul tuo conto, non badargli, perché non è cosa che ti riguardi.” (Epitteto)
“Le conseguenze della collera sono sempre molto più gravi delle sue cause.” (Marco Aurelio)

La tradizione della massima di saggezza si prolunga ben oltre l’antichità greca e romana, arrivando fino ai nostri giorni. Ecco qualche esempio più recente:
“La virtù ci costa tanto, per colpa nostra; perché se fossimo sempre savi, raramente avremmo bisogno di essere virtuosi.” (Rousseau)
“La vera felicità costa poco; se è cara, non è di buona qualità.” (Chateaubriand)
“Finché ti si elogia, credi pure che non sei sulla tua strada, ma su quella di un altro.” (Nietzsche).
“Chi ascolta la verità non è inferiore a chi la pronuncia.” (Khalil Gibran)

A partire dal Rinascimento spesso la letteratura aforistica si risolve in consigli, ammonimenti, norme di accortezza, non di rado spregiudicati e tendenti al cinismo e al calcolo (si pensi solo al ‘fine che giustifica i mezzi’, attribuito al Machiavelli):
“Chi non applica nuovi rimedi, dev’essere pronto a nuovi mali; poiché il tempo è il più grande degli innovatori.” (Bacone)
“Le ingiurie si debbono fare tutte insieme, di modo che, assaporandosi meno, meno offendano; e i benefici si debbono fare a poco a poco, di modo che si assaporino meglio.”
(Machiavelli)
“Guardatevi dal fare agli uomini quei dispiaceri che non si possono fare senza fare eguale dispiacere ad altri; perché chi è ingiuriato non dimentica, e chi è beneficiato non ricorda.” (Guicciardini)
“Il più certo modo di celare agli altri i confini del proprio sapere, è di non trapassarli.” (Leopardi)
“Chi non sa mettere in ghiaccio i suoi pensieri non deve portarsi nel calore della disputa.” (Nietzsche)
“Bel vantaggio la gloria: avere un nome che si trascina sulle labbra degli stolti.” (Barbey d’Aurevilly)

A partire dal ‘600, in particolare con La Rochefoucauld, si impone la tendenza, negli scrittori moralisti a sondare con acutezza i moti dell’animo umano, spesso mostrandone senza reticenze le sue motivazioni meno nobili. Come nel Rinascimento, l’uomo è posto al centro della riflessione filosofica, ma per indagarne piuttosto il volto nascosto, quello che di solito, per un malinteso senso del pudore, si preferisce lasciare in ombra:
“Sono rari i difetti che non siano più perdonabili dei mezzi usati per nasconderli.”
“I vecchi amano dare buoni consigli per consolarsi di non poter più dare il cattivo esempio.”
“Ciò che rende i dolori della vergogna e della gelosia così acuti, è che la vanità non può aiutarci a sopportarli.”
(La Rochefoucauld)
“Ambiremmo meno alla stima degli uomini se fossimo più sicuri d’esserne degni.” (Vauvenargues)
“Per molti la morale consiste solamente nelle precauzioni che si prendono per trasgredirla.” (A. Guinon)
“E’ curioso a vedersi che gli uomini di molto merito hanno sempre le maniere semplici, e che sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco merito.” (Leopardi)
“Le lodi, se fossimo sicuri di meritarle, ci sembrerebbero sempre assai; ma noi ne siamo tanto avidi perché ci persuadono poco.” (Rostand)
“Il vero egoista accetta anche che gli altri siano felici, se lo sono grazie a lui.” (Renard)

L’aforisma moderno
L’aforisma moderno, tende, più che mai, a smascherare gli aspetti meno nobili, o anche più francamente sordidi della realtà, e a illuminarli con la luce più cruda. Ha la capacità di cogliere le falle che si aprono nella realtà e di porle, senza cedere a ipocrite tentazioni consolatorie o fastidiose reticenze, all’attenzione del lettore. Parafrasando Jonathan Swift, potremmo dire che l’aforisma “fruga ogni angolo sporco della natura, portandone alla luce la nascosta corruzione.”
L’aforisma moderno è quasi sempre quindi uno strumento di opposizione alle convinzioni più diffuse nel proprio tempo, una forma di resistenza contro qualcosa o contro qualcuno. Niente sfugge agli strali velenosi dell’aforista: i regimi politici, il giornalismo, la tecnologia, l’idea stessa di progresso, le donne, la religione.

Lo spirito capitalistico è una delle vittime più frequenti dell’aforisma moderno:
“Per il mercante persino l’onestà è una speculazione finanziaria.” (Baudelaire)
“E’ solo non pagando i propri debiti che si può sperare di vivere nella memoria di un commerciante.” (Wilde)
“Niente spinge a commettere crimini finanziari più di una grande miseria o di una grande ricchezza.” (Twain)
“Che cos’è rapinare una banca, in confronto al fondarla?” (Brecht)
“Se per sfruttare l’uomo certuni predicano la rinuncia ai beni terreni; altri, per sfruttarlo meglio, lo invitano a desiderarli.” (Gomez-Davila)

Tanti altri aspetti della vita moderna (il progresso, il mito della velocità, perfino l’istruzione obbligatoria) sono apertamente contestati:
“Vi fu sempre di più nel mondo di quanto gli uomini potessero vedere, per quanto lenti andassero; non lo vedranno meglio andando veloce.” (Ruskin)
“Non avere un pensiero e saperlo esprimere - è questo che fa di uno un giornalista.” (Kraus)
“Un esperto è una persona che sa sempre di più su sempre di meno, fino a sapere tutto di nulla.” (Bloch)
“La scienza fa che i cuori battano più a lungo - ma li ha avviliti. Paghiamola senza ringraziarla.” (Guido Ceronetti)

Abbiamo già detto che l’aforista si esprime nello stile più semplice possibile; ripudia qualsiasi atteggiamento snobistico. Sue vittime predestinate sono la figura del falso intellettuale, arido e presuntuoso; il ciarlatano; l’erudizione spocchiosa e fine a se stessa:
“Un libro è uno specchio: se è un asino che vi si rimira, non aspettarti di vederci un apostolo.” (Lichtenberg)
“La filosofia a ogni passo che fa getta via la pelle vecchia, e in essa si infilano i suoi seguaci peggiori.” (Kierkegaard)
“I grandi libri hanno la cortesia di re magnanimi: accolgono il lettore come un loro pari. Lo scrittore mediocre cerca di umiliarci per nascondere la sua bassa posizione.” (Gomez Davila)

In Italia si impone nel ‘900 una nuova figura, quella del ‘malpensante’ che, nel suo rifiuto delle opinioni egemoni, si pone con orgoglio ‘dalla parte del torto’; indaga il rovescio delle cose. I maggiori aforisti ‘malpensanti’ furono Leo Longanesi, Ennio Flaiano e Gesualdo Bufalino, che si distinguono tutti, fra le altre cose, per l’estrosità e la bizzarria degli spiriti:
“In Italia i fascisti sono una trascurabile maggioranza.”
“Una volontà d’acciaio, che lo costringe a un orario di ferro, per mantenere una famiglia di fango.”
“Sono un carciofino sott’odio.”
“Vissero infelici perché costava meno.”
“Un’idea che non trova posto a sedere è capace di fare la rivoluzione.” (Leo Longanesi)
“Il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso.”
“Stanco dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, lo scienziato si dedicò all’infinitamente medio.” (E. Flaiano)
“Diffidate degli ottimisti, sono la claque di Dio.” (Gesualdo Bufalino)

L’aforisma e le donne – Aforismi sull’amore, aforismi misogini, donne scrittrici di aforismi


Aforismi sull’amore:
Uno dei temi più ricorrenti negli aforismi sono le donne. E gli aforismi sull’amore: non bisogna pensare ad aforismi languidi e svenevoli, ma, al contrario, ad aforismi che manifestano forti perplessità sul sentimento dell’amore, il matrimonio, ecc.; aforismi che tendono a sottolineare l’eterna difficoltà nei rapporti fra persone di sesso opposto:
“L’uomo vuole fare tutto il bene possibile o, se non può, tutto il male possibile, a colui che ama.” (La Bruyère)
“Quando gli uomini promettono a una donna di amarla sempre, suppongono che per parte sua la donna prometta di essere sempre amabile; e se lei manca alla sua parola, non si sentono più impegnati alla loro.” (Montesquieu)
“L’amore perfetto significa amare quella persona che ci renderà infelici.” (Kierkegaard)
“L’innamorato comincia con l’ingannare se stesso, e finisce con l’ingannare gli altri. Ecco ciò che il mondo chiama romanticismo.”
(Wilde)
“L’amore è come certi alberghi che hanno il lusso tutto e soltanto nell’atrio.” (Paul Jean Toulet)
“Le donne ricordano solo gli uomini che le hanno fatte ridere; gli uomini solo le donne che li hanno fatti piangere.” (Henri Régnier)
“Lei lo sposò per averlo sempre con sé. Lui la sposò per dimenticarla.” (Canetti)
“Con le donne accade due volte di non saper che cosa dire: all’inizio e alla fine di un amore.” (Bufalino)
“Una giovane coppia. Sembrano molto contenti: lui, di aver sposato lei, lei di essersi sposata.” (Gragnani)
“L’amore che si accende e si spegne a intermittenza presto si fulmina.” (Basili)

Gli aforismi sulle donne sono spesso e volentieri incentrati sui difetti (veri o presunti) del gentil sesso; aforismi dal sapore misogino, un genere del quale esiste una tenace e prolifica tradizione:
“La natura volle fare della donna il suo capolavoro; ma si sbagliò di tono, e lo prese troppo acuto.” (Lessing)
“Le donne, quando non amano, hanno tutto il sangue freddo di un vecchio avvocato.” (Balzac)
“Per vedere nel cuore delle donne, bisogna guardarle dai buchi che facciamo nel loro amor proprio.” (Barbey d’Aurevilly)
“La donna è migliore di quel che si dice; infatti ride delle lacrime degli uomini soltanto quando è stata lei a farle versare.” (George Courteline)
“La Bibbia dice che la donna è l’ultima cosa che Dio ha fatto. Infatti deve averla fatta il sabato sera: vi si sente una mano stanca.” (Dumas figlio)
“Hanno ragione a chiamare la moglie la mia metà; perché un uomo ammogliato non è più che una metà d’uomo.” (Romain Rolland)
“Cosa si intende per donna perversa? Oh, quel tipo di donna di cui un uomo non si stanca mai.” (Wilde)
Il maschilismo nell’aforisma può toccare anche accenti di ostentata volgarità (ve ne risparmio la lettura), atteggiamento che non deve però scandalizzare più del dovuto, se conveniamo con Gustave Flaubert che: “Chi non dice male delle donne, non le ama affatto; perché la maniera più profonda di sentire qualche cosa è di soffrirne.”

La profonda ingiustizia del pregiudizio misogino è dimostrato, anche in materia di aforismi, da una notevole, e al giorno d’oggi sempre crescente, produzione femminile. L’aforisma francese, da La Rochefoucauld a Chamfort a Joubert, vanta una tradizione senza eguali al mondo. Pochi sanno che molte donne diedero un validissimo contributo a questo movimento culturale; ecco alcuni esempi di aforismi coniati da donne nell’epoca d’oro della massima francese:
“L’amicizia non può vivere senza la stima; ed è questo uno dei tanti vantaggi che ha sull’amore.” (M.lle de Sommery)
“La calunnia è come una  moneta falsa. Molte persone che sarebbero incapaci di averla emessa, la fanno circolare senza scrupolo.” (Comtesse Diane)
“La gloria è il superfluo dell’onore; e come ogni altra cosa superflua, anche questa spesso s’acquista a spese del necessario.” (Madame Guizot)
“Le donne preferiscono che gli uomini le facciano ridere senza amarle piuttosto che le amino senza farle divertire.” (M.me de Rieux)
Anche l’Italia, nel Novecento, ha espresso alcune importanti scrittrici di aforismi, come Lalla Romano e Alda Merini. Mi limito a quella che secondo me è la maggiore fra tutte, Maria Luisa Spaziani:
“Bombardato da immagini, perse l’immaginazione.”
“Le pietre che mi avete lanciato sono state un ottimo materiale da costruzione.”
“Apprezzo che mi abbia avvertito, ma da quando mi ha aperto gli occhi non lo posso più vedere.”
“In principio c’era il verbo. Il guaio cominciò con le coniugazioni.” “Scrivete pure dei versi: presto ci sarà un’amnistia.”
“E ora parliamo un po’ di te. Mi ami?” (Maria Luisa Spaziani)


Aforismi su Dio e la religione
Per l’aforisma non esiste niente di sacro. Anche la religione, e Dio stesso, possono diventare oggetto di critica, se non di dileggio, ma il vero bersaglio resta la falsa devozione, l’ipocrisia nella fede. Naturalmente questa tendenza (inimmaginabile, per es., nel Medioevo) è abbastanza recente e comincia a manifestarsi nei secoli successivi:
“Per compiere un’azione malvagia la devozione sa trovare delle giustificazioni di cui un galantuomo sarebbe incapace.” (Montesquieu)
“Abbiamo abbastanza religione per odiarci a vicenda; ma non abbastanza per amarci l’un l’altro.” (Swift)
“La prima cosa che un missionario insegna a un selvaggio è l’indecenza.” (Twain)
“Dio ha tratto ogni cosa dal nulla, ma il nulla traspare.” (Paul Valéry)
“L’impazienza di Dio nel pubblicare il mondo non finisce di sbalordirmi. Cose così si tengono nel cassetto per sempre.” (Bufalino)

Antonio Porchia
Non tutto l’aforisma novecentesco ha carattere apertamente polemico nei confronti del secolo col quale è chiamato a misurarsi. Un caso molto particolare è quello di Antonio Porchia, autore di straordinaria stringatezza, che sembra richiamarsi piuttosto a certi saggi taoisti o filosofi presocratici (le sue Voci sono state accostate al Libro del Tao di Lao-Tzu e ai frammenti eraclitei). Porchia, nato a Conflenti, in Calabria, era emigrato a 13 anni in Argentina, e deve essere considerato a tutti gli effetti un autore di lingua spagnola, con Gomez-Davila il maggiore aforista sudamericano. Porchia coniava non più di 5-6 ‘voci’ all’anno, meditandole, sfrondandole, scarnificandole progressivamente fino a ridurle a concetti di pochissime parole davvero essenziali.
Troverai la distanza che ti separa da loro, unendoti a loro.
Cento uomini, insieme, sono la centesima parte di un uomo.
Anche se ottenessi il bene che non merito, non potrei viverlo; il bene che 
merito quello sì potrei viverlo, anche se non lo ottenessi.
Ti amo come sei, ma non dirmi come sei.
Parole che mi hanno detto in altri tempi, le sento oggi.
Quando tu e la verità mi parlate, non ascolto la verità. Ascolto te.
Ciò che ho dimenticato di questo, di quello, è ciò che ho dimenticato di me.
Molto di quanto ho smesso di fare in me, continua a farsi in me, da solo.
Il lontano, il molto lontano, il più lontano, l’ho trovato solo nel mio sangue.
Vedere piangere, è molto più che piangere.
Ciò che ti ho dato, lo so. Ciò che hai ricevuto, non lo so.
Sei legato a loro e non sai come, perché loro non sono legati a te.
La povertà altrui mi basta per sentirmi povero; la mia non mi basta.
Il prima di me e il dopo di me si sono quasi uniti, sono quasi uno solo, 
sono quasi rimasti senza di me.


Aforismi sulla vecchiaia e la morte
Una caratteristica comune a molti aforisti è l’età non più verde. Il fenomeno è determinato, credo, dal fatto che molto spesso gli autori comincino a scrivere aforismi quando hanno maturato una lunga e profonda esperienza del mondo e degli uomini e tirano le somme della loro vita, riflettono sul significato delle cose e della loro stessa esistenza. Come scrive l’aforista spagnolo Fernando Menéndez: “L’aforisma è un genere che nasce con l’età, con il disinganno della vita.” Gli aforismi sulla vecchiaia hanno quasi sempre un timbro piuttosto pacato, intriso di malinconia e di saggezza; non di rado sono anche meditazioni sulla morte incombente.
“La vita è una stoffa che i giovani vedono dal diritto e i vecchi dal rovescio.” (Camillo Sbarbaro)
“I giorni indimenticabili nella vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume.” (Flaiano)
“Fotografie, lettere, dediche, nascoste come dai nonni le monete nel materasso. Finché scadono, vanno fuori corso.” (Bufalino)
C’è un grande autore ticinese che abbiamo già nominato e che, non fosse altro che per motivi anagrafici (la sua attività letteraria si svolse fra i 78 e i 100 anni di età), scrisse aforismi importanti su questo tema: Carlo Gragnani, nato a Livorno nel 1910, economista e studioso di filosofie orientali, direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale a Washington dal 1952 al 1960, e vissuto a Lugano dal 1983 fino al 2010, anno della sua scomparsa. Si è sempre definito “né italiano né svizzero al 100%, ma uomo di confine”. La vecchiaia, come si può immaginare, è uno dei motivi ricorrenti, anche se non certo l’unico, nei suoi aforismi:
“Morire molto vecchio è come essere l’invitato che se ne va per ultimo. Possono anche chiedergli, per gentilezza, di trattenersi. Il fatto è che, appena se n’è andato, spengono subito la luce.”
“Dopo Gerovital, ritorno in forza della memoria. Mi ricordo anche di cose che non sono mai successe.”
“La battaglia per allungare la vita. Noi, ottantenni e passa, occupiamo la prima linea, pronti a morire per la causa.”
“Intervistato alla radio. Assaporo le gioie di una notorietà quasi postuma.”
Approfitto qui per accennare brevemente all’aforisma nel Canton Ticino; ci sono almeno ancora due autori, oltre a Gragnani, che meritano di essere ricordati (almeno fra quelli che conosco). Uno è Romano Amerio, nato a Lugano nel 1905, teologo e docente di filosofia all’Università Cattolica di Milano, che ha lasciato uno zibaldone in 34 quaderni:
“Del viaggiare si deve dire che suscita nuove idee in chi già ne ha molte, ma al contrario estingue le poche in chi ne ha poche.”
“In una proposizione falsa c’è sempre un’infiltrazione di sé.”
Il maggiore aforista ticinese vivente, vincitore nel 2010 del premio Torino in sintesi, è l’avvocato di Bellinzona, ma che esercita la professione a Lugano, Mario Postizzi, autore già di tre volumi di aforismi, gli ultimi due pubblicati con Aragno.
“Con il plagio si portano a spasso le frasi degli altri. I più dotati di mano ignorano l’affidamento e vanno dritti all’adozione.”
“L’uomo ha conquistato lo spazio, non il tempo.”
 Una forma di impiccagione: pendere dalle labbra di qualcuno.
“Siamo esauriti. Per di più, non sono previste nuove o altre edizioni.
“Nel vocabolario le parole sono allineate, stanno sull’attenti, hanno la faccia pulita. Appena si incrostano di realtà, rompono le righe, e si liberano disordinatamente nelle piazze: allentano cintura e cravatta, mostrano la lingua e si sporcano le mani.”


Riflessioni sulla storia, la società, la politica
L’aforisma condensa spesso in poche parole lunghe riflessioni sulla storia e la società umane:
“Le streghe hanno cessato di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle.” (Voltaire)
“La servitù degrada l’uomo fino al punto di fargliela amare.”
 (Vauvenargues)
“Negli individui la pazzia è qualcosa di raro, ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche è la regola”. (Nietzsche)
“Persuaderete facilmente gli uomini d’ogni cosa che vorrete, poiché il loro intelletto è debole; ma non riuscirete a farli vivere in conformità, perché il loro temperamento è forte.” (De Bruix)
“Se uno uccide un uomo è un assassino. Ne uccide un milione, è un conquistatore. Li stermina tutti, è un Dio.” (Jean Rostand)
“Uno stupido è uno stupido. Due stupidi sono due stupidi. Diecimila stupidi sono una forza storica.” (Longanesi)
Stanislaw Lec
Il Novecento è stato anche il secolo delle grandi dittature e questo non poteva non riflettersi nella storia dell’aforisma. Un autore ebreo polacco di nome Stanislaw Lec - che Umberto Eco, non a torto, considera il maggiore aforista del XX secolo - conobbe sia nazismo che comunismo. Scampato ai campi di sterminio, ebbe poi rapporti abbastanza complessi con il regime comunista. Quando i suoi Pensieri spettinati approdarono in Occidente, furono interpretati, a torto o a ragione, come l’opera di un dissidente. Ma quello che davvero conta è la qualità - inarrivabile - dei suoi aforismi: stringatissimi (una, due righe al massimo di regola), cupi, crudeli, ma non privi di un certo spirito umanista, rievocano la vita come si svolge sotto i regimi polizieschi di ogni luogo e di ogni tempo:
Prenditi cura di te, sei proprietà dello Stato.
Lo hanno portato via scambiandolo per un altro, ma lealmente hanno restituito proprio il suo cadavere.
Si può condannare qualcuno all’oblio. Ma la sentenza deve essere eseguita su coloro che ricordano.
La folla urla con una sola grande bocca, ma mangia con mille piccole.
Il segno che distingue i paragrafi sembra già uno strumento di tortura.
Se il popolo non ha voce, lo si riconosce anche quando canta inni.
Quelli che hanno orizzonti più ampi hanno in genere prospettive peggiori.



L’aforisma contemporaneo
L’aforisma contemporaneo vanta diverse scuole, molto attive: quella spagnola, la finlandese, la rumena, e sicuramente ce ne saranno altre che purtroppo non conosco: in traduzione arriva pochissimo nei diversi paesi. Non ultima fra le scuole, quella italiana. E proprio Torino è la sede di quello che probabilmente è il più importante premio letterario internazionale per aforismi, appunto il ‘Torino in sintesi’, che ha scadenza biennale. Tuttavia, non potendo dilungarmi troppo, per ragioni di tempo, sull’aforisma contemporaneo, mi soffermo su quello serbo, non solo per i risvolti tragici legati alla guerra nella ex-Jugoslavia, ma anche per il valore intrinseco di tanti autori che gravitano attorno al Circolo Aforistico di Belgrado. L’aforisma serbo costituisce una straordinaria testimonianza, umana e artistica, dall’inferno della guerra nella ex-Jugoslavia, e un’occasione unica per conoscere più da vicino la cultura e le vicende recenti di un popolo che negli ultimi 30 anni ha attraversato ogni sorta di tragedie (la dittatura nazional-comunista, le atrocità della guerra civile e i bombardamenti della Nato, le amare delusioni di un’incerta democrazia), e segnatamente una generazione di scrittori serbi, cultori della forma breve, che per l’eccezionale intensità, forza e qualità stilistica della loro opera non ha probabilmente eguali al giorno d’oggi. Gli autori sono stati tutti oppositori del passato regime di Milosevic, quando non anche di quello di Tito. I temi che si rincorrono da un autore all’altro sono quelli legati alla drammatica storia recente del popolo serbo. I grotteschi personaggi del regime (“Siamo guidati da figure storiche, e anche da alcune figure preistoriche.” “L’ordine è venuto dalla posizione più alta. Da un rifugio sotterraneo.”). Il permanente stato di polizia (“Ho solo una scelta: o sarò una marionetta, o la mia vita sarà appesa a un filo.” “La polizia e i manifestanti sono uguali davanti alla legge. Non davanti allo specchio.” “Le forze di polizia continuano a cercare l’assassino. Hanno un nuovo lavoro per lui.” “E’ stato tracciato un identikit ideale. Il sospettato assomiglia a tutti.” “Quando sono tornato dall’interrogatorio, mia madre mi ha subito riconosciuto. Il cuore le diceva che ero io.”). Il protrarsi estenuante di negoziati condotti in manifesta malafede (“Due più due fa cinque! Questa è la nostra ultima offerta.”). La missione di pace - come venne denominata con involontaria ironia - della Nato (“La Serbia è uno Stato parlamentare. Tutte le decisioni importanti per il nostro Paese sono prese dal Congresso americano.” “L’America sostiene fermamente il dialogo per la pace - con un’azione congiunta per mare, per cielo, per terra.” “Il mio televisore si è rotto. Dovrò seguire i bombardamenti dalla finestra.”). Gli orrori senza fine della guerra civile (“I rifugiati sono liberi di tornare alle loro case. I nuovi proprietari sono ansiosi di fare la loro conoscenza.” “C’è una luce in fondo al tunnel. Sono le nostre case in fiamme.” “Era una guerra di religione. Solo Dio sapeva per cosa stavano morendo.”). Le delusioni della neonata democrazia (“Il vecchio regime è morto, ma ha donato gli organi a quello nuovo.” “I cambiamenti sono così rapidi che anche i camaleonti sono visibili.” “I nostri politici sono divisi in elementi di sinistra e di destra. Dipende da quale metà del loro cervello non funziona.” “Gli antichi mestieri sono in crisi, con l’eccezione del più antico.” “Cercate lavoro nel nostro ministero. I salari sono bassi, ma i guadagni sono enormi!” “Sto aspettando i risultati delle elezioni. Voglio sapere per chi ho votato.”).
Quello che distingue l’aforisma serbo da altre esperienze contemporanee è l’eccezionale drammaticità degli eventi che ne costituiscono la fonte d’ispirazione, e che si risolve in un umorismo nero espresso con rare efficacia, felicità ed economia di mezzi. Ci sarebbero ancora tante cose da dire e autori da citare, credo comunque che con l’aforisma serbo contemporaneo abbiamo concluso al meglio questa sommaria e un po’ schematica rassegna sulla storia dell’aforisma in Occidente.


 ***
IL SOGNO POETICO DI ALESSANDRO MOSCÈ
di Laura Margherita Volante   

Alessandro Moscè


L.M.Volante. Comincio dalla tua infanzia e dall’amore per il calcio iniziato a cinque anni quando tuo padre, tifoso della Lazio, ti accompagnò alla stadio. Posso immaginare l’emozione di un bambino accanto a suo padre. Cosa ti è rimasto di quel primo amore, quale gusto, odore e sensazione, attraverso i sensi e gli occhi di un bambino?
A.Moscè. In realtà non era l’emozione data dalla vicinanza di mio padre che mi aveva innescato un cortocircuito sensoriale, specie visivo. Fu l’agonismo dei giocatori della Lazio che per la prima volta focalizzavo in presa diretta, nella classica divisa bianco-azzurra. Wilson, Martini, Garlaschelli, D’Amico: i reduci di una squadra di pazzi che tre anni prima aveva vinto lo scudetto sconfessando tutte le logiche calcistiche, a partire dall’unità di un gruppo e dalla condotta giudiziosa degli atleti. Sapevo che nel tempo libero quegli “anarchici” indomabili si divertivano a sparare dalla finestra di un albergo ubicato sull’Aurelia, colpendo i lampioni. Per me bambino si prefigurava la stessa esperienza di chi, in epoca romana, assisteva alla sfida tra gladiatori in un’arena pubblica. Del resto lo stesso Borges ha definito il calcio un’epica minore. Il calcio, peraltro, ha molte implicazioni sociologiche e ancestrali. È una metafora dell’esistenza, dove il più forte cerca di sopraffare il più debole secondo una legge di natura, impietosa e tremenda.
L.M.V. Tuo padre è vissuto per alcuni anni a Roma. Quanto è stata importante quell’esperienza romana, fuori dalla provincia, lontano dagli affetti familiari, per la tua formazione futura?
A.M. È stata un’esperienza determinante. Mio padre, durante la settimana, era assente da Fabriano, dove tuttora vivo, e da piccolo non ne capivo il perché. Ma il venerdì notte tornava a casa e il sabato mattina mi prendeva in disparte. Mi raccontava di Roma, della capitale del mondo. In quelle narrazioni orali introiettavo il piacere della scoperta, dell’avventura. Roma, per me, era come l’America. Il Colosseo, il Pantheon, la Fontana di Trevi e i Fori Imperiali mi sembravano cartoline che provenivano da un aldilà. Nella provincia marchigiana il tempo scorreva lentamente e immaginavo un mondo favoloso, picaresco da qualche altra parte. Mio padre mi parlava spesso di Giorgio Chinaglia, il centravanti della Lazio del 1974, quella dello scudetto, che durante un derby con la Roma andò ad esultare sotto la curva dei tifosi avversari e li sfidò. Uno contro tutti. L’Uomo Ragno, Capitan Harlock e Tex erano personaggi irreali, mentre Chinaglia esisteva in carne ed ossa, era una credenza mitica, ma non religiosa e neppure fantastica.

Alessandro Moscè

L.M.V. A tredici anni la grave malattia, durata un anno, credo. Adolescente ospedalizzato con una diagnosi infausta. Eppure trovasti il modo, attraverso quell’amore per il pallone, per giocatori, fra i quali Giorgio Chinaglia, di vincere un sarcoma. Cosa ti è rimasto di quel  periodo?
A.M. A tredici anni sono stato colpito da un sarcoma di Ewing al bacino. All’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, dove mi hanno curato per due anni, sono morti tutti coloro che soffrivano del mio stesso male. Io, inaspettatamente, ce l’ho fatta. Si sono registrati due soli casi, fino agli anni Novanta, di guarigione clinica. Uno dei due guariti sono io. Mi sono posto molte domande da trent’anni a questa parte. Posso dire che non è rimasto un buco nero, ma una certezza: la malattia non si fronteggia con la sola speranza di guarire. Né con la commozione, che è un sentimento di tenerezza. Meno che mai con la disperazione o la rabbia. La malattia va semplicemente ignorata. Lo so, è un compito improbo, tanto è vero che può riuscirci un bambino, un adolescente, nella sua incoscienza. Potevo cercare la consolazione della famiglia, e l’ho fatto. Ma nei momenti in cui la consapevolezza di poter morire prendeva il sopravvento, la mia reazione salvifica contro il “vuoto pneumatico” consisteva nel pensiero felicemente ossessivo di un simbolo di forza. Mi ha aiutato molto la figura dell’idolo calcistico di allora, appunto Giorgio Chinaglia. Specie per far fronte ai luoghi di reclusione e di separatezza dalla vita, gli ospedali. Il campione come simbolo di vittoria, uno spazio di leggerezza come naturale antitesi alla malattia, così da annientare il terribile horror vacui. Giorgio Chinaglia, mito incontrastato della Lazio degli anni Settanta, era già un “compagno insostituibile” di giochi nell’infanzia e mi garantiva quella “felicità bambina” che è diventata anche il modo migliore per affrontare psicologicamente il sarcoma. Il mio romanzo Il talento della malattia, uscito da Avagliano nel 2012, e che tanto successo di pubblico e di critica ha avuto, non è solamente un’opera letteraria, ma una testimonianza impudicamente affermata con lo sguardo fanciullo di una volta.
L.M.V. Una lettera al tuo eroe: un atto di amore e di coraggio per afferrare quel filo del palloncino senza paura di volare scappando dalla vita. Cosa successe, ce lo vuoi spiegare?
A.M. Un bambino ricoverato nella mia stessa stanza stava morendo asciugato da un osteosarcoma che gli aveva annientato i polmoni salendo da un arto inferiore. Accorgersene fu atroce. Credo che l’impatto, nella coscienza di un infante, potesse essere equiparato a ciò che avveniva nei deliranti campo di concentramento. Ho iniziato a scrivere una lettera, mai spedita, a Giorgio Chinaglia. Di fronte alla morte ci vuole l’irriverenza. Ci vuole la sfrontatezza di chi manda a fare in culo l’allenatore della nazionale italiana ai campionati del mondo del 1974 dopo una sostituzione. Ci vuole il sogno, quello che gli psicologi moderni chiamano “motivazione antagonista”, un’operazione di metamorfosi dell’afflizione: pensare ad altro per non pensare al male. Queste sono state le mie armi. In quei giorni avevo fatto mio uno slogan, lo stesso dei tifosi della Lazio: “Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia”. Lo urlavo da un letto d’ospedale, mentre intorno vedevo ragazzini amputati alle gambe o alle braccia. Il mio voleva essere un grido di riluttanza, di opposizione alla morte. Per questo non credo alla resistenza ideologica nella storia, ma alla resistenza biologica di ogni singola persona.
L.M.V. Diventato un uomo hai pubblicato un romanzo con il titolo forte come un pugno in un guanto di velluto: Il talento della malattia. Un atto di generosità da donare a un mondo sempre più malato per non perdere mai la speranza di sognare. I sogni si avverano secondo te, oppure sono una scommessa, quasi una sfida, un’opportunità?
A.M. Non credo nella realizzazione del sogno, ma nella sua “terapia”. Si deve voler sognare e saper sognare, diceva Baudelaire. Adesso è la malinconia, paradossalmente, che mi tiene agganciato alla storia del mio male e dell’incredibile guarigione. In un certo senso è come se fossi rimasto un adolescente. Ma l’adolescenza, solo l’adolescenza, è un’età eterna. Uno scrittore non può diventare mai un adulto fino in fondo, perché sarebbe banale nel suo conformismo. L’adolescente, invece, è sempre fiero, invulnerabile, trasgressivo.

Moscè con Alberto Bevilacqua

L.M.V. Dalle tue poesie traspare una malinconia nel descrivere solitudine e indifferenza umana. La città, i volti, le cose, l’ambiente urbano con le sue strade, le piazze, i giardini sono al centro del punto di osservazione. Per cercare cosa?
A.M. La mia è una poesia di luoghi, senz’altro. Ma mai in senso contemplativo o naturalistico. Ritengo di essere un poeta lirico, melodico, ma soprattutto esistenzialista. C’è una tensione verso il trascendente nelle mie poesie, come confermato nell’ultima raccolta Hotel della notte edita nel 2013, dove Dio è presente anche se non viene mai nominato. Tu citi i volti, giustamente. La mia è anche una poesia dove emerge un vasto campionario di personaggi con il loro bagaglio di esperienze anomale. L’omino della casa di riposo, per esempio, è un sapiente gnomo felliniesque al quale ho dedicato una sezione di Hotel della notte. Parlava con i pozzi e invocava la Madonna come se oggetti e divinità facessero parte di un rito propiziatorio, scaccia crisi.
L.M.V. Nella tua poesia ricorre spesso la figura dei nonni, molto amati. Un punto di riferimento affettivo o altro? I nonni sono importanti per lo sviluppo nel processo di identificazione di un bambino?
A.M. I nonni sono ricondotti ad un elemento peculiare della mia poesia: gli affetti familiari, come aveva ben notato Alberto Bevilacqua scrivendo di Stanze all’aperto. Non saprei dire quanto siano importanti in un processo di identificazione, ma ricordo che le vacanze natalizie, per la mia famiglia, corrispondevano ad una lunga permanenza nella città di Ancona. Nella mia poesia emerge un incessante dialogo tra i vivi e i morti, per lo più i nonni che risiedevano ad Ancona. La tavola imbandita e il gioco delle carte nella grande casa di nonno Alvaro o di nonno Ernesto, rimangono evasioni gioiose, esilaranti. È come se un tempo irripetibile, quello degli anni Settanta, si riaffacci ogni Natale con la stessa intensità di allora. Parafrasando Ernest Hemingway potrei dire: “Avere un cuore da bambino non è una vergogna. È un onore”.

La copertina del suo libro

L.M.V. Giornalista e scrittore tradotto anche negli Stati Uniti e non solo, sei un critico di primo piano, raffinato e sensibile. Quali i tuoi autori preferiti e da quali hai trovato ispirazione?
A.M. I grandi classici, da Dante a Leopardi, a Manzoni. Baudelaire, Sartre, Mann, Rilke. Moravia, Pasolini, Saviane, Volponi, Saba, Montale, Sereni, Gatto. Sono stati un’infinità gli autori della mia formazione, sin dai tempi dell’adolescenza, ormai lontana. Continuo a rileggerli anche oggi, naturalmente.
L.M.V. Quali saranno i tuoi prossimi appuntamenti editoriali?
A.M. È appena uscita una raccolta di interventi critici, in parte rivisitati e ampliati, apparsi dal 2004 al 2014 su giornali e riviste specializzate. Si intitola Galleria del millennio. A maggio uscirà il mio nuovo romanzo, L’età bianca, che è una sorta di prosecuzione di Il talento della malattia. Un libro intenso, sofferto. Sto ultimando una nuova raccolta di poesie, L’amore aiuta a vivere, che è un verso tratto da Primizie del deserto di Mario Luzi. C’è senz’altro un comun denominatore in questi tre lavori: provo a rintracciare le ragioni di un’intera esistenza, non solo quelle di un libro. Sono convinto che letteratura e vita possano coincidere senza infingimenti.


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LIBRI
Perché parlare a Gwinda?
di Claudio Zanini
La copertina del libro

Nella Roma di Costantino, il dominus romano Cornelio si chiede sconcertato: parlare a Gwinda?... perché parlare a una schiava comprata da una tribù di barbari che si esprime in rauchi versi?
La schiava Gwinda è uno dei sette personaggi femminili (più un ottavo, maschile) protagonisti dei racconti di Claudia Azzola, Parlare a Gwinda, (ed. La Vita Felice, 2013).
Si tratta d’un libro complesso che affonda la sua luce in diversi periodi storici ma, soprattutto, di un testo in cui si parla di linguaggio quale sofferto strumento di acquisizione della coscienza di sé e della cognizione del reale. Una meditazione sul linguaggio, dunque, redatta -e non poteva essere altrimenti- con una scrittura densa e poetica, che si dispiega in una narrazione di mutevoli risonanze. L’autrice s’avvale d’un lessico dove l’accostamento delle parole spesso evoca significati e immagini molteplici che incidono nitidamente la scena rendendo più complesso e ricco il quadro d’insieme; illuminazioni inattese che sforano in ambiti d’altrove; improvvise e laceranti visioni in cui affiorano echi che riportano alla luce remoti suoni, voci, accenti d’un passato di magmatica ricchezza. Ed è proprio questa lingua multiforme a restituire la specificità d’ogni novella, la sua particolare aura; virando dall’elegante grazia evocante le miniature cortesi, all’orrore delle figurazioni del bestiario medioevale (nel racconto Maria di Francia); dal lucido e disperato monologo della domina romana Sempronia, alla conquista della lingua da parte della giovinetta barbara e della serva Filomena in una Milano settecentesca; dall’ansioso e confuso travaglio del racconto veneziano, alla disperata messa in scena barocca della Merope. Ciascun personaggio ha una propria cognizione della lingua e della scrittura; e dunque, dell’eloquio in cui s’esprime, segnando della medesima coloritura lo sfondo della scena, l’ambito in cui agisce, il paesaggio in cui dimora. Tale complessità, come s’è visto, è frutto, non solo, dei diversi registri e modulazioni d’uno stile sapientemente controllato, ma nasce anche dall’intensa partecipazione affettiva e dalla profonda compassione dell’autrice nel raffigurare le donne protagoniste delle novelle, mal amate e, spesso, vittime ma non vinte, sempre inesauste e tenaci testimoni d’un profondo vissuto. Sono creature preveggenti, sia con afflizione e sofferenza, annichilendo nella feroce casualità della storia; sia con straordinaria pienezza nella comprensione del reale e con un’incredibile e umile capacità di prenderne coscienza.
Per suggerire che storia e linguaggio s’intrecciano proseguendo lungo un filo esiguo, tuttavia mai interrotto, compare, in tutti i racconti, arcaico testimone, il medesimo specchio decorato con l’effige d’una divinità etrusca. Simbolo d’una coscienza di sé in dolente divenire, questo specchio mi ha suscitato nella memoria il monolite misterioso (il Logos?), vagante nell’universo e presente nei momenti cruciali, del film di Stanley Kubrik, “2001 Odissea nello spazio”. Segno che attraversa il tempo storico e mai s’esaurisce. 
Ma torniamo a Cornelio che, turbato si chiede: parlare a una schiava, dunque? Egli non si rende ancora conto di quanto la sua domanda sia foriera di sviluppi sorprendenti e inattesi.
Questa, di Cornelio, è una domanda retorica; perché, chi ha mai parlato con una donna? E chi, soprattutto, ha mai ascoltato una donna? Nel primo racconto, infatti, La voce di Sempronia, nessuno ascolta le parole accorate della matrona romana Sempronia Tuditana, di cui lo specchio riflette impietoso l’angoscia. Coinvolta nella congiura di Catilina (62 a.c.), Sempronia subisce tragicamente la propria epoca e ne viene travolta. Sebbene avverta la catastrofe nel proprio vissuto con l’intera persona, non è in grado di evitarla: “Per la donna, violenza come voluttà come letizia passano per il ventre, non solo per l’intelletto. Come anche ogni soffio che preannunci sciagura.”(pg.6) 
È una voce inascoltata, soffocata dalla cruda iniquità del reale.
Allora, si deve parlare a Gwinda?
Cornelio, vir romano paziente e ben disposto, ci prova.
Gwinda è una strana creatura che pare giungere da ignote lontananze temporali esprimendosi con suoni gutturali e quasi indicibili. Tuttavia, ben presto Cornelio scopre quanto sia dotata d’un’intelligenza vivida e inquieta. In breve, lei apprende il linguaggio di Cornelio, ne comprende il senso a tal punto da superarne i limiti, circoscritti all’empirico mondo dell’accadere e alla pura razionalità stoica. La giovane schiava evoca una figura aliena rivestita del sembiante femminile per andare oltre, con gli umani strumenti, verso orizzonti di comprensione che dilatano incomparabilmente i propri confini. Lo specchio, nelle sue mani, riflette il sole, luce divina che illumina la storia umana e la rende intelligibile. Se, dunque, l’inascoltata Sempronia si deve rassegnare al silenzio: “nella fluttuazione di un destino che non comprendo”(10), Gwinda incarna l’articolarsi libero del linguaggio che nasce dalle sonorità primigenie d’una coscienza in via di formazione. È una lingua nuova quella di Gwinda. Una lingua altra, straniera, non usurata dall’impiego, né dai protocolli del potere. Una lingua inafferrabile.
A tal proposito, mi torna in mente ciò che scrive il filosofo tedesco Theodor W. Adorno in Dialettica negativa (1966): ciò che rende il pensiero vitale e creativo è “pensare il diverso dal pensiero stesso”. Vale a dire, non pensare quello che si pensa e, soprattutto, il pensiero istituzionalizzato nei protocolli del pensare. È dunque necessario pensare (scrivere) il rimosso, l’inconsueto, il diverso con scandalo e, come sostiene Roland Barthes, con “perversione” (nell’accezione di diverso dalla normalità, deviato rispetto al senso comune).
È quel diverso che affiora sulle labbra di Gwinda e poi della serva Filomena -protagonista del settimo racconto-, con gran travaglio e gioia, nell’elaborazione d’una lingua primigenia, ancora incontaminata, dove la corporeità non sia separata e soffocata dall’intelletto, dove l’intuizione che nasce dalla percezione del corpo e dell’anima (che non è intelletto) non venga rimossa a favore d’una razionalità dominante. È, quindi, del tutto naturale che un pensiero di tal genere sia incarnato dal femminile, a iniziare dalla prima, ineluttabile contrapposizione di Antigone (legge del cuore) e Creonte (legge della razionalità politica). Lo specchio, con il suo mistero che illumina e oscura nello stesso tempo, riappare nel terzo racconto, tra le mani di Maria di Francia, dama della regina Eleonora d’Aquitania, e autrice di raffinati lais.
“Lo specchio è conoscenza e anche eros. Eros vive, è nell’energia che ci nutre, nella bellezza, è necessità di cielo e terra.”(33) Questo dice Maria, Conoscenza profetica e visionaria, dunque. Infatti, Maria percepisce, quanto la realtà delle trame e degli intrighi per il potere (nella corte di Eleonora) sconfini inesorabilmente oltre, invadendo i territori del ferino oscuramento delle coscienze. “Vede”, quindi, anche la presenza occulta dell’orrenda creatura uomo/bestia, ne percepisce l’oscuro aggirarsi nel castello, come un morbo insidioso e nefasto; scopre come la bestia intrattenga rapporti con membri della corte. Ha coscienza dell’orrore e, allo stesso tempo, la sensazione d’una paralizzante impotenza.
Una corporeità dolente e sofferta, che matura a vissuta cognizione del reale, sostanzia la storia di Sofia. Donna selvaggia e solitaria, pratica d’alchimia e assetata di conoscenza, ma docile “carne da mordere e da perdere”(54) per gli uomini che l’hanno posseduta, Sofia mette al mondo una bambina nell’abbandono d’un misero fondaco veneziano. “Una nascita senza tripudio”(53), dice; mentre luce opaca riflette lo specchio. Tuttavia, Sofia accetta la figlia e si rende conto che la sua vita si prolunga in quella bambina, e questa crescerà nella conoscenza che Sofia le avrebbe trasmesso, imponendo al mondo la sua vivida presenza. Riguardo all’accettazione dell’altro e del lato oscuro che ciascuno in sé reca e dissimula, esemplare appare la vicenda narrata in Émilie e la sposa turca. Parigina borghese ed emancipata, avvocato di Francia all’epoca degli Stati Generali, Èmilie riconosce il suo arcano doppio in una donna straniera incontrata per caso. Una turca, sposa bambina, ripudiata e, per di più, assassina del marito. Nonostante Émilie la identifichi quale emblema spaventoso della femmina da harem - sottomessa e umiliata -, scopre la loro reciproca e perfetta somiglianza; rendendosi conto, attraverso l’accettazione in lei dell’altra parte di sé, la misteriosa e complessa unicità dell’essere umano. Fusione della luna nera dell’occidente e del sole diurno dell’oriente.
Singolare appare il racconto dedicato a La Merope, personaggio della tragedia seicentesca, Aristodemo, di Carlo de’ Dottori. È una splendida rappresentazione del teatro barocco, oltre i cui scenari si nasconde il vuoto, il nulla. Quel teatro del mondo che, tuttavia, qui non è presente nei suoi virtuosi artefici di magnifiche illusioni (come il Bernini e il Borromini, che trasformano il sacro in un supremo macchinario per carpire il consenso stupefatto dei fedeli) ma, in chi soggiace ai suoi perversi inganni. Qui si mostra nella figura di un’attrice vecchia e malata che, indossati i panni di scena della Merope -nel cui ruolo ha sempre recitato-, si fa carne umiliata e sconfitta. Si tratta di una meditazione sul tempo, quale lunga e ineludibile preparazione alla morte.
Un’altra figura femminile -una popolana goffa e consumata dalle fatiche domestiche-, lavora come servente presso una famiglia di nobili milanesi. È Filomena, La serva del detto ostrogoto, affascinata dai suoni delle lingue. Affamata di scrittura e abilissima nella narrazione, Filomena ha il dono del linguaggio. Tanto che, quando narra le fiabe e le favole sapienziali nella cucina o presso i signori, tutti si fermano ad ascoltarla affascinati. Ma sono altri suoni, quelli che ode riecheggiare nel profondo del suo animo, “suoni di una lingua dell’origine, suoni gutturali, cupi… suoni di un dialetto prelombardo, ostrogoto, dal sapore di orda che avanza battente, scalpicciante…”(100).
Lei si chiede, sbigottita, come tali suoni di un idioma germanico possano trasformarsi nei segni della scrittura (una scrittura alta), mentre intuisce la ricchezza d’un mondo da cui è esclusa, ma alle cui soglie s’è affacciata. Due lingue in lei si fronteggiano, una con cui incanta i suoi uditori, l’altra, interna, nata in lei da tempi antichissimi. Questa duplicità si fa vissuto. Filomena riscopre, nel modularsi della narrazione, la sua giovinezza e il suo corpo, umiliato e negletto.
Come Gwinda, la sua antenata barbara, la serva Filomena fonda il sapere del mondo in una lingua altra, straniera e, come direbbe Barthes, “perversa”. Una lingua che sfida il mondo, pur prendendosene, quando le viene permesso, amorosa cura.
Parole profetiche mormorano le donne di queste dense e complesse novelle. In una lingua che i personaggi maschili non capiscono, mentre si agitano affannati in sottofondo. Sono ombre sinistre come i congiurati di Catilina; miniature eleganti da Libro d’Ore, ma ambigue come gli intriganti cavalieri e cortigiani di Aquitania, o presenze oscure come il padre della figlia di Sofia, dal volto ignoto. Diversa è la figura di Cornelio che percepisce l’arcana complessità di Gwinda, ma non giunge a comprenderla né ad andare oltre. Un’apparizione affannosa, “mezzo uomo e metà bestia”, è l’amante della Merope; mentre gli uomini di Émilie e la sposa turca, per la maggior parte, sono brutali, violenti, possessivi, infantilmente egocentrici. Infine, il maschile di Filomena è un uomo sognato, suscitato da vaghe reminiscenze adolescenziali e dai poemi uditi in casa dei signori.
Uomini che non amano le donne (se non mi sbaglio, rara è la parola amore, nel testo). Uomini incapaci, dunque di aver profonda cognizione della realtà (dell’amore e del dolore)?
Non del tutto, pare; poiché un uomo che patisce il reale e forse se ne riscatta è quello dell’ultimo inatteso racconto. Il protagonista, Ferdinando D. è un lucido capo clan, occulto boss del capitalismo finanziario, dominus dei consigli d’amministrazione, che percepisce la fine del suo mondo, di un’era, del sistema in cui aveva lottato con successo: la fine della “teologia del libero mercato, dell’economia ultraliberista”(121), di cui si era nutrito.
Una musica, suonata al pianoforte da una donna, gli sommuove profondamente l’anima, sollecitando antiche reminiscenze. Si guarda in uno specchio remoto e consunto, lo specchio che, di mano in mano, attraversando il tempo e le epoche, è giunto a lui. Vede il suo viso sofferto ma uno sguardo in cui s’accende vivida una luce, “un brillio nuovo negli occhi”(124).  Faville di una vitalità in cui ritrova se stesso e in cui, ci si augura, rinasce a una vita diversa, immerso in un silenzio dove tutto il disordinato clamore, la confusione, le perentorie disposizioni, le urla feroci del mercato, finalmente tacciono. Ci si chiede, perché proprio nell’ultimo racconto, l’inaspettato protagonista sia un uomo? Suggerisco un’ipotesi: credo perché prende vita dal vissuto delle donne che nel testo (e nella storia) lo hanno preceduto. Potrebbe figurare quale il risultato del loro travaglio faticoso, della consapevolezza carnale della crudele insensatezza della storia, dell’inesausto lavorio nell’elaborazione di un pensiero libero che, superando i generi, sia totalmente umano, in grado di educare e ammaestrare, di pensare oltre, altrove. Se la donna rigetta quel ruolo passivo e subalterno, subìto da secoli, anche l’uomo è affrancato dal suo stato di dominus tirannico e oppressore. Aggiungerei che qui il femminile si fa carico dell’alterità dentro di sé (vedi Émilie), come consapevolezza della propria identità, ma anche poiché sussiste un altro carnale nella gestazione (vedi Sofia). Il maschile, al contrario, rimuove il perturbante altro dentro di sé (il bambino mai cresciuto?), lo sprofonda e ammutolisce nel fondo della coscienza. Combatte strenuamente con le ombre che, tuttavia, esso suscita e che minano il potere conferitogli dal ruolo di dominus (vedi Cornelio/Gwinda). In questo conflitto è chiaro come la donna gli rappresenti l’altro (che subìto e palesemente gli si mostra, dall’istante della nascita) amorevole ma, allo stesso tempo, ostile e inascoltato. Che suscita vaghi sensi di colpa, voce sussurrante moniti perversi, disturbanti (vedi Sempronia, Maria di Francia, Filomena). Soltanto la Merope, da questa dialettica è esclusa, sola abbandonata e annichilita nella sua maschera di teatrante (il suo altro da sé?).  
Nell’ultima novella, è l’antico specchio etrusco, che ha riflesso inseparabilmente luci e ombre, a rivelare al protagonista il reale, terribile ma anche passibile di riscatto.
Sempronia Tuditana, dice all’inizio: “Scrivere. Devo scrivere”(5), Sebbene amaramente concluda con: “La mia è una gola che si chiude. Una voce che si perde”(11). Tuttavia, la sua voce non si spegne, continua nel corso dei secoli, risuona di bocca in bocca, per giungere fino all’anima del protagonista dell’ultimo racconto. Parlerà a Gwinda e, questo, lo salverà?

Claudia Azzola
Parlare a Gwinda
Ed. La Vita felice
Pagg. 132  € 13,50

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LIBRI
Aharon Appelfeld: Scrittura e Shoah
di Gabriele Scaramuzza

La copertina del libro

Il libro di Aharon Appelfeld che qui presento raccoglie tre lezioni sulla Shoah tenute nel 1991, seguite da una conversazione con Philip Roth già resa pubblica nel 1998. Il titolo, “Oltre la disperazione”, è significativo. Indica una possibilità di uscita dallo stato d’animo indotto dalla Shoah, un non restar fermi al mondo di angoscia e di blocchi senza rimedio in cui la Shoah è stata rinchiusa. Risponderle piuttosto bisogna, scrivendo, ritrovando in ciò le vie della ricostituzione di una propria salvezza e di una propria dignità.  Primo Levi, già da deportato, sentiva come esigenza primaria fermare nella memoria, scrivendo, le proprie esperienze di Auschwitz in Se questo è un uomo e del ritorno in La tregua. Soggettivamente, per contro, molti non sentivano l’esigenza di parlare. Questa vale ad es. per Giuliana Tedeschi (si legga, di Daniela Padoan, Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz, Milano, Bompiani, 2004), per Elisa Springer, per Schlomo Venezia (che fece parte di un Sonderkommando, quanto di più terribile potesse capitare a un deportato). In una recente intervista a cura di Michela Beatrice Ferri (pubblicata su “Il nostro tempo” del 24.1.’16) Goti Bauer racconta che la gente non amava sentire parlare di drammi ed orrori, tanto più di quelli, letteralmente incredibili, capitati agli ebrei; si voleva guardare al futuro con ottimismo. L’esigenza di testimoniare per Goti Bauer, non meno che per Giuliana Tedeschi, Elisa Springer, Schlomo Venezia, nacque tardi.  Per Appelfeld valeva una sorta di divieto a parlare; talmente sconvolgenti erano le vicende attraversate che faceva male ricordarle. Nei primi anni dopo la guerra per lo più prevaleva una forma di inibizione, interna ed esterna, a parlare della Shoah. Vi si opponeva la necessità di riprender la vita senza soffermarsi sull’orrore attraversato da parte dei sopravvissuti, la scarsa voglia di sentirne parlare da parte di chi li incontrava; anche questo instillava una sorta di sfiducia nella possibilità di parlarne. Contava tornare a vivere, le memorie terribili dei lager infastidivano chiunque fosse appena uscito dalla sventura della guerra. In Israele poi prevaleva la necessità di ricostruire e di ricostruirsi, e una vergogna quasi per quanto gli ebrei avevano sofferto senza mostrare il coraggio di ribellarsi. Solo il processo Eichmann diede la stura alla infinite testimonianze che seguirono; liberò il diritto, il dovere anzi, di parlare da parte di chi poté sopravvivere. Non ho letto nulla nelle opere di Appelfeld circa il processo Eichmann, non so se è il caso di stabilire nessi; ma certo solo tardi per lui come per altri nacque, insopprimibile comunque, l’esigenza di raccontare. Un tema importante che torna nei suoi scritti è che ci sono realtà di cui è di per sé difficile e problematico parlare, impossibile anzi; così è l’assassinio della propria madre per Appelfeld. Le parole si rivelano del tutto inadeguate alla cose, Appelfeld dichiara di preferire la balbuzie, la parola stentata alle frasi levigare e scorrevoli, ben tornite, che presumono di afferrare le cose. La shoah è stata attraversata quasi senza saperlo, senza trovar parole disponibili per dirla. E questo ha intaccato il racconto e la stessa possibilità del ricordo. Un forte ostacolo a parlare di quel passato orribile e incomprensibile venne dal modo in cui furono fatte agire notissime affermazioni di Adorno: verso la fine della Dialettica negativa troviamo scritto: “Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. […] Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura”. In un saggio raccolto in Prismi scrive Adorno: “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie, e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesia”; questo sembra riguardare più la poesia che non la cultura tutta. Appelfeld si dichiara del tutto d’accordo con Adorno, nel senso che ne condivide la convinzione che la poesia sia impossibile dopo Auschwitz; ma certo di fatto non rimane vittima del veto fatto valere in nome di Adorno. Schlechte Zeit fuer Lyrik è il titolo noto di una poesia di Brecht; e in proposito un’altra sua celebre poesia, An die Nachgeborenen, contiene passi assai significativi: “un discorso sugli alberi è quasi un delitto / poiché implica il silenzio su tante malvagità”. D’altronde ricordo approssimativamente da un’altra poesia ancora: “nei tempi bui si canterà? Certo: dei tempi bui”.  La poesia sembra appartenere a un mondo di abbellimento, di edulcorazioni delle cose, magari di glorificazione degli eroi-vittime: di menzogne insomma, del tutto inadeguate a parlare dell’orrore che chi ha vissuto sulla propria pelle l’esperienza della Shoah. Ma anche, come l’arte tutta, la poesia può indicare vie d’uscita. Lo stesso Adorno ammette come risposte adeguate ai tempi la poesia di Celan, il teatro di Beckett, la musica di Schoenberg.  È da aggiungere che Appelfeld, come Agnon, “come ogni vero scrittore”, preferisce “il concreto al simbolico”; progetta la propria scrittura come un modo diretto, non mediato, di dire la verità delle cose. Superando ogni perplessità Appelfeld attribuisce allo scrivere, che ovviamente appartiene al mondo della cultura, un altissimo significato, e ne fa la missione della propria vita. Attribuisce un grande valore alle proprie pagine di diario, e un valore irrinunciabile alla memoria. La scrittura è un atto di amore per lui; non c’è odio in essa. Non è volta al passato, bensì a quanto di esso è presenza bruciante: “Non ho la sensazione di scrivere del passato: il mero passato è materiale pessimo per la letteratura. Letteratura è presente che scotta, non in senso giornalistico, ma perché aspira a portare ogni tempo ad un costante presente”. “La scrittura mi ha restituito le cose buone che lo sterminio mi ha sottratto. La scrittura letteraria è qualcosa di intimo, quasi un sostituto del sentimento religioso […] abbiamo dimenticato come pregare, e allora scriviamo”. Ha in sé qualcosa di religioso dunque per Appelfeld la scrittura. Non a caso Kafka affermava che scrivere è una forma di preghiera. Come l’attenzione del resto, di cui Benjamin dice che è la preghiera dell’anima.  A questo si annettono le bellissime pagine sull’osservazione, sulla propria capacità di osservare a lungo, come incantati, le cose, che costituisce un’ancora di salvezza anche nel suo peregrinare. Il tema torna nei romanzi di Appelfeld. Gli vanno connesse le notazioni sull’accettazione degli altri e delle cose, che è di nuovo un sentimento religioso.  
 Aharon Appelfeld,
Oltre la disperazione,
Guanda, 2016
Pagg. 144 - € 14.00 
           
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LIBRI
LA PERSONA E LA CRISI
di Gabriele Scaramuzza
La copertina del libro di Emilio Renzi
 “Persona -leggiamo nelle prime righe dell’ultimo libro di Emilio Renzi- è l’esigenza profonda, è la domanda della filosofia nell’età della globalizzazione. È il ‘rimorso’della filosofia contemporanea”.  “Persona” - sarà il tema di tutto il libro. Ma perché “esigenza”, e “profonda”, dei nostri tempi; perché “rimorso”. Questo fa già capire il tono di fondo del saggio. Quello non solo teoricamente, ma affettivamente, se posso dire, più coinvolgente. Ad esso si annettono gli interlocutori di Renzi, da Banfi, a Paci, a Olivetti a quelli chiamati in causa nell’ultima parte del volume. Renzi sa scrivere benissimo, in un modo che prende, non solo per le sue qualità letterarie. E questa non è una notazione a latere, non riguarda qualcosa di soltanto esornativo. Non è raro che consimili notazioni “estetiche” abbiano più il sapore di una concessione benevola, relativa a qualità in molti sensi secondarie, che non intacca la sostanza “primaria” di un lavoro. Non è così, neppure per i più grandi filosofi. Non lo è per Renzi. Nel modo di scrivere c’è la sua partecipazione,  il suo modo di essere nei confronti dei problemi tematizzati nel libro. In esso è depositato un significato che dice  non poco sul suo atteggiamento, sul significato (del tutto condivisibile) che per Renzi assumono i temi che affronta. 
Ma torno alle sue parole. “Persona” innanzitutto. È un tema per solito considerato appannaggio di filosofie confessionali e pertanto relegato in un ambito estraneo agli sviluppi della cultura laica, cui tutti noi apparteniamo. Lo stesso Banfi lo affronta, ma senza dargli pubblicità, forse proprio per non entrare in un dominio considerato di pertinenza cattolica.   
Eppure il tema della persona accompagna Banfi fin dal nascere dei suoi interessi filosofici. Non a caso la sua tesi di laurea con Martinetti (e qui una prima domanda a Renzi sarebbe come mai non è presente Martinetti nelle sue analisi) - che Banfi riprende nella prima parte degli Studi sulla filosofia del Novecento (a cura di Daria e Rodolfo Banfi, Editori Riuniti, 1965) - riguarda temi di assoluto rilievo per il problema della persona. La filosofia di Bergson offre infiniti spunti a questo proposito. Il contingentismo di Boutroux (contingenza e originalità degli strati, loro irriducibilità a un’unica matrice) apre al tema della libertà, coessenziale alla persona (su questo tema, in riferimento al libro di Renzi, e anche nei suoi risvolti giuridici, ha scritto pagine ricche e illuminanti Sabrina Peron: Appunti su persona e libertà, “Persona&danno”, 2015).
Ma personalismo in senso proprio è la filosofia di Renouvier: la personalità -scrive Banfi (op. cit., p. 116)-  è per lui “la categoria delle categorie”, “la legge di relazione stessa”. Afferma Renzi: “Persona è relazione ed è relazione di relazioni” (p. 11)- e già il tema della relazione rinvia immediatamente al pensiero di Enzo Paci, uno dei pensatori cardine del testo. A Renouvier Renzi dedica il paragrafo due del secondo capitolo, mentre il terzo paragrafo è dedicato a Mounier, a Maritain e a Esprit. A Renouvier lo stesso Banfi rinvia in alcune pagine dei Principi di una teoria della ragione (Parenti, Milano-Firenze, 1960, pp. 478-480); leggiamo: “Questi, preoccupato soprattutto dei valori spirituali e del significato della personalità e della libertà aveva cercato […] di lottare, da un lato, contro il materialismo scientificistico, dall’altro contro l’idealismo assoluto, colpevoli l’uno e l’altro di aver espresso  il reale nell’astrattezza di un dogmatismo semplicistico, in cui la complessità  e la ricchezza dell’esperienza andava perduta” (pp. 478-479). Sono temi che tornano nel libro di Renzi.   
Tutti i pensatori sopra nominati coinvolgono sfumature e sfondi religiosi, cui il personalismo cattolico di Mounier e di Maritain daranno grande rilievo, e che influenzeranno, sia pur non dal lato confessionale, Adriano Olivetti. E anche qui si potrebbe porre a Renzi la domanda di cosa ne resti, di come si articoli il tema religioso nel mondo di Olivetti, e di riflesso come possa sussistere nel nostro. 
Anche dal punto di vista stilistico ho apprezzato le pagine sul personalismo fenomenologico e soprattutto l’intreccio delle voci di Banfi e di Paci nel cap. III.2 e nella sua appendice. Dai capitoli successivi sulla persona e i comunitarismi e sul socialismo comunitario, cosmopolitismo non ho avuto che da imparare, e con soddisfazione, sull’attualità. Mi ha colpito la pagina su Jeanne Hersch, di cui conoscevo solo Tempo e musica. Nomi famigliari quali Bobbio, Volponi, Capitini, mi sono apparsi sotto luci nuove. E mi sono trovato a condividere toto corde le proposte di Renzi.   
 Riprendiamo ora la prima frase del testo di Renzi. La persona è l’ “esigenza profonda” dalla nostra filosofia, che vive negli anni della globalizzazione. Ne è il “rimorso” anzi, dato che evidentemente è stata rimossa non solo da un pensiero dominato da una forma mentis globalizzante, ma anche per l’imporsi di una versione confessionale della persona, sentita come estranea dal pensiero laico. 
L’altro termine su cui è necessario soffermarsi è “globalizzazione”. Non entriamo nelle discussioni sui molteplici aspetti e risvolti del problema. Mi limito a osservare che c’è un termine tipicamente banfiano che della globalizzazione è l’antidoto: il termine “complessità”. Che implica articolazione varia e molteplice, i cui termini sono sì posti in relazione, ma mai ricondotti del tutto l’uno all’altro. Né mai sono riassorbibili senza residui in un disegno globalizzante che cancella ogni differenza. Annullando con ciò ogni “sensibilità e amore  per la fresca ricchezza dell’esperienza” (sono di nuovo note parole di Banfi). La complessità salva da ogni reductio ad unum, è irriducibilità, e dunque salvaguardia della libertà. Se globalizzazione è estensione totalizzante, senza limiti, la complessità è residuo non omologabile, eccedenza rispetto a ogni tessuto a maglie strette che cancella le differenze.  
È la persona dunque che sul piano filosofico può rispondere ai danni e alla crisi indotta dalla globalizzazione. Così, su un diverso piano, il nesso tra persona e arte come risposta alla Shoah è importante nel pensiero di Aharon Appelfeld, questo è esplicito nel suo Oltre la disperazione (Guanda, Milano, 2016).
D’altronde a questo proposito è opportuno di nuovo rifarsi a Banfi (come fa del resto anche Renzi). Banfi ci ha lasciato appunti editi solo postumi sul tema della crisi (risalenti agli anni ’34-35, ad anni dunque di fascismo trionfante); e appunti di nuovo editi postumi sul tema della persona, scritti tra il ’43 e il ’44, gli anni dunque del suo impegno: adesione (tramite Roveda) al Partito Comunista, partecipazione alla Resistenza. Renzi propone una “rilettura incrociata” dei due testi banfiani, e giustamente. La persona disegna in certo modo il rimedio che Banfi propone per la crisi, l’uscita da essa, laddove ad es. le poesie di Antonia Pozzi non offrivano a suo avviso un’adeguata risposta alla crisi. Come mi conferma Fulvio Papi (di cui su questo tema è da leggere la bella recensione: Persona. Il nuovo libro di Emilio Renzi, pubblicata da poco nella rubrica Officina di “Odissea”),  gli appunti sulla persona sono in  certo modo il proseguimento di quelli sulla crisi, contengono una risposta di Banfi; tracciano un itinerario personale che va da una crisi vissuta sulla propria pelle negli anni Trenta al riscatto da essa  negli anni dell’impegno fattivo. Nel suo impegno politico Banfi è sorretto da una sorta di “fede”; i termini che usa in proposito hanno un netto sapore religiosa. È  noto il bellissimo dialogo, a questo proposito, tra lui e Paci nell’immediato dopoguerra; è assolutamente da leggere, di Enzo Paci, Colloqui con Banfi, introdotto da Guido D. Neri, 1945: un confronto teologico-politico tra Paci e Banfi, in “Aut aut”, numero doppio, 214-215 (luglio-ottobre 1986), rispettivamente pagg. 72-77 e  57-71.

Emilio Renzi
Persona. Una antropologia filosofica nell’età della globalizzazione
ATì Editore  2015,
pp. 138  € 15.       
             
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LIBRI
CONVERSAZIONE CON FRANCESCO VARANINI
In occasione dell’uscita del suo libro “Macchine per pensare

Francesco Varanini

 Fabrizio Amadori: Sembra quasi che ci sia un piacere, un gusto perverso, nell'immaginare scenari apocalittici nei quali l'uomo è sostituito da Macchine-Dio che pensano e governano il mondo al nostro posto. E anche nell'immaginare un futuro dove uomini e macchine finiscono per ibridarsi, fino a divenire un nuovo unico essere vivente. Perché tutto questo?

Francesco Varanini: È vero, più degli stessi informatici, biologi, cognitivisti, neuroscenziati, un certo tipo di filosofi, futurologi, esperti di scenari, scrittori di fantascienza, concordano nel coltivare l’immagine di un medioevo o di un rinascimento prossimo venturo, dove macchine hanno preso il posto dell’uomo nel pensare e nel governare il mondo. O si sono ibridate con l’uomo in un nuovo essere senziente.

Amadori: Qualcuno parla di fisica digitale, e quindi di filosofia digitale. Tutto sarebbe fatto di bit. L'uomo sarebbe, senza saperlo, un computer, e l'universo stesso sarebbe uno sterminato computer.

Varanini: Colgo in queste ipotesi una sorta di cupio dissolvi. In qualche modo, c’è un eco della lettera paolina ai Filippesi. Essere sciolto dal corpo, però, non per essere con Cristo, ma per essere con una macchina, dentro una rassicurante macchina.
Vedo in ciò un umanissimo desiderio di allontanarsi dalle proprie pene. Ma anche un allontanamento dalle proprie responsabilità.
Nel mio libro, Macchine per pensare, scelgo di non rispondere direttamente, di non contrapporre argomentazione ad argomentazione. Semplicemente, mi limito a raccontare un’altra storia. La storia dell’uomo che costruisce macchine. Credo sia doveroso ricordare, innanzitutto, che il computer non è che una macchina. Una delle tante macchine costruite dall’uomo. L’umanità manifesta se stessa costruendo macchine.
Poi, certo, dobbiamo accettare di guardare a ciò che differenzia il computer da ogni altra macchina. Il computer non solo aiuta l’uomo nel lavoro materiale, ma anche nell’agire, e nelle più alte manifestazioni dell’umanità: il pensare, e direi anche il meditare. Considero per questo l’avvento del computer sulla scena evento di enorme importanza, discontinuità più significativa dello stesso passaggio dall’oralità alla scrittura.
Ma anche guardando ad un eventuale futuro popolato da macchine divenute capaci di autoriprodursi e di convivere da pari a pari con l’uomo, scelgo un campo. Scelgo di osservare la scena dal punto di vista dell’uomo.

Amadori: Ecco, ci spieghi bene questo punto di vista.

Varanini: È ben vero che siamo tutti figli di Cartesio. L’umanità - l’essere, o meglio l’esistere umano - si manifesta nel pensare. La separazione che Cartesio vedeva tra res cogitans e res extensa, però, ci porta fuori strada – o perlomeno: lungo una strada dalla quale mi tengo lontano. Mente e corpo sono nell’uomo inscindibili. L’uomo, che è mente e che è corpo, può immaginare e costruire un futuro dove i computer sono strumenti, utensili nelle sue mani, attrezzi che si definiscono nell’uso, all’interno di un progetto umano.
Perciò ho scritto un libro che ripercorre quei filoni di pensiero filosofici e matematici che hanno portato alla costruzione del computer: Leibniz, Frege, Hilbert. Per questa via, il computer ci appare macchina tesa alla conquista del vero. Logicamente opposto al falso. Ma ripercorro anche, cogliendo l’intersecarsi delle strade, il pensiero che ci parla di un diverso uso del computer, e di altre macchine possibile, strumenti nelle mani dell’uomo che si avventura nel profondo, nelle zone grigie e nell’incertezza: Freud, Wittgenstein, Heidegger.
E poi, in ogni caso, metà del libro è una pura narrazione. Quasi un romanzo. Perché la ragione umana si manifesta innanzitutto attraverso la narrazione. Le macchine, invece, non sanno narrare.

La copertina del libro

Francesco Varanini,
Macchine per pensare
Guerini & Associati Ed.
Pagg. 315 € 24,50  

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A “CARTE SCOPERTE”
di Cataldo Russo 

La copertina del libro di Walter Pozzi

Parafrasando il titolo di una nota canzone di Gino Paoli del ‘91, i protagonisti del romanzo di Walter Pozzi, Carte scoperte, sono “quattro amici al bar”, ma quattro amici non più giovani e pieni di sogni. Quattro amici disillusi dalla vita e dalla politica, che non credono di poter cambiare il mondo in cui vivono, un mondo che si sta, giorno dopo giorno, quasi liquefacendo. Quattro amici che, presi nell’ingranaggio della quotidianità, fatta di disoccupazione, di difficoltà economiche, di  tradimenti e svendita delle conquiste ottenute con lotte che hanno comportato sacrifici anche di sangue, osservano con ironica lucidità e impotenza il tradimento che una classe politica sempre più opportunista, istrione, bugiarda, legata alla poltrona e priva di valori ideali, perpetra, con cinismo, non solo ai danni del paese, ma soprattutto di quella militanza di sinistra, da sempre in prima fila,  che ha creduto e che continua a credere nei valori nobili e alti del socialismo, della libertà e dell’uguaglianza.
Sono quattro amici che non parlano più “con profondità di anarchia e di libertà”, perché si sentono traditi non dai nemici di sempre, la destra, i fascisti, i populisti, gli industriali avidi, ma dai propri leader che stanno trasformando il maggior partito di centro sinistra in una creatura irriconoscibile e priva d’identità. Più che due generazioni o due differenti ceti sociali, a confrontarsi, a distanza, sono da un lato coloro che utilizzano il mandato  del popolo non per fare il bene di coloro che dovrebbero rappresentare, ma per fare  i loro interessi o quello di chi li finanzia, e dall’altro coloro che, legati ancora alle ideologie del ’900, ai valori di classe, al senso dell’onore, alla militanza come scelta di vita sono destinati a essere sempre più frustrati e a perdere. 
Due mondi paralleli scorrono nelle pagine del romanzo Carte Scoperte. Quello patinato e apparentemente misurato e composto rappresentato da coloro che contano, che hanno il diritto di dire l’ultima parola, che con le loro decisioni incidono profondamente nella vita e negli affetti della gente normale, e quello delle persone comuni, che devono fare i conti con le bollette, le multe, l’inflazione, la disoccupazione, la globalizzazione selvaggia e senza regole che ha finito con il  mettere in concorrenza fra loro i poveri, i diseredati, gli emarginati della terra.
Due mondi che non vengono mai in contatto diretto, perché l’uno parla, standosene al riparo da contestazioni, attraverso lo schermo televisivo, usando la parola come verbo, mentre l’altro può semplicemente ascoltare e adeguarsi a decisioni già prese.
Il romanzo abbraccia un arco di tempo di circa sei anni, dal 1998 al 2004. Sono gli anni in cui si tessono le lodi del neo liberismo e si rincorre il consenso del cosiddetto ceto medio, e per questo si è disposti a svendere tutto, persino l’anima al diavolo, pur di meritarselo.
D’Alema, Veltroni, Rutelli e molti altri leader della sinistra storica si muovono e agiscono come calchi di gesso in un tempio greco. Non c’è alcuna coerenza fra i loro enunciati e la loro pratica di vita. Anche loro, come Berlusconi, trovano molto più comodo pontificare standosene comodamente seduti in uno studio televisivo fra lustrini, paillettes, ragazze coccodè che non a contatto diretto con le persone che non riescono ad arrivare a fine mesi in uno squallido e sperduto circolo operario  di una periferia anonima di una grande città.
Mario, il protagonista del romanzo, si è lasciato alle spalle le lacerazioni di una separazione voluta dalla moglie e sei mesi di carcere per piccoli reati fiscali. Pian piano prova a risalire la china e a trovare il proprio equilibrio. Si guadagna da vivere con il gioco delle carte spostandosi dal bar, gestito da un giovane, che potremmo definire un no-global, Geremia, a un circolo operaio frequentato per lo più da nostalgici del PCI e gestito da Brando, anche lui nostalgico di quella sinistra erede dei valori della Liberazione e che oggi si sente tradita. Brando non disdegna, di tanto in tanto, una “mano” a carte con gli amici di sempre: Osmate, Alferio, Montecchi, Orazio, Ritanna e altri. Mario è un giocatore lucido, non abituato a barare, anche perché le giocate non sono mai da capogiro. Contrariamente a Mattia, il protagonista del romanzo di Pirandello “Il Fu Mattia Pascal”, Mario non vive per la grande vincita, il colpo di fortuna che più risolvergli tutti i problemi, ma per sbarcare il lunario. Il gioco, quindi, concepito quasi come lavoro. Infatti, alla pag. 95 del libro Mario dirà a Geremia, l’amico e gestore del bar che gli ha posto alcune domande: “Loro si siedono per giocare. Io lavoro.”
Come Mattia, anche Mario vive nell’anonimato, ma mentre Mattia lo fa per mettersi alle spalle la vita precedente, scandita da alcuni fallimenti, assumendo l’identità di Adriano Melis, Mario vive nell’anonimato per sfuggire all’accerchiamento dei tanti messi comunali e uscieri che lo rincorrono per notificargli bollette e multe da pagare. I personaggi, tutti ben delineati e caratterizzati con le loro storie, apparentemente normali, offrono allo scrittore la possibilità di parlare non solo di temi esistenziali, del disagio del vivere o di alienazione, ma principalmente di politica e di storia.
Nel romanzo di Pozzi, le vicende dei personaggi s’intrecciano sia con la nostra storia nazionale, cui si è già accennato, sia con la storia internazionale, indirizzata in quegli anni più a trovare un pretesto, per giustificare l’invasione dell’Afghanistan, programmata cinicamente a tavolino dall’America e dalle altre potenze europee, che non a capire i fermenti di quelli popolazioni che non sono più disposte a sacrificarsi per la ricchezza di pochi.
Un romanzo, quindi, a tutto tondo, ben scritto e privo di ridondanze o abbellimenti letterari. Un libro che si lascia leggere agevolmente e che nello stesso tempo ci fa pensare sul nostro presente, il nostro passato e anche sul nostro futuro.

Walter Pozzi   
Carte Scoperte 
Edizioni Paginauno, 2015
Pagg.194 - € 15,00

                                           
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POETI
LE CARTE DEL TEMPO DI PIERANGELA ROSSI
di Angelo Gaccione

La copertina del libro

Scrivere di “Carte del tempo” di Pierangela Rossi il giorno di santo Stefano e in una Milano soffocata dallo smog e dalle polveri sottili può apparire paradossale. Ci siamo appena mobilitati sul piano internazionale per fare pressione sui capi di Stato riuniti a Parigi per la Conferenza Mondiale sul Clima, consapevoli che ad essere impazziti non sono i fenomeni atmosferici, ma gli uomini di questo tempo. Ed è certo che se si continuerà su questa china, “tempo” ne rimarrà poco per tutti. Tuttavia Pierangela Rossi, che è una poetessa, al tempo atmosferico e alle sue mille varianti e sfumature, ha dedicato un intero libro. Il tempo atmosferico ha una valenza forte in letteratura. Lo è anche nel cinema, in pittura, e, ovviamente, in teatro. Un uomo che avanza sperduto in una tormenta di neve e in piena notte, ha sul lettore, o sullo spettatore, un impatto completamente diverso di una coppia di innamorati sdraiati su una spiaggia rassicurante in una luminosa mattina d’estate. Ma lo ha sugli stessi personaggi e il loro umore, e finisce per condizionare il loro stesso agire e la loro stessa giornata: “Noooo… ma non la smette più… che tempo di merda… sono tre giorni, tre giorni di fila!” Ecco come si lamenta la Jenny del mio testo teatrale “Single”, seccata dei tre giorni di acqua che il cielo rovescia sulla città. Perché se ogni vicenda umana si svolge in uno spazio dato e in un tempo definito, c’è un terzo elemento che entra a condizionarla in maniera pesante e spesso decisiva: il tempo meteorologico con le sue varie fasi e mutamenti.
Ora le stagioni fanno le bizze: in questi giorni di fine dicembre al Polo c’è un grado, a Londra venti e a Berlino più di quindici. In montagna non c’è un fiocco di neve e nelle città del nostro Sud pare estate, mentre molti corsi d’acqua sono tragicamente a secco.
Il poeta ligure Angelo Barile poteva scrivere di una lontana nevicata sul suo paese di mare come di un miracolo:

Da noi la neve è festa rara./
Quando sorprende il paese che dorme/
ci si risveglia attoniti, in un chiaro/
ch’è d’altro cielo:/
è una chiara vacanza. (…)

Mai avrebbe potuto solo immaginarlo, Barile, così come non avrebbe potuto immaginare un Natale come questo, senza pini innevati e senza il becchettare dei pettirossi sul davanzale, un poeta di montagna. Ma Pierangela non ha bisogno di un miracolo (o di un dramma) fuori stagione: il suo “diario meteorologico” procede quasi quotidiano, come testimoniano le date e le ore riportate sotto i testi. A volte può capitare che le sue “registrazioni meteo” si dispieghino per un ampio arco della giornata, scandite dal variare ravvicinato delle ore, come si può vedere dalle sei composizioni poetiche del 24 aprile del 2013, per esempio. E dove anche i minuti si susseguono spesso con scarti alquanto contigui. Questa parabola temporale copre all’incirca due anni e qualche mese. Si apre con un testo del 12 gennaio 2013 (ore 9 del mattino), e si chiude con uno del 19 maggio 2015 (ore 10,26). Se le date sono fondamentali per la precisione delle mappe, altrettanto lo sono le ore e i minuti, e dunque la minuzia maniacale del poeta vi si deve attenere, sia per un obbligo di verità oggettiva, sia perché è questa verità oggettiva a produrre quella esistenziale. La scintilla prende le mosse da lì; la sensibilità mette in campo tutte le sue risorse, ed ecco che come per incanto, ogni sensazione, ogni suggestione, ogni visione, ogni impressione, anche la più marginale e inavvertibile, prende corpo e forma e si fa concreta attraverso la scrittura. Ed è una scrittura minima, scorciata, essenziale, “trasparente” come “quella del vetro”, secondo la bella ed efficace definizione di Alessandro Zaccuri, che firma una dotta e spiritosa post-fazione, ma pronta ad “appannarsi” questa trasparenza (sempre Zaccuri) per un moto del cuore, una nostalgia, un ricordo. Una scrittura che sceglie le parole e a cui spesso basta un distico per farsi senso, perché di senso è ricchissima. È una scrittura dall’andamento narrativo e che, come nella costruzione di un quadro impressionista, procede per piccoli tocchi, lievi filamenti di colori.  
Se il succedersi delle stagioni e il variare del tempo colto nei suoi mutamenti, danno peso a questa poesia (“Si allungano le giornate/ e fugano ombre impervie/ nei recessi già vicini/ del prospiciente autunno”), essa è intrisa tuttavia di un sentimento amoroso che si interroga di continuo e che in punta di penna, stabilisce un dialogo familiare  a più voci, che attraversa tutto il libro. Ma di altri momenti essa (poesia) vive, attenta com’è a cogliere lacerti di esistenza, scampoli di vita, piccoli semi di saggezza. È difficile raccontarne gli umori, ciò che di impalpabile resta dopo la lettura: il meglio è proprio lì, in quegli echi un po’ evanescenti che vi risuonano dentro.  

Pierangela Rossi
Carte del tempo
Campanotto Editore 2015
Pagg. 128 € 12,00


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LIBRI
LA GRANDE MACELLERIA
di Angelo Gaccione


Giuseppe Langella

Prezioso quanto necessario, questo libretto mette assieme una serie di illustrazioni (14 per la precisione), e un pugno di versi (in tutto 12 composizioni poetiche) di Giuseppe Langella. Sto parlando di Reliquiario della grande tribolazione e che porta come sottotitolo Via crucis in tempo di guerra con tavole d’artista. Forse il lettore avrà già intuito che il lemma “grande tribolazione” sta qui per quella che è stata definita Grande Guerra, e che più correttamente, considerato il numero spaventoso di morti, dobbiamo abituarci a chiamare con il nome che le spetta: Grande Macelleria. Si tratta del primo conflitto mondiale, quello del 1914-1918, che chiude i fasti effimeri della Belle Époque, e che i libri di storia continuano a riportare con le iniziali maiuscole. Langella ha le idee chiare in proposito e titolo e sottotitolo li ha scelti con cura, perché nessuna ambiguità tradisse il suo pensiero, e mettesse da subito le cose in chiaro. Perché di vera e propria tribolazione si è trattata (ogni guerra lo è, qualunque nobile motivazione la infiori), e una dolora via crucis ha dovuto sopportare l’umanità che ne è stata coinvolta: soldati, popolazione inerme, animali, piante, territori, anime che non saranno più le stesse, e oserei dire ogni elemento del creato, divorato da un’empia, sacrilega, folle distruzione. Siano sempre maledetti dunque, come dice questo papa, i loro artefici e chi sui massacri lucra e spera di lucrare. Anche la data di stampa di questo piccolo grande libro non è casuale: 24 maggio 2015; la data della nostra entrata in guerra, il 1° centenario, e a qualcuno dei lettori verranno sicuramente in mente i versi de “La leggenda del Piave” di Ermete Giovanni Gaeta, “ (…) dei primi fanti il 24 maggio…”.

Edoardo Nonelli: Croce (2014)

Il motivo occasionale che lo ha generato, lo dice Franca Grisoni nella bella introduzione, è dovuto all’incontro fra Langella e Edoardo Nonelli, uno scultore di Pontedilegno, che, recuperando alcuni reperti di quella guerra nelle zone delle trincee (le montagne dell’Adamello), ha creato una scultura poverissima, come poverissimi sono i materiali con cui la ha assemblata: una striscia di lamiera, dei chiodi arrugginiti, un pezzo di tavola logorata dal tempo, alcuni sassi. Poverissima, dicevo, ma di grandissimo significato simbolico e di forte presa evocativa; Nonelli ha disposto quei materiali in una delle forme divenute, nella visione e nella coscienza dell’umanità intera, il simbolo per eccellenza della sofferenza e del dolore; dello strazio della carne e dell’anima lacerata dalla passione. E non solo per i credenti e per i cristiani. Questo simbolo è la croce, e “Croce” porta come titolo la scultura che Nonelli ha realizzato nel 2014 con quei materiali. L’immaginazione del poeta Langella a questo punto si è messa in moto, e come accade ad un poeta dotato di sensibilità e di attenzione anche alle cose più minute e umili della realtà, ha dato loro voce; si è fuso con i materiali e con le situazioni, con gli uomini e i luoghi di quella guerra, con i loro oggetti e i loro brandelli, con il loro sentire e la loro disperazione, con i sentimenti di figli e con il cuore devastato di madri. Perché non solo Langella scrive un testo emozionante per quella scultura, usando un titolo bellissimo, “Legno dei dolori”, ma riscatta magistralmente quel legno chiudendo il testo con un verso straziante: buono per la baracca e per la bara

Giuseppe Langella

E poiché il libro vuole essere un reliquiario, alle reliquie umili, dolorose, mute, appartenute agli uomini di quella guerra bisognerà dare voce. Nascono così, dalla frequentazione diretta di quei luoghi e di quei materiali, gli altri 11 testi poetici o litanie, dai titoli inequivocabili: Lamiere, Reticolati, Chiodi, Elegia sopra una scatoletta arrugginita, Pietra diaccia, Cunicoli, Brandello di stoffa, e così via. Sono versi cantilenanti, con le rime che si rispondono e che conferiscono ai testi un andamento musicale e teatrale insieme. Li si potrebbe immaginare anche teatralizzati e con voci di cori, a sostenere un corteo di oggetti e di anime che procedono verso un’oscurità inesplicabile che li inghiotte. Versi asciutti, essenziali, privi come sono di ogni retorica, di ogni concessione che non sia alla vita e alla morte nella loro nuda e spoglia verità. È stata un’ottima intuizione questa di Langella ed il risultato è più che degno. Il libro è arricchito anche, come ho detto all’inizio, di illustrazioni: sei acqueforti, tre disegni, un' incisione, due litografie, una xilografia e una tecnica mista (la croce di Nonelli). Sono scene quotidiane realizzate da artisti che hanno preso parte a quella guerra, e ognuno lo fa con la tecnica che gli è più congeniale e secondo un’esigenza prettamente soggettiva, legata oltre che al luogo, anche alla temporalità. Come ci informa Langella, fanno parte di una più ampia collezione meritoriamente realizzata e custodita dall’ associazione culturale “Arte della Grande Guerra”.

La copertina del libro

Giuseppe Langella
Reliquiario della Grande Tribolazione
Via crucis in tempo di guerra con tavole d’artista
Interlinea Ed. 2015
Pagg. 48 € 12,00

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IL TEATRO DI CATALDO RUSSO
di Angelo Gaccione
Cataldo Russo
 Quando siano vivi ed efficaci sulla scena, se n’è avuta una prova dalla lettura drammaturgica avvenuta di recente nella bella sala teatrale della Biblioteca di Settimo Milanese. Sto ovviamente parlando degli otto testi teatrali (tre drammi, quattro commedie e un dialogo) che lo scrittore e poeta calabrese Cataldo Russo, ha raccolto in un pregevole volume dal titolo: “Il rumore del silenzio” (Eldonejo ed. 2015, pagg. 212). Russo ha ormai al suo attivo una significativa quantità di opere teatrali pubblicate in volumi, e può vantare, altresì, un numero considerevole di allestimenti teatrali dei suoi lavori, superiore a qualsiasi altro drammaturgo italiano della sua generazione. Presentissimo nei circuiti delle scuole, e dunque degli studenti, i lavori di Cataldo Russo si avvalgono di un pubblico giovane, attento, interessato e soprattutto numeroso e vitale; anche se registi e attori non disdegnano di portarli all’interno di circoli culturali, teatri più tradizionali con letture di supporto alle presentazioni dei volumi. Il libro in questione contiene otto lavori: “Il foglio di carta bollata sulla testa”, “Il sogno di volare”, “Scollegamenti”, “Rappresaglia e rancore”, “Il pagamento della pensione”, “Il capomastro Facciapiatta”, “Professione stagista”, “Fausto e Iaio: una sera di primavera gli spari”. Come si può vedere già dai titoli, alla commedia si affianca il dramma; alla farsa si affianca la poesia, toccando alcuni dei nervi più scoperti della storia e della cronaca dei nostri tempi. Il drammaturgo si serve abilmente e magistralmente di tutte le sue risorse espressive, e sa adeguare lingua e forma alla sostanza che si appresta a maneggiare. Passa con disinvoltura dal tono mitico e poetico a quello drammatico; da quello ironico farsesco a quello parodistico; dalla critica feroce e radicale (tutto politico e tutto intensamente etico) a quello popolare, anzi popolano, sorretto magnificamente dal parlato dialettale (il dialetto di Crucoli e dintorni), che ha la forza, come tutti i dialetti sapientemente padroneggiati, non solo di connotare i personaggi, definire i caratteri e determinarli sociologicamente, ma anche di spremerne la vis comica, attraverso la scelta dei lemmi dialettali, l’ambiguità e le allusioni che quel parlato permette. E il pubblico si diverte e sta al gioco, così come si indigna, si irrita, si emoziona e si commuove. Perché in un teatro come questo dove anche la cronaca (tragica o farsesca poco importa) viene immediatamente trasformata in storia (storia del costume e storia civile), ci è messa sotto il muso senza alcun compromesso e viene perentoriamente ad interrogare la nostra coscienza. Che siano le vicende del popolo palestinese o l’assassinio dei due giovani antifascisti dei centri sociali; o quelle della condizione assurda dei giovani eternamente precari, questa materia ci riguarda tutti e se mescola storia grande e cronaca minuta, se anzi le due istanze si intrecciano senza prevalenze di gerarchie, è perché ci troviamo davanti ad un teatro mosso da una fortissima motivazione civile che al bisogno di conoscere, di capire e di decifrare, si accompagna all’obbligo morale di prendere posizione, di stare da una parte, di esercitare la sua irrinunciabile e radicale critica ai fatti ed ai rapporti, così come sono venuti a configurarsi. Un teatro di demistificazione, di contaminazione con l’esistente, sulla scia della più antica e nobile tradizione: da quel teatro greco che educava, illuminava, criticava, e mai perdeva di vista la realtà, la cronaca, i rapporti sociali, le trame bieche dei poteri, fino al teatro di denuncia contemporaneo con le narrazioni sul disastro del Vajont o la strage di Piazza Fontana; la morte del banchiere di Dio (Calvi) o le tresche dello Ior e del Banco Ambrosiano. Cataldo Russo è, a mio parere, uno dei più interessanti drammaturghi contemporanei, uno dei più consapevoli, e la sua lezione estetico-morale è un argine alla deriva qualunquistica, frivola, inconsapevole, disimpegnata, di tanta scrittura teatrale oggi imperante. Sulla scia delle sollecitazioni dello scrittore Tom Wolf, che invitava gli scrittori americani a tornare ad occuparsi della realtà e della cronaca, (quella che lui ha chiamato la bestia da un miliardo di piedi), Russo mette al centro della sua riflessione e della sua rappresentazione, ciò che è necessario e ciò che è indispensabile. Ci aiuta a capire e ad interrogarci per cogliere le aporie ed evitare i pericoli; per schivare le tragedie, per smascherare le falsità, i privilegi acquisiti, le ipocrisie di un mondo capovolto. Lo fa con la dolente sapienza di Mehmet come con la risentita dignità della giovane stagista che nell’atto unico non ha neppure un nome (privata com’è di tutto, persino del futuro, questa generazione di giovani). Lo fa con le voci, i cori, le singole figure che si alternano meravigliosamente in quel dramma corale e straziante che è “Il sogno di volare”, e lo fa con timida e dignitosa ritrosia di un’altra madre straziata, Angela Iannucci, nell’atto unico “Fausto e Iaio: una sera di primavera gli spari”. Il rumore del silenzio è un libro importante e alcuni testi sono dei piccoli capolavori. La mano di Russo ha raggiunto anche nella produzione teatrale la sua piena maturità. Attentissimo alla realtà che ci ruota intorno e ci circonda, egli ce la sa raccontare e proporre con la scrittura, come pochi veri artisti sanno fare.  
     
La copertina del libro con un dipinto 
di
 Mario Bracigliano
ALBUM


Russo mentre presenta i suoi lavori teatrali
                               
Russo in una insolita veste di attore

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STORIA, ETICA ED ESISTENZA IN FILIPPO RAVIZZA
di Angelo Gaccione
Filippo Ravizza

Della generazione dei poeti milanesi degli anni Cinquanta, Filippo Ravizza è uno dei migliori, se non il migliore in assoluto. La mia stima nei suoi confronti è doppia: per la qualità della poesia e perché è fra i rarissimi letterati di questa città, ad aver conservato una sana consapevolezza civile. È stato il solo poeta, nell’indifferenza generale, che ho incontrato al sit-in di protesta sotto gli uffici del Consolato Francese di Milano, dove una folla di cittadini, francesi e non, si era riunita per esprimere il proprio sdegno e far sentire una calorosa solidarietà internazionale alla redazione parigina di “Charlie Hebdo”. Ad onor del vero c’era anche Cesare Vergati, ma lui lavora all’Istituto Francese di Milano, ed era quasi scontato che lo avrei trovato lì. Ravizza non è solo un ottimo verseggiatore e un critico di poesia attento e puntuale, la consapevolezza civile di cui ho detto, ne fanno anche un acuto saggista. Il suo itinerario poetico è scandito da tempi ragionevolmente dilatati, segno che la materia ha richiesto una doverosa decantazione prima di approdare alla pubblicazione, ed anche il corpus che negli anni è andato a comporsi, è abbastanza contenuto: indice anche questo di rigore e sorvegliata attenzione per il proprio laboratorio. Ne ha guadagnato sia l’espressività (mai banale e priva di cadute), sia la materia che da quella espressività è sorretta e riscattata in tutte le sue profonde significanze. Insomma, la poesia di Ravizza dice qualcosa al lettore, perché ha qualcosa da dire, e dunque questi non ne resterà deluso.

La copertina del libro

Chi prende in esame un libro (per me importantissimo e di straordinaria maturità) come Nel secolo fragile, potrà verificare direttamente alcune delle valutazioni qui espresse. Vi accorgerete subito che Ravizza è un poeta che sta dentro la storia (vicina o lontano poco importa): che sia l’esaltante epopea del Sessantotto con i suoi entusiasmi, ideali, speranze di cambiamento o il Risorgimento italiano, a partire dalla Repubblica Romana del 1849 con i suoi giovani eroi generosamente immolatisi per la patria. Sta dentro la storia, come non accade più da tempo ai poeti italiani del dopoguerra (intendo il secolo tremendo e infinito del Novecento e che alcuni hanno impropriamente connotato con un aggettivo altrettanto improprio, e che non rende giustizia alla sua tragica dismisura: breve), e ci sta con tutta la sua lucida consapevolezza. Testi come “Ci pensi ancora?”, “Il mio nome”, “In memoriam Colomba Antonietti”, per citarne alcuni, ne sono l’esempio più lampante. È così presente la storia in questo libro di poesie, tanto che il testo di pagina 75 dedicato alla presa della Bastiglia del 14 luglio 1789, si intitola proprio “La Storia”. Storia di uomini e di eventi, di passioni e di ideali, di piazze e di volti. Ma sta anche dentro una dimensione geografica precisa questo libro: l’Europa. Quell’Europa che oggi delude per il suo gretto egoismo, per le sue chiusure, per non avere imparato nulla delle più recenti lezioni della Storia, e che Ravizza assume come paradigma di una civiltà comune, di radici linguistiche comuni, e non solo come sentire, come cultura. Radici linguistiche che fondano la lingua che sarà dei poeti, e dunque egli come poeta non può che sentire madre e patria il suo spazio, i suoi confini. Un’Europa fatta di ponti che si attraversano e di fiumi che ci conducono, non di muri; un’Europa di piazze e di luoghi che sono ora memoria di ciascuno. Da questo punto di vista Ravizza è forse il solo poeta italiano di mia conoscenza (di questi anni), a cantare ancora l’Europa, a farsene sentinella della parola. Alcuni dei versi risentiti della poesia “Geografia” sono eloquenti:

Europa Europa perché solo io ti canto?
Non passano più popoli e poeti
non guardano più nell’orizzonte
non vedono speranza non vedono futuro?
Davvero questa è la fine della tua Storia?  

Ma numerosi sono i testi che la mettono al centro della sua speculazione e della sua elaborazione formale: da “Europa Europa” a “La pietra dove finisce l’Europa”; vi troviamo il limes (Portogallo) e vi troviamo la luce del pensiero che si fa poesia (Grecia). Come dire: la centralità della tradizione europea e il suo polo opposto, tuttavia ponte aperto verso altri lidi, altre contaminazioni. Non dunque, l’hic sunt leones degli antichi. Questa poesia fatta di materia e di storia, di realtà effettuale e di pensiero, e che non rinuncia ad una ferma indignazione morale, non trascura tuttavia la sua dimensione più privata, la sua “urgenza esistenziale”, come scrive in post-fazione Mauro Germani. Da tale punto di vista, un filo continuo corre lungo il tracciato di questo libro e si interroga sulla sorte di ciascuno; sulla comune esperienza mondana; sulla precaria, breve ed effimera condizione umana che ci sovrasta, con una radicalità pessimista che segna davvero una svolta nel sentire del poeta. Avrei solo l’imbarazzo della scelta nel citare i numerosi testi e nel riportarne gli altrettanti copiosi versi che ho evidenziato ad abundantiam con una matita rossa. Di passaggio voglio dire che da tempo non mi capitava di sottolineare, felicemente ammirato, la quantità di versi e blocchi interi di versi come in questo caso, per la loro pregnanza e la loro bellezza. C’è, ora, in questa visione ragionatamente sconsolante di Ravizza e che segna tutto il libro, la presa d’atto del limite, della sconfitta, del “grande mai più” che tutto azzera, il vuoto che ci inghiotte. Per trovare una consapevolezza così determinata bisogna andare alle pagine di alcuni celebri filosofi (non bisogna trascurare che Ravizza ha compiuto studi filosofici), vediamolo da questi versi di chiusura del testo “Lieve possa esserti il passo” : (…) poi nulla resterà,/ nulla: nemmeno il ricordo…/ saperlo è giusto, saperlo è l’enigma/ che noi siamo./  E ancora dal testo “I grandi fiumi” : (…) sarà un tempo breve amico mio,/  il tuo e il mio sarà dal nulla al nulla senza saperlo,/ ignorando il vuoto che per poco/ ci ha ospitato…/. Niente, vuoto, mai più… intorno a questi lacerti, a questi lemmi si avvitano testi dolenti ed esemplari nella loro sconsolata presa d’atto: “dopo è tutto buio e nulla/ e tutto muore/ persino la memoria”/. Ed il testo scritto dopo una visita ad un amico morto, al cimitero di “Lambrate”, così chiude: vivere non ha senso/ né storia né speranza/. Nelle toccanti e struggenti poesie dedicate alla madre morta (“Ricordo il vetro” e “La più grande -in memoriam-”), proprio perché ad esserne toccata è la carne viva del poeta, “l’inutile e sconsolato vivere” leopardiano trova in Ravizza i modi, le forme e gli accenti più vibranti e più veri. Sono parole autentiche, misurate, in grado di incidersi nella nostra mente per restarvi.

Biblioteca Sormani di Milano settembre 2013
alcuni Naviganti di "Odissea"
al centro Mirella, da sinistra Luciani, Seregni, Gaccione
Piscitello, Amietta, Ravizza

Forse il rimedio al quieto orrido, all’infinito nulla, al niente che non è niente e neppure esiste (sono versi di “Viaggiatore d’Occidente”), che ci attende e dove neppure la memoria ha scampo, sta in un raro, miracoloso, incontro fraterno di uomini; in una solidale condivisione al dialogo, in quella proustiana “consanguineità delle menti” in cui la poesia possa tornare ad essere “un argine al male” come ha scritto Elsa Morante, o venire a noi, come scrive splendidamente Ravizza: “come una lieve benedizione/ indulgente rassegnazione della notte…” 

Filippo Ravizza
Nel secolo fragile
La Vita Felice, 2014
Pagg. 100, € 13,00

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Intervista al poeta Filippo Ravizza

Nel secolo fragile” è un libro di grande importanza, non solo poetica, abbiamo rivolto al suo autore alcune domande.

Filippo Ravizza

Gaccione: Come collochi questo libro all'interno della tua produzione poetica?

Ravizza:Nel secolo fragile” è il mio settimo libro di poesie, dopo un cammino lungo il sentiero accidentato e impegnativo della parola poetica, durato ormai quaranta anni; eppure, almeno nelle mie intenzioni, questo libro che si porta dietro quelle che riconosco essere le tematiche costanti e ricorrenti di tutta la mia produzione (la riflessione sui rapporti tra vero poetico e vero storico; sull'enigma del tempo; sul destino e sulla mancanza di un destino; sul “grande mai più” ovvero l'annientamento che ci attende) è anche un libro che vuole tentare uno slancio, un'apertura di percorso teoretico ed esistenziale verso il futuro, verso ipotesi di costruzione sistematica del futuro. Il secolo fragile è il nostro, il ventunesimo secolo. Ed è fragile perché nasce (abbiamo finora vissuto solo i primi quindici anni di questo secolo) all'insegna della più pervasiva e tendenzialmente totalitaria di tutte le ideologie: l'ideologia che dice che è finita l'epoca delle ideologie, una ideologia, sia detto per inciso, che tutto è tranne che innocente perché serve ad eternizzare il presente e rende impossibile la pensabilità stessa del cambiamento.

Gaccione: Puoi raccontare ai nostri lettori la genesi di questo libro e le pulsioni che ci stanno dietro?

Ravizza: Tutti i miei libri sono sempre stati il frutto di quelle che possiamo tranquillamente chiamare ossessioni ricorrenti. “Nel secolo fragile” nasce, in questo senso, quasi dieci anni fa un pomeriggio di sole a Lisbona. L' "urto" emotivo fu la visione del “Ponte Veinticinco de Abril”, questo grande ponte che attraversa il largo, imponente fiume Tago e congiunge Lisbona con la città sita sull'altra opposta riva. Questo splendido ponte mi richiamò alla mente tutti i ponti delle grandi e belle città dell'Europa e diede inizio ad una ricorrente e ininterrotta riflessione sul ponte come opera dell'uomo, opera con cui l'uomo, hegelianamente si potrebbe dire, interviene sulla natura e sul paesaggio, modificandoli a proprio vantaggio, mettendo in contatto, in collegamento, realtà e territori, dimensioni che sarebbero destinate a rimanere separate, divise, contrapposte, se non ci fossero i ponti. Da lì la voglia di costruire un libro che si giovasse di tutta una serie di “ponti”, “architetture”, costruiti di forma e contenuto, finalizzati ad unire e comporre in affresco tutta una serie spazio/temporale di luoghi, situazioni, dimensioni, di volta in volta individuali o comunitari, generazionali o esistenziali, oppure storico/culturali. Insomma, uno sforzo di unità in affresco di tanti frammenti. Un desiderio di unità. Affidando anche alla parola poetica un ruolo di resistenza al nostro presente frantumato, questo secolo fragile a cui si vorrebbe negare la narrazione del futuro, la speranza.


Gaccione: “Nel ritmo del passare” è, dell'intera raccolta, il testo più ultimativo. Nulla è destinato a restare, tutto è provvisorio, transeunte...

Ravizza: Io non dimentico mai la grande, coraggiosa e dura riflessione di un filosofo, un letterato, un maestro come Jean Paul Sartre: “L'uomo è una passione inutile”. È il frutto di una concatenazione casuale di eventi, sicuramente stupefacente, ma altrettanto sicuramente priva di qualsiasi causalità. L'uomo è un caso e la sua esistenza è un breve arco temporale tra il non ancora e il grande mai più (direbbe Heidegger). Non solo, con noi muore anche la memoria che noi abbiamo di noi, che io ho di me. E quindi, un attimo dopo la nostra morte sarà come se non fossimo mai nati. Questo io scrivo: “(...) bisogna dirlo bisogna scriverlo/ è questa o poesia o mia poesia l'unica/ forza il vero amore che tutto abbraccia/ riesce ad abbracciare con occhi lucidi,/ grandi di quanta dignità è possibile/ nel nostro essere uomini.”


Gaccione: Puoi dirci qualcosa sulla tua officina creativa e sul modo come lavori?

Ravizza: Ventitreenne affermavo entusiasta che “fare poesia” era “fare musica con le parole”. Questa formulazione, forse ancora venata di fervore post/adolescenziale, è però ancora sostanzialmente mia, continuo a riconoscermi lì. Oggi, a sessantatre anni, potrei elaborare analisi certo più articolate, ma poi però per me il cuore vero della questione è lì, l'avevo già intuito da ragazzo: poesia è un'emozione che trova una forma, e la mediatrice di contenuto e forma è la musica, il ritmo, la prosodia dei versi. Di più: ogni contenuto esige la propria forma, la propria ritmica precisa. All'ombra di questa convinzione, lavoro. Nessuna metodologia “razionale”, non mi metto al tavolino dicendo “ora scrivo una poesia”. Vengo colpito da una visione, un evento, un concetto, un oggetto materiale o un'opera dell'uomo, o da una questione storica o una problematica esistenziale. Vivo alcuni mesi o, a volte, alcuni anni “rimuginando”, letteralmente “tallonato” da queste riflessioni che devono sedimentare, devono maturare sino a dare luogo ad una piccola esplosione creativa: i miei libri poi vengono scritti in tempi relativamente brevi. Dopo tanto silenzio le poesie sgorgano una dietro l'altra fino a comporre un mosaico dotato, per l'appunto, di senso e di forma, di un particolare “timbro”. Controprova di tutto questo sta nel fatto, sin qui sempre accaduto, della totale abulia creativa dopo aver scritto un libro. L'ultimo libro mi assorbe sempre completamente; per almeno un anno non scrivo più nemmeno un verso, perché non ho tempo per pensarlo, perché vivo completamente “dentro” alla dimensione, alla visione, dell'ultimo libro dato alla luce.

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La fotografia, il silenzio e il tempo
di Gabriele Scaramuzza

La copertina del volume

Si è inaugurata il 23 ottobre 2015 e resterà aperta fino al 6 gennaio 2016 la bella mostra (curata dalla Fondazione Cineteca Italiana in collaborazione con il Centro Internazionale Insubrico "C. Cattaneo" e "G. Preti" dell'Università dell'Insubria di Varese) di fotografie e brevi filmati di Antonia Pozzi, cui fanno da contorno un’ampia rassegna cinematografica e taluni eventi speciali. Tra questi ultimi segnalo in modo particolare il recital del 7 novembre con recitazione e drammaturgia di Elisabetta Vergani; ma anche due concerti di musiche (il 27.11 e il 9.12) legate ad Antonia Pozzi. Il catalogo della mostra, curato da Calvenzi e Pellegatta, contiene saggi di esperti studiosi di Antonia Pozzi quali Graziella Bernabò e di studiosi dell’ambiente in cui visse, quali Fabio Minazzi. Al cinema nel mondo pozziano è dedicato il saggio di Matteo Pavesi; la regista Marina Spada racconta del suo film su Antonia Pozzi. Alle fotografie infine, last but not least, sono dedicati gli ultimi tre saggi: di Ludovica Pellegatta, Giovanna Calvenzi e H-57.
A Ludovica Pellegatta si deve l’ispirazione dell’iniziativa; le si deve essere grati per questo. Esperta di fotografia, fin dalla sua tesi di laurea si è dedicata alle fotografie di Antonia Pozzi. Per prima le ha catalogate e interpretate, per prima ha messo nella giusta luce un aspetto della figura culturale di Antonia Pozzi prima trascurato, un aspetto molto significativo, ma anche difficile da inquadrare in modo soddisfacente.  
Le foto sono uno dei mezzi espressivi cui la Pozzi ricorre, il loro ruolo, accanto alla sua poesia, nella sua vita è centrale e ormai indiscutibile. Sentiva la necessità di esprimere se stessa anche attraverso i mezzi visivi, e in particolare la fotografia.   
Uno dei temi in cui si può inquadrare il problema le foto è quello del silenzio - cui ha dedicato un libro significativo Tiziana Altea: Antonia Pozzi. La polifonia del silenzio. Se nel mondo del silenzio rientra quel vasto ambito di realtà e di possibilità espressive estranee al mondo delle parole, vi rientra anche il mondo della fotografia; ne è una possibile modulazione.
Il silenzio certo è qualcosa che filtra attraverso le parole; può essere intrinseco alla stessa poesia. Ma nella vita di Antonia Pozzi ha un grande rilievo il silenzio delle pause, quello di tutti gli spazi della vita quotidiana che nel silenzio si consumano: in un silenzio che può essere pienezza di vita vissuta, valore di per sé: risponde a “un gran bisogno di calma e di raccoglimento”; “contemplare così non è un riposo, ma è una vita intensissima e bella”, come scrive lei stessa.
Non necessariamente tuttavia il silenzio è questa pienezza di senso; può essere anche vuoto angosciante, attesa inquieta, qualcosa di oppressivo. Per questo nasce nella Pozzi il desiderio di catturare, di esorcizzare, nella fotografia “le povere cose, torturate nel loro gigantesco silenzio”, come si esprime essa stessa, di sottrarle alla loro presenza insensata perché inespressa. 
La fotografia qui è un diverso silenzio, il silenzio di un dar senso attraverso le immagini, che non hanno bisogno di parole. Il tacere della poesia si riempie di altri segni. C’è un tacere delle parole, un vuoto di parole (una loro insufficienza anche), che si riempie di immagini visive. È il silenzio che costruisce immagini fotografiche: il silenzio dell’osservazione, o della contemplazione, della messa a fuoco, che prepara lo scatto della macchina fotografica; il silenzio vivo dell’immagine che ora abbiamo davanti agli occhi. La foto qui è anche affermazione, anzi accentuazioni, di vitalità: “Mi sono cimentata in mirabolanti ‘exploits’fotografici”, scrive Antonia a 17 anni durante una gita. 
Quello che più mi ha attratto delle foto della Pozzi è tuttavia anche qualcos’altro. Ho sempre pensato che fare foto (e soprattutto le foto-ricordo di viaggi, gite, momenti significativi della vita, avessero o non avessero pretesa artistica) avesse qualcosa a che fare con l’angoscia del tempo e con l’ansia di trattenerlo: “Del tempo ho paura, del tempo che fugge così in fretta”, scrive Antonia. Fare foto ha a che vedere con un avvertire la vita come carente, dunque. Oltre che col timore della morte, con l’ansia di fermare un tempo che non si sente come compiuto dentro di sé; anche con l’anelito a rendersi “chiara e amica la morte”, come sempre Antonia scrive.  Questo non tanto in riferimento alla particolare morte di Antonia Pozzi; ma a tutta la sua vita, che non deve essere necessariamente tutta vista nella prospettiva di quella morte.
Un altro punto che mi ha fatto riflettere: Ludovica Pellegatta ha messo una volta in luce le comuni finalità di poesia e fotografia nel mondo della poetessa. Ne annota talune diversità, e giustamente: la poesia interverrebbe su una situazione di “conflitto terribile tra realtà e spirito”, sarebbe “lotta affinché emerga l’oltre della vita”; un conflitto e una lotta tuttavia risolti nei versi. La fotografia invece esprimerebbe piuttosto un “accoglimento della vita e del mistero dell’essere”, sarebbe “riconciliazione”, darebbe quindi voce a una situazione in cui ci si sente spontaneamente a casa propria nel mondo.
Né nella poesia né nella fotografia potrebbe mancare, come momento di affinità, un comune puntare verso una superiore risoluzione, data tuttavia per così dire naturalmente nel caso della fotografia, faticosamente conquistata nel caso della poesia. Vi sarebbe dunque una complementarietà, una pacifica convivenza tra questi due diversi mondi espressivi.
Ci si potrebbe infine anche chiedere: il ricorso alla fotografia, il non accontentarsi dei mezzi espressivi che la poesia offre, non potrebbe denunciare una sorta di insufficienza della poesia a esprimere pienamente la vita spirituale di Antonia?  Cosa dentro la poesia la porta a cercare una sorta di completamento di sé nelle immagini fotografiche? Non è questo spia di una sorta di carenza interna alla poesia, che postula il ricorso ad altri mezzi? E, aggiungerei anche (al di fuori di ogni riferimento alla fotografia), che postula un compimento di sé su altri piani? 
O anche, non si può avvertire una sorta di conflittualità irrisolta tra i due mezzi, o, meglio, senz’altro risolta (se guardiamo alla riuscita artistica, al valore estetico), nella coscienza di Antonia, a vantaggio della poesia?
Forse la generale conflittualità entro cui si muove la vita di Antonia, e la sua vita spirituale, trovava espressione anche nel dualismo tra poesia e fotografia (che alla fine diventerà anche dualismo tra poesia e prosa, romanzo - differenti possibilità espressive (e di vita) che le si aprono ed entro cui non sceglie mai, lasciandole scorrere in parallelo, ma conflittualmente, in tutto l’arco della propria vita culturale.  

Antonia Pozzi
Sopra il nudo cuore. Fotografie
a cura di Giovanna Calvenzi e Ludovica Pellegatta
Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2015
Pagg. 160 € 28,00

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LIBRI
Scrivere il coraggio
di Giovanni Bianchi

Umberto Ambrosoli
 Cosa insegnare ai figli
Scrivere il coraggio è utile e politicamente pedagogico. Umberto Ambrosoli, capolista del centrosinistra alle ultime elezioni regionali lombarde, non ci regala una memoria del padre che è entrato nel martirologio civile del Novecento, ma parte dal deposito dell’esperienza familiare per una riflessione sul coraggio che attraversa gli ambiti odierni della società civile italiana. Infatti La storia dell'avvocato milanese che indagò sulla Banca Privata Italiana di Michele Sindona e fu ucciso a Milano 35 anni fa è entrata nella nostra letteratura e anche nella filmografia, che costituiscono le modalità del ricordo che hanno progressivamente sostituito i monumenti nelle piazze. Un libro esile, ma, come talvolta accade, da leggere due volte.
La cifra del testo è racchiusa in una frase del padre di Umberto: “Non posso insegnare ai miei figli a non fare, per paura, ciò che reputo giusto”.
L’archetipo non detto del testo è in Ritratti del coraggio, un libro del 1955 scritto da John Fitzgerald Kennedy, allora giovane senatore, che consentì all'autore di vincere il prestigioso premio Pulitzer nel 1957. Del resto i Kennedy avevano un occhio di riguardo per la letteratura italiana, essendosi proprio John occupato degli scritti sulla dottrina sociale della Chiesa di Amintore Fanfani.

Una virtù civile
Il lavoro del giovane Ambrosoli affronta il coraggio come virtù civile necessaria agli abiti virtuosi del politico. Si parte con la citazione di un eroe negativo, Schettino, diventato nell’immaginario degli italiani, e non soltanto delle cronache giudiziarie, il comandante che abbandona la nave che affonda ancora carica di passeggeri. Ambrosoli si incarica di fondare le ragioni del coraggio e prende come riferimento il talento della libertà, lasciando sottintendere che si tratta di talento da esercitare anche quando non si è vincenti  o ottimisti.
L’occasione per un riferimento ai settant’anni del 25 Aprile in molti giovani (i partigiani erano incredibilmente giovani, non soltanto in Italia) che persero la vita nella Lotta di Liberazione per un ideale che trascendeva l’orizzonte della loro vita e talvolta quello della loro fede. Da ciò discende un no tondo all’arrendevolezza all’“inevitabile”.
Un modo per dire -cito il corrucciato Mino Martinazzoli- ai giovani di successo che “l’autocritica non è la critica delle auto”. E d’altra parte Ambrosoli avverte che era assolutamente indispensabile andare oltre la rassegnazione di chi dice: “Oggi non ci sono più persone come quella”. Insomma, il vincere e la velocità non sono sinonimi del coraggio, così come lo intende Umberto Ambrosoli. L’autore si concede un po’ di scandaglio etimologico, che, dopo le miniere in tedesco di Heidegger, hanno trovato utili sequele anche nel nostro Paese e tra i nostri autori. Così ci viene proposta la riflessione sulla circostanza che il coraggio non è un moto esclusivamente razionale, salvo (dico io) fondare diversamente il concetto (e il sentimento) della ragione. Soprattutto ne discende che i giovani vanno presi sul serio, non osannati, magari anche evitando l’eccesso di distanza che il grande Aristotele dimostra nelle prime dieci pagine dell’Etica a Nicomaco.  Ambrosoli costruisce quindi una sorta di etica del coraggio nelle diverse professioni, allineando i personaggi in una galleria di quadri in esposizione. Così ci imbattiamo, nella prima parte, nel coraggio degli imprenditori.
Lo sguardo si distende tra “gli ulivi della piana di Gioia Tauro”. L’imprenditore messo sotto la lente è Giuseppe De Masi (e figli), di 58 anni.

 Nord e Sud uniti nella sconfitta
Ci imbattiamo in una frase rivelatrice: “Si va avanti comunque, nell’interesse degli operai,  per non aggiungere altra disoccupazione alla piaga della criminalità organizzata, che sta uccidendo questa terra”. Ma non la scrive uno degli imprenditori, bensì un giornalista che si è mosso sul suo territorio per un’inchiesta anziché scaricare dal computer le notizie di agenzia. Questo libro invita meritoriamente ai confronti e alle comparazioni. Come viene interrogato un sestese doc come il sottoscritto da un simile approccio?
La Sesto San Giovanni delle fabbriche non c’è più. Quella che tutto il Paese denominava Stalingrado d’Italia. Siamo passati da 50.000 tute blu a 1000 dipendenti: di ABB, Oracle, Wind… I grandi imprenditori del fordismo avevano coraggio perché avevano anzitutto il coraggio di sognare. (Il fordismo è pratico ed organizzato, ma anche onirico: nei padroni delle ferriere, ma anche negli operai che hanno difeso dagli invasori le loro macchine.)
Gli imprenditori sestesi avevano anche l’abitudine di tenere sulla scrivania i modellini in legno dei prodotti che giravano per tutto il mondo. Alla fine degli anni Ottanta hanno deciso, all’unanimità, di smettere di sognare. Hanno chiuso le fabbriche e si sono seppelliti come finanzieri. Una moda diffusa, dal momento che anche l’ultimo Gianni Agnelli, il re di Torino, aveva dato l’esempio licenziando Ghidella  e assumendo Romiti: mostrando cioè a tutto il mondo che in cima ai suoi pensieri c’era la cassaforte di famiglia.
Così nel Bel Paese abbiamo assistito, disattenti e attoniti, al suicidio di massa degli imprenditori. L’antico richiamo finanziario, risalente al Rinascimento, dei Bardi e dei Peruzzi, aveva colpito ancora come una maledizione. Non tra gli ulivi della piana di Gioia Tauro, ma nella selva di ciminiere della Metropolis dell’hinterland; quella Sesto San Giovanni che aveva resistito a Kesselring e ai nazisti e s’è trovata desertificata (la più estesa superficie di aree dismesse di tutta Europa) dai padroni delle ferriere. Ci imbattiamo nel libro di Ambrosoli nelle icone della malavita. Vi si legge: “Il pizzo è una privazione della libertà, il marchio a fuoco che c’è il padrone sopra di te, che di te fa quello che vuole”: così la pensano in famiglia i De Masi. E va aggiunto che il pizzo non è una prerogativa esclusiva delle zone mafiose del Mezzogiorno, ma, inseguendo il business e lo sviluppo, si è pienamente insediato nelle economie del Nord. E mette i brividi più che far sorridere leggere della proposta in un’assemblea di imprenditori mirante a pagare il pizzo collettivo…
Stupisce purtroppo meno leggere che contro De Masi il sistema bancario si schiera compattamente. E l’imprenditore coraggioso non trova di meglio che profferire: “Io sono morto che cammina”. Non poteva mancare in questa terra desolata il ricordo a Libero Grassi, assassinato nel 1991. E quindi rincuora gli animi l’iniziativa di Addiopizzo, che si rivolge alla società civile. Con un ammonimento lapidario: “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. È lo slogan che compare su centinaia di adesivi la mattina del 29 giugno 2004 nel centro di Palermo.

La libera professione
Liberato Passarelli, 60 anni, presidente dell’Ordine dei commercialisti di Castrovillari, nel 2009 viene ucciso nel suo studio a colpi di pistola da un imprenditore che gestiva un villaggio turistico. In questo caso è stato il normale esercizio della responsabilità professionale la ragione della morte dell’avvocato. Ancora una volta il commento è asciutto e va diritto all’animo: “Serafino Famà ha operato in una Catania dove era in corso una delle più sanguinose campagne di aggressioni mafiose mai riscontrate: dove la vita umana valeva – per i criminali – quanto quella di un cane randagio”. Per sintetizzare, è necessario osservare che il ruolo dei liberi professionisti che si attengono alla correttezza professionale costituisce inciampo per la malavita e occasione per portare morte ed assassinio.
È la politica? Non poteva evidentemente mancare un capitolo dedicato alla politica e ai guasti provocati da una lunga consuetudine con il potere. È qui che i populismi mediatici alla moda sono messi spalle al muro. Da chi? Non certamente dai finti censori che conducono troppi inutili talkshow. Ambrosoli cita la lettera dal carcere di Giacomo Ulivi, classe 1925, in attesa della esecuzione capitale. Commuove la constatazione che l’imminenza della morte non impedisca al giovane Ulivi una serie di riflessioni pacate e prospettiche sul fascismo e sulla sortita dalla dittatura, insieme a una presa di distanze dalla generalizzazione del disprezzo per quella che già allora veniva chiamata la “sporcizia” della politica.
Interessante anche la citazione accostata all’azione di Maria Carmela Lanzetta, del comune di Monasterace: secondo Sant’Agostino la speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio.

La normalità del coraggio
Esiste tuttavia quella che possiamo definire la normalità del coraggio. Una normalità che non esclude la paura, anzi la implica, consentendo di evitare la temerarietà.
La riflessione è strappata ad Ardito Desio, il principe dei geologi italiani e il capo della spedizione al K2. Con l’avvertenza che cedere alla paura è non voler vivere. Un leitmotiv  che torna nel caso di Giuseppe Carini, “l’amico del prete antimafia”.
Così pure coraggio e determinazione illustrano la figura di Tina Anselmi, già giovane staffetta partigiana, più volte ministro democristiano, presidente, nei primi anni 80 della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla attività della Loggia Massonica P2.
Un testo tra i più preziosi in assoluto tra quelli prodotti dai lavori parlamentari nel dopoguerra. Ed è proprio Tina Anselmi che pronuncia la frase: “È questo che vorrei raccontare: la nostra normalità”. E poi le icone di Lech Walesa e della moglie Danuta. Il ricordo di una trattativa sindacale in cui il leader di Solidarnosc si trovò solo e isolato dalla base, e tuttavia non desistette, ottenendo alla fine il consenso e l’abbraccio dei compagni di lavoro.
La moglie Danuta conferma il detto che “al fianco di un uomo forte c’è una donna ancora più forte”. Mentre Lech Walesa ne esce con un ritratto di uomo estremamente pratico, che non riesce ad arrivare alla fine di un libro che ha cominciato, chi si affida soprattutto al buon senso, come per “aggiustare una lavatrice”.
Insomma il coraggio non è merce corrente, ma neppure richiede spericolate arrampicate. Importante è che l’uomo coraggioso non scordi un antico ammonimento di papa Paolo VI, quando tesseva l’elogio di un uomo che “non ha mai sacrificato per la vita le ragioni della vita”.


Umberto Ambrosoli
Coraggio
Il Mulino Edizioni, 2015
Pagg.112  € 12,00














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LIBRI
SILVIA VEGETTI FINZI: L’INTERMITTENZA DEI RICORDI
di Gabriele Scaramuzza

La mia tentazione al solito è di parlare, più che del libro in sé, delle mie impressioni di lettura, dei miei percorsi entro il libro. E dovrò far fatica a scegliere tra il troppo che mi vien da dire, e la necessità di sfoltire, concentrandomi su qualche parziale prospettiva. Non leggo, e tanto meno scrivo, per mera informazione culturale o curiosità. Dev’esserci qualcosa che mi cattura.   
Cosa mi ha indotto ad acquistare il libro, da cosa è nata la mia voglia di leggerlo innanzitutto. Ho letto da qualche parte il titolo, mi ha subito attratto, in particolare perché associato a un cognome noto e, ancor più, connotato qual è Finzi. E qui mi ha prima cosa attratto il termine “stella”, Una bambina senza stella è il titolo, appunto. Ho subito pensato, dato il cognome dell’autrice, alla stella di Davide; ma perché “senza”, è stata la prima domanda; ci doveva essere altro nel contesto. E, in effetti, il titolo allude a una duplice assenza: segnala un vuoto affettivo oltre che simbolico: la bambina è “senza stella”, leggiamo, “nel senso che non è stata marchiata, come gli ebrei di altri Paesi, con la stella giudaica, ma anche nel senso che, coinvolta nelle persecuzioni razziali, ha dovuto affrontare la sfortuna di un precoce abbandono”.   
In seguito mi è capitato di leggere la recensione di Remo Bodei, e di accennare del libro ad amici: Fulvio Papi, Silvana Borutti, Anna Ferruta. Qualcosa ho cominciato a capire, un reale interesse mi ha preso. Senza contare che, a incrementare la voglia di leggere, quel “senza stella”, proprio nella sua ambivalenza, mi ha rinviato, impropriamente certo, ma non del tutto, a un autore che amo: Aharon Appelfeld, e in particolare al suo Storia di una vita; ma anche, per assonanza nel titolo, a Paesaggio con bambina. Naturalmente mi sono subito accorto che le storie in gioco sono molto diverse, ma un nucleo di consonanza resiste.  
Immerso nella lettura, sono stato catturato dalla storia, dal suo ritmo narrativo che prende dall’inizio alla fine e crea l’ansia di sapere “come va a finire”. Quanto alle riflessioni, mi hanno fatto parecchio pensare, a volte mi hanno creato difficoltà (data anche la mia scarsa dimestichezza col mondo che Silvia Vegetti Finzi padroneggia magistralmente). Il libro è infatti costruito come un contrappunto tra due voci (come risulta chiaramente già dal titolo e dal sottotitolo): “l’una narrativa, l’altra riflessiva, talora psicoanalitica”. Ho cercato il più possibile di scrostare gli eventi narrati dal tessuto di mediazioni culturali in cui sono immersi. Di “liberare” così, in certo senso, il paiolo di rame, Pippo, “Lili Marleen”, Brill e Guttalin, l’antisemitismo, le giovani coi capelli rapati a zero, “sola me ne vo per la città”; ma anche i difficili rapporti coi genitori, la solitudine… Un mondo in gran parte appartenente anche alla mia infanzia, e per questo tanto più ricco di sapori e di suggestioni per me.  Ho tentato di “liberare” tutto questo al duplice fine di farne emergere il tono sensibile, la tinta emotiva che conserva per me; e di liberare mie possibilità di ripensarlo, di fantasticarne magari.
E infine una notazione sul tempo del racconto. Il tempo delle memorie raccontate non è pieno, né lineare: “la sua catena è composta di segmenti che solo a posteriori vengono connessi nella narrazione e inscritti nella cornice della storia. L’intermittenza dei ricordi rivela che il nostro passato è una costruzione, per certi versi arbitraria, mossa dal desiderio di continuità e di senso che ci abita”. La frammentarietà del racconto non toglie tuttavia che tutto in esso tenda verso un fine che lo anima, e che è il senso della storia. Un senso ricco di risonanze non solo in me, e per cui si deve esser grati a Silvia Vegetti Finzi di averne scritto, e con tanta partecipazione.   

Silvia Vegetti Finzi
Una bambina senza stella.
Le risorse dell’infanzia per superare le difficoltà della vita.
Rizzoli, Milano, 2015 pp. 229,  € 18.50

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POESIA
IL NUOVO LIBRO DI CANNILLO
di Rinaldo Caddeo
Luigi Cannillo con in mano il suo libro
Come osserva Sebastiano Aglieco nella Prefazione, è il tema della perdita ad attraversare tutto il libro di Luigi Cannillo. Il dolore della perdita, in particolare nella prima sezione, L’ordine della madre. Un dolore che non dà in escandescenze o in fremiti, né si dichiara troppo apertamente. La sua intonazione ermetica e la sua cadenza soffocata, sono tenute in sordina, ma diffuse sottotraccia, determinate e destinate al tempo sospeso dell’esilio, dislocate nello spazio del vuoto. Un vuoto senza abissi o vertigini, suggerito dalle assenze del presente ma sobillato dagli spettri della presenza mnestica: la madre, l’ospite, il padre, un rilkiano-montaliano “tu” fantasmatico-ossessivo o il baudelairiano incontro clandestino con uno sguardo sconosciuto.
Al centro della sezione centrale (12 segni) del libro, come nota Aglieco, c’è il tema del doppio (gemelli), dove il tu a cui si rivolge, oltre che alter-ego, è il destinatario di una invocazione-evocazione (“Cercami”, “Fermami”) che traccia un percorso dei contrari che si dividono e si riuniscono, ridefinendosi insieme. Ebbene, il doppio si manifesta, oltre che nell’immagine sul muro (ombra, riflesso), “nel vuoto scavato nell’aria” (pag.33), nel calco del nostro corpo, lasciato, messo e tolto in continuazione, al vuoto, anzi, scavato, seppellito/disseppellito, con tutte le giuste ricadute di senso, di ordine psichico, ma anche morale, politico (la fratellanza) e storico-mitico (Caino e Abele, Romolo e Remo), collegato e fomentato dai successivi chiasmi, figure dell’ossimoro permanente e dell’intreccio simultaneo di repulsione/attrazione, perdita/ritrovamento: “Siamo i lembi separati da sempre/ da sempre ricongiunti”, “incontrandomi ti perdi/ ritrovi il gemello perduto”.
Vuoto stratificato e istantaneo, lievito di un mondo di sommovimenti nascosti che si sorregge sulle linee di forza di nitidi, palpitanti, a volte lampeggianti ma volatili confini, come nelle stampe giapponesi di Hokusai che sul vuoto modulano le forme, gli ossimori e i colori degli elementi della natura, animali, gesti, azioni: dal vuoto nascono, si formulano e giungono al culmine nel punto e nel momento in cui fanno naufragio in esso e in esso sono destinati a dileguarsi. Nebbie, foschie, penombre, tenebre, corridoi bui, acque acherontee, sogni, istituiscono repentini fondali e dissolventi scenari ma tali da conferire una risoluzione particolare alle singole immagini. Forme fluttuanti nella notte, respiri, voci, preghiere, nastri invisibili, stelle cadenti, frecce, barche, eliche, cerchi concentrici, specchi, cappi, rocche, muri, nidi, lacci, piume, orologi, lampi, orme, scie, emersi dai campi elisi della realtà, si imprimono sulla pagina, apparizioni/sparizioni (asparizioni, come le definiva Giorgio Caproni) metafisiche, con una pronuncia colloquiale inconfondibile, dotate di un rilievo visivo evanescente ma preciso. Come in Dialoghi nel sogno, in viali...: «La casa è scomparsa dietro ai muri/ Unica traccia del commiato/ la scia della bicicletta sull’asfalto» (pag.56). La scia della bicicletta sull’asfalto: tipico emblema del ritmo di fuga, del tenore e della tenuta delle immagini di Galleria del vento e dei loro objective correlative (perdita, smarrimento, ma anche focalizzazione, avvistamento, traccia, commiato, saluto, conclusione, congedo).

La copertina del libro

L’energia ritmata del trobar clus di Cannillo trova in questi testi la conferma della coesione e dell’intensità delle atmosfere delle prove precedenti ma anche l’approdo a una modulazione rarefatta. Ogni testo è un tessuto dinamico di allitterazioni, assonanze, consonanze. Un tessuto screziato e intercomunicativo, fin dall’esordio: «Chi scuote questa galleria del vento/ dove oscillanti fiori e fondamenta/ e palpitanti ci animiamo?/ Come pianure disperse nella nebbia/ misuriamo la potenza del vuoto/ respirando l’aria dell’attrito/ I cristalli del corpo ci accendono/ nell’alito imprevisto che ci sfiora/ Sono lampi e scatti nel corridoio buio,/ e sulla pelle vetro si alterna/ a velluto, nel vortice che scorre/ sul tappeto o s’impenna/ un capitano naviga il destino» (pag.11). Nello snodarsi di endecasillabi regolari/irregolari, è l’allitterazione delle v che inanella le parole decisive, che stringono tra loro interconnessioni anagrammatiche: vento, vuoto, imprevisto, vetro, velluto, vortice, naviga. Quelle su cui s’impernia la sensibilità e l’animazione del corpo. In particolare le coppie disposte vicine e semanticamente connesse: vento-vuoto, vetro-velluto. Entrambe sono legate dall’allitterazione delle t e intrecciano un tessuto di assonanze/consonanze (ento-oto-etro-uto). È la “potenza del vuoto”, la sua estensione e la sua energia, a trasformare lo spazio domestico e il nostro corpo in una “galleria del vento”. Vetro-velluto sono domestici, sinestesici ma opposti poli di luminescente trasparenza-fragile rigidità vs morbidezza-elasticità-buio. Il corpo, con il suo desiderio e le sue frantumazioni, è il protagonista altro del libro. Il suo esserci, il suo sottrarsi e il suo potere di restituzione e di insediamento di dolore e qualche volta di gioia: occhi, pelle, vene, ossa, fibre. «La trama del corpo si mostra/ al rovescio» (pag.55), nelle impronte, nelle scie, nella scrittura, nel doppio, nell’altro: «Il desiderio ormeggia al confine/ sulla soglia irremovibile del corpo/ mentre ogni ramo e onda/ sono vene e pelle bagnate di luce/ Contemplo ad occhi spalancati/ quello che tu vedi ad occhi chiusi» (pag.53). Con gli stigmi di una scrittura vibrante e a volte visionaria, ciò che è dentro esce fuori, viene, per interposta persona, allo scoperto.
Luigi Cannillo
Galleria del vento
La Vita Felice ed. Milano, 2014
Pagg. 72 -  € 12


Luigi Cannillo, poeta, saggista e traduttore, consulente editoriale, è nato e vive a Milano. Ha pubblicato, tra le sue raccolte di poesia più recenti, Cielo Privato, Ed. Joker, 2005; e Galleria del Vento, Ed. La Vita Felice, 2014. È presente, come poeta, curatore o con interventi critici, in antologie e raccolte di saggi. È redattore della collana Sguardi dell'Editore “La Vita Felice”. Collabora alla rivista internazionale “Gradiva”, New York/Firenze.

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LA BIBLIOTECA FANTASTICA
DI ADAMO CALABRESE

Omaggio a Pavese
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LIBRI 
La realtà non è come ci appare

Carlo Rovelli è uno scienziato, un fisico teorico, lavora all'Università di Aix - Marsiglia dove dirige il gruppo di ricerca in gravità quantistica. Ho letto questo libro e l’ho trovato interessante, completo e cosa assai preziosa per il tema scientifico complesso, di facile comprensione e accessibile alla maggior parte del pubblico. Si connota come un testo scientifico divulgativo. D'altronde quest'opera si è aggiudicata dei premi. L'autore partendo dall'antichità classica ci porta a scoprire o riscoprire tutti quegli uomini di scienza che hanno fatto progredire l'umanità. La fisica con l'apporto di formidabili pensatori si è sempre più avvicinata a conoscere di che cosa sia costituita la realtà, l'essenza del nostro mondo e dell'Universo, le leggi che regolano e sottendono alla costituzione della materia, dell'energia e di molto altro ancora. Inizia con la dottrina di un illuminato filosofo della civiltà ellenica Democrito di Abdera, il primo che intuì la materia formata da atomi, segue tutta la storia della fisica come in un cielo dove brillano i luminari che hanno segnato significativi balzi in avanti nelle conoscenze umane (debitamente spiegati in maniera semplice). Si giunge così all'età contemporanea (XX e XXI secolo) che vede il pensiero più avanzato della disciplina in oggetto basarsi su due grandi pilastri: la relatività di Einstein e la teoria dei quanti. L'autore si spinge oltre, alle frontiere delle più moderne conoscenze acquisite: l'evaporazione dei buchi neri.
Il panorama è vasto e completo e ricco di riferimenti, di citazioni, di fotografie degli emeriti studiosi e di rappresentazioni grafiche esplicative. A volte sono riportate le più importanti formule matematiche che ovviamente ai più risulteranno ostiche; ma ciò solo come esemplificazione o dimostrazione. L'autore termina il suo lavoro con considerazioni che mi trovano del tutto in accordo. Questa, secondo me, è una conclusione particolarmente valida e significativa del libro.
Cito dal capitolo finale Il mistero:
“() per imparare qualcosa in più bisogna avere il coraggio di accettare che quello che pensiamo di sapere... possa essere sbagliato... apertura all'apprendere, a rimettere in discussione il sapere... perché allo spirito scientifico fanno sorridere coloro che dicono... di avere un accesso privilegiato alla Verità.
Da ultimo non posso che sottolineare l'ammirevole attenzione e precisa puntualizzazione che esiste nel testo tra intuizioni scientifiche e intuizioni poetiche (valga una per tutte: la rappresentazione tradizionale dell'universo dantesco). Esiste anche una sottesa critica al sistema universitario italiano e più in generale la mancanza di istituzioni scientifiche adeguate nel nostro Paese vista la continua, incessante ed emorragica fuga di cervelli verso i paesi stranieri: i giovani scienziati italiani emigrano e lavorano all'estero.
Tiziano Rovelli
 
La copertina del libro
Carlo Rovelli
La realtà non è come ci appare.
La struttura elementare delle cose
Raffaello Cortina Ed.
Pagg. 241 € 22,00

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LIBRI
Green Autobiography
La natura è un racconto interiore    
 di Gabriele Scaramuzza

 
Duccio Demetrio
Non può spingere a occuparsi di un libro un mero dovere di informazione, di aggiornamento, di pubblicità, tanto meno di superficiale curiosità. Dev’esser qualcosa che prende, un accordo con le problematiche di fondo, qualcosa che leggendo si è imparato, in cui ci si è riconosciuti - e ha dato frutto. 
Nella mia presentazione non potrò che procedere per flash centrati su momenti particolari. La ricchezza e la densità, l’ampiezza di temi e di problemi del libro mette in guardia da ogni tentativo di esposizione esauriente. Mi concentrerò solo su ciò che più mi ha coinvolto. 
In primo luogo, in questo caso, a catturarmi è stata l’idea di autobiografia che vi agisce, molto più profonda e propria di quel che normalmente con questo termine va per la maggiore. Già Duccio Demetrio aveva scritto un testo dal titolo emblematico, tutto da condividere: Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé (ed. Cortina, 1995); al cui centro appunto è l’attenzione all’ineliminabile, e spesso a torto trascurata, componente terapeutica che allo scriver di sé è essenziale. Ci possono essere molte componenti nelle scriver di sé, naturalmente, ma quella terapeutica resta fondamentale. 
In questo contesto è quanto meno da ricordare anche il numero di “Adultità” (rivista diretta da Demetrio e ricca di suoi contributi) del 4 ottobre 1996, dedicato a Il metodo autobiografico.  
Un abbaglio irrealistico è intendere per autobiografia un racconto che parla di una persona astratta da ogni cosa gli sia “esterna”, quasi si avesse a che fare con un essere del tutto scisso dal mondo circostante e perduto nei meandri di itinerari solo privati:  “possiamo scrivere di noi -dichiara Demetrio- solamente raccontando cose, personaggi, viaggi, incontri, peripezie, rapporti con i mondi umani e naturali, direttamente vissuti e incontrati” (p. 32). Recensendo Su “Il Sole-24 Ore” di domenica 23 agosto 2015, la traduzione italiana di Gli anni di Annie Ernaux, Chiara Pasetti cita dalla scrittrice francese: "Non si può non parlare degli altri scrivendo di sé". E sempre di rapporti con un “altro”, di qualsiasi natura, si parla anche se ci si propone di dire strettamente di sé. 
In realtà -non è così banale ricordarlo- l’io o, meglio, gli io che di volta in volta sono protagonisti delle nostre narrazioni autobiografiche, sono centri di relazioni, con gli altri e con le cose. Un’autobiografia non può che parlare dei rapporti di un io e un “altro” che incontra nella vita: persone, cose, eventi naturali e storici…. Soggetto e oggetto, interno ed esterno sono indistricabilmente connessi, sono meno separati di quanto una cattiva astrazione lasci credere.
Anche per questo il fastidio (un tempo di moda) per tutto quanto è autobiografico, soggettivo, lo ritengo superficiale; non tiene conto che la soggettività è sempre coinvolta, a livelli diversi, anche in scritti apparentemente “oggettivi”. L’altro è presente, sia pur al negativo, anche nelle solitudini estreme, anche laddove in gioco è ciò cui si dà il nome di interiorità. Mi ha sempre affascinato il tema dell’interiorità, e dell’interiorità maschile così come ne hanno scritto Kafka nella Lettera al padre, Carla Ravaioli in Maschio per obbligo e, da ultimo, soprattutto Duccio Demetrio in uno dei suoi libri più affascinanti e innovativi (L’interiorità maschile. Le solitudini degli uomini - edito da Cortina nel 2010). Qui assai pertinente è la distinzione tra “maschio” e “uomo”; parafrasando Simon De Beauvoir si può senz’altro sostenere che “maschi non si è ma si diventa”.
Ha ragione Andrea Emo, che opportunamente Demetrio riporta a p. 51: “uno scrittore è tanto più grande e tanto più interessante, quanto maggiore è il suo coraggio di confessare quello che egli è veramente […] la maggior parte delle persone parla e scrive per nascondersi […]. Solo chi è sincero, chi ha il coraggio di manifestare quello che egli è può sperare che altri si riconoscano in lui”.  
Centrale più di quanto non si pensi è l’incontro con la natura, tema privilegiato di un racconto interiore, in cui essa appare filtrata dalla soggettività di chi nell’incontro con essa le conferisce un senso. Se penso ai miei conati autobiografici non ho difficoltà a riconoscere che la natura vi ha un posto preminente, è uno dei centri della riflessione su di sé, realtà che irresistibilmente attrae ed è coinvolta.  
Particolarmente opportuna e appropriata è dunque la ricerca che sul tema ha condotto Duccio Demetrio; e non solo per la splendida scrittura, essa stessa compenetrata di sapori naturali, e molto stimolante. Ma anche, non ultimo, per la profondità e varietà di punti di vista che mette in gioco. Nei quali viene spontaneo riconoscersi.     
Non tacerò che tra i motivi attrazione del libro c’è anche la scelta dei passi posti ad esergo dei vari capitoli, alcuni dei quali appartengono a un mio personale repertorio. Un brano di Paul Valéry esprime benissimo il necessario coinvolgimento della soggettività: “Ritengo sia più utile raccontare quanto si è provato, invece che simulare una conoscenza indipendente da qualsiasi individuo e un’osservazione priva di osservatore” (p. 19). Mi ha coinvolto la ripresa a p. 98 di una poesia - Sensation - di Rimbaud che mi sono ricopiato fin dai miei primi anni di studio. Per non dire del senso di partecipazione, che mi ha provocato la citazione e il commento di tre poesie di Antonia Pozzi (alle pp. 70-71).     
Il tema del silenzio mi ha decisamente coinvolto: significativamente Duccio Demetrio dirige anche l’Accademia del Silenzio; nella collana "Accademia del silenzio" (edita da Mimesis) vorrei citare quanto meno il saggio di Stefano Raimondi (Portatori di silenzio). Per altro verso è da tener presente, sul tema del silenzio nella poesia di Antonia Pozzi (ben presente a Duccio Demetrio), il saggio di Tiziana Altea: Antonia Pozzi. La polifonia del silenzio (Cuem, Milano 2010). Ma naturalmente non vanno taciuti gli scritti di Duccio Demetrio stesso: I sensi del silenzio. Quando la scrittura si fa dimora (Mimesis 2012), e Silenzio, edito a Padova lo scorso anno. 
Demetrio cita anche passi assai coinvolgenti quali: “Ora il silenzio è tornato da me e io lo porto con me, continuamente” (p. 227), scrive Etty Hillesum, associandolo al tema della natura, la cui modalità di presenza, il modo di viverla dentro di sé, è proprio il silenzio. E Pasolini: “Un silenzio meraviglioso è intorno a me […]. Piove. Il rumore della pioggia si mescola con delle voci lontane, fitte, incalcolabili” (p. 247).    
Nella poesia, nelle memorie, nei ricordi, il silenzio assume un ruolo imprescindibile: non solo come pausa tra le parole, o come sfondo da cui se ne staccano, ma come humus di cui vivono e cui sempre devono ritornare. Il silenzio segnala il non esaurirsi delle cose nelle parole. Le parole non coprono le cose, resta sempre un margine di non detto, di altrimenti dicibile magari, coi mezzi che altre arti mettono a disposizione; ma soprattutto di propriamente indicibile. E questo non è un residuo inerte, si fa anzi propulsivo, è energia che spinge a cercar sempre nuove parole, incentivo a dire con altri mezzi.    
Il silenzio delle cose è propulsore di diverse modalità di dirle; che siano molteplici, e differenti, segnala l’impossibilità di ognuna di esse di esaurire in sé le cose, e il contributo di ognuna al dirle. La natura si esprime, e con quanto splendore, nel mondo delle arti visive, della pittura soprattutto. Ma anche in misura tutt’altro che trascurabile nella musica: gli esempi sono innumerevoli: da molti luoghi della Pasorale, al temporale in Rigoletto, al fuoco del Trovatore, al mare in Simon Boccanegra, alle onde del Reno e al fuoco della Tetralogia e in particolare Waldweben espresso con tanta suggestione in Siegfried, fino a Das Lied von der Erde di Mahler, a tanto Debussy, ai paesaggi invernali di Castiglioni... Gli esempi si potrebbero moltiplicare all’infinito.  
Nella green autobiography il silenzio segnala una, e non la meno significativa, modalità di presenza della natura nel parlare di sé, quella in cui gli io che scrivono lasciano la più palpabile traccia di se stessi.

Duccio Demetrio  
Green Autobiography
Booksalad 2015
Pagg. 352  € 15,00

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ORDINE E TRASGRESSIONE
Il nuovo libro di Fausta Squatriti
di Luigi Cannillo

Fausta Squatriti

L'ultimo romanzo di Fausta Squatriti presenta una sorta di deformazione, di storpiatura, già dal titolo: “La cana” è il modo in cui il protagonista, il tedesco Siegfried, chiama l'amata e devota Lili, la cagna che gli è vicina da quando ha deciso di trasferirsi in Italia, nel tentativo di ricostruirsi una vita dopo le esperienze devastanti dell'educazione nel periodo nazista, della guerra, della diserzione e del dopoguerra. A ben vedere tutto il romanzo -anche la sua struttura- consiste in una serie di personaggi e situazioni borderline, eventi devianti dalla norma di uno sviluppo lineare e consueto. E proprio per questo materia di avvincente narrazione.
Siegfried (tutt'altro che simile all'eroe tragico di cui porta il nome) decide di ritornare in Italia, nello stesso territorio che lo ha visto combattente e sconfitto e di acquistare una villetta malandata ai confini del bosco. La grande Storia e la storia del protagonista si intrecciano: le vicende personali sono strettamente legate e dipendenti dagli eventi storici, ma,a loro volta contribuiscono a far interpretare gli avvenimenti storici stessi da un'angolatura particolare. Così l'educazione nazista e la giovinezza rubata producono anche nei decenni successivi alla caduta del regime un atteggiamento rancoroso nei confronti dei genitori e del paese d'origine e la reiterazione di comportamenti che manifestano ancora aspetti violenti, maniacali e anaffetivi. Questi ultimi riguardano in particolar modo la vita sentimentale e le donne, vecchie amiche e amanti, esse stesse vittime di vite insoddisfacenti o scialbe, figure comunque provate da una esistenza tutt'altro che eroica. I tentativi di riscatto affettivo del protagonista, comunque destinati al fallimento, offrono però occasione, più che per pause di sentimentalismo, per significativi episodi di erotismo livido e talvolta violento.
La presenza dell'io narrante dell'autrice è puntuale, con sottolineature e commenti che esulano dalla pura descrizione degli avvenimenti ma che piuttosto tendono a prendere le distanze dagli stessi, come nel racconto della vita famigliare del giovane Siegfried, negli incontri con le amanti in visita o nelle descrizioni degli edifici e degli arredi: si tratta di notazioni specifiche di tipo anche artistico ed estetico, digressioni che aggiungono alla nuda descrizione o esposizione dei fatti coloriture e spunti critici disincantati. Il romanzo alterna ai momenti più crudi frequenti riferimenti alla cultura, all'arte e alla musica che pongono in primo piano la bellezza e il gusto insieme alle conoscenze, alle velleità filosofiche e alla spiccata sensibilità artistica del protagonista ex bibliotecario. Gli stessi luoghi, i paesaggi, sottolineano una bellezza eterna eppure perduta, che si cerca di ricreare anche attraverso l'ordine che l'uomo cerca di imporre sugli elementi spontanei. Questo atteggiamento convive con una forma di contemplazione e di godimento solitario che ben si intreccia ai motivi colti dalla cultura romantica tedesca in pittura e in musica, con le citazioni di opere di C. D. Friedrich e Beethoven.
La cana” è un romanzo appassionante e inconsueto nella tematica e nel tono mai complice dell'autrice con i personaggi, nel lasciare al lettore la libertà di un giudizio etico ma non moralistico. L'uso del tempo presente aggiunge pregnanza agli avvenimenti ma anche distanza e straniamento. Sempre al presente vengono inseriti efficacemente i flashback, in un alternanza fluida e conseguente tra eventi che si svolgono su un piano di contemporaneità o nel passato. L'attività e l'esperienza di artista visiva di Fausta Squatriti sembra poi dirigere lo sguardo della narrazione con particolare sicurezza e attenzione nell'uso di riferimenti culturali ed estetici oltre che nella descrizione dei luoghi e degli ambienti. Contribuiscono al fascino del romanzo le fotografie e i disegni posti alla fine del libro.

La copertina del libro

Tematica carsica del libro è quella del rapporto tra ordine e trasgressione, tra valori tramandati e disagio nell'interiorizzarli e mantenerli, a partire dalla figura del padre del protagonista per arrivare all'ossessione numerica del conteggio di Siegfried, al suo tentativo di ricreare un nuovo ordine esistenziale, nel quale addomesticare e controllare, oltre alla vita e gli istinti della cagna, anche gli amici, le donne, la natura. Il tutto in opposizione alla coesistenza del proprio impulso verso sprazzi di libertà e trasandatezza agiti però ancora con intemperanza: il bere, il disordine della casa, la tracotanza, la sopraffazione. “Nessuno è padrone di se stesso”, spiega Siegfried a una delle proprie amanti”. Una dichiarazione che getta un'ombra inquietante non solo sulla contingenza dei personaggi creati, ma, data la loro collocazione storica, proprio sulle radici antropologiche e culturali che hanno creato i momenti più tragici della storia del secolo scorso.

 Fausta Squatriti
 La cana
 Puntoacapo Edizioni 2015
     Pagg.190 € 18,00


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IL POTERE SALVIFICO DELLA PAROLA
di Angelo Gaccione


È certo che chi ha iniziato per primo a raccontare storie, storie sapienziali, storie con finalità morali e di ammaestramento, rispetto alla vita e ai suoi risvolti, ignorava le tecniche e gli studi di cui si oggi serve Costanza Savini, per confezionare il suo libro dal titolo: “Sette storie per l’anima” (sottotitolo: parole come rimedi). Tuttavia, quegli antichi e lontani narratori, sapevano bene come la “materia”, e soprattutto il “modo”, (tono, mimica, espressione, pause, silenzi, e così via), possedessero anche uno straordinario potere di guarigione dell’anima; fossero un efficace medicamento dello spirito. Da questo punto di vista, quando la psicanalisi compare all’orizzonte in Occidente, non ha nulla da insegnare. Era stata preceduta dai narratori antichi di ogni tempo e luogo. Quanto l’Oriente fosse ricco di quella saggezza, è oggi a tutti noto. Era stato così perché quegli uomini non si erano assolutamente separati (oggi diremmo scissi) dalla Natura di cui si sentivano parte integrante; dal Cosmo da cui ogni aspetto della loro vita era regolato. C’è un albero sulla copertina del libro di Savini, un albero che termina al suo vertice con la corolla di un girasole, ma potrebbe anche simboleggiare un sole. Ho sempre pensato, a proposito della fusione uomo-natura, che la verticalità dell’uomo è simile alla verticalità dell’albero. Che i suoi piedi sono le radici, le sue braccia i rami, il suo busto il tronco, le sue orecchie le foglie e la sua testa la chioma. Se l’albero è uno dei simboli più forti della vita e della sua rigenerazione, se è l’elemento che più ci accomuna, ha fatto bene l’autrice a volere questo albero così particolare in copertina. Ma è la natura nel suo complesso che in questo libro vibra. I sette racconti, o storie, come le definisce la sua autrice, sono appunto storie di cura, hanno una funzione lenitiva, perché invitano a guardare nel profondo di se stessi, a cercare le ragioni del nostro disagio nel mondo, del male che ci attanaglia come uomini di questo tempo, sempre più soli e smarriti. Le favole (alcune sono davvero delle favole), si dispiegano per un’intera settimana, e sono tutte precedute da una serie di riflessioni che vanno dalla postura al sentire, dall’energia della parola all’importanza del silenzio e così via. Sono stilisticamente ben scritte, spesso intrise di poesia e senza dimenticare mistica e scienza. Il dialogo Oriente-Occidente è molto presente e credo che ogni lettore possa trovare, in queste pagine, qualcosa di aderente al proprio personale sentire. 

Costanza Savini
Sette storie per l’anima
Il Ciliegio Edizioni – 2014
Pagg. 144  € 14,00

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LÀ IN FONDO
Un racconto di Lisa Albertini


Il gregge se ne andava disperso, per le terre dell’Anatolia color fieno. A sfondo, i profili delle balze di terreno senz’alberi. Decine di pecore chiare e ricciolute, governava il pastore. Veniva da Ankara e si spostava verso un paese, prima di Konya. Giorni di strada e notti sotto a ripari di fortuna. Erhan non avrebbe abbandonato quella terra per nulla al mondo. Sin da piccino vi camminava, e mai, senza scopo. Le sue pecore le chiamava Oria, Kurè, Pama, Ochia, Tema, Lor, Meli e in tanti altri modi. Ognuna la conosceva per nome e se ne vantava. “Agli altri sembrano tutte uguali, ” diceva, “ma invece sono come noi: ciascuna mi guarda a suo modo e mi segue come vuole.”
Erhan in città aveva casa sua, degli amici e pure un lavoro impiegatizio, per alcuni mesi l’anno. D’inverno era sempre andato a scuola, anche da grande. L’estate invece tornava al gregge, con orgoglio.
Una sera, quando la stagione era già troppo fredda per andare ai pascoli, si trovò al bar con l’amico Berrin. Erano giorni di lavoro, il traffico intenso, le strade che pullulavano di gente, tra il mercato e le varie attività cittadine. Loro due avevano condiviso studi e amicizie negli anni passati, e ancora, ogni tanto, si ritrovavano. Dall’ultima volta erano trascorsi almeno tre mesi. Berrin, che da poco più di un anno svolgeva un impiego al Consolato, guardava l’altro esprimendosi vivacemente, gesticolando, rimanendo seduto a fatica, al tavolino di legno vecchio da trattoria.
“Tu, Erhan, ti senti bene con le tue pecore, ma io, In un mondo dove ogni cosa non ha più un senso compiuto, dove è vero tutto e il contrario di tutto, dove la logica che ha guidato per decenni l’azione di molti uomini si è spezzata, come faccio, da misero mortale, a trovare un’identità?” Berrin parlava a Erhan con aria insofferente, quasi annaspando nell’aria insufficiente che aveva intorno. “Come faccio, dimmi! Mi piacerebbe vivere sostenendo una tesi, o ‘vivere per’ sostenere una tesi. Ma ogni tesi adesso viene sconfessata, ogni correzione di tesi contestata. Nulla, si salva. Già ho tentato di espormi, per qualche tempo. Ho trent’anni, alla fine. Ma sto solo ricevendo delusioni; ancora di più: dissacrazione di ogni idea, oserei dire. E allora che cosa faccio? Continuo a pensare e a provare ancora, per tutta la vita? O divento uno di quelli che si adeguano a tutto, come in un branco? Così, divento? Ma quella non è un’identità, permettimi, quella è dissoluzione dell’Io!”
Erhan ascoltava seriamente, ora. Avevano iniziato per scherzo, e tuttavia il discorso si stava facendo serio. Guardò Berrin con un’occhiata intensa ma sfuggente, quasi non volesse entrare nel vivo dell’argomento.
“Dissoluzione”riprese Berrin, “e nient’altro. Bella roba, per uno di trent’anni. Magnifica!”
“Già, e senza alternative.” Rispose asciutto Erhan. “Come fossimo uomini privi di meta.”
“E se poi ti dicessi che sono solo, in tutto questo? Se ti confessassi che nessuno mi può capire?”
Erhan ascoltava, e ancora ascoltava. Gli sembrava che Berrin non avrebbe smesso. Era tuttavia disposto a prestargli attenzione all’infinito. Quella sera le parole scorrevano via dalla bocca di Berrin come l’acqua continua da una fontana di strada. Mentre, poco prima di uscire, gli suonavano dentro come una serenata nelle notti d’estate. Ed era pur strano, tutto ciò.
“Tu dirai che mi lamento come un ragazzino, lo so. Che parlo da immaturo. Invece il gioco di questi eventi si moltiplica in me, come la tua immagine quando visiti una galleria di specchi. Gli effetti presenti e futuri di quanto sta accadendo mi crescono dentro come erba marcia, sfalsando il clima del mio animo ‘inesorabilmente’. Significa che temo di non riuscire a ritornare com’ero una volta, anche se le cose dovessero cambiare in meglio.”
“Esageri, ora, Berrin!” Esclamò forte Erhan, silenzioso sino allora. “Ciò che hai dentro, mica se ne va! Magari è depositato in fondo, ma rimane. E prima o poi, guarda, trova lo spazio e si fa sentire.”
“Sei un illuso!” Disse l’altro subito, di rimando. “Le tue pecore ti danno troppa tranquillità.”
“Ma no, te lo assicuro. Ciò che hai in fondo all’animo, è come qualcosa che ti urge, dentro, e non ti abbandona. Che devi dire a tutti i costi, per esempio. E non potrà mai essere soffocato.
Berrin rimase senza parole.
Nemmeno Erhan, tuttavia, riuscì a proseguire. Qualcosa gli aveva interrotto il pensiero, bruscamente. Era stato letteralmente assalito da un’immagine vivida: il suo gregge sulla terra color fieno, sparso a macchia d’olio in un movimento lento e modellato, con passo continuo. Si spostava diretto, senza sbandamenti. Unito, si potrebbe dire. Si recava verso il segno d’infinito che divideva terra e cielo laggiù in fondo. E lui dietro, davanti, di fianco, a guidarlo con cura. Con zelo e convinzione: un’idea da sostenere, divisa tra un centinaio di teste lanuginose, che aiutava a non sbandare, a proseguire vicine. Verso il cielo notturno pieno di stelle e l’alba dalle sfumature lilla, fresca e umida di rugiada, verso il sole a picco nell’aroma arso di fieno, verso l’acqua di mare che lambiva, calma, la graniglia sabbiosa, verso il paese e la tosatura, per farne maglie calde per i bimbi e gli uomini, verso. . .
Erhan, gli occhi socchiusi per qualche istante, tornò a guardare l’amico.
“Non ti abbattere Berrin, il futuro è dentro di noi, là in fondo.”
“Il futuro. . .” disse Berrin.

 ***
LAURA MARGHERITA VOLANTE

Laura Margherita Volante
Una toccante poesia inedita di Laura Margherita Volante

MAMMA
non sei vissuta invano
dal momento che vibra
in ogni mia cellula di ricordi
la foto a ventosa sulla mia anima
nell’anelito perduto nella tua carne
della mia carne sperduta
fra le piaghe del vento.

***
L'ARIA TIRA...

*Semplicità classe ed eleganza: una meraviglia fatta stupore.
*L'eccentricità a tutti i costi è come lo shock anafillatico al contrario...
*Il mondo che dorme si distrae da me perdendo un'occasione...
*I sogni sono temporeggiatori
*Chi medita ha coraggio...
*I matti danno il meglio di sé...
*Oggi vanno le pale non le palle per giocare sugli spazi verdi.
*Oggi va la rotonda non l'asso di cuore che centra il problema...
*Il cubo a Venezia. Una lesione da decubito.
*Gli appuntamenti che non mancano mai sono quelli che ti dà la vita...
*Chi ha toccato il fondo dell'amore e del dolore se la cava sempre...
*La maldicenza apre le porte dell'inferno.
*Chi è povero di spirito si nutre di maldicenze.
*Oggi non si costruiscono i rapporti umani perché il tempo, che non c'è, 
  serve per rincorrere il denaro dimenticando a cosa potrebbe essere di utile.
*I gesti dell'avaro sono come gli starnuti mancati al profumo di campo concimato.
*Senza democrazia l'Arte è irrelata.
*La magrezza piace a chi ha il cervello ristretto.
*Emancipazione...Ieri si annusava la coccoina. Oggi si sniffa la cocaina.
*Le discoteche non vanno chiuse ma aperte accanto ai cimiteri...
*Ieri si fischiava dalla contentezza. Oggi si fischia per disperazione.
*Chi si lamenta sempre il danno è continuo o l'ha già fatto...
*I Grandi ci sorprendono in anticipo e sono incompresi.
*Nei Grandi si trova comprensione ai nostri mali...
*Gli adulti devono apprendere il linguaggio dei bambini 
  e non i bambini quello viziato degli adulti.
*Assuefazione. L'amore è una medicina e come tale ogni tanto bisogna interrompere la cura.
*La solitudine trascorre i giorni di festa in convalescenza...
*Ti cancello...La tecnologia esasperata ha spezzato il filo conduttore dei valori umani.
*Ieri si poteva assistere a qualcosa di singolare. Oggi singolare è l'uso del quotidiano vivere...
*Il vento mi riporta all'espansione dell'universo...

Laura Margherita Volante
***

VINCE
di Gigi Tasso

Un racconto sulla barbarie della guerra
 
G. Tasso


“Perché vedi, Gigi, le tasse non si devono pagare…”
Interessante incipit -penso io- Tipico, stimolante incipit “à la Vince”. Di che cosa mi parlerà questa volta? Lo guardo. I suoi occhi vagano lontano …
Arrivati in hotel da chissà dove, sbronzi per il viaggio, non ne potevamo più di aerei, di taxi, di caldo e di cattiva aria condizionata. “Dai, usciamo per una passeggiata” mi ha proposto Vince.
Eccoci dunque qui. Stanchi, in un torrido, bagnato, opprimente pomeriggio di luglio. I colori come grigi sbavati, Milano, letteralmente, suda. Il marciapiede fuma. I tombini fumano. Il traffico d’auto appare ai nostri occhi loffio, stracco, sfumato.
Anche le nostre teste vaporano. La mente galleggia, a brandelli, e mette insieme isole di memoria che affiorano e sfumano un po’ alla volta, lentamente, come onde sul bagnasciuga.
“Ecco, era una giornata come questa” ricomincia pensoso Vince. Parla lentamente. Si interrompe. Aspetta che una nuova ondata porti il ricordo giusto.
“Vedi: la gente crede che in un campo di battaglia le cose siano chiare: noi di qua, il nemico dall’altra parte. Noi spariamo di là, loro sparano di qua. Poi qualcosa succede, e avanziamo noi se abbiamo vinto noi, o torniamo indietro se hanno vinto loro.
Niente è più sbagliato: un campo di battaglia è una grande confusione.”
Qualche passo in silenzio, a fianco di grandi palazzoni. Un’auto ci sfiora, ma è solo un bagliore, un riflesso appiccicoso. Poi, “Tutti sparano contro tutti. C’è la gran polvere sollevata dagli elicotteri e dalle bombe, c’è il fumo nero delle sterpaglie in fiamme, c’è l’odore acre del bruciato, c’è il rumore assordante dei mezzi, degli spari, degli scoppi. Tu ti muovi, e gli altri si muovono. Sei lì, ma non sei lì: l’orientamento non esiste più. Se intravedi una figura emergere dalla nebbia, non distingui se è amico o nemico finché non sei che a pochi passi. E a quel punto che fai? Speri solo di essere tu più bravo a sparare, se devi farlo. E puoi usare solo il revolver… ma è così impreciso! O la baionetta, ma quella è macelleria. Il fucile è solo di peso -riflette Vince- e hai una gran paura addosso! Che è ancora più pericolosa!”

Un giardinetto pretenzioso, figlio di un bizzarro boom economico, spunta nella bruma con i suoi alberelli spiluccati. Ci distrae, e lo attraversiamo senza parlare.
“Ci avevano sbarcati da tre elicotteri nel campo di riso. Noi e i tank. Sapevamo che i giap si nascondevano nei filari al confine. “Sloggiateli” era l’ordine.
E noi allora avanzavamo. Nel fumo, nel caos, nella nebbia. Io, dal tank, cercavo di tenere la pattuglia compatta, che non ci sparassimo l’un l’altro. La mia prima preoccupazione era quella di riportare indietro i miei uomini sani e salvi. Madri, e spose, mi avevano affidato la vita dei loro giovani.”

Milano è acquosa di calura, il pomeriggio vapora di indifferenza attorno a noi. Grigio, in un oceano di luminescente grigio.
“C’era proprio questo tempo qui, che fai fatica a pensare, che i riflessi sono lenti, che i vestiti ti si appiccicano addosso, che il sudore ti acceca sotto l’elmetto, che le mani scivolano nei guanti.”
Un cenno di affanno.
“Io non me ne sono accorto, sai. La granata è scoppiata a pochi metri e mi ha buttato giù dal tank. Per non so quanto tempo, non ho più né visto né sentito niente, e quando mi sono svegliato avevo proprio male dappertutto. Tanto male. Soprattutto alla spalla e al costato. E al braccio poi… Avevo tutto rotto… Ma la nebbia si era nel frattempo diradata: la battaglia era finita e si riusciva a vedere attorno. Gruppetti di soldati giravano per il campo. Succede dopo ogni battaglia: si cercano altri compagni, ma soprattutto si fa bottino di quel che si trova. Soprattutto sui corpi dei morti.
Qualcuno anche spara ai corpi distesi. Morti o non morti. Un gioco cretino di tiro a segno... Crudeltà? Stupidità? Vigliaccheria? Non lo so. Di sicuro la guerra è una brutta, brutta cosa”.
Ci fermiamo un attimo a riflettere. Poi, l’onda dei ricordi riprende.
“È così che mi accorgo che due giap stan venendo verso di me. Steso per terra, pancia in giù, decido di dar loro un’esca: sporgo il polso con l’orologio di valore, perché me lo rubino e non mi facciano altro. Mi fingo morto. Ma con l’altra mano, nascosto sotto il costato, tengo pronto il revolver col colpo in canna. Sono pronto a sparare, se capisco che hanno brutte intenzioni. Non sopravvivrei a uno scontro a fuoco, ma di sicuro ne ammazzerei almeno uno, maledetti giap!
Per fortuna, mi accorgo che non hanno armi alla mano: sono due ragazzini che bighellonano, parlano e ridono tra loro.”

“La mia esca funziona. Uno di loro si accorge del mio orologio, ma per portarmelo via -maledetto lui usa il coltello. Mi taglia il cinghino e poi, per gioco -lui pensa che io sia morto, maledetto lui-  per gioco -lo ripeto- me lo ficca nella mano, poi nel polso, nell’avambraccio, e poi ancora nel polso, nella mano, e così ancora, più e più volte, come se fossi un bollito da controllarne la cottura”. Fa il segno con le due dita che si piantano nell’arto, ripetutamente, per fare male, per ricordare il dolore.
“Maledetto lui e tutta la sua famiglia! Mutilato, sanguinante, cerco di rimanere immobile, di resistere al dolore, alla paura … ma sono troppo forti, insopportabili, e svengo di nuovo”.

Il ricordo fa male. Vince lo rivive come se accadesse di nuovo in questo momento: sceglie le parole lentamente, con accuratezza, con pienezza. Ogni parola, una ferita. Il suo viso è terreo: il caldo bagnato di Milano, il suo traffico caotico e stupidamente rumoroso si sovrappongono al campo di riso, al frastuono dei mezzi e delle armi, i vestiti madidi di sudore, la mano orribilmente torturata, il dolore, la paura.
“Sai Gigi, di queste cose ho parlato pochissime volte nella mia vita… con pochissime persone…  C’era questo tempo qui, quel giorno…”

“Dai, rientriamo in hotel adesso!”

Solo dopo aver attraversato la strada per tornare sui nostri passi Vince riassume: “Bastards!”

Riprendiamo la nostra camminata.
“Di quel che è successo in seguito ricordo abbastanza poco. Il recupero dal campo di battaglia con l’elicottero di soccorso, il dolore continuo e l’intontimento degli analgesici, il breve soggiorno all’ospedale di campo, e il rapido rientro negli Stati Uniti. Ho passato un anno in ospedale. Lì mi hanno ricostruito tutto il braccio e la mano. Lì ho rimparato ad usarli.”
Risaliamo una scalinata fradicia d’umidità. Una signora corpulenta, sudata, emerge dall’oceano di grigio che ci circonda. Porta soffiando una pesante sporta. Si suda molto. Si fa fatica. Ci fermiamo un attimo.
“E la sai una cosa? Dopo un po’, lo zio Sam mi ha mandato a casa il conto di buona parte delle cure ospedaliere …
Vedi Gigi perché le tasse non si devono pagare: con quei soldi gli stati fanno le guerre, ti ci mandano, vai in missione, ma se ne torni ferito, mutilato, storpio, alle cure mediche devi pensarci tu…”.
Ripartiamo verso l’albergo con calma, passo dopo passo, in silenzio. In fondo, penso, siamo tutti solo piccoli miserabili puntini nell’universo della storia. Il tramonto sta colorando con uno strano bagliore arancione la cappa di vapore che inonda la città. Sono sprazzi. I riflessi di un campo di battaglia.
PS.
Ingrid, la moglie di Vince, ha scritto queste parole nel novembre 2011, in occasione di una importante ricorrenza di reduci: “ Vince ha dato cinque anni della sua vita all’Esercito Americano, di cui uno al fronte, vivendo in una tenda con temperature spesso sotto zero, il suo elmetto come scodella, e l’artiglieria in sottofondo come notturno musicale. Ha ricevuto una Stella d’Argento, due Stelle di Bronzo (una dalle mani dello stesso Colonnello Stilwell) e due Cuori di Porpora (uno per l’episodio qui narrato e per cui ha rischiato di perdere un braccio). Ha passato un anno intero all’Ospedale Murphy dell’Esercito dove l’hanno rimesso insieme. Non parla mai della guerra: ha fatto il suo dovere: era stato richiamato. La guerra fu la guerra di Corea: la guerra dimenticata (e com’è stato possibile, con più di mezzo milione di giovani uccisi solo dal lato americano!). Vince dice che i veri eroi sono morti… e se una volta gli succede qualcosa di brutto commenta sempre “Ne ho viste di peggiori!”


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L'AFORISMA
Nella gioia siamo diversi, ma nel dolore siamo tutti uguali”.
Giovanni Bonomo

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IL NUOVO LIBRO DI CARLO SINI SU ENZO PACI
di Sabrina Peron
Carlo Sini
 Il bel libro di Carlo Sini (uno dei più autorevoli filosofi italiani), pubblicato da Feltrinelli per la collana Eredi (diretta da Massimo Recalcati), narra del suo incontro, prima, e della sua amicizia, poi, con il maestro Enzo Paci (Monterado 1911 – Milano 1976). Enzo Paci che è stato uno dei più significativi ed originali filosofi italiani della seconda metà del Novecento, era a sua volta allievo di Antonio Banfi, con cui si laureò nel 1934 discutendo una tesi pubblicata qualche anno dopo col titolo Il significato del Parmenide nella filosofia di Platone. In questi anni Paci, attraverso Platone, è alle prese con la filosofia dell’esistenza che segnerà il suo cammino sino ad almeno gli anni cinquanta e che troverà nella creazione della rivista “aut – aut” il suo momento più fecondo. Rivista che, già nel nome, richiama esplicitamente il precursore e padre ideale dell’esistenzialismo: Søren Kierkegaard e la sua proposta di “accentuare l’esistenza”, ossia di coglierne tutta la paradossalità irresolubile per cui ognuno è esistente nella singolarità irripetibile della sua situazione materiale e spirituale.
L’incontro di Sini con Paci avvenne nel 1957, quando quest’ultimo venne chiamato all’Università degli Studi di Milano, per la cattedra di filosofia teoretica (Sini era allora un giovane laureando).
In questo periodo Paci aveva iniziato a maturare un ritorno alla fenomenologia dopo l’esistenzialismo (o, meglio, un ritorno a Husserl dopo Heidegger), che sarà una delle avventure più grandi e feconde del suo cammino. Avventura che prende le mosse dagli studi di Paci su Vico (nel 1949 Paci pubblica Ingens sylva. Saggio sulla filosofia di G.B. Vico, “forse il più bel libro di Paci”), il cui pensiero viene interpretato come un’anticipazione della “scienza del mondo della vita” di Husserl, inteso come qualcosa che sta prima di ogni scienza della natura o dell’uomo, qualcosa di radicalmente vitale attivo nella concreta esistenza di ogni essere umano in quanto in cammino verso la ricerca del senso del vivere e del sapere”. Vivere, dunque, che semplicemente significa “esperire come ognuno di noi vive il mondo nelle modalità delle percezioni, perché ognuno di noi è psiche e corpo proprio”.
Nel frattempo in Italia esplode la società consumistica, nasce l’università di massa e l’aula 111 della Statale si riempie di un pubblico variegato: non solo studenti, ma anche artisti, architetti, medici, psichiatri, psicologi, sociologi, avvocati e letterati. La fenomenologia diventa “di moda” e si tengono letture comuni e incontri su Husserl. In quest’universo -frenetico ed in perenne ebollizione- si muove Paci, incarnando la nuova figura di intellettuale e di filosofo, con le sue lezioni in Statale che rappresentavano una sorta di centro propulsore: “brandiva la sua matita rossa e blu, con la quale sottolineava tutti i libri, e si muoveva con decisione tra i vari testi e volumi con i quali aveva ricoperto la cattedra (…). Ad un certo punto ecco che scattava il fatale riferimento. Poteva essere a una immagine della Recherche, a un personaggio di Thomas Mann, a una espressione dell’Ulisse, a un’opera o una poesia di Goethe, e la lezione prendeva il volo esplodendo in un fuoco d’artificio di improvvisazioni, di invenzioni, di divagazioni meravigliose e irripetibili”.
Ma il successo pubblico della fenomenologia e, soprattutto, della sua rinascita alimentata dal lavoro di Paci e della sua scuola, non ebbe vita facile e suscitò opposizioni tenaci e critiche anche feroci. Così la fenomenologia venne bollata come “un vecchio realismo scolastico, un idealismo pre-gentiliano, un empirismo psicologistico ingenuo, un dubbio e astratto razionalismo, un palese irrazionalismo”.
Ma Paci non si ferma alla critica e va oltre, il suo itinerario di studi, ricerche e pensiero, prosegue approfondendo la relazione fenomenologia-marxismo; e se -come scrive Marx- le merci “sono cristalli di lavoro umano, cristalli di sostanza sociale”, Paci osserva come questa cristallizzazione ignori gli individui concreti rendendo impossibile una società concreta: le categorie astratte della scienza economica, il cattivo uso di tale scienza fanno sì che il valore del lavoro sia nascosto dalla merce. Per questa ragione è molto difficile analizzare la merce”.
Questo nuovo itinerario, che coincide anche con l’esplosione del ’68, lo si ritrova in pieno anche scorrendo gli indici delle annate di “aut-aut”, dedicate appunto ad approfondire i rapporti tra fenomenologia e marxismo. Il libro di Sini ripercorre, dunque, il suo rapporto con il maestro e con l’eredità umana e culturale che Paci ci ha lasciato, avvertendo il lettore, sin dalle prime battute, che “ci sono ancora in giro una molteplicità di figure di Paci, che ognuno porterà con sé (…); ognuna di queste figure è a suo modo vitale e alimenta una memoria, certo con i suoi limiti, che sono però anche parte dei pregi insostituibili del ricordo”. Sini dunque avvisa di non avere la pretesa che il suo Paci sia più verace di altri, perché il libro non racconta lui, ma l’incontro con lui, “di questo parlo”, scrive Sini: “racconto l’esperienza della immensa forza ed energia che investendomi da fuori, mi ha reso dentro, in buona parte ciò che sono”.

La copertina del libro
 Carlo Sini
Enzo Paci
Feltrinelli, 2015 pp. 141, € 14,00

***
SATIS VIXI*

Foto: Franco Bettini

Del tempio di Esculapio il sacerdote
m’attende con il bisturi sguainato,
il dio di medicina va onorato,
ma esangui della vittima le gote.

Mi sveglierò con la pancia tagliata,
dalle mie viscere tratti gli auspici
di eventi infausti o forse felici,
ma alla mia trippa m’ero affezionata.

Sfrattate dalla sede naturale,
riparo non avran le mie frattaglie,
già testimoni di tante battaglie,
esposte alla bufera e al fortunale.

Forse le annuserà un gatto randagio,
incredulo dell’insperato pasto.
Condite già dal mezzo di contrasto,
gli leniran della fame il disagio.

Quando l’umanità sarà civile,
di Esculapio la crudele lancia
non ferirà una settantenne pancia,
privata di difese in modo vile,

bensì vincendo ogni ipocrisia
si lascerà al male il suo decorso,
e quando doloroso sarà il morso,
provvederà la fata Eutanasia,

dei Campi Elisi schiudendo le porte,
oppur d’un ineffabile nirvana,
a cancellare ogni speranza vana
d’un aldilà che trascenda la Morte.
Lorenza Franco


*Parole di Epaminonda morente ma vincitore della battaglia di Cheronea.

***
CIBO PER L’ANIMA
di Laura Margherita Volante

Foto: Franco Bettini


LAMPO
Viene il giorno ad aprire le sue ali
alla polvere d'oro della duna
in questa sera d'estate
al chiarore della luna che
dietro un sospiro sparisce

tu volgi lo sguardo lontano
nella notte dei tempi lasciati
cercando smarrito il lampo
del vento più rosso ché non sporga
 il sangue corrotto degli innocenti.

Foto: Franco Bettini


RESPIRO
Avvampa la stella del mare
sulla notte più nera
per darti il respiro del fondale
fra sciami di coralli
mentre il vento spinge
vele all'orizzonte.




PACE
Il poeta apre il cuore
alle foglie dorate
per la pace rivelata
fra turbini di sole
mai paghe di cielo.

***
LUANA FABIANO: “UN POETA VERO”
In questa lettera all’autrice, Luigi Bianco svela l’essenza più vera e profonda 
della materia con cui è impastata la poesia della poetessa calabrese.  

Luana Fabiano

Gentile Luana,
che magnifica sorpresa!
Prima del resto, grazie. Grazie non solo per il libro: innocente contenitore di parole. Grazie per avermi fatto ritrovare dopo anni le parole di Antonio Spagnuolo: medico napoletano ed eccellente poeta-critico. Ho sempre pubblicato sue poesie sulle mie riviste e non dimentico lo scambio di alcune lettere significative. Non l’ho mai incontrato di persona ma una stima reciproca ci univa.
E grazie per quei versi in quarta di copertina. Stupendi e irraggiungibili: un capolavoro. Ora so che li ha strappati da “Ingiusta canzonatura”. Non importa. O importa il coraggio di averli strappati.
Contengono il virus polifonico che la obbliga a scrivere con tanta passione (e disperazione?). Tutto è perfetto. Suono musica significati (quasi una dichiarazione di poetica) e quella scelta di parole precise, preziose, immaginifiche, evocative. Rinfrescate in una chiara sintesi che toglie il respiro e fa gridare con altro respiro: finalmente la poesia!
Dopo tanto felice stupore ho aperto con paura le pagine con le altre poesie. Avevo paura di andare incontro a una delusione. Così non è stato ma mi sono perso nel mio silenzio: non sapevo più come entrare nelle sue parole e nei suoi sentimenti. Poi su “la Repubblica” del 18 luglio ho letto una Lectio di Massimo Cacciari, (filosofo che stimo). Lectio per la laurea honoris in filologia classica conferitagli dall’Università di Bologna. Alcuni concetti mi hanno aiutato a capire come lei, Luana, custodisca un mistero profondo: sprofondato negli abissi spalancati dalle parole che lei fa riemergere per toccare consapevolmente l’essenza della vita e della verità. Lei sa di avere doti non comuni per scegliere la poesia come compagna di vita e sa di dover raggiungere e difendere con la poesia la sua e la nostra verità (anche nella denuncia amara dei moti più sgradevoli dei comportamenti violenti e incivili). Lei adotta “ un fedele figlio di carta” (Adozione) in tempi di “carestia di parole nella credenza” (La favola infelice) perché solo “l’olio della poesia e il latte della vita” (Cime di pace ) possono permettere all’anima di afferrare “cime di pace”.
In “Fame di bellezza” lei esplode in tutta la sua vibrante esplicita passione per spronare le “ anime cieche”: “afferrate la poesia, / orcio di verità e di armonia”.
Ma alla fine di versi assai belli e diretti -quasi un’implorazione- lei sente il bisogno di sprofondarci nell’oscurità filosofica (bene). “Il tutto e il nulla” fino alla fine non sono più un’implorazione vibrante: è riflessione misteriosa difficile da interpretare (sempre alta nel tono e nella scelta un po’ surreale delle parole). Sembra quasi che lei sia spaventata dalla sua chiara libertà e cerchi un porto segreto per custodirla dal male. Sembra che voglia nascondere i suoi versi diretti nella clausura degli abissi in attesa del tempo della rivelazione. Giustezza del tempo e presente non sempre si conciliano. Per me, non si stupisca, lo notavo già nel primo libro, “Il tutto e il nulla” è già una poesia completa e suggestiva proprio per la sua difficoltà. Come il capolavoro in quarta di copertina. Ritengo poesie complete suoi versi come “Nelle stanze migrano le crepe dell’assenza” o “appena l’alba sguscia il giorno, / mani immonde sbirciano tra rami d’ulivo”.
Mi perdoni il piacere della libertà. La poesia “Respiri violati” mi dona un’altra prova riuscita di poesia diretta e sofferta: con parole da brivido (“terra fata e strega, madre e ladra”). Lei si è liberata di alcune impurità ed esalta il tono di versi intimi sociali impreziositi da vocaboli fiammeggianti: non so se ricercati con cura o nati di getto.
Nei suoi versi c’è una chiara e densa luce di natura e di pittura. Le sue parole non solo si leggono e si sentono ma ti aprono anche gli occhi su meraviglie che solo gli artisti sanno cogliere.
Una poesia forte e intensa come “Memoria” mi sembra uno splendido quadro espressionista. Quelle sue parole sparse sul “gelo” sono pennellate perfette: con quel profumo d’ermetismo che non guasta. Anche “Ingiusta canzonatura” ha un andamento pittorico: con tonalità ora più mosse ora più tenere. E si stropiccia bene nei vicoli dell’oscuro. Non so se sia autobiografica o sia un inno alla terra e ai contadini (o a un contadino conosciuto nel profondo). Ripeto: il mistero non guasta e fa venir voglia di conoscere e approfondire meglio l’autrice.
Non faccio grandi distinzioni tra la prima e la seconda parte della raccolta: la passione emerge da tutte le pagine. Non sono un sistematico: salto di qua e di là in libero arbitrio.
Mi incuriosisce la poesia d’apertura di Bellezza confinata. Perché “In fabbrica”? Ancora mistero? O è solo la “fabbrica delle vite sospese”: dove il tempo tenta di forgiare le sue e le nostre voglie?

La copertina del libro

Lei forse vorrebbe avere “una corazza senza sangue” (da Spiraglio) per vivere in serenità in una Magna Grecia che canta ancora tra mare, luna e sole…
“si sfrangia la forza / davanti a labbra / imbevute di sole (“Barcheal sole”) ma la realtà la inchioda ai suoi doveri: a quello soprattutto di dire la verità. E la verità la dice in straziante bellezza. Fuori dall’abisso anche del mistero (Percorro tempi e ferite) perché dare un nome al male la fa sentire più libera (“anch’io sono più libera”).
Oggi lei ha la fortuna di tenersi lontana dalla poesia in voga: molto più piana e scorrevole. Rimanga sulla sua strada rispondendo al suo sentire: non può che portare a lei e a noi quella “fame di bellezza” di cui tutti siamo orfani.
Mentre leggevo il suo libro mi ha telefonato un profondo artista e uomo di cultura (tra Roma e Napoli) che ogni anno viene a passare qualche giorno da me. Alla solita domanda (che c’è di nuovo a Squillace?) ho risposto in semplicità: finalmente anche a Squillace abbiamo un poeta vero, una giovane donna. È tutto.
Ancora ringraziandola,
Luigi Bianco (Squillace, Luglio 2014)


***
MA: I MORTI RIFIORISCONO?
di Giulia Contri

Una raffinata e approfondita analisi della psicoanalista Giulia Contri
sul romanzo di Marina Corona

Giulia Contri

La luminosa intelligenza di un bambino alla prova dell’indifferenza dell’adulto

Di rado mi è capitato di essere così profondamente coinvolta nella narrazione della storia di un bambino come con La storia di Mario di Marina Corona[1]. Vi si tratta infatti della vicenda -
passionalmente e intellettualmente avvincente per il linguaggio poetico messo al servizio di un’attenta osservazione- di un bambino dotato di una singolare capacità di pensiero, che si manifesta come intensità di stati di piacere o dispiacere dei sensi e dell’intelletto insieme, e come desiderio di offrirli agli altri perché ne godano con lui.
Il merito, e l’interesse, de La Storia di Mario è di essere la narrazione delle vicissitudini che deve attraversare questa capacità.
Dire singolare non vuol dire eccezionale. Sono gli adulti semmai che, nella loro banale razionalità, non vi leggono che extra-vaganza, quando non sintomo di patologia. “I moti infantili del sentimento sono intensamente e inesauribilmente profondi, in tutt’altra misura rispetto a quelli degli adulti”, scrive Freud[2]: degli adulti che, come i genitori o i parenti o gli insegnanti di Mario, a quell‘arida, e anchilosata, razionalità restano fissati per incapacità a consuonare con i moti d’altri.
Marina Corona sa magistralmente ripercorrere, quasi ne fosse ancora protagonista, il pensiero di un bambino nel momento in cui si autorizza, ancora ingenuamente, a farsi titolare di offerte. E sa dire, convinta sostenitrice con Freud della “luminosa intelligenza del bambino”[3], come Mario resista nelle sue proposizioni anche a fronte di adulti ottusi e sordi, per i quali quanto lui pensa e fa di sua fonte è qualcosa di inaudito, di inammissibile cioè per il loro scarso comprendonio.
“Non cape in quelle anguste menti ugual concetto” sembra pensare Mario di loro con Leopardi: essi non vedono, non sentono, non capiscono, non apprezzano nel suo valore l’eccellente occasione di rapporto che egli mette loro su un piatto d’argento.
Colpisce come una pugnalata il lettore l’operazione di rigetto del pensiero di Mario fatta, fin dall’inizio del racconto, dagli adulti - siano essi i genitori, la maestra o i parenti, - anche e soprattutto laddove la sua originalità immaginativa dovrebbe risvegliare la loro curiosità intellettuale. E’ la pugnalata inferta dal disprezzo di chi non sa dare valore all’apporto - assolutamente apprezzabilissimo - di un bambino come Mario solo perché é un bambino.
Mario resiste a lungo a quel disprezzo: il suo pensiero naviga a lungo indenne, nel corso del romanzo, dai danni che possono derivargli dalla sua delegittimazione. Ma egli è presentato fin dalle prime pagine come individuo costretto a fare i conti con l’indifferenza e con il conseguente deprezzamento altrui: e insieme con la necessità di procedere comunque nel cammino, anche se egli vi incede, nel limbo del non rapporto, spinto a una unilateralità di funzionamento che è solo sua.

Marina Corona

Due storie
La prima parte del romanzo è dedicata a Mario, la seconda a Maria, sua madre.
Mario, pur delegittimato, sa giudicare l’altro come quello che non vede e non sente, salvandosi così - pur mutilato nell’isolamento in cui è relegato - dalla tentazione di arrendersi e rinunciare alla propria sovrana autonomia.
Maria, invece, si presenta, già dalle prime pagine, come colei che distorce il proprio orientamento di pensiero immaginando di doversi sottomettere inevitabilmente a quello materno, che pur percepisce come per lei inadeguato. Manifesta sì di aver contezza di aver concepito il figlio, quando ancora era in gestazione dentro di lei, come da lasciar cadere, come difficile a riconoscersi, marchiato come uno che vien giù, dal fondo più fondo delle sue viscere segrete, per affondare senza remissione in un’acqua verde e limacciosa annegandovi, “bacato”, “putrefatto” dal senso di morte che lei gli ha buttato addosso al funerale di suo padre.
Essa non si mette sulla via di valutare che, come sua madre era stata corresponsabile, senza mai riconoscerlo, della morte del marito per averlo lasciato alla sua sorte di alcolizzato, così lei, nei confronti di Mario, l’aveva  immaginato come già morto prima ancora che iniziasse a vivere. E tuttavia lo fa dichiarando che forse i suoi ricordi, che ella proietta come un film su una parete di una stanza d’ospedale, sono proiezione di qualcuno che ha interesse a mentire.
 Ma è Maria stessa che mente a se stessa sovrapponendo l’un accadimento positivo della sua vita ad altri negativi, trascorrendo così dall’uno all’altro senza giudicare in maniera concludente del segno di nessuno: delira, non si orienta più, insomma, nel solco di quale di essi ella si trovi. La stessa soddisfacente bellissima esperienza d’amore con Giulio - ragazzo indiano che l’avrebbe ‘deflorata’, “coperta cioè”, a suo dire poeticamente, “di fiori su tutto il corpo” in un’ardente estate della sua adolescenza - si sfalda assimilandosi quasi ad altre di segno contrario che urgono nel ricordo.
Il racconto di Mario è strutturato per blocchi narrativi contrapposti tra quanto Mario mette in campo positivamente con gli adulti e la ripulsa che questi gli riservano ad ogni piè sospinto: blocchi che evidenziano la contraddizione che si va istituendo a poco a poco nel suo pensiero tra titolarità delle proprie prese di posizione e disincentivazione delle stesse da parte dei cosiddetti ‘grandi’.
Nei loro confronti Mario non recede da un giudizio di incapacità, uscendone bene o male a salvamento.
Anche il racconto di Maria procede per blocchi di ricordi. Ma il ricordo delle vicissitudini della propria vita di rapporto è troppo attraversato, disturbato, come in un caleidoscopio, dagli influssi provenienti dalle idee e dalla personalità di padre, madre, giovane amante, marito, figlio, perché possa intraprendere la strada del giudizio.

Peter Pan non è un animale che vola
Lascio al lettore di ripercorrere le diverse peripezie disorientate e disorientanti del modo di procedere del pensiero di Maria, per occuparmi di alcuni passaggi chiave del romanzo relativi al pensiero rimasto sempre lineare di Mario quanto a fiducia nell’ortodossia del proprio libero movimento intellettuale. Ad eccezione di alcuni incubi e di uno svenimento in risposta agli intollerabili misconoscimenti di quell’ortodossia messi in atto dagli adulti.
Andiamo con ordine, e incominciamo da quella tremenda pagina di apertura del racconto in cui Mario, alla domanda della maestra su quali siano gli animali che volano, indica Peter Pan: per lui Peter Pan è l’amico che vola e che gli insegna a volare, e volare è possibile sol che Mario si lasci dare una mossa da Peter Pan. La maestra reiteratamente, assieme ai compagni, quasi fosse necessario rintuzzarlo a dovere, gli rimanda: “Ma Peter Pan non è un animale, non è un animale, non è un animale”. La reiterazione è un’arma appuntita, colpisce Mario e lo spinge a isolarsi dagli altri: “Gli altri non vedono l’essenziale”. “Ma sei cieca, ma non hai visto?”, non cerchi di capire che ti sto dicendo che voglio esser lasciato libero dai lacci e lacciuoli di un  sapere che mi fa da zavorra?
E’ qui che Mario, alla ricerca del calore che desidera nel rapporto e che gli viene negato, fa volutamente la pipì nei pantaloncini godendo del rivoletto caldo che gli scende per le gambe. E non lo fa per una stupida ripicca: “L’ho fatto col mio pensiero” questo lago, afferma. “Dall’alto egli si sente uno smisurato gigante”. “Sono un bambino d’oro, pensò”.
Il “sei cieca?”, “ma non hai visto?” non è detto da Mario solo alla maestra che cassa le sue fantasie, ma anche ai genitori che non si accorgono di aver reso disgustoso, con la  teoria del “mangia, devi crescere figlio mio”, quello che dovrebbe essere il piacere di mangiare. L’appuntamento del pranzo e della cena Mario lo trascorre con i suoi in un silenzio gelido, in cui le posate usate dai genitori sferragliano come armi nei piatti, le mani della mamma puzzano dell’algida zuppa di piselli, i piselli che nuotano nel brodo diventano dei soldatini da mettere in castigo (come fa la maestra con i bambini) sul bordo del piatto, e la bistecca è dura come fosse di catrame.
L’uscita di Mario a tavola “Io ho paura del cani” al sol vedere la faccia cagnesca di suo padre non fa drizzare le orecchie ai genitori, che son capaci solo di dire: “Ma qui non ci sono cani, Mario”. Cui segue, insieme ad un disappunto che è quasi peggio di una scomunica, la condanna della sua uscita nella frase della  mamma: “Ma lo fa apposta, io non so più cosa fare con lui! E’ inutile, è tutto inutile”, che si conclude nella proposta di una visita dalla psichiatra.
Di Mario viene invece alla narratrice da concludere: “Lui così non poteva più pensare”.
 Si addormenta così per terra - perde i sensi? - in un nuovo caldo laghetto di pipì che lo consola.

Puzze e profumi
Il rapporto piacevole o spiacevole con l’altro Mario lo connette con sensazioni piacevoli o spiacevoli.
Può essere la puzza delle mani della mamma a tavola, o il profumo di rosa e di latte del suo golfino quando lei lo tiene amorevolmente in braccio. Può essere la “voce di chiodo strusciato” della mamma che lo rimprovera perché non mangia. Il braccio della mamma intorno alle spalle di Mario può passare dall’esser morbido a diventare duro e rigido come il filo di ferro messo dentro ai pupazzi di pelo. Quanto al gusto, a tavola Mario non mangia perché, per la teoria dei genitori “mangia che devi crescere”, il cibo gli fa nausea, non gli viene fame. Allo zoo, dove le noccioline per le scimmie è lui che le vuole mangiare e gli piacciono, la mamma gli dice di non mangiarle perché gli fanno male e gli tolgono l’appetito.
Allo zoo Mario è preso da un desiderio impossibile nella realtà, quello di poter entrare nella gabbia delle scimmie e di “accoccolarsi ai piedi della scimmia lavandaia, riposarsi e sentire il calore del suo corpo caldo”.
Mario dunque si difende ancora efficacemente, non solo disattendendo gli ordini che gli vengono dati di nutrirsi perché deve crescere, ma anche facendosi prendere dall’attrazione per l’odore buono dei fiori, e, immaginificamente, facendosi trasportare da sensazioni uditive piacevoli a parlare delle api ronzanti in una glicine fiorita come de “il violino dei fiori”. Dalla maestra, che aveva chiesto ai bambini di parlare dell’ape, egli riceve in risposta ancora una volta una reazione di totale sordità e sconcerto: “Ma cosa vai a pensare, Mario?”. E Mario reitera il giudizio sulla maestra: “Non aveva capito”, “Non avrebbe capito”.
E sarà dopo questo ennesimo deprezzamento che Mario si fa prendere da un incubo terribile: cadono le sbarre della gabbia dell’elefante, e lui cade sotto le zampe del pachiderma. Perde così ancora i sensi.
La copertina del libro

La guerra insensata degli adulti
Di fronte alla dottoressa che gli sorride dopo l’incidente, ma con lo stesso sguardo di commiserazione dei suoi genitori, Mario incomincia anche lui a sorridere “come uno che si arrende di fronte ad una cosa insensata ma che non può combattere”.
La cosa insensata che non può combattere è la guerra ai suoi pensieri che i ‘grandi’ gli fanno sparandogli addosso in più frangenti e per motivi diversi fucilate che a volte sono divieti a volte comandi “Ma che fai, Mario, ma che fai?”. Oppure: “Fermo lì”, “Fermo lì”, “Fermo lì”. Oppure: ”Forza Mario, dai pedala”, “Forza Mario, dai pedala”, “Forza Mario, dai pedala”, di fronte a cui a lungo andare egli prova la tentazione di capitolare.
Il “Forza Mario” ha a che fare con l’insegnamento che suo padre gli impartisce perché impari ad andare in bicicletta: il “Pedala”, che gli reitera soffiandogli sul collo, assume per Mario il significato di comando a darsi quella mossa che egli pensa che il figlio non si sappia dare.
“Sembrava che qualcuno avesse dato una regola nella casa cui tutti dovevano obbedire”. “Perché tutto, tutto fosse in ordine bisognava regolare il passo su quello della mamma”. Fino ad un certo punto Mario stringe le dita sul manubrio della bicicletta e suona il campanello, ma “venne un momento che Mario non suonò più”.
C’è un silenzio intollerabile in questa regola, nessuno più parla a Mario, né i genitori né la maestra. Si aspetta solo la diagnosi, minacciosa per Mario, della dottoressa-psichiatra.
A Mario vien da pensare che per lui non ci sia salvezza: affacciato a un balconcino che dà sul cortile immagina che gli  cadano addosso due grossi comignoli del tetto. Per scansarli si spenzola dalla ringhiera, ed è afferrato da qualcuno con un potente strattone che quasi lo tramortisce perché non cada giù.
“Questo è il silenzio di quando non si aspetta più niente, il silenzio delle regole, il silenzio della notte buia”.

Quale happy end?
Mario tuttavia non rinuncia neppure a quel punto all’idea dell’appuntamento con l’altro nonostante le tante ripulse ricevute.
Quando il padre ringrazia la zia Viola (che guarda caso ha il nome di un fiore) presso cui Mario ha soggiornato durante una degenza della mamma in ospedale, poiché presso di lei “Mario è rifiorito”, speranzoso che il padre si metta a ripensarlo attivo nel consorzio umano,  Mario gli chiede: ”Ma papà, i morti rifioriscono?”
Alla risposta-schiaffo del padre: ”Ma cosa dici, Mario? Chi è morto?”, Mario capisce che suo padre è distante mille miglia dal pensarlo come partner in un rapporto di parola. E sul viso della madre in quel momento passa come un’ombra”, uno “sguardo di pena”. Cogliendo l’occhiata di intesa che i genitori si scambiano, quasi  un ponte che passa sulla sua testa, Mario sente come un “grosso sasso che poteva cadergli addosso da un momento all’altro e schiacciarlo”.
Anche se nelle ultime pagine della storia di Maria si intravvede una possibilità che Maria riaccolga Mario in un nuovo patto amorevole, resta che con quell’ombra gettata su di lui Mario dovrà fare i conti nel prosieguo della propria vita a superamento dell’irresoluzione che lo attanaglia tra “ritrovare in sé la propria sicurezza, o (..) rimanere in allarme, fiutando un eventuale pericolo, un qualche sconosciuto ma sempre possibile agguato dal quale difendersi fuggendo, con le sue piccole gambe leggere, con il suo cuore terrorizzato”.

Note
[1] M. Corona, La storia di Mario, Robin Editori, Milano, 2013.
[2] S. Freud, L’uomo Mosé e la religione monoteistica, 1938, OSF, vol. XI, p. 450.
[3] S. Freud, L’Avvenire di un’illusione, 1929, OSF, vol. X, p. 476.

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INTERVISTA  AD ANGELO GACCIONE SULL’AFORISMA
di Anna Antolisei
Angelo Gaccione - 2014
(Foto: Francesco Piscitello)

Antolisei: Tra i molti generi letterari, cosa determina in te la predilezione per la “forma breve” e per l’aforisma in particolare?

Gaccione: L’aforisma permette il massimo di comunicabilità e di significazione, ricorrendo ad una quantità minima di parole. Un po’ come la poesia. A volte un buon aforisma riesce a sintetizzare un’intera concezione estetica, un pensiero filosofico, un’istanza etica. La mia predilezione è dovuta anche ad una motivazione morale, e nulla meglio dell’aforisma mi permette di affrontare questo terreno insidioso senza scivolare nella retorica. Oggi un buon autore di aforismi svolge lo stesso compito dei grandi moralisti del XVIII secolo.

Antolisei: Quando è avvenuto il tuo primo incontro “fatale” con l’aforisma? E da cosa sei stato indotto a cimentarti in questo genere?

Gaccione: Sin da giovanissimo ho cominciato a leggere con una matita rossoblù in mano. Come ho documentato nel volume Nero su bianco pubblicato nel 2000, in cui ho raccolto aforismi di autori di ogni tempo, raccoglievo queste perle estrapolandole dalle mie variegate e disordinate letture, per un puro piacere personale. Col tempo questa pratica è divenuta sempre più intensa e selettiva.

Antolisei: Quali sono stati i grandi aforisti della letteratura classica che più ti sono congeniali e che ti hanno eventualmente ispirato? Ci sono uno o più aforismi sull’aforisma che secondo te definiscono al meglio questo genere?

Gaccione: Fondamentalmente gli antichi, quelli che chiamiamo per comodità “i classici”. In loro c’è tutto: etica, filosofia, morale, radicalità civile. Ma anche gli autori anonimi dei libri sacri e i favolisti. Sì, ce ne sono diversi. Alda Merini nel suo primo libretto di aforismi da me pubblicato e introdotto per le Edizioni Nuove Scritture nel 1992, definisce gli aforismi come incantesimi della notte. Un’autrice di cui non ricordo più il nome, dice che l’aforisma è un soffio che può increspare il mare. Per me è un grumo minimo di parole capace di generarne altre mille.

Antolisei: Ritieni che la letteratura aforistica contemporanea, in Italia, abbia dei rappresentanti in grado di raccogliere qualitativamente l’eredità dei nostri maestri del passato?

Gaccione: Quelli validi sono pochissimi. La scarsa considerazione degli editori verso questo genere, non spinge gli scrittori a cimentarvisi. Gli autori di teatro potrebbero fare molto, soprattutto sul versante brillante, ma anche il teatro scritto oggi è completamente marginalizzato.

Antolisei: A cosa ritieni sia dovuto il calo d’interesse verso l’aforisma, nei tempi recenti, da parte del mondo editoriale?

Gaccione: Gli editori sono succubi del mercato e lo inseguono. Le televisioni, anche se in peggio, almeno sono loro a influenzare gusti e tendenze del pubblico; l’editoria no, ha rinunciato. Potrebbero farlo i piccoli editori di qualità raccogliendo la sfida. Neppure i giornali ne pubblicano più, come avveniva un tempo. “Odissea” è stato un caso a sé in questi oltre 11 anni di vita.  

Antolisei: Esiste, a tuo avviso, una strada da percorrere perché l’aforisma torni a conquistare l’attenzione dei lettori, soprattutto quelli delle nuove generazioni? Quali azioni indicheresti?

Gaccione: La vostra iniziativa a Torino è una di queste vie. Le letture pubbliche sono altrettanto importanti. Occorrerebbe che radio, riviste e giornali indipendenti tornassero a dare spazio a questa forma espressiva. L’aforisma è una vera e propria forma d’arte, difficile ma efficace. La sua perdita di centralità è un grave danno.

Antolisei: A tuo avviso, l’aforisma può e deve distinguersi dalle varie forme di comunicazione “veloce” oggi tanto in voga come il tweet, lo slogan, la battuta, ecc.?

Gaccione: Questa roba non ha nulla a che fare con l’aforisma, anche se riconosco che ci sono degli slogan efficacissimi, a volte poetici e colti, ma, ripeto: lo slogan non ha niente a che vedere con l’aforisma, anche se ne condivide la brevità.

Antolisei: Ritieni che la Grande Rete possa aiutare la diffusione del buon aforisma o che, piuttosto, ne faciliti la degenerazione in forme superficiali e scorrette?

Gaccione: Sulla Rete c’è di tutto, come avviene sempre in una agorà libera e senza controlli. Questo è un bene. Il rischio è la mescolanza ibrida in cui non si distingue più ciò che è valido ed originale, e ciò che non lo è. Tuttavia preferisco questo eccesso: senza la Rete molti validi autori di aforismi non avrebbero alcun luogo per esprimersi e farsi leggere. 

Antolisei: Pensi che la tua esperienza personale, quale autore di aforismi, sia stata fonte di maturazione letteraria, intellettuale, umana? Altrimenti, può esserlo in qualche modo?

Gaccione: Ci sono delle frasi di vari autori che hanno modificato la mia esistenza e la mia moralità. La mia scrittura ne è stata influenzata, ma soprattutto i miei comportamenti pubblici.

Antolisei: Quali ritieni siano le migliori doti che deve avere un autentico aforista, oltre alla propensione per la sintesi?

Gaccione: Sono due le qualità fondamentali: la profondità di pensiero e la moralità. Se a questo si unisce la grazia di uno stile accattivante, allora è il massimo. Come lo si dice è altrettanto importante di ciò che si dice.

Antolisei: Ti senti contrariato se un aforisma di tuo conio viene pubblicato in contesti di pubblica lettura senza che sia citata la sua paternità? In sostanza: secondo te dovrebbe davvero, un aforisma, essere - come sostiene Maria Luisa Spaziani - “cosa volatile, spontanea, che nasce come un fiore e non esige alcuna sigla di origine”?

Gaccione: Le barzellette sono tutte anonime e rientrano in una sorta di patrimonio collettivo; ma le chiamiamo appunto barzellette. L’aforisma è una citazione in genere dotta, con un suo blasone di autorevolezza. L’autore è parte di questa autorevolezza, dunque è giusto che ne sia citato il nome. Noi diciamo: “Seneca dice…”; oppure: “Come afferma Esopo…”. Vedete che l’autore non è un dettaglio marginale, ma fonte di credibilità di quel che si cita.

Antolisei: C’è una tua silloge, pubblicata o meno, alla quale ti senti più legato perché meglio ti rappresenta?

Gaccione: La mia scrittura è piena di aforismi, basta leggere una commedia come Tradimenti, o un libro di racconti come La signorina volentieri. Se si va a cercarli in quanto ho pubblicato se ne potrà estrapolare una discreta quantità. Tuttavia ho una piccola raccolta che ogni tanto si arricchisce di qualche pensiero nuovo; si chiama Il lato estremo, e l’ho iniziata moltissimi anni fa. Chissà, magari come è accaduto con gli altri libri, primo o poi ci sarà qualcuno che se ne innamorerà e deciderà di editarli. Non sono moltissimi, un paio di centinaia, ma io sono esigente e parco allo stesso tempo.

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Sperare nel Mezzogiorno?
di Giovanni Bianchi


Un difficile congedo
Congedarsi dal Novecento da medico nel Sud del Paese. Questo il libro testimonianza di Pietro Lacorte. Congedarsi dalla grande proletaria. Dal suo timore di avere troppa Grecia moderna al suo interno -non quindi solo Magna Grecia- e di essere trattata allo stesso modo da quelli che in Europa chiamano Med il Mediterraneo, con l'inglese militare e dei centri turistici, e di essere tuttavia trattata prima o poi come i nazionalisti di Atene. Si, perché Tsipras prima che di sinistra è nazionalista. Una sindrome non storicamente tragica, ma analoga a quella dei Balcani Occidentali, che avevano combattuto una resistenza ritenuta paradigmatica, la migliore in Europa, e che ha lasciato passare l'orrore della oramai -per tutti- ex Jugoslavia.
Una lezione che gli "ottimisti" ignorano, dal momento che anche per loro il Mediterraneo è Med piuttosto che Mare nostrum, o "lago di Tiberiade" secundum La Pira, e che i "gufi" volgono in paura da cavalcare mediaticamente ed elettoralmente, con un rapido trasferimento dal federalismo a una propaganda sabauda riverniciata. E che il Mezzogiorno segua con le sue salmerie sempre progovernative e clientelari. Perché la prima domanda che ti viene fin dalla copertina del libro autobiografico di Pietro Lacorte è se il cattolicesimo democratico possa congedarsi dal Novecento rinnovandolo, pur di restare moderno e vincente: ossia se gli riesca di fare quel che gli altri -cattolici democratici inclusi, ivi incluso un medico di Ostuni- hanno tralasciato di fare. Chiarisco subito il mio punto di vista di lettore: è quello di un italiano decisamente europeista che non teme di esplicitare l'interrogativo diffuso, ma tenuto sottotraccia, se dopo i greci tocchi agli italiani d'essere puniti nel welfare per salvare le banche. Con quel moralismo avido che vede nei sudisti taroccatori di bilanci gente da mettere in riga: visti da Berlino e Lubecca come peccatori, per una contaminazione luterana della lingua, da chi dice nel Paternoster und vergib uns unsere Schuldner, con un preoccupante sinonimo per le parole debito e peccato. Per il quale il debitore risulta altresì peccatore.
Insomma si può leggere Pietro Lacorte congedandoci rapidamente dal "nostro" Novecento come se il trek stellare di Samantha Cristoforetti abbia cancellato dalla memoria del Sud e del Nord Cristo si è fermato a Eboli? Può il cattolicesimo democratico, in nome del quale Lacorte si interroga sulla sua cittadinanza attiva, mettere tra parentesi la propria radice anche antimoderna consegnandola totalmente al maritainismo rimosso?

Un’esistenza data nelle mani della finanza
Partiamo dalla crescita o dalle persone? Che l'uomo, anche quello meridionale, conti più della crescita e della finanza è un'omelia della dottrina sociale della Chiesa e dei suoi ritardi, o un punto di vista? Il Mediterraneo, tutto grosso modo culturalmente terrone, incluso Israele, è quello del Club Med e dei raids libici che ci hanno visti presenti nei cieli dei cacciabombardieri con i francesi di Sarkozy e gli inglesi di Cameron combattere contro i nostri interessi?
Povero Giorgio La Pira, sindaco "santo" di Firenze, neanche più citato con la metafora evangelico-artigianale del lago di Tiberiade...
Un ufficio studi della italica Banca Nazionale del Lavoro vale e conta infinitamente di più, con i suoi neolaureati resi presto miopi dal computer, del millenario suq di Marrakech mirabilmente descritto (descritto, non twettato) da Elias Canetti. Niente da fare, da qui guardo anch'io, dalla mia esistenza tutta finanziarizzata, che neppure maledico, ma devo saperlo.
Mi pare di osservare a una parte del mio Paese e quindi a tutto il Paese con l'occhio col quale Frobenius guardava all'Africa e col quale io leggo Frobenius. Ma per leggere Lacorte devi scegliere un punto di vista, che non può essere solo mio, e che in maniera da subito evidente non coincide con quello della testimonianza ruminata da Lacorte. Ma possiamo guardare al mondo e alla nostra Europa a prescindere dal nostro Mezzogiorno? Chi ha risolto la "questione meridionale"? Chi l'ha tolta dai teleschermi e dai libri? Non ci sono indignati tra noi, mentre la Spagna li manda al governo delle sue città maggiori. Perché allora leggo il libro di un sopravvissuto? Perché mi sento a mia volta un reduce e un sopravvissuto che volte fa votare i cerchi magici della mia parte politica, che queste vicende non conoscono e non sono interessati a conoscere? Cristo e Eboli non valgono una citazione di Marchionne né una vittoria della Ferrari al Gran Premio.

Senza enfasi
Il mio perché credo di conoscerlo e lo espongo alle spicce e alla plebea. Perché non ho dimenticato il cattolicesimo democratico, anche se lo considero defunto. Defunto, ma morto di parto. Ecco in questo libro uno che cammina senza essere uno zombie. Anche il reducismo ha una sua verità e una lezione. Un medico militante ne é figura a tutto tondo. Oltre il Cristo di Eboli. Solo memoria? Anzitutto le memorie vanno interrogate, non per approfondire una morta stagione (perfino il Leopardi dell'Infinito) ma per ritrovare incunaboli (Martinazzoli) di futuro. Perché? Perché il problema politico di questo Paese non è il Pil, ma l'antropologia degli italiani, il loro profilo in quanto nazione. Ancora evidentemente da fare (D’Azeglio, addirittura). A partire dal Secondo Risorgimento e dalla Costituzione del 1948 (Mussolini s'era astutamente tenuto lo Statuto) che riesce a renderlo mito originario di quella che forse malamente chiamiamo Prima Repubblica. Questi italiani, che quando andavano all'estero parlavano il dialetto regionale (Prezzolini tra le due guerre), sono alle prese con l'Europa e con la globalizzazione, e non possono restarci ed entrarci senza identità di popolo. Non si accede alla globalizzazione da individui, ma con un'identità di popolo, con una costituzione e il welfare che le corrisponde. E con il Sud che ti ritrovi in casa. La massaia di Berlino, riluttante alla leadership, è tuttavia custode dell’ordoliberalismus e di tutti i suoi effetti reali, ivi inclusi quelli delle sue banche sul suo territorio. Così virtuosamente pensa di evitare alla sempre grande Germania il rischio di un ritorno al nazismo, non avendo ancora realizzato che la mala pianta, estirpata dal suolo tedesco, possa essere trasportata dal vento bancario alla periferia del vecchio continente. Dopo Tsipras c'è Alba Dorata.
Guardare dal punto di vista dei popoli, del loro presbitismo e della loro zoppia, questo è il problema del punto di vista e il dovere dell'ora. Un medico meridionale cattolico-democratico ci presta lo sguardo e la scrittura. L'autocoscienza può essere, non solo per le donne, uno sguardo sul mondo. Così sperare nel Mezzogiorno cessa di essere una giaculatoria e un residuo da consegnare a De Martino. Che il cattolicesimo democratico sappia ancora provocare è senz'altro una bella notizia. Che provi a ripartire dalle antropologie nella stagione che ha ucciso il primato della politica e ponga domande politiche ai soggetti residui della società liquida è una seconda bella notizia. Che evochi la cittadinanza attiva nell'impero globale del consumo e della pubblicità può essere la terza bella notizia. E -come mi disse Andreotti- che Dio ce la mandi buona.

Ostuni quotidiana
Che cos'è questo lavoro della memoria al quale Pietro Lacorte fa sovente riferimento con citazioni ed esergo dotti e puntuali? Si tratta di una radiografia di una democrazia locale storicamente situata in Ostuni, un pezzo vivace del Mezzogiorno cattolico da scavare lungo un po' di stagioni sociali e politiche, alcune morte ed altre rimpiante. Ostuni è l’Itaca di Lacorte. L'ombelico dal quale guardare il resto del mondo. Con uno sguardo disincantato e cattolico, come raramente accade. Per chi è cresciuto in una Chiesa locale fortemente coesa diventa prima o poi inevitabile la domanda sull'esempio delle comunità primitive, ossia su quale fosse la vita spirituale, sociale, comunitaria delle prime comunità cristiane. E qui va detto che è bene tenersi fuori dalla agiografia e dall’omiletica per una lettura puntuale disincantata degli Atti. Anche se lo Spirito Santo viene spesso invocato come un sodale delle decisioni comunitarie, non mancano le difficoltà, i drammi, i contrasti e anche lo scacco del quale si dà conto al capitolo quinto, che condurrà a una condizione di ristrettezze e di miseria che obbligheranno l'apostolo Paolo a una colletta nel Mediterraneo per sostenere la comunità di Gerusalemme.
Non ci sono socialmente, anche per i cristiani, età dell’oro. Né Ostuni può fare eccezione. Con il suo notabilato demodé ma rapace di proprietari terrieri, con i braccianti in miseria che stanno sulla piazza, questo sì come nella Scrittura, in attesa di un lavoro a giornata, con artigiani capacissimi, fieri e rampanti, peraltro così ben fotografati da attirare il favore e la simpatia del lettore. È questo Mezzogiorno, disponibile come terra assetata al pensiero di Saraceno, Paronetto e Vanoni, che saprà giovarsi della riforma agraria di Antonio Segni, mettendosi sulla via delle città e della creazione di una nuova borghesia cittadina meridionale.
Il processo è visto tutto dall'interno da Pietro Lacorte, dal basso, senza dispiegamento di sociologie, con una partecipazione accorata, con un sermo humilis che ti prende e commuove. Ma allora ha senso occuparsi -cristianamente e laicamente- di una comunità locale? Può una democrazia apprendere da questa attenzione? E perché è utile leggere con uno sguardo di oggi, anche dal profondo Nord, queste pagine così sudiste? Cosa hanno esse da proporre e insegnare alla nostra democrazia governata da una politica senza fondamenti? Quale la considerazione corrente dell'ente locale? Non erano i Comuni -quelli di Sturzo e di Turati- il luogo dove si riscattavano operai e cafoni imparando a leggere un bilancio comunale? E noi, dove siamo? Non reggono i sindaci paracadutisti come Ignazio Marino a Roma. La persona è proba e capace, si tratta di un grande chirurgo e di un notevole intellettuale, ma la dimensione locale spiazza prima il cuore e poi l’intelligenza. Marino evidentemente non è Petroselli. Ha dato l'impressione che di Roma gli importi restaurare l'icona del sindaco. Renderla credibile. Operazione utile e meritevole, che i mali di Roma tuttavia non consentono, non consentono almeno nella consecutio temporum che Marino ha scelto: prima il sindaco probo e popolare che gira in bicicletta, e poi Roma malavitosa e le sue macchine amministrative.
Il problema non è Marino: è anche nostro. Solo una comunità può governare una città, sulla via di diventare tutti insieme -eletti ed elettori- una comunità cittadina.
Ritroviamo nella dimensione locale l'interrogativo che ci insegue in quella nazionale, in quella europea, e anche in quella globale: ci importa governare il mondo, o la sua rappresentazione? È anche il problema di Renzi, di Salvini, perfino di Alfano e della Meloni. È un problema che narra dei rischi e della qualità reale della democrazia. Cosa disperatamente penso di queste democrazie? La democrazia è quella (tralascio il sostantivo perché mi metterei nei guai) che si occupa degli altri, anche quando gli altri non si occupano di lei. Non la so definire, ma avverto il rischio della perdita un bene prezioso. Recentemente Amartya Sen ha pubblicato gratuitamente per i tipi di Laterza un aureo libretto per dimostrare che il miglior antidoto (storico) per le carestie si è dimostrato la democrazia. La democrazia, non Expo.

Quale speranza?
Essere medico cattolico e cattolico-democratico nel Mezzogiorno è stato il problema della vita di Pietro Lacorte. Con un problema nel problema: qual’è il Mezzogiorno alle sue spalle?
Era un Mezzogiorno duro e difficile, del quale si occupava in termini di programmazione e sviluppo il trio di cervelloni cattolici di Morbegno in Valtellina già menzionato, e non ancora Saviano. Duro come tutto il Mezzogiorno dopo l'unità, ma non ancora finito nelle mani di Gomorra. Un Mezzogiorno con un tessuto ancora popolare e solidale, dove il medico è un'autorità non soltanto scientifica; è un punto di riferimento, un'autorità morale, un intellettuale organico del territorio e, nel caso di Lacorte, un "militante" cattolico.
C'è qualcosa di inconsapevolmente weberiano in questa figura del cattolicesimo popolare. Perché in Pietro Lacorte professione e vocazione si tengono, non solo, ma è stata la vocazione a determinare l'impegno professionale.
Un impegno per giunta che incontra nell'Italia del secondo dopoguerra e della ricostruzione l'icona, oggi scomparsa, del militante, sulla quale è cresciuta, sotto diverse bandiere, tutta la democrazia italiana. Uso ovviamente le mie categorie, costruite sulla cultura del Nord del Paese. Anzi, sulla cultura cattolico-popolare del Paese. Il punto di partenza è il giudizio del domenicano francese Marie-Dominique Chenu. Mi disse una mattina nel convento di Saint Jacques: "Sai qual è la differenza tra il cattolicesimo francese e quello italiano? Noi francesi abbiamo più cenacoli intellettuali e gruppi liturgici. Voi italiani invece avete creato associazioni, cooperative, forni sociali, casse rurali e artigiane: insomma il cattolicesimo italiano è eminentemente popolare e associativo".
Vale per il Lombardo-Veneto dopo Maria Teresa, e vale, in maniera differente per il Mezzogiorno dopo i Borboni. Mi esprimo così perché penso sia necessario acquisire uno sguardo meno sociologico e più storico sulla storia del cattolicesimo popolare meridionale. Meno De Martino, ma anche meno LaPalombara e Banfield, con il loro "familismo amorale" che non aiuta e non regge nel caso del medico Pietro Lacorte: il suo familismo, e quello del parentado che lo circonda, è tutto invece "morale", fin troppo.
Non l'avidità gestita e secolarizzata dalla malavita, che volge il tessuto solidale contadino in invidia sociale, ma figure, non soltanto il protagonista scrivente -si pensi alla sorella di Pietro- che costituiscono reciprocamente garanzia sociale e riferimento morale in questa dolente e generosa famiglia meridionale. Una sorella che traduce una figura molto simile a quella della "zia", che campeggia nella famiglia mediterranea italiana del Nord ancora negli anni Cinquanta e Sessanta. Mica vero allora che Cristo si è ogni volta fermato a Eboli. Il cattolicesimo lo scopre perché il suo sguardo, inclusivo della cultura della "povera gente", si sottrae agli stereotipi di una borghesia laica che ha il vezzo di considerare la cultura cattolica e popolare alla stregua di un "residuo" paretiano. Il Paese non è soltanto così. Il cattolicesimo meridionale non è soltanto quello descritto dal verismo di Verga o dal disincanto aristocratico di Tomasi di Lampedusa. La quotidianità -questa quotidianità- non si è però fatta analisi e pensiero. Raramente anche pensiero cattolico ed ecclesiale. Salvo eccezioni formidabili, come quella di don Tonino Bello. Hanno provato una qualche intrusione, una qualche rappresentanza e una qualche colonizzazione le presenze nel Mezzogiorno dei testimoni di Geova. L'hanno invece assunta senza troppe elucubrazioni gli amministratori e i politici democristiani, salvati e favoriti dal loro diffuso provincialismo. Anche il provincialismo dei democristiani interpreta e rende efficace questa cultura, la organizza nel Comune e nel Partito -è anche non casualmente il percorso di Pietro Lacorte- e la rende efficace nel contesto del Bel Paese. Le conferisce la dignità di un magistero civile.

Un legame non studiato
C'è un legame profondo e non studiato tra il cattolicesimo popolare del Sud e quello del Nord. Non bisogna dimenticare che Giorgio La Pira viene da Pozzallo.
Nelle pagine, calde e trasparenti, di Pietro Lacorte ho infatti incontrato un "lazzatiano del Sud". E non si dimentichi il radicamento milanese, fino all'uso reiterato e provocatorio (molto prima di Berlusconi) del meneghino, così frequente in Pepìn Lazzati, costituente e rettore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. È tempo, dopo questo libro di Pietro Lacorte, che è molto più di una testimonianza, di inaugurare una via e un percorso, e di proporci un quesito non tematizzato. Lo schematizzo così: il cattolicesimo popolare italiano è rimasto estraneo al processo unitario del Paese. "Estraneità" e più di opposizione. L'intransigenza nel Lombardo-Veneto e quello che pudicamente i testi di storia continuano a definire "brigantaggio" nel Mezzogiorno sono corpose presenze storiche e popolari, in attesa del crollo di uno Stato indotto da sopra e da fuori dalle baionette piemontesi, dagli zuavi francesi e protestanti di Porta Pia, destinato a cadere in quanto creazione demoniaca, perché portae inferi non praevalebunt...
Tutto risaputo. Quel che è poco studiato in una prospettiva diversa da quella vincente è il recupero lento e corale, a partire dal sociale e dal civile e dalle amministrazioni comunali, delle masse cattoliche impegnate al Sud come al Nord. Con un paradosso: sono i cattolici  "estranei" ad assicurare nel secondo dopoguerra un idem sentire a un Paese lacerato e sconnesso. A guidarne quanto meno la ricostruzione.
Va riletta la Resistenza dal punto di vista dei "partigiani senza fucile". Va riletta la Costituente. Non è casuale la regia di Dossetti e dei professorini dossettiani. Non è piovuto dal cielo che tocchi al giovanissimo giurista meridionale Aldo Moro il compito di ribadire con insistenza alle masse cattoliche "estranee", al Sud come al Nord, che non si dà associazionismo diffuso e dignitoso, che non si dà cittadinanza attiva ed etica di cittadinanza al di fuori dello Stato democratico costruito insieme con gli altri soggetti culturali e politici. Che la Costituzione è chiamata a codificare diritti che le preesistono in quanto insiti nella umana natura.
Non è soltanto il successo di una classe dirigente che non si limita a gestirsi come ceto politico: è la garanzia di una "militanza" cattolica (uso ancora provocatoriamente un termine desueto) che si fa Stato faticosamente, progressivamente, autocriticamente. E quando dimenticherà le radici e il compito si dissolverà come partito lasciando la Repubblica senza architrave. Perché a quel punto sarà il partito in quanto tale -nella sua separazione e nella sua ostinata volontà di potenza- a farsi impropriamente Stato.
I lazzatiani e del Sud e quelli del Nord verranno messi da parte da un astuto doroteismo di corta visione e ambizione, e però capace di aperture al nuovismo riformista di Craxi. Sarà questo ceto doroteo a provvedere al cambio antropologico (il problema degli italiani continua ad essere la loro antropologia storica e politica, non la crescita) e ad introdurci nella ingovernabile "transizione infinita".

In ritardo
Tardivo, troppo debole e forse perfino troppo brescianamente aristocratico il tentativo di Mino Martinazzoli di raccogliere le membra disperse di quel che fu un corpo vigoroso reso vitale da un animo nobile. Cosa dice dunque Pietro Lacorte nel suo libro? Che il cattolicesimo democratico è morto, ma è morto di parto, lasciando in giro figli, legittimi o naturali, non importa, nostalgici di una grande avventura. E il futuro? Il futuro ha bisogno di speranza, non di ottimismo. Perché solo la speranza evita di raccontare barzellette ai funerali ed è capace di metamorfosi storiche e popolari. In grado anche di inediti meticciati. Perfino -non è vietato sperarlo- di resurrezioni.

Pietro Lacorte
Sperare nel Mezzogiorno
Stilo Editrice, 2015
Pagg. 216  € 16,00


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AFOCALYPSE
Una straordinaria testimonianza umana e artistica
attraverso gli aforismi, dall’inferno della guerra nella ex-Jugoslavia   
di Amedeo Ansaldi

Parliamo oggi di un libro uscito, tra l’indifferenza generale, qualche anno fa, nel maggio del 2012, e che meriterebbe, a nostro sommesso avviso, di essere recuperato e rimeditato. 
La pubblicazione di Afocalypse, antologia dell’aforisma serbo contemporaneo, a cura di Fabrizio Caramagna (curatore, fra l’altro, del più competente ed aggiornato blog aforistico italiano, appunto Aforisticamente), costituì, già allora, un’occasione unica, ma perduta, per il nostro Paese, di conoscere più da vicino la cultura e le vicende recenti di un popolo che negli ultimi 30 anni ha attraversato ogni sorta di tragedie (la dittatura nazional-comunista, le atrocità della guerra civile e i bombardamenti della Nato, le amare delusioni di un’incerta democrazia), e segnatamente una generazione di scrittori serbi, cultori della forma breve, che per l’eccezionale intensità, forza e qualità stilistica della loro opera non ha probabilmente l’eguale, al giorno d’oggi, nell’ambito di questo genere letterario. Gli autori sono stati tutti oppositori del passato regime di Milosevic, quando non anche di quello di Tito. Negli anni Novanta, come scrive Caramagna nell’introduzione al volume, “sotto i colpi della guerra civile, il Circolo Aforistico di Belgrado, con il suo humour e la sua satira ‘sovversiva’, diventa l’arma più adatta e più letale nella lotta contro la lingua propagandistica e guerrafondaia del regime”. Bisogna rilevare che negli aforismi citati Slobodan Milosevic e gli altri esponenti di spicco della nomenclatura ex-jugoslava non sono mai nominati in prima persona - aspetto che contribuisce non poco ad accentuare il carattere di universalità di significati.
I temi che si rincorrono da un autore all’altro sono quelli legati alla drammatica storia recente del popolo serbo. I grotteschi personaggi del regime (“Siamo guidati da figure storiche, e anche da alcune figure preistoriche.” “Forte come un leone, saggio come un gufo, resistente come una quercia. C’è qualcosa di umano?”  “L’ordine è venuto dalla posizione più alta. Da un rifugio sotterraneo.”). Le menzogne della propaganda (“Non ci prendiamo la responsabilità di quello che facciamo. Non siamo un’organizzazione terroristica”. “Il presente è abbastanza monotono, ma il nostro passato sta cambiando di ora in ora.”). Il permanente stato di polizia (“Ho sempre desiderato conoscerLa, ma solo adesso ho avuto il mandato di cattura!”. "I giornalisti vengono divisi. Alcuni sono chiamati per il briefing, altri per un interrogatorio”. “Ho solo una scelta: o sarò una marionetta, o la mia vita sarà appesa a un filo”. “La polizia e i manifestanti sono uguali davanti alla legge. Non davanti allo specchio”. “Le forze di polizia continuano a cercare l’assassino. Hanno un nuovo lavoro per lui”. “E’ stato tracciato un identikit ideale. Il sospettato assomiglia a tutti”. “Quando sono tornato dall’interrogatorio, mia madre mi ha subito riconosciuto. Il cuore le diceva che ero io”). Il protrarsi estenuante di negoziati condotti in manifesta malafede (“Due più due fa cinque! Questa è la nostra ultima offerta.”). La missione di pace -come venne denominata con involontaria ironia- della Nato (“La Serbia è uno Stato parlamentare. Tutte le decisioni importanti per il nostro Paese sono prese dal Congresso americano.”, “Dio ci vede, ma un Awacs della Nato gli oscura la vista.”. “L’America sostiene fermamente il dialogo per la pace - con un’azione congiunta per mare, per cielo, per terra.”. “Il mio televisore si è rotto. Dovrò seguire i bombardamenti dalla finestra.”). Riflessioni amare sulle atrocità commesse dal proprio stesso popolo (“Uccido ortodossi, cattolici e musulmani. Sono un ecumenista.”. “In previsione della chiamata alle armi mi esercito a casa. Sparo dalla finestra ai passanti.”). Gli orrori senza fine della guerra civile (“I rifugiati sono liberi di tornare alle loro case. I nuovi proprietari sono ansiosi di fare la loro conoscenza.”. “C’è una luce in fondo al tunnel. Sono le nostre case in fiamme.”. “Era una guerra di religione. Solo Dio sapeva per cosa stavano morendo.”). I ripetuti rovesci militari (“Saremo una piccola Svizzera. Ne abbiamo già raggiunto le dimensioni.”. “Non solo abbiamo difeso i nostri territori, ma presto vi apriremo anche la nostra ambasciata.”. “La linea del fronte si è spostata. Ora difendiamo le nostre case nella profondità del territorio nemico.”). Le delusioni della neonata democrazia (“Il vecchio regime è morto, ma ha donato gli organi a quello nuovo.”. “I cambiamenti sono così rapidi che anche i camaleonti sono visibili.”. “I nostri politici sono divisi in elementi di sinistra e di destra. Dipende da quale metà del loro cervello non funziona.”. “Gli antichi mestieri sono in crisi, con l’eccezione del più antico.”. “Cercate lavoro nel nostro ministero. I salari sono bassi, ma i guadagni sono enormi!”. “Sto aspettando i risultati delle elezioni. Voglio sapere per chi ho votato.”). L’agognato ingresso nel consesso delle nazioni civili (“Entreremo a far parte dell’Europa. Hanno bisogno di una discarica.”).
Forse mai la forma breve aveva conosciuto nella storia della letteratura mondiale una così fulminea e straordinaria fioritura -se si eccettua la cerchia dei salotti francesi del ’600, dove la massima era assurta al rango di raffinatissimo gioco di società. Ma quello che precipuamente distingue l’aforisma serbo contemporaneo dai suoi illustri antesignani è l’eccezionale drammaticità degli eventi che ne costituiscono la principale fonte d’ispirazione, e che si risolve in un umorismo nero espresso con rare efficacia, felicità ed economia di mezzi.
Il libro contiene circa 1.500 aforismi, uno più smagliante, risentito, commovente dell’altro; gli autori citati sono in tutto 34: cifre che avrebbero potuto essere raddoppiate senza che -assicura il curatore- la qualità media ne scapitasse. Non ci resta che auspicare che ne venga pubblicata, in un futuro non lontano, un’edizione ampliata.

Afocalypse. Antologia dell’aforisma serbo contemporaneo
a cura di Fabrizio Caramagna,
Genesi Editrice (Collana Aforisticamente) - Euro 20

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AFORISMI
di Laura Margherita Volante

DALLE MIGNOTTE ALLE MIGNATTE
Quando un uomo riesce a far perdere ad una donna il rispetto di sé,
le lascia una cambiale in bianco da pagare per tutta la vita.

MAI DIRE MAI?...
MAI: Massimo Amore Indispensabile per ogni vita che respira
Mai all'ingiustizia!
Mai alla guerra!
Mai all'ignoranza!
Mai alla solitudine!
Mai alla morte dello Spirito!
Mai gettare la spugna!.
Mai una bambina e un soggetto debole debbano soffrire per questi mali

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Gli aforismi di Amedeo Ansaldi
di Alessandra Paganardi
Amedeo Ansaldi
Oltre duecento aforismi senza una precisa divisione tematica, ma comunque divisi in tre “capitoli” (due più brevi uno più lungo) che si può immaginare abbiano un significato non puramente grafico. Legittimo domandarsi se l’abbinamento e la scansione siano casuali o meno. Proviamo ad azzardare qualche ipotesi, I temi sono ovunque più meno gli stessi, spesso afferenti alla filosofia morale: la libertà, la durezza dei rapporti umani, l’ipocrisia delle relazioni sociali, l’egoismo, la menzogna, l’“homo homini lupus” (e, per spostamento dell’equazione, il lupus homo lupo, l’incompresa fraternità e bellezza del mondo animale ingiustamente bistrattato: vedi aforismi a pag. 9 e 61). Ma anche (soprattutto verso la fine) il rapporto fra verità e tempo, fra verità e consenso (memorabili gli aforismi sulle rivoluzioni, sulla storia umana delle idee e sui loro seguaci). La proporzione di questi temi “metastorici” tende tuttavia a crescere con il procedere del libro, così come tendono ad aumentare e a cambiare altri tratti, e ne isolerei in particolare tre: innanzitutto l’attitudine al paradosso, definito abbastanza paradossalmente, in un aforisma a pag. 8,“una banalità caduta in disuso”. Ansaldi l’adotta con eleganza proprio confidando in questo disuso, quasi si trattasse di un riciclo virtuoso di una pratica che, se abusata, rischia di diventare un sofisma eristico. Poi la brevitas: all’inizio prevale l’aforisma lungo, quasi la riflessione vincesse sulla conclusione, con chiaro debito verso il Leopardi dello Zibaldone. Procedendo verso la fine si nota una maggior concentrazione. Infine, ma non ultima, l’assertività. La prima parte, più che non le ultime due, presenta tratti di incompiutezza che sono una caratteristica di questa scrittura e una scelta dell’autore: come se Ansaldi preferisse accompagnarlo per mano nel travaglio del pensiero, piuttosto che presentargli subito quel prodotto lustrato e finito che è per natura l’aforisma. Questa caratteristica, ancora e sempre zibaldoniana, viene scemando con il procedere del libro e lascia sempre più posto a una struttura un po’ più chiusa, con una logica più convergente: c’è addirittura una pagina intera (la numero 30) in cui le riflessioni possono essere viste come dei mini-sillogismi. Possono essere divise in due, perché la seconda parte del pensiero, pur nella sua brevità, è uno sviluppo parzialmente autonomo rispetto alla prima.
Con lo sviluppo della struttura più breve e chiusa si nota poi l’emergenza chiarissima di altri maestri, oltre al Leopardi dello Zibaldone. Prima di tutto il Michel de Montaigne degli Essais: disincanto e un certo epicureismo che fanno pensare alla famosa osservazione del filosofo francese, valida anche nell’ambito aforistico : «Les autres forment l’homme, je le recit». Come il filosofo francese, Amedeo Ansaldi racconta l’uomo in tutte le sue debolezze ma anche i punti di forza, come la capacità di opporsi all’oppressione, di accogliere la libertà (capacità da cui, a suo dire in un aforisma, si misura il prezzo della libertà stessa: vedi p. 41) e di manifestare una generosità da imperativo categorico kantiano, ben oltre il determinismo un po’ opaco dei buoni sentimenti: «I piccoli princìpi morali ingombrano più di quelli grandi », scrive Ansaldi. O una capacità di avvicinarsi al sublime degna delle tre vie schopenhaueriane di liberazione dal dolore, come si legge in un lungo aforisma a pag. 30.L’uomo, dunque, in quanto categoria metafisica non è irreparabilmente e per natura meschino; piuttosto è incline a una protervia non mediocre, e forse per questo, nonostante tutto, interessante come oggetto di studio (altrimenti, in fondo, perché scrivere aforismi)?
Manca, in questi aforismi, lo scatto poetico: anche qui non per difetto, ma per precisa scelta dell’autore: la stessa metafora, ingrediente pur possibile nella scrittura aforistica (pensiamo a un René Char, o più indietro nel tempo, passando dai francesi ai tedeschi, alle metafore scientifiche di un Lichtemberg e dello stesso Goethe ) vi si presenta come molto parca. Forse l’autore, nel suo desiderio di condurre il lettore ad un ragionamento condiviso, non verso la verità ma verso una gestione onesta del dubbio (Manuale di scetticismo, appunto!!!) ritiene la metafora una specie di offuscamento, di bilancia truccata. Un altro maestro di grande impatto per Ansaldi è Gomez Davila, di cui mi piace ricordare a memoria un aforisma in particolare, tratto da In margine a un discorso implicito, che potrei mettere idealmente ad esergo del libro di Ansaldi: «L’uomo preferisce discolparsi con l’altrui colpa che con la propria innocenza».
Si può dunque concludere che la struttura di questo Manuale sia una progressiva concrezione che, dalla riflessione paziente e in qualche misura anche pedagogica, perché sempre attenta ad accompagnare il lettore con l’onestà della parola, passa sempre più ad affilare le lame e a scegliere la folgorazione della brevità. Permane sempre comunque lo scrupolo della chiarezza, anche nel colpo di scena. Il manuale di scettiscismo di Ansaldi ha dunque un andamento dinamico che somiglia in parte ad una narrazione: non è una semplicemente una serie di secche conclusioni, ma racconta nel suo svolgersi il modo in cui si sviluppa un aforisma, per progressiva sottrazione e slittamento dal concreto all’astratto, nella mente di chi lo crea. Anche per questo, in un genere difficilissimo dove ogni difetto balza agli occhi come una macchia, l’opera prima di Ansaldi invece convince; e promette sviluppi ancora nuovi di questa suggestiva narrazione metalinguistica e meta-mentale.

Amedeo Ansaldi
Manuale di scetticismo,
Puntoacapo ed. 2014
Pagg. 44 € 8.00

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RICORDO DI GRAZIA LIVI
di Jacopo Gardella

Cara Grazia, dal comune amico Angelo Gaccione mi è stato richiesto di scrivere un tuo ricordo da pubblicare sulla sua coraggiosa rivista ODISSEA.  Ho accettato il suo invito con gratitudine e con la gioia di intraprendere qualcosa che credo ti faccia piacere. Ma invece di scrivere un ricordo preferisco indirizzarti una lettera. Voglio illudermi che tu sia ancora vicina a noi e che si possa ancora conversare insieme. 



Grazia Livi

Da vera toscana la tua conversazione non era mai neutrale, insignificante, anodina: era sempre vivace, pungente e a volte anche tagliente. Ciò tuttavia non significa che il tuo animo fosse duro e insensibile: al contrario, dietro l’asprezza della forma vi era la capacità di comprendere gli altri, vi era la virtù di accettare le loro debolezze. Questo tuo atteggiamento a volte creava lievi contrasti tra noi due. Nel giudicare le persone tu eri più indulgente, io meno accondiscendente. Tu più saggia vedevi ed apprezzavi le persone nella loro globalità, ne valutavi pregi e difetti. Io più impulsivo sostenevo che non bisognava essere eccessivamente indulgenti, e anzi fosse nostro dovere censurare severamente ciò che si considerava sbagliato.
Durante una nostra conversazione su vari argomenti di ordine religioso mi aveva colpito la tua bonaria simpatia per un pontefice che io avevo sempre considerato di mentalità ristretta e chiusa, e che dalla maggior parte dei nostri amici veniva poco stimato: parlo di Papa Ratzinger. Ancora prima della sua sorprendente abdicazione Papa Ratzinger ti piaceva, ti convinceva, ti rassicurava. E contro le critiche negative di tutti noi, per lo più laici anche se non atei, tu opponevi un modo mite e comprensivo di giudicarlo. L’atto della sua abdicazione, che tante persone consideravano una dimostrazione di debolezza, tu invece lo vedevi come un atto di umiltà, e lo capivi e lo difendevi, cercando di spiegarci quale sacrificio era costato quel gesto al Padre del Cattolicesimo. Questo atteggiamento metteva in luce due aspetti nobili del tuo carattere: la benevolenza ed il coraggio. Benevolenza nell’accettare e comprendere anche chi ad un primo momento saresti portata a criticare. Coraggio nel contrapporti al giudizio corrente, all’opinione condivisa da un gran numero di persone; coraggio ancora più ammirevole per il fatto di metterti in contrasto con amici appartenenti al tuo stesso mondo culturale. 
Se passiamo dalla Religione alla Recitazione, dalla Morale al Teatro, ricordo uno spettacolo visto con te e con altri amici e recitato in un piccolo Teatrino alla periferia di Milano: uno spettacolo scadente in cui una sola attrice, accovacciata per terra e senza vestiti, tiene un lungo monologo sulle sue pene sentimentali. Alle critiche metà sarcastiche metà indignate di tutti noi spettatori tu reagisci e dissenti facendoci notare la fatica, l'audacia, lo sforzo sostenuto dall’attrice, forse anche le miserie che la attendono e la accompagnano dietro al palcoscenico; e ci chiedi di essere comprensivi e tolleranti prima di emettere con troppa fretta la nostra sentenza di condanna.
Grande coraggio hai saputo dimostrare aderendo al movimento femminista in un tuo modo tutto particolare e certamente poco condiviso. Che sia giusto per una donna combattere nelle fila del femminismo è cosa scontata; ma non altrettanto scontata è la decisione di competere con l’altro sesso in termini equilibrati e leali, come sempre hai voluto fare tu. Ho conosciuto molte femministe così aggressive, e intolleranti da danneggiare la loro stessa causa ed ottenere risultati opposti a quelli desiderati. Invece di attrarre simpatizzanti e raccogliere seguaci esse alimentano diffidenze ed ostilità; e fanno apparire il femminismo come un movimento, poco affidabile, poco capace di mantenersi sereno ed obbiettivo. Tu al contrario hai sempre concepito il femminismo come un atteggiamento non come un combattimento; hai sempre aiutato la donna ad emanciparsi non a ribellarsi. Pur essendo consapevole che per il solo fatto di essere donna ci si trova in condizioni di maggiore fragilità, in posizioni più vulnerabili, non hai mai auspicato un conflitto aperto contro il genere maschile; non lo hai mai giudicato né lo hai mai condannato senza prima sforzarti di individuarne tutte le possibili attenuanti. Assumevi sempre un atteggiamento che era severo ma non privo di comprensione.

Sui tuoi sentimenti eri riservatissima. Ciò nonostante questi si potevano intuire ed indovinare anche se espressi con grande discrezione e con il massimo ritegno. Il sentimento che riservavi a tuo figlio Gabriele non era solo di amore, era anche di ammirazione e quasi di adorazione; ma era un sentimento non privo di senso critico e di lucidità. Vi è un tuo racconto, intitolato "Il vento e la moto" in cui riesci a trasmettere tutta la angoscia, la tensione, la paura che può soffrire una madre in attesa di notizie del figlio partito da qualche giorno per un lungo viaggio in motocicletta. Qualsiasi lettore, senza sapere che Gabriele è appassionato di moto potenti e veloci, capirebbe che il protagonista del racconto è lui, tuo figlio, e che la persona in ansia sei tu, sua madre. Il tuo modo di descrivere la tensione e l'ansia della madre che aspetta la telefonata promessa dal figlio e che vorrebbe da lui la conferma dell'arrivo sano e salvo alla meta lontana, è un modo di raccontare asciutto e scarno: «Otto ore di ritardo. Si trovò impulsivamente davanti al telefono. Staccò la cornetta che fece "tuu tuu" incosciente, libera. La riagganciò. Risalì senza speranza e aprì la finestra» (Il vento e la moto, Garzanti, Milano, 2008, pag. 61). Dalla semplice osservazione dei fatti, del nudo elenco delle azioni, senza accennare apertamente né a moti di cuore né a stati d'animo, vengono vividi alla luce emozioni, sentimenti, palpitazioni. La realtà esterna osservata con precisione conduce al mondo interiore e fa conoscere al lettore gli affanni della protagonista e le sue più intime ansie. Tutto ciò è reso con molta maggiore efficacia di quanto non ne avrebbe una enfatica descrizione di drammi, di tormenti, di ambasce psicologiche. La nuda cronaca di fatti semplici e di azioni elementari è sufficiente a trasmettere al lettore lo stato d'animo di una madre che vive ore di ansiosa attesa.


La tua scrittura è asciutta ma non povera; e soprattutto mai affrettata, frettolosa, trascurata. Come tutti i bravi artigiani della parola, anche tu non ti stanchi di elaborare, tornire, calibrare le frasi. Soppesi i ritmi; studi le cadenze; scegli con cura gli aggettivi. Da genuina figlia di Firenze il tuo eloquio non si compiace di fronzoli, di pleonasmi, di eccessive aggettivazioni. Sa essere sintetico, misurato e nello stesso tempo intenso ed eloquente. Con ciò tu ti avvicini ai migliori autori della nostra lingua che nell'esercizio della loro scrittura si impongono di trattenere e dominare le loro emozioni; ricercano una espressione sempre controllata, priva di retorica, esente da esibizioni; disdegnano l'eloquio enfatico che spesso cessa di essere parlato e diventa urlato. È istruttivo fare un confronto fra il tuo stile di scrittrice e lo stile usato da una giornalista di grande successo, Oriana Fallaci. Come appare nell'articolo di indignazione scritto da lei dopo gli attentati terroristici alle Torri Gemelle di New York (un articolo chiassoso, violento, punteggiato da improperi quasi isterici): si avverte subito la differenza non tanto artistica quanto stilistica fra i due modi di scrivere: composto, e controllato, il tuo; isterico, esagitato e scomposto il suo.
Chi cura con diligenza la bella forma lo fa non per esibirla e farsene un vanto ma per servirsene come espressione di un contenuto. Quale era la ricchezza dei contenuti che ti spingevano a cercare e ricercare la perfezione della forma? Dei molti contenuti che arricchiscono le tue opere ne voglio ricordare alcuni. Anzitutto la fatica che ancora oggi fa la donna nella vita in generale, e la donna scrittrice nel suo lavoro in particolare. In secondo luogo lo sforzo che la donna deve affrontare da sola per raggiungere la sua emancipazione e affermare la sua maturità "il segreto dell'accrescimento è solo in lei che risiede". In terzo luogo la volontà di sapersi liberare dalla miriade di piccole incombenze domestiche e familiari che alla donna vengono incessantemente richieste. Se esiste questa volontà: «la donna che si è sottratta alla disponibilità e alla dispersione è diventata ciò che cercava di essere: Scrittrice. Anni di disciplina hanno smussato il suo carattere -le durezze, le insofferenze, i pregiudizi- creando in lei una mansuetudine. E la mansuetudine è qualità creativa per eccellenza» (Da una stanza all'altra, La Tartaruga edizioni, Milano, 1992, pag. 182) .
La qualità della "mansuetudine", che a prima vista sorprende e non ci si aspetta da te, donna salda e ferma nelle tue convinzioni, significa prudenza nel formulare giudizi; disponibilità a comprendere ed accettare il prossimo. «La mansuetudine», citando le tue stesse parole, «da un lato implica la capacità di accogliere maternamente, dall'altro la volontà di sottomettersi ai significati» (opera citata, pag. 182). La mansuetudine denota rispetto per il prossimo; propensione a guardarlo maternamente con occhi benevoli; invito ad accettare consuetudini, tradizioni, modi di vivere di una comunità consolidata da anni; predisposizione ad accogliere e sottomettersi con modestia, seppur con occhi sempre vigili e critici, ai significati che la gente comune attribuisce alla vita. È questa una lezione di umanità e di comprensione che si trova raramente anche tra persone brillanti ed intelligenti e tuttavia restie ad ascoltare gli altri quando gli altri hanno idee diverse dalle loro.
In questo tuo concetto di mansuetudine affiora quell'imperativo evangelico non sempre facile da interpretare che dice testualmente: "guai a chi dà scandalo". Un imperativo da rivolgere ai tanti presuntuosi e saccenti "maître à penser", ossia intellettuali, i quali per gusto di apparire emancipati e superiori non si peritano di offendere i sentimenti della gente comune, le credenze dei ceti modesti e popolari. “Mansuetudine” tuttavia in te non significa “buonismo”, né debolezza di carattere, né generica tolleranza. Anzi il tuo carattere è forte e ben determinato: sicuro di sé, severo, intransigente. I tuoi giudizi senza mai essere cattivi sono sempre netti e taglienti.


La fatica richiesta dal desiderio di raggiungere la perfezione formale è proporzionale alla profondità del contenuto che si vuole esprimere. Rammentando questa fatica, che è ancora maggiore se affrontata da una donna scrittrice, ti confessi apertamente parlando del tuo lavoro in terza persona: «Cancella, scrive, getta via, ricomincia da capo. È solo lei che, interrogando le cose che via via si affacciano alla pagina scritta, conferisce loro ricchezza» (opera citata, pag. 182). In quel ritrarre te stessa, che con pazienza scrivi e riscrivi più volte una stessa pagina fino a quando non te ne senti soddisfatta, mi sono venuti in mente alcuni grandi autori del passato: Bach diceva che la musica è pazienza; Le Corbusier diceva che l'architettura è ricerca paziente; Goethe con grande pazienza spostava e rispostava una virgola fino a quando non ne trovava la posizione giusta. Come tutti gli autori seri anche tu sai che la buona scrittura è pazienza. Nonostante l’insulso ritornello popolare che dice "il genio è sregolatezza", tu sei ben consapevole che il genio non è affatto sregolatezza, ma è lavoro meticoloso, impegno, prolungato, applicazione tenace. Della fatica che sta dietro al tuo modo di scrivere non ci si accorge al primo momento, ma presto la si intuisce. L’esattezza delle tue descrizioni e la precisione delle tue immagini non sono casuali ed improvvisate; sono il risultato di un lento lavoro di affinamento, sono la conseguenza di una selezione esigente, di un continuo confronto, di una estenuante fatica. La creazione infatti è fatica e la fatica esige pazienza.
Forse per il fatto che l'aspetto religioso della vita ti ha sempre interessato ed appassionato, forse perché i problemi spirituali non sono mai stati estranei alla tua natura, fatto sta che decidi di iniziare la tua raccolta di saggi intitolata "Da una stanza all'altra" con la citazione di un teologo protestante. Dagli scritti del pastore Paul Tillich (1886-1965), hai scelto il seguente pensiero: «Avendo il coraggio di essere noi stessi diventiamo colpevoli e ci è richiesto di assumere questa colpa esistenziale». Compare qui non tanto un tema religioso quanto il dramma della difficile emancipazione a cui è chiamato l'artista in generale e la donna scrittrice in particolare; compare lo sforzo di chi per seguire la sua vocazione e costretto a sostenere la fatica della creazione. È un tema che ti appassiona ed angustia; lo fai tuo; lo vivi in prima persona.
Il coraggio di essere se stessi, cioè di affermare la proprie convinzioni implica la dolorosa conseguenza di essere considerati colpevoli: colpevoli perché non ci si adegua alle convinzioni degli altri, perché si è diversi da loro; perché si scelgono strade che la gente normale non solo stenta a capire ma spesso disapprova e perciò stesso considera una colpa il volerle percorrere. Ed è una colpa che ci segue per tutta la durata della nostra esistenza, una colpa esistenziale, come dice appunto Tillich.
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Numerose sono le citazioni tratte dai tuoi libri che toccano questo angoscioso tema. Parlando della poetessa statunitense Emily Dickinson (1830-1886) fai queste considerazioni: «Per le donne l'adeguamento» (cioè, aggiungo io, l'accettazione delle convenzioni comuni) «è sempre stato un valore molto alto. È, in effetti, l'unico valore che assicura l'appoggio sociale, l'apparente soluzione dei conflitti interiori, il consenso delle due figure granitiche poste come sfingi al fianco: la madre e il padre» (opera citata, pag. 82). Sempre parlando della Dickinson e della sua estraneità al mondo in cui viveva, osservi: «La diversità è un peso arduo da sopportare. A volte ne è soverchiata: da un lato ciò che venera e seguita a venerare -il padre, i famigliari, la casa- dall'altro la percezione di un limite invalicabile, di una impossibilità di fusione» (opera citata, pag. 84). Con questa citazione fai una acuta e verace descrizione delle piccole ferite subite dalla Dickinson nella vita di famiglia,  delle frequenti incomprensioni di cui era vittima per colpa di genitori non certo cattivi ma limitati e poco sensibili.
                                                    
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In un'altra parte dello stesso libro auspichi per la donna scrittrice un luogo dove possa ritirarsi, raccogliersi in se stessa, creare in silenzio. E fai questa raccomandazione: «Essere vigile, assorta, silenziosa, riunita. Starsene in disparte per osservare, per far germogliare il seme». (opera citata, pag. 15) «Accade a volte che una donna desideri appartarsi. La mancanza di una stanza non è forse una caratteristica connaturata all'esistenza femminile?» (opera citata, pag. 14) «Come rifiutarsi alla disponibilità? Con quale giustificazione o pretesto?» «Ma tutte quelle che restano -la maggioranza- scelgono di non scegliere. (...) Ecco il diritto che occorre affermare con urgenza -diritto e necessità- prima che il seme della creazione venga soffocato» (opera citata, pag. 15).
Non tutte le donne hanno la forza di affrontare il senso di colpa che viene riversato addosso a loro dalle gente comune, dal mondo delle convenzioni. Alla fine cedono, si arrendono, scelgono di non scegliere. Poche sono le donne che hanno la forza di difendere la loro scelta e di chiudersi in una stanza tutta per sé. Lo spiega con chiarezza una tua concisa considerazione: «Dunque la stanza, la vera stanza, richiede coraggio. Il coraggio di uscire dalla nicchia della propria vita minuta, all'ombra, al sicuro. Di prorompere in una singolarità che può risultare poco gradita agli altri». Entriamo nella stanza. «Una donna assorta, dall'aspetto comune. Lavora. Da tempo ha capito che là dove non esiste identità consolidata, affinata, non esiste scrittura che valga. (...) Ma prima ha dovuto sottrarsi alla disponibilità che è ascolto breve, scheggiato (...) che è attenzione sempre distolta (...) Si è sottratta alla superficie del quotidiano (...) Si è sottratta alla compagnia non scelta, alle parole occasionali» (opera citata, pag. 181). Poi a conferma del tuo pensiero aggiungi questa citazione tratta da un acuto e noto scrittore: «Altrimenti nel chiacchiericcio delle cose interne ed esterne, come udire l'anima che parla?» (James Hillman, Il mito dell'analisi, Adelphi, Milano, 1975).
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Gilberto Finzi e Grazia Livi
Guardiamo la tua foto-ritratto. Sul bel volto luminoso si intravedono contemporaneamente due espressioni contrastanti: un'ombra di tristezza ed un lampo di ironia. "Tristezza" perché sei consapevole dei dolori che ci circondano; non resti indifferente ed insensibile di fronte ai mali del mondo. "Ironia" perché sai tenere un giusto distacco dalla realtà; e sai che solo dal distacco nasce l'ironia, la capacità di osservare senza essere trascinata; la forza di vedere senza immedesimarsi; la abilità di lasciarsi coinvolgere ma non travolgere; e quindi il dono di descrivere la realtà  mantenendo la necessaria obbiettività di giudizio. Con il prossimo eri sempre cordiale ma non esageratamente confidenziale. Conservavi in ogni occasione un atteggiamento calmo, autorevole, controllato. Avevi un modo elegante e posato di muoverti, di comportarti, di agire. Avevi quello che si usa definire un "portamento". È sufficiente vedere nella foto-ritratto la posa del braccio; l'inclinazione della spalla; lo sguardo dritto e franco verso l'osservatore. Ci si accorge di essere davanti ad una signora che ascolta con attenzione gli altri ma che per se stessa non indulge a disattenzioni, a errori di comportamento. Chi è aristocratico nell'animo e nei modi non prede la consapevolezza del proprio stile e la coscienza della propria dignità.
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Hai descritto te stessa con una frase asciutta e lapidaria: «La mia vita è una storia di parole pensate». Tutta la tua vita è stata dedicata alle parole, che fossero scritte o parlate erano sempre parole "pensate". Che significa pensate? Significa che non erano mai parole pronunciate a caso, di fretta, poco ponderate: erano sempre parole meditate. Ciò vale tanto per le tue opere letterarie quanto per le tue conversazioni. Così come non scrivevi con disattenzione nemmeno parlavi con superficialità. Ogni parola aveva un peso, un significato, una ragione. Nella sintetica frase autobiografica si ritrova il commento del ritratto fotografico; le due immagini di te stessa sono complementari; si integrano e chiariscono a vicenda.   
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Non sei solo una brava scrittrice; sei anche una profonda pensatrice. I suoi testi contengono riflessioni acute e penetranti; e denotano in te una solida visione etica. Pur possedendo e custodendo in te valori certi e stabili ciò non ti impediva di essere aperta alle varie manifestazioni della vita, anche alle più ostiche, e di guardare il mondo, anche il meno roseo, senza astio né malevolenza; piuttosto con curiosità e forzo di comprensione. Eri abbastanza sicura di te per poter simpatizzare con persone e con mentalità che erano diverse dalle tue. Pur essendo donna moderna, libera, emancipata, conservavi e lasciavi intuire la profonda impronta di una tradizione famigliare sana ed onesta, mostrarvi il retaggio di un ambiente serio e colto. Frequentavi artisti ed intellettuali, ma non ti sei mai atteggiata né ad artista né ad intellettuale. Mai ha rinunciato alla tua immagine di signora ironica e nello stesso tempo piena di dignità; austera e nello stesso tempo aperta al folclore del mondo "bohèmien". Mai hai perso il tuo stile di persona corretta, il tuo portamento di dama; la tua figura di signora non nelle apparenze ma nello spirito.
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In un moneto di grande confusione come quello che stiamo passando non è esagerato dire che possiamo considerarti un “maestro”; una figura di riferimento solida ed equilibrata; una persona capace di dare indicazioni serene e pacate; una amica leale.
Come succede quando si ha la fortuna di frequentare persone di statura non comune, persone speciali, al momento in cui esse ci lasciano sorgono rimorsi, pentimenti, dispiaceri per quanto si è perso e non sarà più possibile condividere insieme. Il valore di una persona è misurato dalla intensità del dolore che si prova sapendo di non poterla più incontrare, di non poter più ricevere da lei quella ricchezza di consigli, di suggerimenti, di aiuti di cui ci faceva dono e per cui le saremo sempre grati.
Cara Grazia, questa lettera è un tentativo di sentirti ancora vicina, di continuare ancora  conversazioni con te. Jacopo
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CLAUDIA AZZOLA

Claudia Azzola


SCALE

Nelle dicerie di uomini scaltri,
ho letto le mene degli astuti,
non sono bastate a servire il mondo,
servire il muto, il senza parola,
lo scampato, su scale confuse,
abbagliato da un sole grosso:
eravamo gli antichi, stagliati
su terso campo visivo:
sopravvissuti, sogniamo di niente.
Eravamo qui a completare
il mondo, costruire natura e arte,
nel fulgido secolo c’erano i minerali,
carbone, uranio, salgemma,
con la materia si viene a patti;
siamo gli antichi, con parole gravi
velato pianto, scale musicali al canto;
sguardo d’intesa…
cara moglie vengo a casa
per fare niente, avevo chiesto di servire.
L’uomo vuole stare nel mondo non stare
come il bue nella stalla, pietire un cibo
o una mannaia. Se non ci fanno fare la storia.

***
Pier Paolo Pasolini non è (più) qui: 
'viaggio' nei luoghi della sua gioventù
di Giorgio Quaglia

Per ricordare i quarantanni della scomparsa del poeta 
bolognese-friulano, “Odissea” ospita questo ricco e prezioso viaggio 
di Giorgio Quaglia, sui luoghi Pasoliniani.

Non so bene per quali inconsce ragioni abbia lasciato trascorrere mesi prima di scrivere le presenti impressioni su quella che avevo da sempre considerato la visita più desiderata della mia vita, che mi ha portato soltanto all’inizio del mese di agosto 2012 in territorio friulano, a Casarsa, paese natale della madre di Pier Paolo Pasolini, dove trascorse parte della giovinezza e dove è sepolto; per anni pensata, ventilata e sempre rinviata, con un velo di sottile e angosciante amarezza, la stessa ogni volta provata nel rapportarmi al ricordo lacerante della sua brutale uccisione, al “fascino esistenziale” che mi coinvolse e accompagnò (e ancora accompagna) insieme a una moltitudine di altri estimatori, nonché la crescente “lontananza” fisica dopo che mi ero ripromesso di conoscerlo, senza però essere riuscito a mettere in pratica tale proposito. Sì, dopo il ravvivarsi della vecchia “scintilla” attraverso il blog che nel 2009 prese il nome appunto dell’omonima rivista edita in Val d’Ossola dal Circolo culturale intestato al Poeta subito dopo la sua scomparsa,  è stata forse la necessità di una “conoscenza” diretta, di un “contatto”  -pur se post morte- a mantenere attiva la volontà  di “chiudere” in modo simbolico un percorso iniziato quella tragica notte fra l’uno e il due novembre del 1975; mentre tale volontà ha potuto infine concretizzarsi grazie al sensibile impegno di una persona molto speciale.
Siamo così a Casarsa della Delizia e il pensiero eccitante dell’itinerario prospettato per telefono dalla cortese Angela Felice, interpellata in precedenza come direttrice del locale “Centro studi” intestato allo scrittore (edificio intravisto sulla via per raggiungere il vicino albergo), impregna il tempo serale di questa calda giornata friulana. L’incontro con lei è previsto prima di cena,  quando dopo le presentazioni e non molte parole (le sue di marcata dolcezza fonetica, in sintonia con l’insieme dell’esile figura),  l’imbarazzo iniziale si scioglie nella famigliare percezione di una chiara “sintonia” nel ricordare opere e vita di Pasolini, in particolare per le anticipazioni su quanto ci avrebbe poi accompagnato a vedere. “Domani mattina andate a visitare il cimitero, entrando a sinistra ad una decina di metri contro il muro di recinzione troverete subito la tomba di Pier Paolo con la mamma Susanna Colussi;  quasi di fronte vi è quella della zia Giannina e poi quella del padre Carlo Alberto, mentre sul lato destro è sepolto il fratello partigiano Guido. Dopo venite al Centro, io vi aspetto là”.

La casa materna. Casa Colussi

La notte, le parole di Angela -con quel “la tomba di Pier Paolo…”-, il suono delle campane che battono le ore (immutate nelle epoche e nella tradizione), insieme all’atmosfera del posto, impediscono al sonno richiesto dalla stanchezza del lungo viaggio di cogliermi presto. Non ero, in un sogno, così vicino alla ‘morte’ dell’intellettuale che tanto spazio aveva occupato e occupava nel mio cuore, che aveva trasformato buona parte della mia esistenza in una continua, ossessiva “lotta personale”, ma ero davvero là a poche centinaia di metri dalle sue spoglie, a poche ore da quell’"appuntamento” tanto agognato e dagli esiti intimi poco prevedibili. I film visti, i libri letti, gli innumerevoli pensieri -passati e più recenti-, le discussioni infinite, gli articoli (anche miei) che lo avevano riguardato, tutta l’amalgama dei sentimenti di “religioso affetto” verso la sua persona e di totale adesione nei confronti delle sue nette prese di posizioni, si stavano concentrando in quel poco lasso di tempo che ci separava dall’alba, forse in un ‘bisogno’ profondo di placare la mia rinnovata inquietudine, riscattando così -quasi in un reciproco ‘perdono’- una mancata (e ora impossibile) diretta “conoscenza”.
Il cimitero è come altri, non tanto grande e vi si accede attraverso un viale di cipressi da percorrere in auto; poi, a lato dell’ingresso, una targa indica come raggiungere la tomba più conosciuta e importante; sono pochi passi che fanno salire l’emozione quasi fino alle lacrime però trattenute alla vista del boschetto che, adiacente il muro di recinzione,  sovrasta due quadrati di marmo bianco -posati a terra  fra i ciottoli e bordati da un’aiuola di minuscole piantine- con le scritte: “PIER PAOLO PASOLINI” e sotto fra parentesi le date “1922-75” (quella di destra) e “SUSANNA COLUSSI, VED. PASOLINI, (1891-81)” a sinistra,  mentre sassolini, rametti o fiori secchi e bigliettini sono sparsi sulla lastra in particolare di Pier Paolo. Il tutto infatti, oltre al senso di ‘umiltà’ e ‘semplicità’ voluto -come verremo a sapere in seguito- dal progettista in sintonia con le personalità dei defunti e l’amore sconfinato che legava madre e figlio, dà un’idea di trasandatezza e quasi di “abbandono”, con gli arbusti di alloro e di gelsomino rampicante dietro sul muro  cresciuti a dismisura e poco curati e svariato fogliame secco (tanto che l’impulso, poi soddisfatto, è stato quello di fare un po’ di sommaria pulizia). Immaginando il lungo elenco di personalità e di gente comune non solo italiane che hanno sostato in quel luogo, in preghiera o in meditazione, nonostante la profonda delusione ‘visiva’ la commozione rimane forte insieme al bisogno di un intimo “dialogo”.

La tomba di Pasolini a Casarsa

Sono quasi a contatto con i tuoi ‘resti’, diversi, ma non nella loro essenza devastata, dal corpo martoriato che fu scoperto la mattina di quel lontano (troppo lontano!) due novembre millenovecentosettantacinque e vorrei poter entrare in sintonia almeno con il ‘senso’ che ha avuto la tua morte sulla quale molti ancora s-parlano o continuano con ossessiva inutilità ed evidente pretesto a voler indagare. E’ la tua inesistenza che ha pesato in modo crescente nei decenni di fronte ad un Paese e a un Popolo “…degenerati, ridicoli, mostruosi e criminali”, è il vuoto abissale, assoluto e incolmabile determinato dalla tua scomparsa ad aver lacerato le coscienze pulite e libere. Perché nessuno ha saputo, potuto o voluto raccogliere la tua eredità intellettuale per scongiurare l’avverarsi di tante annunciate ‘tragedie’ sociali e culturali, di altre ‘stragi’? Ahi! se fossi riuscito, con più coraggio, a superare l’illusione dei miei lontani “poetici” propositi, la rabbia di ritrovarmi inerme, incapace e -forse- solo; sarebbe stato lo stesso tutto vano, lo so, lo sento (non ha lasciato scampo  e ha coinvolto tutti la “tua” mutazione antropologica), ma almeno oggi, di fronte al marmo “silenzioso e indifferente” che ti ricopre, mi sentirei meno affranto dal rimorso. Già una volta, sul litorale di Ostia, a cercare il luogo dove lo scempio fu compiuto, mi dovetti “consolare” con una insolita e inaspettata stretta di mano con un vecchio cameriere che nel ‘suo’ locale a volte t’aveva servito.

Pasolini al Circolo Turati di Milano nel 1972.
Foto di Letizia Battaglia
Dobbiamo tornare in paese, Angela ci aspetta al ‘Centro’, vi sono ancora tante cose da vedere  e un po’ di foto ci sono già, unite al proposito di rinnovare la visita, quando la tensione dell’impatto iniziale sarà scemata nella consapevolezza in fondo gioiosa di aver soddisfatto un lungo e sofferto desiderio, pur se in modo parziale. “Casa Colussi” (dove era nata mamma Susanna) è parte integrante del “Centro culturale” e sono proprio quei locali che credo facciano di più sentire e “vivere” -con meno asetticità  percepita in altre sale- la storia e le vicende umane dei ‘personaggi’ che le hanno abitate, compreso quel legame quasi morboso di amore fra Pier Paolo e colei che segnerà in senso profondo (e positivo) tutta la sua esistenza. Poter toccare quei mobili, una scrivania in particolare, che facevano parte della quotidianità (e del lavoro-passione,  più concentrato nell’ala dell’edificio aggiunto apposta nel 1946 per ospitarvi “l’Academiuta di Lenga Furlana”, una sorta di rustico ‘salotto letterario’ che riuniva poeti e scrittori), supera poi la sensazione di vicinanza che pur danno le innumerevoli fotografie famigliari e giovanili o quelle sul set di alcuni film (è in visione, per giunta, la mostra di 70 memorabili scatti del fotografo Roberto Villa durante la lavorazione de “Il fiore delle Mille e una notte”), i documenti e le lettere autografi, i dipinti, altri oggetti. Nella piccola specifica biblioteca del “Centro”, gli innumerevoli testi critici o fotografici e le tesi di laurea che riguardano lo scrittore, nonché le copie delle sue opere letterarie e cinematografiche dimostrano anche a colpo d’occhio il ‘peso’ e la ‘forza’ intellettuali avute ed esercitate da Pasolini e la frenesia di poter sfogliare numerosi libri sconosciuti o introvabili, fa il paio con la sensazione crescente di sentire un po’ meno ‘esclusivo’ dentro di me lo “spirito”  di Pier Paolo, come se quell’ufficialità così consistente, incisiva e completa -accrescendo in modo esponenziale la grandezza “collettiva” della sua figura- rendesse insignificante la mia personale passione per lui, una certa presunta simbiosi, se non il mio implicito e forte legame ideale con un modo critico originale ed esclusivo di rapportarsi alla realtà che in parte  ero e sono convinto appartenesse anche a me.
Sarà la visita alla vicina chiesetta di Santa Croce, …arricchita nella facciata -come recita il depliant illustrativo degli “itinerari pasoliniani”- dagli archetti a sesto acuto sotto gronda, dalla porta rettangolare inquadrata in pietra con timpano interrotto e dall’occhio circolare… e di cui Angela mi consegnerà le chiavi per una simbolica e gradita ‘apertura’, sarà questa visita –dicevo- a restituirmi la solita ‘dimensione’ di Pier Paolo, anche nella sua (e nostra) solitudine; qui, infatti, si svolsero il 6 Novembre 1975 le sue esequie “private”, alla presenza di famigliari, amici e cittadini del luogo; ad accoglierlo ed a tenerne l’orazione funebre, un altro significativo poeta friulano, padre David Maria Turoldo. Quel giorno Pasolini era tornato li, dove tante volte aveva ammirato gli affreschi del presbiterio poligonale realizzati da  Pomponio Amalteo e al cospetto di quella famosa lapide che a trent’anni dall’invasione dei turchi del 1499, rendeva grazia alla salvezza di Casarsa risparmiata dalle loro devastazioni, lapide che nel 1944 (con evidente trasposizione con l’occupazione nazista e la Resistenza) avrebbe ispirato al suo illustre concittadino ora ritornato per sempre il dramma teatrale in dialetto “I Turcs tal Friuli”.
Giorgio Quaglia a Lecce

Immagino la tua bara, vicino, e penso a quanti, lontano da questo luogo ‘protettivo’ -nella Roma capitale, fra quella “massa omologata”- ti hanno odiato (forse anche fino al punto di massacrarti), deridendo la tua ‘diversità’ totale, cercando di osteggiare il tuo lavoro, di isolare le tue chiare posizioni, di sminuire le tue invettive profetiche, di smorzare il tuo amore per la verità e la vita. Nessuno, credo, avrebbe resistito e perseverato come te al fango e all’avversione pubblica quotidiani, alle espressioni vergognose di un Potere e di un Paese (il "Palazzo"), immagine riflessa e complementare del suo Popolo (un tempo da te amato), nessuno avrebbe assunto sulla sua persona il compito arduo di rappresentare uno “strumento” di rivoluzione culturale e intellettuale così esposto e bersagliato (anche fra la cerchia delle ‘amicizie’ letterarie). Mi sono sempre chiesto e mi chiedo, come molti, quale sarebbe stata l’evoluzione del tuo pensiero, che tipo di analisi negli anni avrebbe provocato in te (con la solita lucidità?) la situazione degenerativa vissuta dall’Italia (e dal mondo) e come, la stessa  -nelle sue varie rappresentanze istituzionali, politiche e artistiche-  avrebbe continuato a reagire, senza la tua morte, con la tua ‘presenza’, i tuoi interventi, le tue opere. Domanda di retorica amarezza, lo so, ma le risposte -almeno per quanto mi riguarda- non hanno mai lasciano spazio ad alcuna incertezza: implacabile e feroce sarebbe apparso ancor di più il tuo “solitario e angosciante grido” contro ciò che già allora stava producendo la televisione che, scrivevi: “…diventerà ancora più potente e la violenza del suo bombardamento ideologico non avrà più limiti. La forma di vita -sotto culturale, qualunquista e volgare- descritta e imposta dalla televisione, non avrà più alternative”; in quanto al potere della ‘nomenclatura’ di ogni grado e settore invece, è più semplice dedurre che di pari passo con la sua terribile involuzione etico-morale (criminale), ti avrebbe ritenuto col tempo del tutto ‘insopportabile’, cercando di negarti ogni spazio di espressione libera, fino ad arrivare poi (è presumibile attraverso la Mafia) ad organizzare in grande e non  frainteso stile la tua eliminazione fisica. Quella reale, la morte in senso storico, ti aveva portato qui, nella chiesetta di Santa Croce a Casarsa dove io -dopo quarantasette anni  e fra le più contrastanti reazioni emotive- stavo cercando ancora di “sentirti” e “parlarti”.
E’ diverso, ma lo stesso interessante ed evocativo, l’impatto con un altro piccolo luogo di culto, Sant’Antonio Abate, dove alcuni notevoli affreschi del XIV secolo, coperti da intonaco, furono  riportati alla luce proprio da Pasolini e dai suoi allievi; abbiamo infatti raggiunto la località periferica Versutta dove lo scrittore era dovuto sfollare nel 1944 con la madre in seguito al pericolo della distruttiva ritirata tedesca e li, in un casolare, vengono organizzate-  e dureranno peraltro fino al 1947 -lezioni scolastiche per i ragazzini che non possono allontanarsi dal luogo (di sicuro molto cambiato da allora…[”gelsi in grande quantità, e vigne nei (…) dei campi. Il frumento, la segale e, soprattutto, il granoturco, crescono abbondanti, nei piccoli campi, separati da un gran numero di rogge, roggette, fossati. A Febbraio, quando nessuna foglia fa ombra, la campagna pare infinita – come nelle notti di luna -; arriva presso le montagne e, ai piedi di queste si vedono, come file di perline, i paesini del Friuli…”], ma l’atmosfera contadina incontaminata di cui un giovane maestro-poeta si inebriava e ne veniva ispirato, è percepibile lo stesso fra il verde di prati e coltivazioni e la vetustà di alcuni edifici). Di tutto questo e di quel particolare periodo di “costrizione” territoriale -peraltro non improvvisa se Pasolini già nell’autunno del 1943 aveva affittato li una camera presso la famiglia Bazzana-, non so se la minuta fontana a parallelepipedo posta nella piazzetta a ridosso della chiesa, risistemata dall’architetto Paolo De Rocco con i sassi del Tagliamento e vecchi mattoni, sia la “rappresentazione” oppure se (come nelle intenzioni dichiarate) costituisca solo il simbolo della poesia pasoliniana, portando incise nella parte superiore e sui due fronti le scritte di due sue opere, ossia “gioventù -la meglio- la nuova”; una cosa è certa, lo zampillo di acqua da cui voglio bere e bevo, questo si come gesto simbolico, è fresca e buona come del resto tutte le ‘rogge’ di cui era ricca la campagna di Casarsa e di cui lo stesso Pasolini ebbe a lamentarsi per la loro progressiva scomparsa.
Si è fatto tardi per il pranzo previsto in un accogliente e particolare ristorante nell’incantevole piazzetta di Valvasone (“…la gioia fu completa davanti ai portici a sesto acuto dell’annosa piazza…”) a  ridosso della sua torre suggestiva (“…chi mi assicura che io non abbia gridato davanti al castello?...”), come tutto quel borgo dove il ‘silenzio’ ti avvolge fino a “fermare”, insieme alla tipologia di numerose costruzioni (di cui quella con la vecchia ruota per macinare mossa ancora dall’acqua ne rappresenta un esempio prezioso), il trascorrere del tempo  (“…Con l’andar del tempo questo paese divenne uno dei luoghi sacri del mio grande lucus friulano, e spesso tornavo a visitarlo..."); tempo che invece di fatto è incalzante e sta consumando in fretta la nostra visita; una nuova sosta al cimitero, riafferma le sensazioni precedenti, senza aggiungere o togliere né domande né risposte al mio “dialogo” (in realtà monologo) attraverso cui a “contatto” con i resti di Pier Paolo avrei voluto e voglio capire  qualcosa di più e meglio su...
E’ tempo di salutare chi, in questi due giorni, ha svolto con diligenza il suo compito professionale di “guida” alla scoperta dei luoghi che furono cari allo scrittore e che ‘vivono’ anche con l’esposizione e la valorizzazione delle sue opere, dei suoi oggetti, della sua ‘presenza’ giovanile (non basterebbe il vino a rendere conosciuta al mondo Casarsa della Delizia!); da parecchio ormai c’è il “Centro studi” (che sforna svariate iniziative all’anno) ed è alla medesima responsabile, ad Angela che -nel commiato- mi piacerebbe confessare il vero motivo della mia ‘visita’, l’intimo desiderio avuto di “incontrare” Pier Paolo, in un certo senso di “recuperare” gli anni perduti nell’inerzia o nell’indifferenza, di superare i rimorsi e riuscire a “riscattare” la sua morte; oppure che non so ancora bene cosa “riporterò” con me e in me, di nuovo e di diverso, tornando a casa, nelle mie “sperdute e becere” montagne ossolane, né se un po’ del senso di sconforto, di delusione, di stanchezza (di fronte al calviniano “inferno quotidiano del mondo e dei viventi”) sia rimasto qua dove appunto dovrebbe sentirsi (e io avrei dovuto sentire) di più quella sua ‘presenza’ di passione e di lotta; ma non riesco a spiegare più nulla ad Angela, posso soltanto abbracciarla e dirle grazie.
Mi sto chiedendo, uscendo dal “Centro”, se nonostante i reciproci “arrivederci” e buoni propositi  tornerò ancora in questi luoghi, a Casarsa, a “cercare” qualcosa di Pasolini, a  “parlare” ancora con lui, a “interrogarlo”; le “risposte” (che in fondo mi sono dato) durante la ‘visita’ comunque positiva e intensa, non sono  esaurienti, permane una delusione di fondo ma ora non ne comprendo le ragioni che soltanto dopo giorni e giorni percepirò con chiarezza, anche se una frase mi frulla subito nella testa mentre l’auto percorre la strada che porta fuori dal paese, in direzione Udine. Ora ho capito e credo che l’ufficialità (di qualunque natura o aspetto) abbia un peso molto relativo nel cercare di rendere “attuale” -dunque applicabile- il metodo analitico sociologico (marxista, per la sua visione) di Pier Paolo nel giudicare la realtà e i fenomeni e non soltanto perché la massa (nonostante Internet) è quasi del tutto esclusa da qualsiasi proposito o ‘messaggio educativo’ estrapolato o dedotto dalle sue opere e dalle sue posizioni; peraltro, va ribadito, a livello di élite  letteraria e giornalistica nessuno lo ha saputo e lo sa “imitare” in questo e non è proprio sufficiente che si allarghi soltanto -appunto attraverso le iniziative e la conoscenza, a meno ché non sia avviato un serio programma scolastico- la platea di coloro che (da una parte pure in modo pretestuoso, per interesse, per ‘moda’ o ambizione-vanto) lo seguono, lo studiano e lo “amano” (in modo paradossale cresciuta  proporzionalmente al peggioramento generale del Paese e, in particolare -come conferma delle vecchie “denunce corsare”-, della sua informazione in primis televisiva).

Pasolini sul set de "Il fiore delle mille e una notte"
 Foto di Roberto Villa

 Il “messaggio” reale di Pasolini, il suo “spirito” libero, “vive” e “aleggia” dunque soprattutto dove -in ogni parte nel mondo- esistono esseri umani reietti e sfruttati, dove la potenza distruttrice e avida del “capitale” tiene soggiogati interi popoli, dove neppure il sentimento della “pietas” rende dignità sociale a milioni di migranti, esuli o rifugiati privi di “cittadinanza”, dove la discriminazione etnica, religiosa e sessuale è pretesto doloroso di dominio, dove la macchina terribile e costosa delle guerre (preparate, volute, sostenute o attuate da Paesi “civili”, compreso il nostro), mietono nell’indifferenza vittime e devastazioni immani; in Italia invece, “vive” e “aleggia” dove il senso religioso della vita non è stato ancora infangato dal potere temporale dei vertici della Chiesa cattolica (immobile e arretrata nella Storia, insieme ai suoi fedeli); dove l’etica e la morale politico-economica non hanno subito l’influenza penosa e degradante della “classe dirigente” finanziaria, amministrativa e istituzionale di questi decenni (in collusione o in complicità con le varie Mafie); dove l’opinione e le idee non si formano attraverso la struttura indecente e volgare dell’in-formazione soprattutto televisiva (di cui purtroppo si avvale ormai anche la Rete informatica); dove le parole accettazione, fratellanza, ascolto, solidarietà, verità non sono sostituite dalla paura, dai privilegi, dall’indifferenza, dall’arroganza, dall’ipocrisia; infine dove la Poesiacome sottile amorosa traccia, /nella storia unisce/ i secoli del nostro mondo”.  Qui, soltanto qui, “vive” e occorre far “vivere” Pasolini, ed è questa sua “immagine universale”, questo senso del “legame” con lui che, attraverso il viaggio in Friuli, si sono rinnovati e rafforzati in me.
Ecco perché, lasciando Casarsa, mi arrovellavo con questa frase: “Pier Paolo non è (più) qui”.

Nota redazionale
Nell'agosto del 2014 l'autore, in occasione del 50esimo del film "Il Vangelo secondo Matteo" e proseguendo nei suoi 'itinerari pasoliniani', è stato in Puglia e Basilicata. Il 30.12.2014 sul blog "pqlascintilla" è stato pubblicato il resoconto di quel viaggio dal titolo "A Matera il mio 'addio' a Pier Paolo Pasolini (e alla 'consapevolezza' umana)", in cui fra l'altro è annunciata la decisione di non scrivere mai più su di lui anche: "...per spegnere il dubbio ormai assillante di essere trascinato --insieme al 'poeta delle Ceneri di Gramsci' e in coincidenza con il quarantesimo anniversario della sua fine-  nella tragica 'normalità' di uno status quo immutabile in cui l'uomo moderno, con la vana ricercata 'consapevolezza' di sé, di tutto e su tutto e anche nella sua vantata individualità (pur di opposizione o contrasto che sia), ne rappresenta in sostanza una conferma e una continuità (collettive) essenziali".


Giorgio Quaglia

***
CLAUDIO  ZANINI  
Cronache del limbo

Claudio Zanini

 Cronache del Limbo, dal ritmo melanconico e graziosamente negativo, ti accompagna, ti avvolge con spin(t)e volutamente contrastanti. Credo sia quasi esplicito il riferimento a Kafka, ai suoi (e tuoi) “desolati ambiti d’attesa”, all’interrogazione  senza risposta. Ma tutta tua personale è questa fluttuazione nel vuoto, nel gelo e immobilità del tempo. Anche lo scivolare della riduzione, dello svuotamento, della contrapposizione: c’è il guardiano, ma è uno di noi, c’è il sole, la luce, il suono, la voce, la stanza, ma abbassati, spenti, ridotti a fantasmi, a superflui filamenti biancastri. Le sedie non hanno sedenti, gli angeli non hanno ali, i corpi non hanno corporeità, il peso non ha peso, il bianco non è colore. Anzi, a volte, è una minaccia, il camice di contenzione. Ad ogni nominazione segue la sua negazione. Ma la nominazione è importante quanto la sua negazione, il vuoto mantiene l’impronta di ciò che manca, rinnovando di continuo il desiderio dell’immagine, anche lei in via di sparizione, il pensiero, il soffio di quella mancanza. Lo stare è sempre un esilio, una mancanza, anch’essa precaria, ma…. Un Limbo di macerie, ma anche una perpetua nostalgia del mancante. (Giorgio Colombo)



                             1
Ospitati, siamo, come in un immenso ospedale
da cui si potrebbe uscire solo per una feria breve.
Ma di noi nessuno esce, poiché sulla soglia
una strana nostalgia di stanze vuote, d’echi
d’un silente deambulare, insinua un torpore vago,
quasi un’incertezza che induce a rimandare.

In realtà, è il timore dell’insopportabile clamore
ed’un lucore lancinante e d’un fracasso d’ossa
nella nostra testa, qui lontano, attutite
e, sebbene tanto ci appartenga, indolore (1).

1) (Si mettono in scena effimere catastrofi
a simular dolore, qui, dove il dolore
è scialbo, albuminoso, più una sensazione
di vuoto che dolore veritiero. Nell’anima
lascia solamente rimarginabili abrasioni ma,
pensate! indelebili tracce collose sulle dita.)

2
Niente d’irreparabile, in questa quieta attesa;
è un luogo d'aria persa, di momentanea resa.
Ciondoliamo il capo nell'ombra della sera
perduto lo sguardo negli occhi del vicino.
L’un l'altro accanto ci stendiamo, tarda è l'ora,
la luce tersa si scolora in fuliggine sospesa.
una cosa inquieta, tuttavia: è l'elusione,
sempre presente, alla domanda informulata
ma fissa nella mente: perché siamo qui?
                                   
 4
Eppure, questi desolati ambiti d’attesa
dove il sole disegna in pallidi riquadri
sul soffitto (1) scialbi riverberi di luce,
nel loro esangue stato di non-luogo
hanno qualcosa di toccante, di pietoso:
l’esitare commovente che rivela
agli sguardi di coloro in vana attesa,
la precaria condizione creaturale
- cioè l’attesa d’un ignoto inesplicabile -
e la domanda muta perché tutto accada,
senza requie e per sempre ripetuto.

1)(Qui, il sole, privo in tutto di calore,
lo si vede in basso, dagli ampi finestroni,
sporgendosi nel vuoto con cautela timorosa:
incolore, affiora sotto l’orizzonte)

S’è udito un rumore di ferraglia, all’ora sesta (1),
come se autocarri scaricassero rottami a tonnellate,
ma nulla s’era visto oltre le tremule vetrate
sebbene occhi stanchi scrutassero l’abisso.
Solo un vibrare sommesso alle accostate labbra,
e un batter di denti crudo, ma null’altro si sentiva,
laddove, spegnendosi, rotolava il clamore sordo
nel baratro remoto d’impercepibili silenzi.

1)(qui c’è un quadrante, da tempo immemorabile
appeso in alto, fissa la lancetta sull’ora sesta.
Oscilla al soffio d’arcane bore, segna un’ora
sempre quella, eppure dicono funzioni ancora.

Incolore, lo si scorge in basso, il sole.
Sommerso dalla marea d’onda smisurata
del sottostante cielo, palpita ma non si muove.
In alto oscilla ma non si muove la lancetta nera
fissa, seppur tremante, sull’ora sesta)

56
Riflette, il sole, un pallore albuminoso
nell’abisso remoto sotto l’orizzonte.
Siamo ad altezze incomparabili,
qui regna un gelo boreale. Attenti,
ne vediamo la crosticina a pelo d’acqua
spezzarsi in cristalli dal bordo acuminato,
ma noi non ne soffriamo; ai visi cerei,
a mani e nasi freddi siamo abituati
il nostro sangue è poco più che tiepido,
le labbra hanno un marmoreo lor pallore.
Del gelo non abbiamo alcun timore
nel suo nitore s’assopisce la memoria,
rappresa in esangui nostalgie.

Il bianco è dominante
14
Il bianco è dominante. Bianchi
e larghi sono i mal stirati camici;
certuni, allacciati stretti ai polsi
s’abbottonan sulla schiena
e un orlo a giorno li decora,
con schiva discrezione, spesso ai bordi.

Il bianco è dominante, questo è certo.
Il rosso è proibito, stordisce; se appare
ci si premono alle tempie i palmi.
Pallido, il giallo è appena tollerato
sebbene porti sovente alla demenza;
il nero, poi, è innominabile e, a nessuno,
mai, viene l’estro di evocarlo.
Il bianco sopra ogni cosa è dominante. 
Siamo nel Limbo, non altrove.

18
Il bianco non permette nascondigli,
minime suture d’ombra non concede
né impercettibile piega d’orizzonte, 
alle esangui palpebre socchiuse,
 oh, infinite son le gradazioni
dal bianco al bianco, e così ci si avventura,
senza lasciar tracce, senza ricordare
l’ansia indicibile nell’attraversamento.

Corpi

31
Ammetterlo è spiacevole, ma i nostri corpi
qui, non sono veri corpi. Del pallore esangue
e della camminata inerte e lieve s’è già detto
e parimenti dell’epidermide traslucida.
L’apparenza, offuscata appena, è incerta,
umana si direbbe, ma qualcosa non funziona.
La carne è come un gessoso marzapane
non del tutto assiderato; se si ferisce
emette scaglie e inodore siero, lattescente.
Solo gli albini sono, qui, a loro perfetto agio
creature soavi, anemiche e abbagliate.

38
Screziate venature di foglia ha la mano
la palma è liscia, levigata morbidezza;
se si volge, è come dorso di creatura antica:
sotto la pelle tesa, affiorar d’ossute nocche.
Da un lato custodisce lo sfiorare di carezze,
capovolta, può serrarsi a pugno, e poi colpire,
oppure divaricar due dita, indice e medio:
nell’unico gioco qui tacitamente consentito.

42
L’occhio è di color ceruleo chiaro.
La luce qui, indiretta e mai vivace,
schiarisce l’iride con glauche sfumature;
tuttavia qualcuno può vantare
uno sguardo di cilestrina trasparenza.
Ha quasi sempre le palpebre socchiuse
in un dormiveglia di penombre azzurre.

 Cose che si pensano nel Limbo

 46
L’illimitato è enorme, curvo vuoto
su cui tracciamo delle croci, barre,
segni d’interpunzione, parentesi quadrate.
Sulla pagina bianca, parole ansiose,
di qualche vocale l’ondulazione,
leggeri nastri, sillabe stridenti.
Poi, silenzio. Rimane, tra le dita,
qualcosa che, appena silente oscilla,
non l’illimitato, ma una sua scheggia
luminescente, che l’animo trafigge.     

47
È forse eterno, l’immenso, se alita
sulle dita di noi che allineiamo bianchi
segnali di tempo, e dell’immenso
ne facciamo bande immacolate
come di lino, e lasciarle vorremmo
così, sventolare libere nell’aria?
ma ci assale un timore, un’ansia,
un’esigenza classificatoria, che
s’assopisce numerando: uno, due, tre…
e diviene, questo sventolio, un ronzare
sordo, che l’orecchio appena sfiora.

53
È uno spazio vasto, vitreo, il vuoto,
cavo luogo di mirabile trasparenza,
curvata immensità di luce che
ferisce all’improvviso, e non soccorre
delle palpebre la trepida penombra
né lo sguardo schermato con la mano.
Qui, la meridiana non vacilla, fissa
non produce linea d’ombra alcuna
e, senza crepitare, arde silenziosa.

 64
Lo si deve ammettere a malincuore:
è partecipe, il Limbo, suo malgrado
d’una metafisica minore, irrilevante.
Lo si direbbe oscillare incardinato
in un’intercapedine spaziotemporale
d’obliquità sottile e microscopica.
Apatico com’è, a nulla allude.

***
LUIGI BIANCO


La nuova effervescente, vibrante, indignata, tenera, 
raccolta poetica di Luigi Bianco porta il titolo di "77". 
Settantasette come la sua età. Dentro c'è tutto quanto ci riguarda
come uomini di questo tempo disperato, e come esseri umani 
dotati di sentimenti unici e irripetibili. 
Il tutto espresso con la solita maestrìa e l'abilità da alchimista della parola.

non parlatemi più
del sangue terrorista
non parlatemi più
di guerre religiose
non parlatemi più
di paure ancestrali
non parlatemi più
dell'occidente
vittima indifesa
non parlatemi più
di civiltà in scontro
millenario
con chi non ha niente
VOI
vili gendarmi
i un mondo disfatto
non potete più
incidere
parole soltanto finte
sulla mia pelle in cancrena
di poeta
IO SO
come sa I'occidente
cinico predatore
il libero
unico
assoluto
mercato del dio denaro
e delle armi        
E' SEMPRE       
libertà di uccidere    
lo sanno anche
quelle madri e quei padri
in eresia islamica
che mandano a morire
i loro vitelli innocenti
nessuno è innocente
I'innocenza
si è perduta per sempre
nell'osanna pop
del mondo globale
il terrorista                    
    è anche figlio
    del protagonismo   
    in luce di piacere
offerto                               
dalle tv
    e dai facebook
    di pronto utile uso                   
offerto                                    
    all'ego smisurato
    di uomini snaturati
     un'eredit
à
lasciata
in cinica profezia
    dall'antico genio                     
miliardario                            
    di zio andy
    se non guarisce
del virus del pop
l' umanità
è senza destino
e la strage terrorista
sarà la peste
di questi anni
con troppi
protagonisti
in esaltazione mortale
quando la vita
vale una mela marcia
e quindici minuti
di gloria
in egoico furore
ne cantano
le accecanti storie
solo la poesia
e la cultura
possono aprire
gli occhi
dell' umile perdono
del dono
che non chiede mai
un prezzo
e una vita di scambio
così vuole
il mio sentire
anarchico
in flusso migratorio
senza storia
e doveri
di oggi e di ieri
recipere
pere
di gusto carnale
e sollevare la carne
per un bagno di sole
soli
o con le rose rosse
della verginità
l’amicizia
non ha contorni
e mezze tinte
è chiara netta
disinteressata
o non è
forse
il vestito stretto
e mai largo
lascia al margine
margini di nomi
e preclusioni
chi si dona
ha la forza   
dell'assoluto
in esclusione
la tenerezza
è riserva

di canarini

***
NECESSITÀ DEGLI AFORISTI
di Mauro Ferrari
Mauro Ferrari

Credo che per la natura stessa dell’aforisma la quantità dei pezzi non dia combustibile alla comprensione di quella che si potrebbe definire la visione del mondo dell’autore, o la sua filosofia. L’aforisma è in fatti frammentario, icastico, sfuggente, ambiguo, esplosivo, corrosivo, e quindi non rimanda a una qualche unità precedente da ricomporre, ma anzi ci mostra la realtà diciamo attraverso occhiali quantistici: è il mondo di Heisenberg e non quello di Laplace; quello di Planck e non quello di Einstein – per non citare Newton.
È indubbio però che emerga alla lettura una atmosfera, una maniera di affrontare le cose e soprattutto di verbalizzare creativamente questa maniera, sicuramente una forma di coesione e forse una coerenza non sistematica – anche se Walt Whitman ha scritto: “Mi contraddico? Ebbene sì. Mi contraddico. Sono vasto, contengo moltitudini” E Wilde: “Non si è mai tanto sinceri come quando si è incoerenti.” L’aforista non è un filosofo, costruttore di sistemi – sembra che sia necessario essere un po’ filosofo per scrivere aforismi intelligenti, ma credo che gli aforisti davvero grandi siano il contrario dei filosofi, costruttori di muri a secco con tanti spazi in mezzo: i muri saranno magari molto belli e solidi, ma il meglio è vedere al di là.
L’abbondanza (e chiaramente mi riferisco più al libro di Roberto Morpurgo, almeno come oggetto edito e tralasciando la mole di aforismi che i due autori possano avere nei cassetti) amplia il terreno di indagine, amplia la mappa ma non ne riduce la scala, ci porta a considerare sempre territori diversi più che soffermarsi a scandagliare con metodo e acribia un limitato territorio. È per questo che abbiamo bisogno di aforisti.
Premesso questo, la filosofia dell’autore, o la sua visione del mondo emergono già da un carotaggio molto parziale: il mondo dell’aforisma è un mondo di frattali, ciascuno dei quali contiene in nuce il tutto, e non c’è fine all’indagine. Il che conduce al punto essenziale: perché leggere un libro di aforismi, pochi per volta, con gusto e in stile da gentleman. Per il piacere della sorpresa, del salto di isotopia, per l’inatteso giro di pensiero che viene mostrato con nonchalance.
Poche parole sul libro poderosissimo di Roberto Morpurgo, in realtà un dittico come dice il titolo e parte di un lavoro più ampio se non sbaglio in quattro volumi. La succitata abbondanza – che contrasta quasi con la necessaria concinnitas del genere – mi sembra indicare un tentativo estremamente ambizioso di inclusività di molteplici branche del sapere, quasi una sorta di tentativo enciclopedico che tiene conto del complesso e ricco bagaglio dell’autore, che è poeta, narratore, aforista e drammaturgo – oltre che tante altre cose. Una sorta di saggio sull’uomo, azzarderei, dato per illuminazioni, carotaggi nei più diversi campi del sapere.
La vena “lirica”, che troviamo non solo in poesia ma anche in buona parte dei racconti di El Djablo (puntoacapo 2012), e che nei lavori teatrali lascia il posto ad atmosfere spesso surreali, qui trova un ambiente ideale: poesia è dichtung, condensazione, cioè la miglior qualità di un aforisma riuscito, anche se qui molti pezzi si dilatano fin quasi a diventare brevi saggi, affondi più meditati e filosoficamente agguerriti. Il teatro poi è inscindibile dall’esposizione – messa in scena, appunto – spesso calcolatamente esibita dello scrittore e dell’autore, e questi aforismi hanno anche una qualità che possiamo dire teatrale, per la vena di distaccata osservazione dei mali umani, condotta in modo mai sprezzante o cinico, mai misantropico ma comunque sempre severo anche nel divertissement della scrittura, che è puntuale, anatomizzante, persino argomentativa e insomma illuministica.


***
DUE NOTE DI ADAM VACCARO SU FONTANELLA
Domande all’Arco teso della Vita
 di Adam Vaccaro

C’è in questo ultimo libro di Luigi Fontanella un nervo teso al racconto, al bisogno di far riemergere figure e squarci di vita, di Tempo. Nervo che comunque è presente in ogni sua raccolta e in tutto il suo percorso di scrittura. Non si tratta di un tempo astratto e generico, o storico, della Storia grande, ma più semplicemente del tempo vissuto da chi scrive. E non è un tempo letterario, teso al tempo perduto, o fatto di roto-lamenti intimistici. È un tempo fatto di carne e vita del Soggetto Storicoreale, che la scrittura fa sentire adiacente al braccio del Soggetto Scrivente e che, per questo, (ci) riguarda e coinvolge tutti.
Ci riguarda il Tempo e la battaglia vitale che comporta, che opera qui e ora rispetto alla misura e al senso del limite che impone e (ci) insegna. È il nucleo centrale dei molteplici sensi di un libro limpido e complesso, anzi, limpido perché complesso. Che critica implicitamente i fumosi esercizi verbali di cui si adorna molta poesia contemporanea. La complessità non ha bisogno di ornamenti superflui, ma di sensi disvelati.
La complessità opera a strati e salti di sensi, quale è la forma di questo libro. Cosa disegna e designa, allora, qui, il termine Adolescenza? E cosa si contrappone all’adolescenza, con l’immagine altrettanto metonimica della Notte, altro polo di sensi indicati dal titolo del libro? L’adolescenza è l’età dei primi cruciali bagliori della formazione di un’identità, in cui cominciamo a riconoscerci grazie alle relazioni con persone e luoghi, qui inscindibilmente congiunti al sole mediterraneo della Salerno in cui l’autore è vissuto negli anni ‘40-50 e fino a tredici anni. L’adolescenza è immagine fusa e stampata nella memoria dell’Autore sotto il sole di quelle estati, entro le quali: “I pomeriggi assolati/ liquefanno il nostro cortile” (p. 25).
Così, l’adolescenza è la luce che abbaglia in quel “piccolo e confuso…Centro del Mondo” (p.63), primogiardino (come lo chiama Claudio Magris) in cui ci disegniamo il mondo (“Il nostro cortile è un campo di battaglia/ piccoli trionfi o cadute nella polvere”, p.37), o in cui scopriamo la “primissima figurazione” del “centro vitale del mondo” (p.64), quale è il sesso e  un eros senza parole, che ci apre all’altro: “Il bacio/ di Anna Pierro, il desiderio/ che esplode improvviso/ nell’afrore estivo” (p.47). Eros e gioia, germinati “nel candore dei miei tredici anni” (p.49), in attimi d’infinito (quali intesi da Platone) che diventano il tabernacolo in cui custodire realtà, immaginazione e memoria.
È un impasto che, tra interno ed esterno, emozioni e relazioni, trasmette una immagine di Autentico, forse illusoria, ma il testo ci dice che non è la Verità che conta, quanto quella in re, nell’incrocio fenomenologico   di esperienze e vite che rimarranno centro vivificante in tutto il nostro percorso successivo. E dico nostro, perché è quello che fa sentire il libro, e che distingue i testi di lettere vive da quelli di lettere morte.  
Rispondono a tale carattere diverse scelte formali, come quelle di indicare con nomi e cognomi le persone citate, togliendole così dall’indistinto, dal mondo di ombre in cui continuano a danzare come in attesa del nostro richiamo, nel tempo che ci è dato, sempre presente e sempre passato: “I miei alleati attendono nell’ombra./…ferma nel tempo” (p.32).
Il Tempo è ovviamente tra i termini ricorrenti, nei vari modi in cui la nostra complessità percettiva e mentale lo vive. Il suo scorrere non è né lineare o a ritmi regolari, né a senso unico, come concepito dall’Io. Vedi a p.31: “In certe Domeniche lente e lunghe/…nel mio percorso a ritroso”, dove la scelta della maiuscola indica l’oltre del consueto, l’esperienza del roveto ardente o del sacro. Il tempo è perciò enigma che non si scioglie, come a p.26, con un richiamo Shakespeare: “Brucia il tempo la sua continua/ imminenza".
Dunque “Bisogna strappare le pagine” (p.27), di un libro che pare nostro, ma non ci appartiene, in un groviglio inesausto di illusioni e imposizioni: “Questo è un film che posso modificare/ a mio piacimento” (p.40), ma se “Il pomeriggio se ne va”(p.42) lento e lunghissimo, poi “un momento e già subito un ammasso di anni” (p.43): “film muto” (p.26) e “circolare concerto” (p.44), che rimane imprendibile: “La musica è la stessa/ e si ripete ossessiva come in un film./ Ricordi Vertigo? Ricordi quel/ passo verso l’ignoto/ innamorato di se stesso?” (p.45).
È questo il film. Persiste però “quell’antica luce/ dorata che un tempo illuminava/ il pane sulla tavola” (p.46), in cui il tempo sa di miele e innerva anche il bisogno di scrivere. Sia per dare parole al primo incontro con la nostra autenticità, sia per dire dell’età successiva che, qui, più che maturità, dovrebbe (se consentito) essere chiamata adultità, con la stessa radice di adulterazione e dei sapienti mascheramenti. È l’età della notte, titolo della II parte del libro, immagine di molteplicità di sensi, quali accumulati da questa figura archetipica. Alla luce dell’autenticità dell’adolescenza subentrano oscurità e maschere delle convenzioni sociali. Ma non è solo simbologia in negativo, come all’opposto l’adolescenza non è ingenua o nostalgica idealizzazione positiva. La notte diventa inevitabile pedaggio all’acquisizione di coscienza della complessità della vita: essa “assorbe tutto”, “custodisce/ o rinnova il silenzio”, nasconde, falsifica con “i giochi della mente,/ il sangue di qualche innocente”, le storie e la Storia, “perfetta nei suoi scismi…nei suoi delitti.”. Per cui quel “concerto circolare” e “film muto”, sembrano declinare verso un “sogno e realtà nell’unica sequenza,/ sempre la stessa, sempre la stessa.” (pp. 56-57). Ma la prospettiva di un’ossessione di vertigine tenebrosa, di un silenzio che ripete quanto già detto nei “miei libri allineati”, che a tratti paiono patetici soldati dell’illusione della maturità di controllare tutto, genera anche altro. Ne scaturisce un grande avviso ai nostri limiti umani. Compresi quelli della scrittura e del proprio poièin.  
Ne scaturiscono visionari “stati di dormiveglia” (da una nota dell’Autore), con preghiere, memorie e domande che si confrontano con gli eterni enigmi del nostro stare al mondo: “La notte stanotte è una lieve ballerina/ un minuscolo pellicano che/…tra bianchi vapori/ porta nel becco, come un lampo,/ la mia giovinezza…un filo d’erba –…un filo d’erba/ fu il primo regalo di Emma” (p.72). La Notte ci dice che siamo “Nati per ardere e morire”, che siamo “palla da bigliardo/ che sbatte impazzita” (p.74), che “Ti dirai che/ forse è davvero tutto governato dal Caso.// Ti dirai come si fa a perdere gli altri/ come si fa a guadagnare se stessi” (p.77), domande senza risposte “in questo fumo demente e dimentico”(p.78), in cui “Lotto/ con l’oscurità del tempo” (p.79).
Dunque, lotta contro l’oblio, la fine che ci attende e il tempo ci consegna: “una sfida di farfalla” (p.81), una sfida che si impone anche se non la vinceremo. O forse è solo l’arte/la poesia che alla fine la può vincere? È essa che consente di dare corpo alla paura “di scomparire nel vuoto” (p.39), la paura non della morte in sé, ma del non essere, della perdita di relazioni autentiche, quelle che ti aiutano a superare “A occhi socchiusi…/ vilipendi e ferite” (p.28). È lei che se “Nulla/ più riconoscibile” della “Salerno…cinque anni della mia adolescenza” (p.50), “perché domani e ieri/ sono precipitati nel nulla/ e le sillabe impazzite/ si confondono tra loro”; è lei che resiste al silenzio per dire che “La nostra adolescenza resta incisa in un gesto che…c’è sempre stato”, in quel “rustico campetto/ sotto casa” (p.52).
Ed è grazie a lei che troviamo la forza della debolezza che fa riconoscere: “Non sono mai entrato nella vita./ Mai appartenuto a qualcuno…Ma mi commuovo per un nonnulla, l’adolescenza/ è assoluta ed eterna./ È l’unica cosa che resta” (p.24) – (auto)denuncia limpida, forte, che non ha bisogno di arrotolamenti nebbiosi, maschere e suoni sinuosi, ma poveri di possibilità di conoscenza in re, che toccano l’osso delle cose. È questa la forza che nel percorso accidentato della vita dà un comandamento vitale ed etico: “Dovrai sapere riconoscere/ il punto in cui incontrerai/ l’altro te stesso”, quello autentico, “Poche// le volte in cui questo avverrà” (p. 29).La notte fa dunque anche regali preziosi: “È nella nostra debolezza/ che risiede la nostra immortale umanità”, rovesciata poi nella domanda: “Chi/ vorrebbe davvero essere immortale?”, regali di coscienza dei limiti del destino umano (e di tutto il ciclo vitale), che può con serena accettazione e tenerezza voltarsi ed esclamare: “O felice incoscienza dei ragazzi!” (pp. 82-83).
Per questo “La sacra notte invoca/ una calma rivolta: una sirena/ che chiama a raccolta i seguaci del nulla/ i secondini del nostro quadrato.” (p. 55), dove il nulla è sì la morte, ma dell’autentico: è la falsificazione della vita che crea una prigione, in cui siamo i carcerieri di noi stessi. Per cui, se “Siamo e restiamo solo iniziali” (p.68), alla “Sorella Notte,/ Madre Notte” (p.71) vengono rivolte persino preghiere, anche se “esercizi inutili”(p.70), di essere riconosciuto, salvato liberato: “Riconoscimi, Notte”(p.69).
Una richiesta rivolta allo specchio buio della notte, rotto da slarghi visionari da cui fuoriescono fili/figli della propria trama vitale (con senso testuale e carnale) invitati a fare “girandola” erotica e ri-creativa, insomma a continuare la vita, quasi irridendo “tra nebbie e fumi diradanti”, “il Dissipatore” (ricordo del personaggio di Settimana di sole di T. Landolfi), “bianco in viso…/ nero il suo cappello/ lieve il suo sorriso un po’ beffardo/…mentre/ dalla vicina montagna sgusciano/ combattenti rivoluzionari. Sono/ i miei alleati. Ripartirò con loro/ senza voltarmi più indietro” (pp. 61-62).
Cosa rimane infine cui appigliarsi in questo quadro che pare chiudersi in “un imbuto grandioso” (p. 38), quale è disegnata la New York contemporanea, metafora e simbolo di una notte che riguarda tutto l’Occidente. Centro del Mondo, dominato da fretta delirante e “Quattro goffi e grotteschi/ in questa febbre di potere/ sul proprio carrozzone/ i detentori della nostra pubblica res” (p.66).
Ben altro era quell’iniziale “piccolo e confuso…Centro del Mondo” (p. 63), che non aveva altra fretta che quella di crescere, entro un bisogno forte di autenticità. Bisogno ancora più acuto se le tensioni della società globalizzata e i suoi poteri creano solitudine e disgregazione di comunità e relazioni, per cui la coscienza (si) dice “Procedo in un sentiero ambiguo/ …senza verità” (p. 67) mentre accumula domande su tutto ciò che nella notte resiste della nostra misura umana. 
  
Luigi Fontanella
L’adolescenza e la notte
Passigli Editori, Firenze 2015


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L’azzurro e il rosso
di Adam Vaccaro

Questo libro di Luigi Fontanella “L’azzurra memoria”  va riletto e ripercorso, come si fa con le esperienze che ci coinvolgono di più, per scoprirne e riprenderne le varie faglie. Livelli tutti innervati nell’esperienza, che resta per me la sfida più potente che la vita propone alla scrittura e al suo tentativo di tradurla nei suoi segni. Se facciamo di un rapporto, un fatto, un libro, un testo, esperienza, vuol dire che siamo riusciti a compiere quel viaggio che va dalla siepe che ci è data (il nostro corpo, in primo luogo) all’infinito, e ritorno. Vuol dire che quel momento si è incarnato in noi e non saremo mai più come prima.
Il terreno dell’esperienza (personale o storica) è il più difficile e rischioso per la scrittura. Può far scivolare nel minimalismo, cioè nella presunzione o ingenuità di poter dire tutto senza uscire dalla superficie, scivolandovi sopra senza aggiungere niente alla conoscenza e coscienza della complessità della realtà (interna ed esterna). Ma il rifiuto di tale terreno, nel timore di tali derive, può spingere al polo opposto, in illusori piani alti, tutti svolti in ambito letterario, pensando che alla nostra fame di complessità basti quest’ultimo. Si scivola in tal modo facilmente in una complessità che ha più a che fare con la complicazione, beata di sé e degli scambi autoreferenziali tra pochi addetti ed eletti.
I problemi della poesia contemporanea (ma forse di sempre) stanno nella difficoltà di evitare entrambe tali de-rive. Da tempo parlo di una Terza riva, capace di coniugare complessità e transitività, costruendo adiacenza tra sé e l’altro. Non vuol dire sognare una impensabile poesia per tutti, ma una poesia che sappia andare almeno al di là dell’attuale affollato, appartato e ininfluente laghetto degli scriventi. Sono alternative e sbocchi che si fanno concreti quando capita un libro come questo di Luigi Fontanella.
Va specificato che si tratta di un libro autoantologico, che diventa una sorta di diario di viaggio (guarda caso il primo lampo di poesia è collegato al diario di una compagna di liceo), del viaggio-metafora della vita ma anche di appunti dei tanti viaggi che l’autore ha fatto e continua a fare nelle migrazione oscillante di tanti di noi, tra luoghi di origine e luoghi dell’esistenza. Nel caso di Luigi Fontanella, tra Italia e America.
La selezione antologica è corredata da una conversazione dell’autore con Giancarlo Pontiggia, intensa eppure piana, priva di gigionismi e supponenze, utilissima per la lettura delle poesie. Il merito di questa sorta di interfaccia che conferma ragioni di scrittura, stile e visione del mondo, man mano incarnati nei testi, va certamente assegnato a entrambi. Autenticità e passione alimentano la fatica felice dell’intreccio costante tra vita e scrittura, ma il prius è la prima: “Credo che…il linguaggio sia…un mezzo per rivelarsi al mondo, e non un fine…alla base dello scrivere poesia ci deve essere un’autentica passione, una vera necessità”, dice rispondendo a una domanda di Pontiggia sul “rapporto tra poesia e mondo, parola e realtà”.
Basta la prima poesia, intitolata appunto Voyage, a darci da subito un esempio di come una palpabile esperienza diretta possa diventare terreno condiviso, metafora del nostro tentativo di viaggio nella complessità. Che ha necessità di coinvolgere un immaginario capace di farsi visione e non evasione dalla realtà, per cercare di coniugare la (im)possibile relazione col Tempo e con le ferite del “poeta che sia sensibile ai guasti della sua civiltà’, e reagisca…con il suo onesto dire…Che sappia, insomma, baudelairianamente, esprimere l’utopia nella carne del linguaggio”.
Termini e premesse che tendono a una esperienza di poesia che vuole farsi corpo condiviso e non frutto cerebrale di un “esasperato avanguardismo metalinguistico, fine a se stesso”. La “forte tensione pedagogica e civile”, rilevata da Pontiggia, trova conferme nel rifiuto di “scrivere una poesia ‘astratta’ o avulsa dalla realtà”. Sono parole che fanno ricordare i richiami di Leopardi ai romantici milanesi e sono il segno di una tensione a ricercare un incrocio di rinnovato senso civile, che esca da chiusure iperletterarie o egotismi vari, ma esente da sovraccarichi ideologici “di impegno civile”, come concepito negli anni ’60-70.
È una tensione che può portare, come ho detto altrove, a un incrocio salutare tra poesia della stanza e poesia della strada, esaltando gli apporti migliori della poesia europea (e italiana in particolare) e della poesia americana. Per chi come Fontanella (ma anche altri come Alfredo De Palchi o Alessandro Carrera) si muove in entrambi i territori (geografici e culturali), tende forse a incorporare più facilmente tale incrocio, acquisendo un punto di vista più libero rispetto agli esempi più tipici dell’una e dell’altra area. Il colloquio con Pontiggia è illuminante anche su questo.
Questa tensione passa, nel caso di Fontanella, da una oscillazione meno condizionante e provinciale, e credo che sia stata favorita da luoghi originari multipli che vanno dalla costiera amalfitana, a Roma, alla Toscana; un ventre mediterraneo via via ampliato, che si misura con le durezze e insensatezze, le ignominie e le distanze, i misteri e le perdite della vita, ma non rinuncia mai ad appuntare quei lampi di gioia per i quali viviamo e con i quali proviamo a cucire lembi della nostra salvezza: così, “corre il treno su rotaie di latte turchino/ mani giganti lo spingono nel tunnel/ di nebbia e carne/ dove non c’è posto per le aurore/…/ corre corre il treno/ il viale d’inverno la nebbia gelida lama tagliente/ la carne di cosce scuoiate/ tanti anonimi volti/ di gente di niente/…/ In questo viaggio senza ritorno/ il segnale d’allarme è bloccato”, eppure  “ebbro d’immenso/ cerco un paese innocente” (echi, incessanti, di infinito), in cui (come nella poesia di p.124 dedicata a Milo De Angelis) sciogliere le corazze e trovare in comunione con l’altro possibili, labili momenti di paradiso: “prendimi, prendimi adesso,/ fa che questo momento/ si faccia tuttotempo,/ cielo, voragine,/ ebrezza.” 
I ritmi sono nervosi, anch’essi liberamente oscillanti tra respiri lunghi e brevi, per aderire il più possibile a ciò che preme ne L’azzurra memoria o nell’attimo metropolitano. Conta la necessità profonda della cosa da dire, ma il moto complessivo è sempre ad U, in cerca di uscite gioiose nel rosso salvifico da una qualche selva oscura: “da qui, in una bicocca ribattezzata/ a propria misura e nostalgia, quattro/ abruzzesi emigrati quarant’anni fa, giocano/ a tressette, come fossero ancora/ in un baretto di Pratola o Ripabottoni/…/ È tardi ormai./ Vento e pioggia hanno spazzato via tutti e tutto./…avvolgiti, anima mia/, in quella sciarpa rossa/ vola fino a un altro Sole,/ questo/ che oggi scioglie i nostri corpi le nostre dita/ i nostri pensieri le nostre ore” (La sciarpa rossa, dedicata a Irene, pp. 143-144).

Luigi Fontanella
L’azzurra memoria
Moretti & Vitale, Milano 2007,
pp. 174, € 11

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EMIGRANTI TOSCANI


Erano emigranti, venivano dalla toscana per sfuggire la povertà e cercare fortuna a Milano. Il padre aprì una trattoria toscana in una zona popolare della città dove lavorava il figliolo come cuoco. Aveva anche una figlia, una ragazza che faceva l'impiegata,  di indole intraprendente. Un giovanotto milanese la vide in una sala da ballo, o lei puntò lui, fatto sta che i due si innamorarono. Erano gli anni polverosi della Milano povera che lavorava (eccetto i ricchi). Scoppiò la guerra, il ragazzo fu richiamato sotto le armi. Alla fine del conflitto, tornato a casa, il giovane sposa la sua innamorata e vanno a vivere in una vecchia casa. Lui era disoccupato e un quarto di vino lo vedevano solo la domenica sulla tavola. Fallisce per una bega tra parenti la trattoria del padre, che si riduce a fare il ciabattino in casa.
I due sposi vogliono sistemarsi e trovare lavoro sicuro prima di mettere al mondo dei figli. Ciò avviene dopo alcuni anni di matrimonio. La moglie dando alla luce un figlio muore. Mamma, mamma, perché mi hai lasciato solo in questo mondo dove anche l'odore delle mele mi ferisce l'olfatto.
Tiziano Rovelli 

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Labirintando
di Laura Margherita Volante
Laura Margherita Volante

*Andare per labirinti fa venire la labirintite...
*Tatto doupleface. Dipende da come lo si usa: a parole o con i fatti...
*Più si conosce più si ama starsene da soli...
*Meglio la solitudine piena a vuote compagnie.
*Juventus-Barcellona. C'è poco da stare Allegri...
*Mafia capitale. Ostia...! Antica
*A Roma i fedeli prendono l'ostia per salvare l'anima. A Ostia i mafiosi la vendono al dio denaro.
*Un bastardo si può anche perdonare, ma tale rimane!
*Chi ascolta i silenzi penetra l'anima.
*Il tempo non esiste. E chi non ha mai tempo è come cercare un quadrifoglio fra le ortiche.

Usi e costumi:
*Ieri si viveva la vita che si trovava. Oggi si cercano più vite perdendo di vista la propria.
*Ieri si diceva che la Cina era vicina. Oggi i Cinesi sono miei vicini.
*Ieri c'era chi aveva un sogno da realizzare. Oggi c'è chi glieli distrugge...
*Ieri l'onestà commuoveva. Oggi fa piangere!
*Ieri la disonestà veniva additata. Oggi viene emulata...
*Ieri e oggi. Oggi nel mio cuore restano solo le cose migliori.
*A Roma i fedeli prendono l'ostia per salvare l'anima.  
*Ieri si lottava per la libertà. Oggi si ruba liberamente…

Iena ridens
*La verità riconcilia gli onesti.
*Le disuguaglianze producono infamia senza causa diretta...
*Corruzione. L'Italia è il paese di Pulcinella: tutti lo sanno, nessuno lo dice e poi ci si stupisce..
*2x1.000 ai partiti? Ci vuole un bel becco per un popolo di beccaccini!
*Paura e curiosità. La prima s'impunta. La seconda accende il motore.
*La paura sta ai passi da gambero come la curiosità sta al passo dell'evoluzione.
*La natura ha la virtù della varietà. La normalità contiene il difetto del limite...
*Della vita si sa dove comincia non come finisce.
*La gentilezza è una sana abitudine. Il problema è costituito da chi possiede l'insano vizio di non rispondere.
*Memento mori. Meglio dar sfogo all'umorismo che alla inutile disperazione...
*Voglio guardare la morte in faccia con una sonante risata. Visto mai che ridendo ci sia un premio di due vite al prezzo di una. Ah ahahahahahahah!!!
*Non si ha più tempo... Ma il tempo non esiste. Infatti è come cercare un quadrifoglio fra le ortiche.
*La passione eccita la creatività.
*Dar da mangiare trasmette sicurezza a chi lo dà e a chi lo riceve. 
*Quando non c'è più relazione l'arte muore.

Usi e costumi
*Ieri si mungeva la mucca per sostentamento. Oggi è munta dai porci. Porca vacca! Ora capisco...
*Ieri c'era chi aveva un sogno nel cassetto. Oggi resta solo il cassetto della memoria.
*Ieri c'era chi lottava per i diritti. Oggi si sta diritti per scommessa.
*Ieri chi zoppicava era un disabile. Oggi c'è chi cammina storto perché è un dritto...
*Ieri c'era chi faceva il proprio dovere per un diritto. Oggi tutto va talmente storto che si è perso il senso del diritto...
*Ieri si amava dire che chi dorme non piglia pesci. Oggi c'è chi sta sveglio per insonnia mentre c'è chi gli porta via la pastasciutta l'aria l'acqua e i diritti...

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Laura Volante incontra il fotografo Roberto Recanatesi  


Volante: Nella tua produzione fotografica, la cui poetica rivela segni evidenti di lirismo e nostalgia, c'è una svolta molto decisiva dal cromatismo al bianco/nero intenso e coinvolgente, soprattutto per i ritratti avvolti da atmosfere rarefatte. Quale ispirazione ti ha portato verso tale mutamento espressivo e perché?
Recanatesi: Le mie origini sono nel colore, che sto riprendendo con successo e con rinnovata attenzione, non più colori fulgidi e magari con il rischio del cartolinesco come agli inizi, ma con una ispirazione più vespertina, intima, crepuscolare, impostata su toni cupi, rosso-bluastro marronati. La scelta del bianco/nero intenso e coinvolgente, come dici tu, temo non sarà unica e decisiva nella mia attività fotografica, dando preminenza come ripeto anche al colore, tuttavia si ispira alla filosofia, alle origini, alla nota dolente e insopprimibilmente riflessiva e penetrante che sta a capo della nostra vita e del nostro destino.
Volante: Nella tua pittura fotografica spesso si avvertono richiami religiosi. Fotografia dunque come religio vitae o religione come forte sentimento di fede a cui non puoi sfuggire?
Recanatesi: Ha detto giustamente Sgarbi che è pronto a scommettere (o giù di lì) se io sia poi così autenticamente convinto della mia religiosità. Sono un credente anche se poco praticante, la domenica mattina preferisco il footing o le foto, ma amo la preghiera solitaria, ho dei fortissimi richiami personali in merito alle figure di alcuni santi, ecc. e posso dirti che le due espressioni che mi proponi (fotografia come religio vitae e l’altra) sicuramente, per quanto mi riguarda, stanno in piedi tutte e due.
Volante: Marche di leopardiana memoria, ma anche di insigni musicisti viventi e non, terra natale di geni e di personalità eccellenti in ogni campo umano artistico scientifico e religioso (M. Montessori, Carlo Urbani, G. Allevi, V. Vezzali, Matteo Ricci, Padre Mandolini, ecc) l'elenco è lungo… Tu, figlio di questa terra, quale impegno senti intimamente per risvegliare nei giovani il desiderio di raccogliere tale eredità per sognare un mondo migliore?
Recanatesi: Quello di risvegliare nei giovani la profondità di sentimenti e il credo profondo verso qualcuno o qualcosa (arte, musica, fotografia, letteratura, sport, ecc.). Ammirare i grandi della nostra terra certamente, ma, indipendentemente da questo, leggere fortemente dentro sé stessi e idearsi una strada, fondare un credo personale, ecc. Ad esempio, io ammiro moltissimo Mario Giacomelli (Leone come me, tra l’altro, con tre giorni di differenza, ma 33 anni di vita, quelli di Cristo), ma non lo considero un modello assolutamente da imitare anche se ci ho provato un po’ agli inizi, lo omaggiavo a mio modo nelle prime mostre, ma so che lui stesso sicuramente se ne sarebbe scocciato e semmai lo considero una sorta di aire, da cui trarre una intensa forza interiore (che comunque, modestamente, non mi manca) per un cammino autonomo e svincolato dagli schemi. Quasi nessuno fa le foto che faccio io, almeno nelle Marche, Sgarbi stesso lo ha sottolineato (c’è pure il discorso inaugurale in rete) e per me è un vanto e continuerò sempre su questa strada, che potrà far sorridere qualche coglione (tanti ce ne sono in fotografia e nelle arti in genere, specie tra quelli indecisi, criticoni e sempre “alla ricerca”, di che cosa non lo sapranno mai nemmeno loro) ma anche tale eventuale sarcasmo sarebbe motivo di ulteriore sprone per me. Mi farebbero solo un favore. E chi mi conosce bene non perde molto tempo a chiacchierare con me, sa già che la conversazione verrebbe inesorabilmente troncata, ed è già accaduto.
Volante: Hai esposto le tue opere in diversi luoghi con critiche autorevoli; ora anche Vittorio Sgarbi ha scritto la presentazione del catalogo dal titolo Bellezza sulla tua mostra nella Chiesa di S. Niccolò di Jesi. Perché questo titolo ad una produzione così eterogenea con alcuni passaggi nodali? Vuoi spiegarci quale è stato il motivo di tale scelta? 
Recanatesi: Bisogna pur scegliere, ovvero essenzializzare almeno i titoli e i contenuti. Ormai il mio interesse precipuo è la figura umana in rapporto con la natura, sto anche studiando (da solo ovviamente) il nudo artistico (“alla come dico io”… ammiro molto le spilungone a tacchi a spillo di Newton, ovviamente c’è una bella differenza tra me e lui in tutti i sensi, ma non sono e non sarebbero per me motivo di invidia o di imitazione). Pertanto Bellezza racchiude tutto, noi stessi, le nostre passioni, i nostri amori, le nostre speranze, le nostre illusioni e disillusioni, il nostro credo, i  nostri sguardi, ma il discorso è troppo lungo e mi rifaccio anche alla sensibilità di chi legge ed interpreta.
Volante: Tu, sei un funzionario regionale. Nel nostro paese molti artisti per guadagnarsi da vivere devono avere un mestiere -ben lo sapeva anche l'Ariosto al servizio degli Estensi- per cui molti se non lavorano e non entrano in un circuito di mercato sono alla fame. Tu cosa ne pensi?
Recantesi: Non so di preciso, non vivo la cosa professionalmente e, grazie a Dio, sono il Dr. Recanatesi del Servizio Industria e Artigianato della Giunta Regionale, stanza n. 149, ecc. con due soldi di stipendio e di speranza a fine mese, immagino comunque che sia una vita un po’ grama (qualche amico artista di professione me l’ha confidato) e non la invidio troppo, ma nemmeno io stesso sto facendo chissà cosa per lanciarmi sul mercato, anzi un bel nulla. So di non essere quotato, ma non darei certo a due lire le mie opere, non mi fido dei galleristi, ho saputo di storie fin troppo strane e spiacevoli: beh, per adesso, lasciamo perdere. Chissà che sotto sotto non mi faccia piacere così? L’outsider è sempre stato il mio forte. Se vorranno mi cercheranno e ne  parleremo.
Volante: Illusione e realtà; surrealismo e visioni; sogni apparenze sembianze. Quale il filo conduttore di questi termini, che secondo la critica focalizzano il senso sia concreto sia simbolico della tua pittura fotografica?
Recanatesi: Io credo nel bello e basta, anche se ciò che ho di fronte facesse schifo di per sé. Ovviamente la mia è una chiave ben diversa, lirica, sognante e idealistica per non dire idealizzante, mi piace sognare e trasfigurare come ho sempre fatto, la donna stessa la vedo come una bella giovane dama rinascimentale (che ammiravo nei film da bambino), non mi occupo di brutture anche se so benissimo che ci sono, non corro dietro ai migranti, ai lavavetri, ecc. per sperare poi nel premietto dell’Amnesty, dell’Arcivescovo o dell’Associazione a favore della SLA, la scelta dei miei modelli e modelle è impostata su soggetti giovani e di bell’aspetto, ma qui c’è tutta la mia infanzia, la mia vita trascorsa, la mia ammirazione per una certa grande letteratura che puoi immaginare (anche Goethe, perché no?) e ne sono un po’ geloso, scusami.


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Laura Volante conversa con Alessandro Marcucci Pinoli “Nani"



Volante: L'Alexander Museum coniuga arte eleganza convivialità dove gli artisti con il loro personale linguaggio espressivo hanno la possibilità di esprimersi e di esporsi in una società che spesso li mortifica e li emargina per una insulsa politica di mercato. Nani il tuo impegno in tal senso da dove comincia e perché?  
Marcucci Pinoli: Essendo nato e cresciuto in una famiglia che ha sempre amato l’arte, ho continuato a vivere con questa passione. Poi, avendo sei alberghi, ho pensato di unire l’utile al dilettevole.
V: L’Alexander Museum è frutto di una ricerca esistenziale o è un ideale maturato nel tempo come un impulso incontenibile di amore per la bellezza l’eleganza l’educazione, valori di una cultura che sta scomparendo?
M. P: Entrambi.
V: I giochi, gli scritti sia in poesia sia in prosa, i dipinti, i famosi manichini, espressione di una natura eclettica quale tu sei, in quale terra o inferno ci vogliono condurre? Per una speranza di risveglio o solo dialogo intimo da produrre e quindi condividere?
M.P: Per una speranza di miglioramento.
V: Surrealismo e ironia; sensibilità e concretezza; magia e senso di realtà; solidarietà e senso di giustizia sono alcune qualità che ti contraddistinguono, mi chiedo per quale alchimia tu riesca così bene ad amalgamarle. Vuoi spiegarci il segreto di tale combinazione?
M.P: Sinceramente non so neanche io, ma penso che tu stia esagerando.
V: Come vedi non percorro temi già trattati in altre interviste, recensioni e riconoscimenti a tutti i livelli, fra cui anche una tua opera esposta al Louvre. Ciò come ti fa sentire?
M.P: Come la mia opera esposta al Louvre, tutte le altre esposte nei vari musei e luoghi prestigiosi (come Biennali di Venezia e Firenze, Palazzo delle Esposizioni di Roma, Palazzo Reale di Napoli, Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, ecc.), così anche le tue domande mi spingono ad impegnarmi per cercare di fare sempre meglio.
V: Il “Si può avere solo ciò che si dà” è sempre vero oppure sovente è il contrario?
M.P: Èquasi sempre vero.
V: La tua è una grande famiglia, con avi illustri in vari campi, pensi che ciò sia stato di stimolo e abbia motivato figli e nipoti ad impegnarsi per esserne all’altezza oppure in alcuni casi ha procurato ansia di prestazione se non frustrazione? Questo è un rischio di molte famiglie con genitori “ingombranti”, come siete riusciti voi come coppia e come genitori a gestire tali dinamiche familiari?
M.P: Sia per me che per i miei figli, i miei antenati sono stati una fortuna e uno stimolo a cercare di fare sempre meglio.
V: Questa società non guarda in faccia a nessuno se non per loschi affari al servizio del “dio denaro” in ogni settore della vita civile. Ma questa società siamo noi, i mille parlamentari circa, che ci rappresentano costituiscono un campione da sondaggi, secondo te quali le cause di tale degrado morale?
M.P: Ritengo che in mancanza di una cultura vera e dei grandi valori, inevitabilmente si cada nella palude del “dio danaro”.
V: L’Alexander Museum, quindi, è un’oasi di arte e di bellezza dove ogni stanza è frutto di creatività e di ingegno artistico. Come è stata operata la scelta e con quali criteri?
M.P: Prima di iniziare i lavori ho preso una pagina su “Arte Mondadori” nella quale ho spiegato il mio progetto e richiesto ai lettori se ci fossero stati tra loro artisti interessati a realizzare totalmente le camere dell’Alexander Museum e di mandarmi i loro cataloghi. Hanno risposto in 288. Tra questi ne ho scelti cinquanta e a costoro ho chiesto di inviarmi tre loro progetti, tra i quali ne ho scelto uno. Poi, essendo le camere 63, per 13 di queste ho chiesto ai miei amici Critici (Sgarbi, Bonito Oliva, Daverio, ecc.) di consigliarmi, ciascuno, un’artista, al quale poi ho fatto realizzare una stanza.
V: Nani, non mi addentro in questioni di tipo politico e ambientale, perché creano solo disagio, disappunto, indignazione, di fronte al caos generale, perciò concludo questa intervista,  domandandoti quali sono i tuoi progetti e quali prospettive intravvedi, nonostante tutto .
M.P: Di certo posso dire solo che continuerò ad impegnarmi per “migliorare, migliorare, migliorare” e a cercare di comunicare a tutti questo mio motto.

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LA BIBLIOTECA DI ADAMO CALABRESE
OMAGGIO A RUZANTE 





GOCCE DI LUNA
Laura M. Volante
Ho trovato l'amore
in compagnia del dolore
che non lascia il passo.

Ho conosciuto fra le stelle
una luna agognante di sole
sparire in gocce di rugiada.

Un'ape sugge gocce di luna
per farne ambrosia prima
d'involarsi dietro un raggio.

Laura Volante


Lo sguardo visivo-sensitivo di Franco Cingolani
La paura di amare in ricordo di Gianni Azzola
di Laura Margherita Volante
Franco Cingolani "Nuca"

Ho conosciuto Franco Cingolani in occasione di alcuni incontri con amici comuni del mondo dell'arte figurativa e non solo. Nascono amicizia e collaborazioni in campo artistico e culturale, fra cui la realizzazione di un paio di Mostre “Visioni e Vedute” (fotografia) e “Visioni e Voci” (poesia) presso l’Alexander Museum di Pesaro e a S. Paolo di Jesi (AN). Franco Cingolani è un fotografo che ha fatto della macchina fotografica uno strumento pratico e funzionale per mantenere viva un'attività mentale, che non sia solo lo scovare visivamente ciò che tende a restare nascosto, ma anche per dare ordine e senso al suo mondo interiore. I soggetti della sua ricerca fotografica sono multiformi: da un paesaggio naturale a quello urbano, segnato dagli interventi architettonici dell'uomo contemporaneo; da semplici scene di vita cittadina a Close-up su scorci di corpo umano o su aspetti minimali del quotidiano incedere sociale. Spazio e tempo sono prelevati dal suo sguardo indagatore nel cercare di cogliere quei dettagli e/o frammenti di una realtà camaleontica a seconda del luogo, del momento unico e irripetibile nel   fuggevole divenire.
“Le vedute naturali e artificiali di Cingolani, che scivolano in voluti e ponderati ritagli architettonici, oscillano tra descrizione e trasfigurazione, tra narrativa e poesia. Le vedute si trasformano in visioni”. (Vincenzo Marzocchini, critico e storico della fotografia).
Per il Nostro autore fotografare con occhio contemplativo è una terapia non solo per rendere la vita migliore, ma anche per trovare sollievo emozionale in momenti di cercata solitudine, da condividere poi con altri in un ritrovato linguaggio animico fra immagini, sequenze sensitive entrando in contatto relazionale. La foto diventa così un tramite fra il sé e l'altro per evitare dolore sofferenze e quell'umana ferocia che conducono alla spettacolarizzazione fino alla triste assuefazione, alla disumana indifferenza, se non anche alla esasperata rassegnazione.

F. C. "La paura di amare"

A questo proposito ben si presta la sua opera “La paura di amare”, saggio della bravura e originalità di Cingolani, che mi offre altresì occasione di ricordare un caro amico, amato e stimato dai naviganti di “Odissea”, Gianni Azzola, autore del libro “La paura di amare”, che ebbi l’onore di presentare presso lo Spazio Lattuada di Porta Romana (Milano), e da cui Cingolani ha preso spunto per produrre attraverso il suo linguaggio espressivo un tema trattato egregiamente dal noto e autorevole psicologo Gianni Azzola.



Blatterando
di Laura Margherita Volante

In quest'aria di vaghezza quanto m'è dolce il divagare!
La vaghezza disperde ogni bellezza.
Chi accumula non possiede.
Blatter o blatte? Il primo s'aggira fra gli scandali. Le seconde scappano fra i veleni...
Il perdono è un dono per se stessi. Un bastardo si può perdonare, ma tale rimane.
Loculo cercasi... Meglio vivere dilapidando che morire con una lapide sopra il culo
senza goderne la vista...
I “montati” si nutrono di adulazioni.
I “grandi” sono come le carrozzerie d'epoca: non si rottamano, ma col tempo acquistano
sempre più valore. 
Notare un mazzo di fiori e non il buco sulla tovaglia aiuta le relazioni...
L'invidia è incapacità di misura fra sé e gli altri...
La solitudine amica rende migliori.

Usi e costumi
Ieri sculture di alto profilo. Oggi figure di basso profilo.
Ieri si doveva lottare con i pidocchi. Oggi con i pidocchi rifatti...
La pistola sta all'assassino come l'indifferenza ad un colpo fatale al cuore... 
Cancrena da decubito sociale: corruzione da denaro demerito deculturizzazione
Amorosi sensi. La sessualità sta alla pelle come l'amore alle viscere.
Conversare è un volo di farfalla, che si posa di sussurro in sussurro.
Sfida cerebrale. Quando impegno e studio formano un buon cervello.
E con Salvini? Si salvi chi può...

AFORISMANDO
di Laura Margherita Volante

23 maggio Festa della Legalità. Quando ti fanno la festa... è finita!
Le feste datano il tempo vuoto di essenza.
I giudizi lapidari sono martelli pneumatici sulla tomba della memoria.
Quando si va all'essenza resta una parola sola.
Gratitudine cercasi. Alcune persone trattate male diventano migliori se no soffrono
di sindrome del rancore del beneficiato...
Le parole ingiuriose sono marchi incisi a fuoco.
Quesito. Ieri il problema era: “Essere o non essere?”. Oggi è “Simpatico o non simpatico?”
Questo è il sistema...
L'avarizia dell'anima è senza ritorno.
Si ha paura della morte perché si teme l'ignoto.
La fede è un sostegno, non una certezza.
Chi crede in Dio non può misurare i termini della questione se non i propri limiti umani.
Emergenza: patologia sociale da anestesia emotiva...
L'anestesia fisica sta alla sala operatoria come quella emotiva sta alla sala d'aspetto.
Identità cercasi. Ieri si era ciò che si era senza apprendimento; oggi non si è apprendendo
altro da sé.
Degrado ambientale. Lo spirito di cui sono impregnate le opere trema in ogni nervatura
di scalpello.
Aforismare: possedere una biblioteca in testa e un giardino nell'anima.
Lettura amica. Aspiro a lasciare questo mondo con spirito elevato...per far prima ad arrivare.
È una Babele? Ieri mi spaventava il silenzio, oggi chi non sa parlare...



 

Massimo Mila: il brutto in Verdi
di Gabriele Scaramuzza

La recente segnalazione di Gianfranco Plenizio, Quando Verdi componeva con la mano sinistra (apparsa su “Il Venerdì” di Repubblica il 1 maggio 2015) mi ha sollecitato a leggere il libro di Massimo Mila Le opere “brutte” di Giuseppe Verdi (edito da Manni, Lecce 2015). Un libro benvenuto, di grande attualità a mio avviso; e scritto da uno dei più insigni studiosi di Verdi. Vale la pena parlarne.   
Innanzitutto: è indubbiamente parte insopprimibile nel vissuto estetico-artistico l’attenzione al valore - che si esprime tradizionalmente, nelle sue polarità estreme, nei termini di bello e brutto, con tutte le gradazioni intermedie, che vanno dal grazioso al sublime, dal comico al grottesco al tragico (le cosiddette modificazioni del bello, o categorie estetiche). L’esperienza viva di un’opera d’arte non si esaurisce affatto in un modo di essere neutrale quanto ai valori, in un atteggiamento che sia cioè attento solo alle strutture, ai dati tecnici e formali, alla contestualizzazione storica. La fruizione dell’arte non si muove su un terreno piatto, in cui le cose si possano disporre tutte in modo uniforme sullo stesso piano.     
È solo un’astrazione quella che mette tra parentesi i valori; a un certo livello di analisi può anche essere metodicamente proficua (come hanno mostrato Roman Ingarden, lo strutturalismo....), ma non va dogmatizzata. Il vissuto estetico incespica piuttosto, si muove su un tessuto screziato, increspato, tutt’altro che lineare; si distende e si arresta, si rapprende in picchi di massima intensità e si perde in pause d’attesa quando non di apatia. La sua densità su un terreno così accidentato è variabile, tra immedesimazioni e scostamenti, brividi di piacere e insofferenze, entusiasmi e noia.  
Ai valori e alle differenze tra essi Mila è fortemente sensibile – e ci mancherebbe che non lo fosse. Dedica una giusta attenzione a una parabola della ricezione di Verdi che passa da forme di sottovalutazione o di vero e proprio disprezzo, a forme di valorizzazione scarsamente equilibrate, quando non decisamente fuori luogo. Nella sua introduzione giustamente scrive di “assurde pretese di rivalutazione delle opere più scadenti di Verdi”; magari in nome di un primitivismo e di un’incultura inesistenti e del tutto fuorvianti. Non sono tutti capolavori le opere verdiane, talune giovanili sono decisamente mediocri anzi; costituiscono “un cimitero di procedimenti abbandonati” per fortuna in seguito. Anche nel ricorso a forme scontate e tradizionalistiche bisogna inoltre distinguere ad es. tra cabaletta e cabaletta, accompagnamenti melensi e accompagnamenti comunque accettabili; non tutti sono banali, non tutti hanno la stessa funzione drammaturgica, né un’identica tensione espressiva.  
Giustamente Mila denuncia “l’inquinamento del giudizio critico” in chi pone sullo stesso piano opere diseguali, disattento alla loro qualità. Reagisce a che, “nell’ottusione del gusto” incombente, sfugga “che il valore non consiste” in un “verdismo” non meglio identificato; bensì nella differenza che distingue l’una dall’altra opere che sono di fatto tutte “verdiane” e si riconoscono come tali, ma hanno un ben diverso rilievo assiologico.       
Mila riscatta giustamente la produzione verdiana in generale - malgrado ogni evidente caduta di gusto, nonostante ogni carenza, spesso sventolata, di compiutezza artistica - come “un fatto d’arte, un fatto di cultura, tal quale come una Passione di Bach, un’opera di Mozart o una sinfonia di Beethoven”.
Sostiene d’altronde Mila che la situazione della ricezione di Verdi è “ora” (ai suoi tempi cioè, mezzo secolo fa) “profondamente mutata” e che dei “vecchi nemici di Verdi non c’è più traccia”. Le opere “brutte” di Giuseppe Verdi (come testimonia Postfazione e ricordi di Tito M. Tonietti, utilissimo per contestualizzare il libro) è tratto dalle dispense del corso dell’anno accademico 1963-64, un anno davvero lontano. Purtroppo è solo un’incauta illusione e una effimera speranza ritenere che sia oggi tramontato quell’antiverdismo (talvolta ahimè viscerale) che Mila riteneva sconfitto. 
Amare Wagner vorrà dire amarlo tutto, senza cogliere la banalità o la noia di alcuni suoi momenti ? Davvero è necessario disprezzare Verdi per cogliere la grandezza di Wagner, o sottovalutare Wagner per amare Verdi? Si deve amare tutto Verdi, anche i suoi tratti più deprimenti, se davvero si ama Verdi? Non direi proprio. Ove si ignorino le differenze qualitative non esiterei a parlare con Mila (fatto comunque salvo il rispetto per le preferenze personali) di ottundimento del gusto, di desensibilizzazione estetica.
Non sarebbe poi il caso di lasciarsi una buona volta alle spalle la stucchevole, tuttora irrefrenabile moda di contrapporre Verdi a Wagner, di non parlarne senza prender posizione a favore dell’uno o dell’altro, di ascoltarli in modo comparativo? Non ho mai pensato, ascoltando le prime opere di Wagner che mi hanno catturato, di dimenticare la mia passione, radicata, per Verdi. Né mi hanno allontanato da Verdi la fruizione sublime-perturbante di Tristan und Isolde alla fine degli anni Cinquanta, o poi dei Maistesinger con Sawallisch alla Scala, o l’ascolto da un disco del Tristan con la direzione di Furtwängler con Kirsten Flagstad, o ancora del Tristan con Waltraud Meier e la regia di Heiner Müller a Bayreuth. Per tacere dell’emozione viva, ancora a Bayreuth, del preludio di Parsifal nell’incerto chiarore del preludio, e poi dell’incanto non solo del Venerdì Santo ma anche del castello magico di Klingsor e delle Fanciulle-Fiore.... Il mio accesso alla Tetralogia è purtroppo stata La cavalcata delle Walchirie (sigla di una nota trasmissione Rai; un brano wagneriano che nella mia ottica rinviava alla celebre battuta di Woody Allen...), ma non mi ha certo impedito di amare in seguito l’intero Ring; anche qui, come in Verdi, non mancano punte d’una bellezza struggente, vertiginosa. Così l’amore per la Messa in si minore, per la Sinfonia in sol minore, per L’histoire du soldat o per Webern non mi ha mai fatto disprezzare Verdi.          
Tornando a Mila, egli riformula a modo suo motivi crociani, la cui estetica è sostanzialmente volta a determinare un’essenza estetica, che è anche il valore sulla cui base giudicare le opere d’arte. Costringere l’estetica in un ambito valutativo è certo una semplificazione improduttiva; un atteggiamento privo di quell’ampio respiro “fenomenologico”, che è indispensabile per comprendere adeguatamente la vita varia e complessa, la ricchezza delle opere d’arte. Ma quanto superficiale e riduttivo è anche mettere tra parentesi, per malintesa scientificità, la sostanza dei vissuti, le  insopprimibili tensioni valutative che li percorrono.  
Mila affronta qui le opere meno belle di Verdi, “brutte” appunto (e dovremo tornare su questo termine): Giovanna d’Arco, Alzira, Attila, I masnadieri, Il Corsaro e La battaglia di Legnano. Le meno felici tra le opere di Verdi indubbiamente, per libretti e resa musicale. Opere per lo più francamente imbarazzanti all’ascolto; eppure degne di considerazione. Artisti anche grandi non mancano del resto di tratti malriusciti o tediosi. Anche le peggiori opere giovanili di Verdi rivelano aspetti interessanti drammaturgicamente, non si riducono ai loro aspetti “brutti”. Così d’altronde persino le opere maggiori possono non mancare di momenti drammaturgicamente, o musicalmente, deboli.
Per chi ha sempre avuto interesse alla indubbia presenza del brutto in Verdi (è il mio caso) queste ricerche di Mila sono oltremodo stimolanti. Certo, Mila assume il termine “brutto” nel suo senso più scontato, quello per cui indica un disvalore. Ma sappiamo che ha assunto sensi molteplici, irriducibili a questo (si veda per questo, di Piero Giordanetti, Maddalena Mazzocut-Mis, Gabriele Scaramuzza, Itinerari estetici del brutto, Milano, Cortina 2011). Senza dubbio in Verdi il brutto è vistosamente presente, ma in suoi aspetti estremamente variegati. Non solo nel senso di una negatività irrecuperabile, ma anche in quello di un negativo che si riscatta, e contribuisce potentemente alla produzione di qualità intense, di valori esteticamente e artisticamente positivi. È quello che ho tentato di mostrare nel mio Il brutto all’opera. L’emancipazione del negativo nel teatro di Giuseppe Verdi (Mimesis, Milano 2013).   
Mila pone tra virgolette il termine brutto. Come mai? Proviamo a sintetizzare: le brutte opere di cui parla non sono riducibili in toto ai loro aspetti non riusciti, alle loro componenti “brutte”; e recano in sé germi che Verdi svilupperà da par suo in seguito. Per questo restano degne dell’attenzione che appunto Mila, ma non solo lui, riserva loro. Un’attenzione puntuale, analitica, fruttuosa comunque. Soprattutto perché non manca di quella quarta, decisiva, dimensione dell’esperienza propriamente estetica, che “con animo perturbato e commosso” ne sa avvertire lo spessore qualitativo.    

***
UNA POESIA DI GIOVANNI BIANCHI SUI NOSTRI TEMPI ATROCI
Risposta a Erri De Luca
 
Rod Dudley "Donne in giallo con borse"

… e invece il mare è anche in cielo,
un cielo pieno di nubi e di Dio
e Dio è più scuro e piovorno
delle nubi.
È vecchio,
senza memoria apparente,
e forse anche stavolta s'è ubriacato
per distrarsi dalla storia,
stanco d'essere un Dio di dolore.

È vecchio e secolare
e ne ha viste troppe
di innocenze frantumate
senza nome
e senza gioia.
Che gli dirà alla risurrezione?

I corpi si ricomporranno
(i corpi, non gli avatar)
e Lui, il Grande Vecchio,
dovrà dare a ciascuno
una spiegazione, senza più fretta,
anche per i casi in cui
s'era distratto.

È triste e contento,
non saprebbe,
perplesso sul Mediterraneo
(ma che Med!)
che confonde con il lago di Tiberiade.
È duro il mestiere di Dio.
E poi quando ti ammazzano un figlio
e poi a quel modo.
"Anche a me fatico
a dare spiegazioni".

Non sono un Dio di circostanza.
Sto provando a lavorare
sui tempi lunghi.
E io stesso non ho pace.
Dubito se farmi vedere.
(Giosafat non è Woodstock.)
Ho dimenticato l'arte dei miracoli
perché non si esagera
con i colpi di scena
e il mondo – così com’è –
va o non va. Lo vedono tutti.
Un tempo atleta del mistero.

Figliuoli, anzi ragazzi,
io vi ho perdonati.
Adesso voi vedete di perdonare me.
***

TIZIANA ALTEA

Tiziana Altea

Poesie

Garissa

Dall'armadio non usciva
per voler restare viva
La ragazza che è scampata
dalla strage sì affilata

Ma non c'è da cercar rima
su una storia d'odio e grida:

Dove per vivere bisogna farsi
morti
Tingersi del sangue dei morti
e berne, ché ancora sa di vita -

Di giorni di studio
acceso di domani -
quello da liberare da un armadio:

Ed esce sole rosso, di giovani
in canto di cuore
sfidando e sebbene
i tempi di terrore
[Milano, 7 aprile 2015]

*** 

Di resche in gola 
[scritta pensando a Expo 2015]

Il pianto in bocca e
i denti morsicando vuoto,
volendo spicchi delle
vostre pance e acqua piena:
come di pesci a fiume
incontro agli orsi

Così di voi noi siamo resche in gola.
E di fame pungiamo aghi,
anche svanendo. Aghi
di rosmarino, secco fiore
[Milano, 16 febbraio 2015]

***
Spazio
(A Grà)

Fare spazio
cancellando tutto
di sé:
piedi ginocchia
cosce bacino
petto volto
e interiore -
E poi la gomma,
le dita -

Vuoto -
Silenzio - Ti
respirano ora:
all'alba d'arancio
che torna e rinnova

Con l'azzurro
in germoglio
negli occhi
[Milano, 27 marzo 2015]

***

8 marzo [studio 2015]

La pianta cresce dentro -
nel tronco -
lì l'erba e le foglie
le nuvole che danno acqua
i raggi che fan colore
e fiori d'api e d'ali

Cava e piena:
Tu sei, donna
Anche quando attorno -
anche quando, tanto più,
accanto...

Sia in estate che in inverno
sei la pianta che ti cresce
e che ti cambia, dal di dentro
Sei corteccia e tutta un frutto.
Un riparo. E la forza del vento
[Milano, 7 marzo 2015]

***

10 anni, bambine
(Ansa - Nigeria: orrore senza fine. Bambine kamikaze...)

Un due tre, la vita cos'è? IO
che salto -
io  bambina che salto di miccia -
io che salto: e il mondo con me -
[Milano, 12 gennaio 2015]

***

Istante

Seduta sulla roccia beveva tutto
il cielo. Fino all'ultimo scroscio,
ai più limpidi raggi. Fino al vuoto -
A dove ride bacio in bocca quiete
[Milano, 6 ottobre 2014]

***

Bacio di luna

C'è una luna sfumata nel mattino incolore -
Pare un bacio accennato, di quelli
che spengon le parole e piegano ginocchia e venti
Di quelli che ti placano, accendendoti fiducia
[Milano, 11 settembre 2014]

 ***

Svegliarsi una canzone

Svegliarsi una canzone,
cantando
nel mondo che è più mio
anche quando mi lascio
tra le pietre
dei pensieri

Cantare
il cappello rovesciato
non per chiedere briciole
ma per spargere riso

Così è vendemmia per me
il tempo tuo, speso
e segnato,
che mi gioca
e mi vince
e che scarto, il più atteso
dei regali

Cantare, insistendo di cuore
che scrivo e cancello
svegliandomi canzone
nel mio disarmato
disordine

Pizzicando le corde
dei bassi e dei fiati,
sussurrando i tamburi,
come una voglia
da succhiare

Succhiando le note come
cruda forza d’acqua che
fende le rocce
allagando la scorza tua
di raso

Perciò tu quante volte
così chiedimi
e così ascoltami:
ovunque canzone
[Milano, 3 novembre 2013]

***

DON BURNESS

Poem

Four months ago
You died
Magic flew away
I remember you every moment
Fifty years now seem like fifty days
It came it went
Like a passing cloud
Or April daffodils
Or a dream.

[Usa- May- 5- 2015]   


Poesia

Quattro mesi fa
Sei morta
La magia volò via
Ti ricordo in ogni momento
Cinquant'anni sembrano ora cinquanta giorni
Arrivati e andati
Come una nuvola passeggera
O come i narcisi d'aprile
O come un sogno.

[5 maggio 2015]  
(Traduzione it. Max Luciani)


INTENTA

Intenta a sopportare il  mio dolore,
sentivo e non lenivo quello altrui.
Anni di gioventù, infelici e bui,
vissuti senza sesso e senza amore.

Un malinteso senso del dovere
t’inchioda a recitare la tua parte.
Mescoli e rimescoli le carte
ma pur le albe ti sembrano sere.

Qualche barlume rischiara per poco,
ma intime risorse sconosciute
affiorano improvvise, non volute,
e prepotenti accendono il lor fuoco.

Emerge dal profondo un nuovo mondo,
ti lascia stupefatta e divertita.
Bastava un po’ di carta, una matita,
ti fan le Muse intorno un girotondo.

Erato, Calliope pazzerelle
ti esortano e ti prendono per mano.
C’era dentro di te un tesoro arcano,
ridon le rime, sian pur brutte o belle.

Lorenza Franco
[Rapallo, 5 maggio 2015]

Giovanni Faccioli "Il gioco"

Aforismi
di Laura Margherita Volante

Alla ricerca del tempo bastonato...
La sragionevolezza della politica serve a manipolare le emozioni del popolo non più sovrano.
L'età anagrafica disse a quella biologica: “ Mi fai una rabbia, per te il tempo non passa mai!”
al che l'età biologica rispose: “Tu come un ragioniere segni il tempo che non c'è,  io di contro vivo
senza tempo...”
Meglio una fetta di torta per il compleanno o essere intortati? La prima se non te la tirano
in faccia si condivide. Nel secondo caso la vecchiaia è ancora molto lontana...
Ieri si scrivevano epitaffi sui monumenti per ricordare la storia...Oggi si cancellano
precipitando nella preistoria.
La speranza è il motore dell'agire umano.

Usi e costumi.
Ieri si cantava insieme pedalando nel vento...oggi l'aria tira in una girandola di identità
perse nell'indifferenza.
Ieri si moriva vivendo da eroi. Oggi si vive morendo da vili...
Ieri era costume esercitare il controllo di sé. Oggi è in uso il potere di esercitare il controllo.
Meno di un cane? Il cane ha bisogno di carezze e le accetta anche da uno scemo...
perché non lo sa.
Quando si va all'essenza resta l'assenza dell'ultima parola...
Il silenzio quando non è la più alta forma di disprezzo è la più bassa forma di livore... 


Tra Verdi e Wagner
di Gabriele Scaramuzza
La copertina del libro

Sono benvenuti volumi come Un duplice anniversario: Giuseppe Verdi e Richard Wagner (a cura di Ilaria Bonomi, Franca Cella, Luciano Martini, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Milano 2014). Non ultimo perché sfatano lo stantio luogo comune della contrapposizione tra Verdi e Wagner. Non è affatto detto che il mondo dell’arte debba essere vissuto come un campo di comparazioni oppositive, dove non si possa fruire un’opera senza immediatamente porla in competizione con altre.
La conflittualità tra questi due artisti ha certo lontane radici nella nostra cultura; Emilio Sala (che peraltro è del tutto alieno a ogni accentuazione del contrasto) le ha indagate da par suo nel contributo che da dedicato alla ricezione del Lohengrin alla Scala. In questo ambito è da leggere anche “Verdi e il wagnerismo nel movimento germanico italiano” di Antonio Rostagno.
Risvolti da tener presenti, che toccano i rapporti tra verdismo e wagnerismo, si trovano anche in “Congedo musicale” di Luciano Martini (riguarda Toscanini, che sapeva amare e capire Verdi non meno di Wagner); e in contributi quali quelli di Stefano Baia Curioni e Laura Forti; e di Franca Cella sul rapporto di Verdi col salotto di Clara Maffei, in cui la cultura tedesca era presente quanto meno tramite Andrea Maffei. 
Un posto a sé va riservato a Ilaria Bonomi, che ha scritto un saggio davvero magistrale su “Lingua e drammaturgia nei libretti verdiani”, tema da sempre avvincente per me. Bonomi, con E. Buroni già aveva curato Il magnifico parassita. Librettisti, libretti e lingua poetica nella storia dell’opera italiana (con contributi di Valeria Marina Gaffuri e Stefano Saino), Franco Angeli, Milano 2010.  Il saggio che penetra più a fondo e diffusamente nel tessuto drammatico-musicale verdiano è tuttavia quello che Fabrizio Della Seta dedica al Trovatore. Egli sottolinea la eccentricità di quest’opera nel mondo verdiano, e la “difficoltà di coglierne un messaggio, un significato”, che invece è più agevole cogliere in altre opere quali Rigoletto e Traviata. E ricorre (come Berio suggerisce) a temi psicanalitici, in effetti molto utili per interpretare personaggi e situazioni. Leggiamo: “l’apparente illogicità del libretto […] è tale rispetto alla logica aristotelica”, discorsiva, diurna; “la vita emotiva ne segue una propria totalmente diversa”, imprevedibile. Riprendendo Francesco Orlando, Della Seta dichiara che non siamo di fronte a un “banale psicologismo dell’autore o del personaggio”, bensì a una concezione del drammatico-musicale “come sistema simbolico strutturato secondo principi formali analoghi a quelli che governano le manifestazioni dell’inconscio”.  Talché Manrico può ben essere vuoi figlio di Azucena, vuoi fratello del Conte; senza rispettare il principio di non contraddizione. La conclamata oscurità del testo (comunque tale fino alla prima scena del secondo atto inclusa, secondo Della Seta) è da lasciar valere in quanto tale, così come si manifesta; senza angosciarsi a scioglierla come se fosse un difetto cui rimediare, senza farla valere come giudizio negativo. 
Motivi psicanalitici sono dunque presenti nel testo: “La mia tesi è che nel Trovatore Verdi abbia dato espressione al conflitto basilare tra pulsione di vita e pulsione di morte”[1]. Amore e morte sono indissolubilmente legati in pressoché tutti i personaggi, ma emblematicamente in Leonora.  Certo, a tutta prima non è dramma di ambivalenze psicologiche Il Trovatore; sembra anzi piuttosto elementare nel suo susseguirsi di melodie felici, agevolmente godibili, e di caratteri univoci, tutt’altro che privi qualità (l’esatto contrario dell’uomo di Musil). Ma va anche letto in controluce; e qui la psicanalisi può fornire utili strumenti e rivelare un angosciante sottofondo non detto. Concludendo, sarebbe un sollievo oggi veder finalmente archiviati modi ingiustificatamente conflittuale di porsi di fronte a opere d’arte comunque degne del massimo rispetto, e di fronte a Verdi in particolare. Purtroppo di fatto non è così. 
Ci sono poche cose che vivo con tanto disagio quanto il sordo disprezzo verso Verdi; un dispregio di cui mai manca qualcuno a tutt’oggi che se faccia carico. Wagner ne è un antesignano, mai mancava di manifestare il suo disprezzo verso Verdi; non altrettanto si può dire di Verdi verso di lui.
E aggiungo che un simile modo di essere verso Verdi ha sfondi che non sono solo di gusto estetico-artistico o generalmente culturale, tanto meno di valutazioni formali. Affondano piuttosto le loro radici nell’ambito del sentire. In un mondo che esprime un’intera visione del mondo, a livello anche esistenziale, etico, e sociale.     
 Note
1.Idem   
                  ***
 LA BIBLIOTECA FANTASTICA DI ADAMO CALABRESE


 Aforismi Volanti…

Ogni giorno che vivo è un giorno di gioventù.
L'indifferenza è la coltre della stupidità.
La sicurezza è talmente vulnerabile che passare sotto una scala porta fortuna.
In tutto questo caos il caso è già “sfigato” di suo...
Il caso è il frutto di condotte ossessivo-compulsive della follia.
Per ridurre il rischio che un cornicione cada in testa è bene camminare a zig zag...
Una bella testa riflette. Una testa vuota si riempie solo di sciocchezze.
Gli appuntamenti mancati conducono verso abissi infiniti.
Laura M. Volante        
                                                                 




VALERIA DENTAMARO E LA SUA CONFESSIONE POETICA
di Laura Margherita Volante

Valeria Dentamaro

Quando si scopre un ‘Anima’ s’avverte il silenzio del Tutto. C’è qualcosa che sale dall’Io’ e che freme fra solitudini, angosce, amori, afrori di natura e vertigini interiori. E’ la rivolta di un essere pensante e sofferente dinanzi ad un mondo lacerato dal dolore, dalle delusioni, dalle illusioni. Nella poetica di Valeria Dentamaro, vissuta con intensità emotiva, c’è una sorta di incontro quotidiano con se stessi e con quanto ci circonda. In altri termini, una confessione a cielo aperto. (Cesare Baldoni).
Ho avuto la fortuna di conoscere Valeria in occasione di un importante evento culturale a Osimo. Da questo incontro un’amicizia al femminile, un sentirsi solidali e in sintonia. Una persona di grandi qualità umane e di spiccate doti artistiche, che mi ha coinvolto in altri incontri culturali e conviviali nel bellissimo centro osimano.
Metafore visioni ansia di assoluto per lenire le stanchezze del tempo e di una quotidianità mai risparmiata con generosità nell’impegno sociale e culturale, che ben si evince dalla sua breve biografia.
“La corsa di Valeria Dentamaro, della sua gioventù, si è conclusa sotto il nido appollaiato ad una grande quercia, ma tace il vento nel verde canneto”.(Cesare Baldoni).
Così lo scrittore Cesare Baldoni ritrae la poetica di Valeria Dentamaro nella prefazione del libro “La ghiaia del mio giardino”, fra le quali emerge la poesia, che desidero condividere con i lettori.

 La mela a metà

Il ramo mi veste d’una verde
                             sottana

ma l’occhio ammicca sull’orlo
                         d’una foglia
e il sole mi spoglia e m’indora
e la bocca ride nel morso
                         d’una mela.
Vieni, e l’ombra s’allunga     
a prendermi dolcemente
come il salice curvo
s’abbraccia
pigramente alla siepe spinosa.
E il silenzio sulla ghiaia,
                    nell’aria:
solo un lieto frusciare
(o forse le nostre parole quiete
e impossibili volano dietro
                  le brune api?).
Poi il ramo si spezza, e il sole brucia,
la mela è in terra, morsa a metà
perché ad un tratto ho perduto
nel respiro il tuo lieve contatto.

Seconda classificata al Premio “Voci Nostre” del  Concorso Internazionale di  Ancona con la poesia “La mela a metà”, l’autrice attraverso i suoi versi si immerge in una atmosfera idilliaca e malinconica nel grembo della madre terra fra suoni colori e silenzi che dicono quanto siano fragili i contatti. Imprevedibilità umana? Casualità? Quale la fine se tutto è possibile in un inizio di speranze e illusioni poi cadute così nel vento? Questa scena campestre ci riporta ai luoghi dannunziani in una intimità però tutta pascoliana. Eh sì, Valeria Dentamaro ama perdersi nella Natura benigna a consolazione della stanchezza di vivere fra delusioni disillusioni perché la mela a metà è Lei, morsa dalla vita spesso ingrata e… forse anche noi. Il libro “La Ghiaia del mio giardino” è accompagnato da suggestive immagini, opere d’autore, perché Valeria ama l’Arte, la Bellezza, l’Amore per aprirci varchi di speranza fra sogno e realtà dove il sogno in punta di piedi, sublimandola, si fa realtà.  
La copertina del libro

MILANO: IL CIELO, I NAVIGLI, LA DARSENA
Testo e foto di Paolo Maria Di Stefano

“Guarda il colore del cielo: è trasparente; è come se raccogliesse le ultime luci del giorno per fabbricare una notte particolare, una notte di cristallo azzurro”.
Ale mi indica il cielo sopra la Scala senza guardarmi, perduta nello spettacolo raro così tanto da diventare unico. I suoi occhi vivono del colore stesso di quel fondale animato dalla luce della luna e di Venere, e da quella appena accennata delle ancor rade stelle.
Una sera così a me ricorda Alessandra bambina, in quella età meravigliosa che si svolge attorno ai cinque anni e che è fatta di chiari sorrisi luminosi e veri, di felicità di vivere, di affetti assoluti, di ricordi e speranze in dialogo di sogno.
E’ una delle sere che Milano regala a chi la ama. Tra breve, sarà buio, per quanto può esserlo il cielo di una città.
E la notte svolgerà la sua vita.
“E’ la trasparenza dell’infinito” -prosegue Alessandra- “il colore che in Cantiere raccomandiamo per i progetti delle idee più creative. Ed è anche il luogo del mio ponte.”
La pausa di silenzio trasmette le vibrazioni dell’anima della giovane architetto, innamorata della sua città e ansiosa di contribuire a costruirne il futuro. 
“E pensare che esiste chi crede che Milano viva sotto un cielo lattiginoso fin quasi a diventare anonimo…” soggiunge, quasi mormorando.
“Beh! Non mi pare che il nostro cielo sia prevalentemente azzurro e sereno. Il più delle volte è proprio bianchiccio, quasi pesante e non certo allegro”.
Alessandra mi guarda come fossi appena giunto da qualche strano pianeta, tanto da obbligarmi a nascondermi dietro la citazione del più grande tra gli scrittori milanesi, quel Manzoni che ebbe a dire:“Quel cielo di Lombardia, così bello quand'è bello, così splendido, così in pace”. 
E commento: “Se il cielo di Milano fosse stato prevalentemente bello, Manzoni non avrebbe sentito il bisogno di descriverlo come ha fatto, e soprattutto di sottolinearne la bellezza “quando è bello”, che vuol dire che raramente lo è, bello. Non ti pare? Tra le altre cose, quel Manzoni lì non ne ha imbroccata una: che una cosa sia bella quando è bella è assolutamente scontato. Magari, bisognerebbe ricordare che non è facile trovare un bello oggettivo ed accettato da tutti, ma, trattandosi del cielo…; che il cielo di Milano sia così splendido, è un’opinione personale ed anche non vera, mi pare. Che sia così in pace, invece, vero lo sembra: è talmente bianchiccio e immobile che è possibile che sia in pace. Anche eterna, forse”.
Alessandra reagisce prontamente, come ogni volta che qualcuno esprime giudizi non entusiasti su Milano. E come sempre con me, assunta una vaga espressione didascalica mista ad un sorriso  paziente, “A parte il fatto che nessuno sa che cosa esattamente il cielo sia” -esordisce- “ la funzione del cielo non è quella di essere bello, sempre ammesso e non concesso che un cielo bigio o bianco sia brutto! Il cielo è il mondo nel quale i colori si rivelano e in forza del quale riescono a vivere.
E non esiste sfondo migliore, per rivelare i colori, della via di mezzo tra il bianco e il grigio. Ogni colore si rivela per quello che è, ed ogni colore ha la possibilità di affermarsi e competere con qualsiasi altro. E di costruire atmosfere insieme agli altri.
Il cielo è fondale essenziale perché la città possa, quando e come vuole, vestirsi di colore, e per questo si fa d’un lattiginoso uniforme: perché i colori possano disegnare quella personalità che rende Milano qualcosa di diverso, di unico. Si può immaginare che il cielo di Milano sia come una grande tela in attesa che un pittore la animi di pensieri e di sentimenti, di forme e di colori.
Una pausa breve. Poi, guardandomi ridente: “Ti ricordi di averla fotografata, quella tela?”
 Non mi sarei mai aspettato che una fotografia che avevo giudicato sbagliata e comunque senza significato potesse restare così viva nel ricordo di Alessandra, fino al punto di essere in grado di mostrarmela.
Foto 1





“La porto sempre con me” -mi spiega sorridendo- “perché mi ricorda che il mio lavoro è proprio progettare idee cui dare colore e forma e vita… E in un cielo bianco, tutto risalta meglio. E poi, un cielo bianco è lo strumento migliore per stimolare la creatività. Perché collabora preparando gli ambienti meglio adatti a valorizzare i pensieri e concretare i sogni. Se mi accompagni, te lo dimostrerò.”, conclude, prendendomi per mano.
 E’ decisamente bianco, il cielo, sul Naviglio Grande,  ai confini della Darsena. Vuoto e lattiginoso, eppure quasi custode di un’ombra di promessa riflessa dall’acqua.
Eccolo, quel cielo, nel pieno del suo infinito. Ed eccola, quella promessa, forse un suggerimento a pensare prima di esprimere giudizi: può, un cielo bianco, riflettersi vivo di colori? 
 
Foto 2
  
“Ma tu” -chiede improvvisamente Alessandra- “lo sai che l’idea, il progetto di questo Naviglio nascono dal bianco? Tutte le idee e le fantasie e i desideri che compongono la creatività il Cantiere le affida al bianco e all’indefinito formale.”
Le domande dell’architetto sono, per me, … domande d’architetto, appunto: raramente collegate con la pratica di ogni giorno, più spesso dense di pretese d’arte e di convincimento di una natura geniale della quale molto raramente gli architetti  fanno parte. Un mondo, quello degli architetti, più sognato che reale, nei meandri del quale non mi avventuro. Per pura prudenza. E dunque da parte mia senza risposta.
Del resto, Alessandra mi precede mostrandomi l’originale del progetto di ideazione elaborato dal cantiere:
 
Foto 3
 E mi spiega: “nel bianco sono tutti i colori, e chi elabora il progetto esecutivo non ha che l’imbarazzo della scelta. E nel bianco sono anche tutte le forme. Quindi, se chi mette insieme le forme ed i colori è un artista, l’opera è un capolavoro; se il progettista è mediocre, l’opera sarà mediocre, e probabilmente resterà tale. In cantiere noi progettiamo idee, e ciò che conta è la partecipazione dei singoli all’insieme.”.
Non mi è chiaro del tutto, ma Alessandra è ormai inarrestabile.
“Guarda cosa può diventare, in pratica, quel suggerimento.”.
 
Foto 4
  

“Vedi? Quel cielo bianco è divenuto d’un azzurro intenso, e si riflette assieme alle case ed al ponte, e il Naviglio si colora perché vivo. E guarda ancora, quando cerchiamo di annullare il buio della notte…”
Foto 5
“E soprattutto -prosegue- ti pare ancora che il cielo di Milano sia una massa informe bianchiccia e anonima?”
Cerco di glissare in qualche modo. Non posso non ammettere che pochi spettacoli sono così emozionanti come il Naviglio Grande illuminato la sera, ma non mi pare sufficiente per decidere che il cielo di Milano non sia il più delle volte lattiginoso e quasi senza personalità.
E lo dico ad Ale, che subito decide: “vieni a vedere” dice, trasportandomi in un  mondo per me non consueto, almeno non nel modo di guardarlo. E mi prepara: “il cielo si esprime sempre in modo adeguato alle circostanze e alla sua gente. Senza eccezioni.
Prima, però, guarda e saluta la Darsena, il suo cielo e i suoi riflessi. Capirai perché il Naviglio Grande ha lasciato il Ticino e racconta a Milano la storia di quei cinquanta chilometri fin dal 1250”.
“Ma se allora la Darsena non esisteva! Quattrocento anni dopo, forse…”
“Il tempo” -sentenzia Alessandra- “non è che una opinione. Non esisteva la Darsena, ma il Naviglio arrivava al Duomo, si può dire che lo abbia costruito. E lì ha vissuto sogni e desideri e realtà e sofferenze e gioie…La vita. E la Darsena ha raccolto i ricordi portati dall’acqua e li ha conservati e li colora a nuovo per il Naviglio.
 
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 La Darsena lo accoglie, il Naviglio, come una tavolozza, un mondo colorato, una realtà piena di sorprese. Soprattutto, gli porge la città nei suoi abiti migliori, quei riflessi anche fatti di sogni …”
 
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“Sogni che cambiano la città, la nobilitano, la forgiano in funzione dei desideri di ciascuno. Vedi? La nuova Darsena che sta nascendo si prepara ad accogliere la semplicità dei sogni della gente comune. Uno spicchio di mare personale, a casa, senza simboli di stato, senza eccessi. Vedrai: tra non molto, sarà pieno di bambini felici e di mamme serene e del parlare proprio della gioia.”.
 
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“E di speranze. Non è forse vero che quella barca è pronta a navigare verso l’infinito?”
 
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 Non mi par vero di poter obbiettare. “Sì, ma il naviglio Pavese la lascia, Milano…”
“E’ vero. La Darsena è insieme origine e fine. E non solo dei Navigli. La Darsena è la sintesi della storia della città. A Milano vive il presente e nasce il futuro, da Milano idee e speranze e creatività si spargono per il mondo. La Darsena rende concreti l’alfa e l’omega di ogni giorno. Da sempre.
E l’acqua fabbrica e conserva anche i ricordi.”
Si annunzia la sera. Ale guarda le barche già al riposo.
Una sembra aggrapparsi all’ultima luce: il riflesso annunzio del tramonto le fa compagnia e la rassicura.
  
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Le altre due sembrano essersi defilate. Sognano di essere ancora sulla Vecchia Darsena, protette dalle tracce d’un tempo trascorso appena. E sono tranquille.

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La sera avanza.
La Darsena si illumina e racconta. 
Risponde il cielo, sintesi dei colori di un’altra giornata nata dal bianco.

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Verdi di Marcello Conati
di Grabriele Scaramuzza


La copertina del libro
La recente pubblicazione presso Olschki di Piegare la nota. Contrappunto e dramma in Verdi, mi offre l’occasione non solo di segnalare un importante contributo agli studi verdiani, ma anche  di dedicare al suo autore, Marcello Conati, qualche nota che da tempo avevo in animo.   
 Il libro di Conati cade nel contesto della celebrazione dei duecento anni dalla nascita di Verdi. Se si vuole avere un quadro più completo della bibliografia verdiana di questi ultimi tempi, è necessario tener presente quanto meno lo studio esauriente di Raffaele Mellace, Con moltissima Passione. Ritratto di Giuseppe Verdi (2013); e anche, dello stesso autore,  Eredità di un centenario: Verdi e il suo mondo in due ambiziosi lavori di sintesi, apparso in “Studi Verdiani”, 24/2014,  pp. 270-280; in questo caso di un vero e proprio saggio si tratta, anche se prende l’avvio da una - pur ricca e ragionata comunque - recensione critica di Verdi Handbuch e di The Cambridge Verdi Encyclopedia (entrambi del 2013). 
Tornando a Conati, la mia innata simpatia per Verdi mi ha indotto un grande interesse verso le sue molteplici ricerche verdiane. Soprattutto perché mi hanno offerto, oltre a conoscenze indispensabili, un riconoscimento qualificato, e atteso, della mia esperienza di mero spettatore. Appassionata, certo, ma imparagonabile con quella di Conati, infinitamente più esperta sullo specifico piano drammaturgico-musicale e culturale.         
Di persona ho incontrato Conati una sola volta, a Parma, a quanto ricordo. Ma ho sempre letto con partecipazione i suoi lavori. Devo avergli inviato qualche mio scritto, ricevendone pareri comunque per me giovevoli, soprattutto quando critici. Della sua vita e del suo lungo impegno si trova un esauriente, sia pur succinto, profilo nei risvolti di copertina di Piegare la nota.   
Conati è milanese, e a Milano si è formato; ma ha svolto la maggior parte della sua molteplice attività altrove: è stato maestro sostituto all’Opernhaus di Zurigo, musicologo riconosciuto, docente al Conservatorio di Parma - città in cui ha collaborato anche con l’Istituto Nazionale di Studi Verdiani. A Milano, al liceo Carducci è stato compagno di banco di Fulvio Papi, che di “Odissea” è un po’ l’anima; di Marcello Conati mi ha sempre parlato con ammirazione e affetto; mi ha confessato di dovere a lui anzi qualcosa del suo amore, sia pur da mero ascoltatore, verso il mondo musicale; ricorda con nostalgia che gli suonava al piano musica classica, una volta la Morte di Isotta. Certo non Verdi.
Nell’introduzione a Piegare la nota scrive Conati: “allevato da mio padre, cantante, al culto di Wagner”, a “capire Verdi ci sono arrivato piuttosto tardi”, e “non certo per folgorazione”, bensì “per gradi”, attraverso una conoscenza pratica e un sistematico approfondimento dei problemi del suo teatro. Ma anche aggiunge che a Verdi è giunto per il fascino che ha esercitato su di lui l’uomo Verdi (è anche il titolo del noto libro di Frank Walker).     
Nella lunga esperienza di musica e di vita di Conati Verdi è stato una conquista raggiunta con grande dedizione, un traguardo direi. Questo è tanto più rimarchevole se si considera che proprio da Wagner è partito; non è approdato alle rarefatte atmosfere wagneriane lasciandosi alle spalle scontate (considerate persino riprovevoli poi) inclinazioni giovanili, emancipandosi da iniziali e troppo “facili” simpatie verdiane. Tanto meno ha fatto agire Wagner come metro di giudizio cui tutto commisurare, né il suo teatro come modello insuperabile in base a cui considerare, giustiziare anzi, tutto il teatro musicale. Se gli è ovviamente estraneo ogni verdismo corrivo, non di rado davvero imbarazzante, è ben lontano - e questo resta per me decisivo - “da tutti coloro che, assumendo un atteggiamento di aristocraticità estetizzante, prendono partito in favore di Wagner e disprezzano il teatro verdiano” (mutuo queste parole dall’articolo di Augusto Mazzoni: Da Gramsci a Parinetto. Il melodramma italiano: popolo e rivoluzione, apparso di recente su BresciaMusica)    
Il mio personale cammino dentro Verdi è stato l’opposto di quello di Conati, assai diverso è stato il mio approccio:  da mero per quanto attento ascoltatore; non da musicista né da musicologo. Posso rintracciare le date del nascere della mia passione per Bach, Mozart, Beethoven, Mahler, Stravinskij o Webern. Ma non quelle del nascere del mio amore per Verdi, che mi è dentro da sempre, come una sorta di dato di natura strettamente intrecciato al mio vissuto. Non sarò mai abbastanza grato a musicologi e uomini di cultura, non numerosissimi in verità, dotati di sensibilità in grado di apprezzare Verdi, e di cogliere da competenti la sostanza della sua opera. Vorrei citare qui innanzitutto, insieme a Conati, Fabrizio Della Seta, Gilles De Van, Emilio Sala, e poi via via Pierluigi Petrobelli, Massimo Mila, Julian Budden... 
Conati non ha mai recluso Verdi nell’immagine, pur giustificata, ma di per sé inadeguata, dell’uomo di teatro; “poco a poco, analisi dopo analisi” ha saputo coglier la grandezza di Verdi anche come musicista. Cosa che si vede in modo esemplare nel suo Rigoletto. Un’analisi drammatico-musicale (Marsilio 1992; con dedica a suo padre, significativa nel nostro contesto), dove quest’opera è affrontata con un ampio respiro culturale, oltre che con specifica consapevolezza drammaturgico-musicale. Non dimenticherei inoltre le laboriose e dettagliate ricerche che lo hanno condotto a La bottega della musica, Verdi e La Fenice (Il Saggiatore 1983), e soprattutto al bellissimo Verdi. Interviste e incontri (seconda ediz. EDT 2000). Costante è la sua acribia, la sua cura del particolare, il suo rifiuto di disperdersi in considerazioni generiche o, per altro verso, in una erudizione fine a sé. Non a caso, nel suo a tuttora insostituibile Giuseppe Verdi. Guida alla vita e alle opere (ETS 2003), Conati ci offre percorsi che attraversano insieme i contesti teatrale, musicale ed esistenziale di Verdi; e il tutto è accompagnato da una documentazione adeguata, che non trascura le immagini, le dichiarazioni di poetica, i contesti storici e culturali.
Tanto meno tacerei le sue ricerche su quella che considero tra le migliori in assoluto delle opere verdiane: Simon Boccanegra (Ricordi 1993). Una “ricognizione”, la sesta di Piegare la nota, è specificamente dedicata a questo dramma.
Nel complesso il libro consiste in una raccolta di saggi apparsi tra il 1969 e il 2007, dedicati a creazioni verdiane diverse: da Oberto Conte di San Bonifacio, Macbeth, Stiffelio, Luisa Miller, I Vespri siciliani, Aida, fino all’Ave Maria. Tutti i saggi sono tuttavia riuniti sotto un indice comune: il contrappunto nei drammi verdiani, come indica anche il titolo.
Scrive Conati nell’Introduzione: “Fatti i conti con quanto da me pubblicato in cinquant’anni di ricerche sulla vita e sull’opera di Verdi, la scelta definitiva degli argomenti è stata ispirata dal proposito di dare ampio spazio all’arte di Verdi e alla sua poetica di architetto in musica, ponendo in luce i suoi processi compositivi in funzione drammaturgica, esaminando i criteri di alcuni suoi rifacimenti, trattando di fonti drammatiche, di messinscena, di ballabili, di musica popolare, di problemi storiografici, di contrappunto...”. Nella consapevolezza che “è nel suo magistero musicale, costruito pietra su pietra  alla scuola ‘napoletana’ di Vincenzo Lavigna, che affonda le radici, a parer mio, il suo straordinario senso del teatro”; sottolinea “l’importanza decisiva esercitata sulla formazione musicale” di Verdi “dall’apprendimento tenace, quasi ossessivo, del contrappunto e dello stile fugato”. Opportunamente cita nel Preambolo al suo libro noti passi verdiani, ne cito uno per tutti: “per fare un’opera bisogna aver in corpo primieramente della musica”; e Conati aggiunge a chiarimento: “l’interesse che in Verdi suscita un soggetto d’opera prende sempre le mosse dalla possibilità di rinvenirvi le occasioni atte a tradurre gli effetti drammatici in strutture musicali in movimento, compiute e autosufficienti”. Verdi è attratto insomma innanzitutto, più che dai contenuti, dalla musicabilità di un testo.
Questo musicista ama presentarsi come un artista istintivo e spontaneo, ma ha alle spalle una solida formazione musicale. Dichiara (in un passo che Conati cita) di essere “il meno erudito di tutti” i musicisti passati e presenti. Ma aggiunge: “dico erudizione e non sapere musicale. Mentirei se dicessi che nella mia gioventù non abbia fatto lunghi e severi studi. Egli è per questo, che mi trovo aver la mano abbastanza forte a piegare la nota come desidero. Ed abbastanza sicura per ottenere, ordinariamente, gli effetti ch’io immagino”.  Non a caso Conati dà rilievo al “coraggioso sperimentalismo” di Verdi, che porta fino alle soglie del Novecento. 
Tra le intuizioni di Conati che più incoraggiano le mie impressioni di ascolto c’è quella della funzione drammaturgica e non esornativa dei ballabili: “i ritmi di danza sono spesso sfruttati da Verdi in funzione drammatica: essi vengono inseriti nel corso dell’azione scenica per definire musicalmente una situazione” (leggiamo nella quinta “ricognizione”, dedicata ai ballabili dei Vespri siciliani). Così gli esotismi di Aida, in relazione ai quali Conati riprende osservazioni assai penetranti di Della Seta (per cui l’aspetto esotico non è “un fatto di gusto e di colore”, ma un “elemento stilistico” rilevante drammaturgicamente). Qualcosa di analogo, direi (è una mia aggiunta), si può dire dei brindisi, diffusi nell’universo operistico verdiano (basti pensare anche solo a quello del Macbeth). Ma anche, in particolare, della “musica cupa e lugubre” che “annuncia l’arrivo di Fenena e degli Ebrei condannati a morte” nel quarto atto di Nabucco, e della “musica villereccia” che prepara l’arrivo di Re Duncano nel primo atto di Macbeth (su quest’ultima non dimenticherei le osservazioni di Francesco Degrada nel programma di sala della Scala del 1997-1998), entrambe con un andamento vagamente bandistico ma intensamente espressivo.  
A testimonianza del respiro ampio, accurato ma mai erudito fine a sé, degli scritti di Conati, sono rimasto colpito da talune sue notazioni sulla Messa da Requiem , che danno rilievo al sapore profondamente esistenziale che la intride. In un’ottica personale si associano a pagine che le ha dedicato Alice Cappagli (che ha contribuito più volte a “Odissea”). Nel suo saggio Variazione eidetica dell’opera musicale. Il Requiem di Verdi (in “Materiali di Estetica”, nuova serie, 1, 2010, pp. 71-79) scrive: la Messa da Requiem, al “carattere mistico del rito” aggiunge “il senso ultimo e comune all’umanità dell’incontro con la morte e quindi col mistero, con il nulla e con un’eternità negativa non ancora esperita e tuttavia inevitabile”. Non solo “tocca con drammaticità il senso della morte ma, cosa propria del misticismo, tocca quello proprio della ‘morte eterna’, del nulla che si sovrappone alla notte, che si contrappone a quello di una ‘vita eterna’ oggetto esclusivo della fede. Tutto il testo, dall’inizio alla fine è pervaso da timore, attesa, speranza, tanto che il Dies irae torna a irrompere alla fine nel Libera me Domine con il suo non a caso ‘allegro agitato’, che spezza l’implorazione dopo una sospensione di silenzio generale in cui si spegne un ‘pianissimo, allargando e morendo’ ”.  
Conati della Messa mette in luce il “sapore terrestre” che promana dalla “materialità stessa dell’esistenza umana espressa attraverso il canto”. Tutto il teatro verdiano, “popolato di infelici, di perseguitati,di ‘diversi’, di vittime sacrificali, sembra rianimarsi attraverso le inquiete pagine della Messa. Il gesto teatrale viene interamente assorbito dalla rappresentazione musicale del terrore dell’uomo serrato in un inesorabile confronto con la propria natura, della sua ribellione di fronte alla morte, del suo sgomento alla soglia dell’eterno ignoto, attraverso un percorso in cui l’accento epico s’alterna a quello elegiaco, il terrore allo sconforto, la preghiera allo scatto iracondo, il grido della disperazione a quell’anelito alla vita, che è il Libera me Domine”.   


 

L’AFORISMA
Credono in Dio per poterlo bestemmiare
Lorenza Franco





                                                                           ***
L’ARTISTA DELLE LACERAZIONI
Laura Margherita Volante conversa con l’artista Leonardo Nobili

Leonardo Nobili nel suo atelier

Volante: Quando nasce questa tua passione per l'Arte e la tua più alta espressività e quale significato assume nella tua esistenza come persona e uomo dei nostri tempi?

Nobili: La vocazione per l’arte nasce da una certa predisposizione che vive nella propria interiorità, nel proprio D.N.A. Sin dai primi anni della giovinezza ho sentito subito una necessità istintiva di comunicare. Le mie tematiche approfondiscono contenuti esistenziali, segni di vita vissuta che restano dentro di noi come ombre; Io cerco di esternare quelle problematiche, quelle angosce della vita e di superarle attraverso uno spazio di luce, che trovo soltanto nell’arte.

V: Talento passione fede i cardini per realizzare il sé come artista. Cosa ne pensi?

N: Cosa ne penso? E’ una cosa naturale il talento, la passione, la fede, rientra in un contesto di trasformazione nel mio lavoro, sia nella pittura, sia nella scultura, ma anche nei video e nelle performances. Inconsciamente ho sentito l’esigenza di recuperare nelle mie opere le immagini che nel tempo hanno caratterizzato la mia personalità artistica.
Sono passato da una figurazione iperrealistica ad una astrazione della forma fino a concettualizzare il mio linguaggio e renderlo più universale. Mi disse un giorno Frances Whitney, nel suo atelier di New York, guardando il mio lavoro: “Vedo che inserisci spesso vetri frantumati… Che cosa ti spinge ad usare continuamente questo materiale?”
Gli dissi semplicemente: “Non faccio altro che guardarmi attorno e catturare il riflesso nello specchio della nostra vita quotidiana. E’ la stessa cosa come guardare un paesaggio, con la sua forma, la sua luce, i suoi colori, è una sorpresa continua: dipende sempre da quale angolazione lo guardi.

V: Perché uno Spazio Nobili a Montelabbate di Pesaro? Quali finalità sono legate alla realizzazione di tale Spazio per te che hai esposto in varie parti del modo come ad es, Germania, Stati Uniti, ecc...?

N: Lo “Spazio Nobili”, nasce nel 2009 prende il nome dallo storico Palazzo del Comune, restaurato e riportato ai massimi splendori. Il sottoscritto ha donato al Comune di Montelabbate, una parte della produzione artistica del periodo 1980 - 2009 e cosi l’amministrazione Comunale mi ha dedicato questo spazio permanente dal nome “Spazio-Nobili”.
La creazione di questo spazio museale polivalente sarà il punto di partenza per altre iniziative culturali, come, mostre d’arte, (pittura, scultura, fotografia, video proiezioni, workshops, readings di poesie, conferenze, incontri con le scuole, ecc.

V: Di fronte a scenari apocalittici di oggi quale il messaggio di un artista contemporaneo e attraverso quale linguaggio espressivo può meglio raggiungere la sensibilità umana in un'ottica universalista?
 
Dal video "Oltre la soglia" (2014)
 N: A proposito di scenari apocalittici, ho realizzato in questi giorni aprile 2015, un opera dal titolo “Apocalypse” che rappresenta il disagio del nostro tempo, l’uomo ha perso la sua identità? Ma anche nei video e nelle performances, come “Materiali” o “Rifiuti umani” diventano elementi di scarto, materia umana, anch’essa ridotta ad oggetto di rifiuto.

V: Quali materiali usi per creare e rappresentare il linguaggio della tua anima e perché?

N: Lavoro con diversi materiali, ferro, vetro, plastiche, terre ecc. Mi piace sperimentare, temi sempre nuovi, sono sempre in movimento, in tensione continua. E questo mi dà energia e forza per ritrovare un mio equilibrio… Mi ispiro sempre a delle situazioni che coinvolgono la nostra vita quotidiana.

V: A quali maestri ti sei ispirato spiegando il tuo punto di vista e le motivazioni?

 N: Non mi sono mai ispirato ad un artista in particolare, ma ho guardato sempre con umiltà e con grande rispetto tutti quei grandi artisti che hanno segnato un pezzo di storia nei secoli.
Potrei citare alcuni nomi o movimenti più vicini al mio lavoro; Gli espressionisti astratti americani, e il nostro Burri per quanto riguarda la materia. Si tratta di un progetto proiettato nel futuro e di farlo conoscere possibilmente a livello nazionale ed internazionale. Poi, la mia attenzione si è spostata maggiormente sul colore, specialmente quando tratto temi dello spazio, allora potrei citare i blu di Yves Klein, ma tutte queste esperienze in trenta, quarant’anni di lavora hanno caratterizzato la mia personalità artistica. Infatti mi chiamano l’artista delle frantumazioni e delle lacerazioni.
Anche nei lavori più recenti con le inserzioni della fotografia, il corpo umano diventa oggetto, le grandi pennellate gestuali nere, nel corpo, diventano delle motivazioni concettuali che rappresenta il nostro tempo e la nostra vita quotidiana.

V: Spazio Nobili: quali prospettive? 

N: Si tratta di un progetto proiettato nel futuro e di farlo conoscere possibilmente a livello nazionale ed internazionale.

 

    BRUNO MURIALDO RACCONTA LE LANGHE
Con le parole e con le immagini



Vigne dalle mille diversità, luoghi del cuore e della mente, fantastica unicità. Strade che si inerpicano tra cascine e grappoli d’uva. Langa che ha due facce meravigliose, quella alta letteraria scaldata dal vento del mare e quella bassa dove le botti si fanno uniche e speciali, dove oggi il mondo riconosce la sua bellezza e la sua interezza, fata di profumi e di colori, dove il sole si fa più a picco che in altri luoghi. Langa il canto antico di un gallo che sembra arrivare come un presagio a ricordare la voce dei nostri padri, padroni di queste fatiche che oggi ripagano i loro figli. Terra fatta di orti e di foglie; ad ogni collina corrisponde un tempo e un modo, ad ogni uomo una forma.    Langa dove il paesaggio non assomiglia poi troppo alla sua gente,  un po’ gentile e un po’ sbruffona, infantile come una favola nel grande mare, dove navigano vigne e vigne e vigne  fino all’infinito. Oggi questo riconoscimento dato al passaggio, dovrà far crescere quella coscienza e quella cultura che gli uomini non hanno voluto ascoltare.



Racconto di Dago il Trifolao.
Cercatore di tartufi in terra di langa
Dago come tutte le sere si dirige verso il casolare dove Tina e Brigitta lo attendono. Tina e Brigitta sono i due cani da tartufo (Tabui) che Dago ha addestrato per la ricerca dei tuberi famosi come l’oro, ma molto più profumati, grandi come  diamanti, ma molto più grezzi. Dago vive a Neviglie, in un cascinale insieme a Teresa, la sua compagna della vita. Teresa in paese la chiamano la “Monaca” per la pazienza che ha ad attendere Dago che ogni mattina rientra stanco dal bosco e non sempre di buon umore; il bosco è generoso con lui ma sono tante le notti che di  profumo a casa ne porta in quantità esigua, porta  soltanto la fatica  e la fame dopo una notte a scorrazzare su e giù per  rive e guadi. Non vivono soltanto di tartufi, hanno vigne di Barbera e un meraviglioso orto, qualche animale, pecore, galline, un vitello da coscia e tanti cani addestrati come militari dal fiuto fine.

      
Il bosco lo oltrepassa soltanto di notte per il rito, la magia è fatta di silenzio rotto soltanto dal rumore della boscaglia e dal linguaggio dei rami mossi dal vento, dai tanti animali notturni che incrociano vagando tra le rocche e la selva. Quando c’è la luna piena a illuminare i sentieri, tutto diventa più facile e meno tortuosa la strada da seguire, fatta di dune e di stretti viottoli che salgono e scendono tra la sterpaglia. La magia si compie quando il cane fiuta il tartufo ed ecco che il viso del trifolao si illumina e la stanchezza svanisce; con la zappa e le mani scava fino a quando il buon Dio non svela la dimensione del tubero e regala  la certezza di  non aver passato una notte invano. 


Dago non deve  dimenticare mai  il premio ai suoi cani, il premio consiste nella zolletta di zucchero che i cani si guadagnano a lavoro finito, guai se non fosse così, addio ricerca e addio tartufi. Dago oltre ad essere un bravo trifolao è anche un poeta, un amante del silenzio, un adulatore della natura, amico del sole e della luna, un messaggero di valori affezionato degli animali e della serenità fatta un po’ a modo suo. Se si vuole trovare un difetto, il trifolao ce l’ha, ed è quello che hanno i cercatori d’oro di texana memoria, vendere al miglior prezzo possibile il ricavato senza guardare in faccia nessuno. 

Al mercato del tartufo di ottobre, durante la grande Fiera, si ritrovano alla buon ora con i loro fazzoletti gonfi di tartufi pronti a competere e mettere in mostra gli esemplari migliori, dopo averli puliti e lisciati come fossero ballerine a un concorso. È il momento della felicità e degli scherzi agli amici e perché no? di cene e bevute che durano fino a tarda ora. Dago e Teresa ci sono sempre, sono diventati famosi come due attori di Hollywood, conosciuti in America e Germania.  Adesso sono pronti per competere con un enorme esemplare che non hanno ancora fatto vedere a nessuno, lo sveleranno soltanto per l’Asta del tartufo di novembre e sarà una sorpresa per tutti.

 



IL NUOVO LIBRO DI GILBERTO ISELLA
di Rosa Pierno

La copertina del libro

Con Mobilune, il poeta Gilberto Isella e l’artista Loredana Müller registrano le loro osservazioni, tentando di definire una mobilissima e metamorfica luna. Il libro realizzato a quattro mani equivale a un’intelaiatura di concetti e immagini, formante una rete che è necessariamente istituita da percorrenze e scandita da soste, ma si tenga presente che vi é un’indipendenza di tutte le possibili definizioni e immagini.  Tale studio si risolve al fine con un rilancio, un approfondimento, un accostarsi, non volendo mai risolvere in maniera definitiva la questione “rappresentazione”, sia verbalmente sia graficamente. In conseguenza di questo approccio, il modo di formalizzare un oggetto acquisisce un rilievo di esclusiva importanza ed è esso che seguiremo per scoprire con quali strumenti e modalità Isella e Müller abbiano attuato la macchina rappresentativa.
Per Isella, luna è chiave simbolica che apre un mondo immaginifico, nient’affatto scientifico. Vi si affastellano sogni e visioni, in cui persino il futuro delle favole è soggetto a chiromantica visione. Per Isella non è la luna in quanto oggetto concreto ad avviare i motori, ma l’osservazione delle litografie di Loredana Müller, la quale, a sua volta, ha inteso rappresentare il satellite terrestre non nei suoi aspetti volatili, distanti, refrattari all’indagine dell’occhio, abbacinati dallo splendore, ma da materie presso di sé: la seta cangiante, la porosità o scabrosità delle superfici, le pagine scritte. In questa prossimità tutta giocata su un piano a cui è legato il proprio corpo, la luna s’individua solo per proiezione, tramite un escamotage, una trappola.
Loredana Müller riconfigura l’oggetto luna secondo piani proiettivi in cui si gioca esclusivamente la partita della rappresentazione più che dell’oggetto rappresentato. Non sarà allora la luna a essere visibile solo parzialmente poiché sorpresa durante le sue fasi: sarà la limitatezza del foglio a determinare la presenza di sue porzioni e spesso in contraddizione con la forma a falce: il foglio, infatti, segherà porzioni della calotta in maniera da risicarne la visibilità. La luna non entra nel foglio e solo per questo motivo non sarà pienamente visibile. Echi, prodotti graduando il colore, poi, toglieranno precisione all’immagine, per cui la falce sarà solo un gradiente di luminosità. Gli attributi della luna acquisiscono concretezza rispetto all’essenza: essa resta indefinita, ma non le sue caratteristiche. In questo senso si potrebbe azzardare che l’ipotesi della Müller sia più vicina a quella cartesiana e galileiana: cioè a un costeggiare la scienza nei suoi tentativi di esplorare la possibilità di definire l’oggetto in esame. Si ricorda, qui, per inciso, che Galilei è stato colui che ha inteso per primo definire il satellite legato all’orbita terrestre circoscrivendone le sole caratteristiche osservabili, non pretendendo di restituirne l’essenza.  
I segni della matita sembrano ripristinare l’ombra proiettata dai rilievi lunari, ma l’artista ricorre anche all’introduzione della carta da  musica, per un omaggio agli elementi che hanno fatto della luna un oggetto privilegiato di espressione non solo romantica. La Müller utilizza “una o più lastre di zinco, incise a puntasecca o ad acquaforte, unendole poi durante la fase di stampa, a testi incisi in linoleografia”. Note musicali e lettere dell’alfabeto istoriano i disegni creando il sostrato tutto concreto e materiale della luna fra noi.
La superficie lunare è resa con un lavorio delicatissimo, vero e proprio filo scritturale,  formante un traforo, un merletto, per ribadire, a un diverso livello, che la luna non è un corpo, non ha materia. La sfera satellitare non si distingue per trattamento dal cielo che la contiene. Il contenuto dell’insieme non si distingue dal campo che contiene l’elemento. Qui, paradosso e complessità allignano. Quest’ultima è resa in maniera astratta per mezzo di un cielo porzionato dal colore (e ci vengono in mente le tavole quattrocentesche con la rappresentazione delle diverse sfoglie del cielo: quella sublunare o quella in cui risiedono i santi e gli angeli). Non peritando di legare referenzialità al colore: i verdi pastello, gli ocra spolverati di proteine seriche, gli ori stemperati e i viola profumati: è tutta una sinfonia coloristica che trancia la luna così come presente nell’immaginario collettivo, per riconsegnarci un satellite sconosciuto.
Luna è ottenuta persino con asole di vuoto: ha forma d’occhio. In qualche modo la metafora per eccellenza, definita da Müller e riflessa da Isella. Il poeta preleva da un contenitore in cui l’elaborazione scientifica non è separata dall’alchimia né dagli errori. Ivi, egli pesca lemmi e porzioni di racconto, spesso abortiti, schegge che, eppure, si sono conficcate nel nostro linguaggio quotidiano (ancora una volta, quindi prossimità del piano linguistico alla quotidianità esistenziale).   Ma Isella gioca anche sui vocaboli, spostando, ad esempio, la posizione del termine all’interno del contesto. Se il significato cambia, ciò avviene sempre per rinforzare la cifra del libro: la mutevolezza della luna ne è, di fatto, l’aspetto sostanziale:

tarme a spirale invadono rughe
dietro cui la falce del silenzio
tortura una faccia invisibile

Gilberto Isella, totalmente concentrato sulla superficie stampata, cerca in questa ogni ragguaglio, asperità, aggancio per costruire la sua pagina, tanto limata quanto lucidata, perfetta nel suo reclamare i punti della rete pressoché infinita delle sollecitazioni poetiche. Sollecitazioni che luna dovrebbe procurare, mentre è arte che s’incarica di veicolare e creare.
Nessun freno, paletto, confine nelle aree semantiche e culturali è presente:

e quieta discenda nella marea
che avanza e si ritrae
dentro un acquario di gingilli
accerchiato da grondaie

A pescare nella rete simbolica, analogie tramano, alfine, un tessuto che stringe insieme immagini e testo poetico, storia e scienza, senza soluzione di continuità, ma solo per stenderli insieme sul piano bidimensionale della cultura, non certo perché ci sia assimilazione delle forme artistiche specifiche. La straordinaria simbiosi raggiunta dalla coppia Isella-Müller vede un epilogo folgorante con una litografia rugginosa e pulverulenta e il  seguente trittico di splendidi versi:

talvolta la posiamo sull’altare
e lei diventa l’ostia
da cui sanguina il nostro pulsare

in un rilancio siderale operato dal poeta, ove, questa volta, è l’immagine a rincorrere     la parola. 

Gilberto IsellaMobilune” incisioni di Loredana Müller,
SalvioniEdizioni, Bellinzona, 2015




FRANCESCO PISCITELLO

Penelope
PENELOPE

Penelope si chiama
ma per gli amici
è solamente Penny.

Non appena mi vede da lontano
uggiola, non abbaia
e quando me ne vado
non abbaia, guaisce.
La lingua non le serve per parlare
(ed per questo che non può mentire)
ma solo per rispondermi
con i suoi voluttuosi, umidi baci,
alle carezze che chiede avidamente.

Penny
non ringhia mai,
perché non è capace
di far qualunque cosa
che non sia amare.


                        

    IL PICCOLO VILLAGGIO ALPINO


Cercando nella memoria vi trovo un paesino, cui ho lasciato il cuore, di trecento anime sulle montagne del trentino. Quivi vi era un negozio di alimentari ed un piccolo supermercato che si facevano concorrenza, un tabaccaio che vendeva anche i giornali quando arrivavano e all'ingresso del paese il ‘Bar Scoiattolo’ il cui oste piccolo e dai modi ambigui era provvisto di entrambi i sessi (gli antichi romani ritenevano doni divini gli ermafroditi). In una frazione arroccata sul pendio del monte distante due chilometri dal villaggio  ci si poteva ristorare altresì, in una locanda di nome Cima Verde di proprietà di un anziano signore dai folti baffi austro-ungarici. Il luogo di vocazione turistica per l'aria particolarmente salubre vantava due modesti alberghi. La proprietaria di uno dei due, donna ancora piacente, offriva la propria ospitalità aggiungendo prestazioni personali osè.
Si poteva trovare in quel posto chi per motivi professionali aveva contratto malattie polmonari ed era lì con il sussidio della mutua inviato in sito climatico salubre. Tre cime sovrastavano la località: il Cornetto, Cima Verde e il Dos d'Abramo nome di sapore biblico.
La pieve tranquilla e timorata di dio vedeva gli uomini il sabato sera prendersi la bala (la sbronza).
Uno degli ospiti vacanzieri alloggiati in una casa privata sosteneva di aver conosciuto il piccolo borgo per essere stato ivi paracadutato durante la guerra in una missione (ciò non è mai stato approfondito sufficientemente).
Arrivò un giorno da quelle parti tale Antonio Quattro, napoletano che per le sue previsioni sul futuro della gente gli fu messa a disposizione la piccola scuola del paese, chiusa nel periodo estivo, per tenervi conferenze di arte occulta.
In realtà si scoprì che era un imbroglione. Anche questo paese è tutta un'illusione; un'illusione d'estate.
Tiziano Rovelli 

***
LETTERA A MIA MAMMA
di Tiziano Rovelli
Scultura di Adolfo Wildt

Ciao mio dolce amore. Il tuo trapasso è stato doloroso. Tu sai che sei stata il mio più grande amore. Voglio dirti grazie per avermi messo al mondo, ma non avrei mai voluto che tu pagassi un prezzo cosi alto; era molto meglio che tu continuassi a vivere ed ero io a sacrificarmi se proprio questo era il volere di Dio. Voglio parlarti tanto tanto ed il mio più grande dispiacere è di non poterti abbracciare come vorrei, come la mia anima anela e si strugge.
Io non mi allontano da te, mai!
Ti abbraccio
Tuo Tiziano
***
Ho sentito in lontananza come un soffio di vento, una brezza marina che infrange le onde spumeggianti contro gli scogli e una voce pareva sussurrare:
io sono fiera di te e ti sono sempre stata vicino.

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IL CUORE NON DIMENTICA


Sensazione di primavera, gli uccellini cinguettano, le foglie sbocciano color smeraldo.
Io con te sto bene, ti amo da morire. L'amore ha raggiunto il suo culmine, si stempera in mille giorni tutti uguali. Devo andare. Per la mia strada la pioggia lieve mi bagna come un pianto con infinito struggente rimpianto. Non rivide più quella ragazza. Passarono quarant'anni. Giuseppe era in coda all'accettazione dell'ospedale di Niguarda per prenotare una visita, quando la vide.
“Io ti conosco”.
“Infatti ci conosciamo ma è passato tanto tempo”.
“Sei cambiata ma non al punto da non riconoscerti”.
“Anche tu”.
“Non ricordo il tuo nome”. “Giovanna”.
“Qui c'è molto da aspettare, ti potrei invitare a prendere un caffè, così parliamo del passato”.
“Volentieri”.
Si avviarono fuori dall'ospedale alla ricerca di un bar tranquillo e di un posto appartato dove poter parlare. Seduti in un tavolino in fondo ordinarono, dato che si avvicinava mezzogiorno, due aperitivi.
Ti trovo bene – disse Giuseppe – sembra che il tempo non sia trascorso per te”.
Giovanna: “Al contrario qualche segno lo vedo sulla tua persona”.
“Pazienza ce ne faremo una ragione.
“Sono stato felice; se fossi stato un uomo... Acqua passata”.
“Stavo bene, avrei dovuto stare per sempre con te”.
“Ho sofferto molto quando te ne sei andato e per un certo periodo mi sono buttata via”.
“Facciamo finta che non sia passato il tempo, ora siamo qui noi due, cancelliamo tutto e riprendiamoci la nostra giovinezza”.
Si era avvicinato a lei e le stringeva la mano. Sentiva il suo calore passare dalla mano nel corpo e nell'animo. Anche lei si era avvicinata a lui e nel trasporto del momento si accostarono i volti e le labbra. Lui fece per baciarla ma lei non volle.
Non si possono cancellare questi anni. Tu mi hai tradita per il tuo animo vagabondo e irrequieto. Mi hai fatto soffrire, la mia vita da allora ha preso una svolta diversa e decisiva. Ora l'amore con te non più.”
“Perché Giovanna non possiamo ritrovare l'amore dei vent'anni, in fondo potrebbe appartenerci.”
“L'amore è un piccolo gracile fiore che ha bisogno di assidua e regolare cura. I troppi anni trascorsi ci hanno definitivamente separati, hanno diversificato le nostre strade. Cancellare molti anni della nostra vita sarebbe come concederci un oblio che non c'è dovuto.”
Si alzò, lo salutò e uscì dal bar.
Tiziano Rovelli 

***

Il sole d'autunno


Sono in un piccolo parco vicino a casa mia. Ricordo quando ci portavo il mio cane. Ora lui non c’è più. Io mi sdoppio, sono qua ora ed altrettanto vero attuale e presente sono qui con il mio cane. I ricordi ti trasportano immediatamente nel punto del tempo da dove provengono e li vivi come realtà attuale. Ma lui ora non c’è più. Questo ti trasmette un senso del trascorrere del tempo che pur non esiste nell'alternarsi della notte e del di’ e avverti un vuoto. Nella mia vita ho dato le cose che dovevo dare alla società e alla famiglia. Non mi resta che perdermi nel nulla di un giorno assolato d'autunno nel piccolo parco odoroso, ora come allora, di terra umida di rugiada.                                    
Tiziano Rovelli

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INCOMUNICABILITÀ E VIOLENZA


Non capisco. Non capisco e basta. Le mie parole rimbalzano inutili come in una immensa eco. Nulla. Il mio dire è nulla. Niente viene recepito. Il contenuto intellettivo del mio cranio. La testa come una palla rimbalza contro un muro di gomma. Anche la volontà? La volontà di farsi capire.
E' curioso come due persone si parlino ribadendo costantemente il proprio punto di vista. Non c’è possibilità di dialogo. L'una accusa l'altra. L'altra o tace o accusa a sua volta. Siamo di fronte a esseri diversi per natura. L'uno mite, l'altro arrogante. Credo di essere stato sempre mite e sottoposto alla verbale violenza altrui. Magari anch'io devo annettermi la mia parte di arroganza, se non nelle parole almeno nei fatti, nel comportamento; chi lo sa, non mi è chiaro abbastanza.
Le accuse degenerano in tono di voce alterata che potrebbe sfociare in botte. Ti voglio punire, ti punisco, ti ho punito. Sono confuso, in me sentimenti di paura, di rabbia, di ira si miscelano. Dall'impotenza comunicativa scaturisce la prepotenza. Poi tutto comunque fila liscio in un comportamento civile che nasconde odio per gli altri e la pietà riservata a se stesso.
Non ci si deve meravigliare che in questo mondo vi siano massacri e guerre.
La pace non esiste neanche in una stretta di mano quando le persone non sanno dialogare serenamente mettendo al di sopra non le verità personali ma un qualche tipo di verità oggettiva. In questo caso occorre la comprensione reciproca ed un punto di vista super partes.
Tipico è il caso dei divorziandi quando si pensi che fra loro vi era un sentimento più elevato. Gli amanti si innalzano al di sopra del fango ma finiscono a volte per ritornarvici in strepitose cadute. Non solo caduta di tono.
Ciò che rimane è l'immane specchio, riflesso dei tuoi tic nervosi.
Si trasformano su grande scala nel crepitio dei fucili automatici.
Tiziano Rovelli



IN MEMORIA DI GRAZIA LIVI
di Angelo Gaccione


Nella foto Gilberto Finzi e Grazia Livi -Milano -6 giugno 2011
in occasione del compleanno del poeta.
(Un grazie a Loredana Cilione, compagna di Gilberto per questo regalo)


Può capitare, in una città indaffarata, affannata, nevrotica e alquanto distratta come Milano, di venire a sapere della morte di una cara amica e di una scrittrice di valore, a distanza di mesi. Se capita durante la desolazione estiva, o durante le feste natalizie, potete starne certi: nessuna morte farà rumore. Neppure un’eco. E se qualcuno lo viene a sapere, si guarderà bene di farvene partecipi.
Così sono concepite le relazioni in questa città, nel mondo delle lettere.
Da un certo punto di vista, può essere anche vantaggioso andarsene nel più assoluto anonimato. I funerali odierni, soprattutto quelli che riguardano persone in vista o che hanno avuto una qualche presenza nello spazio pubblico, si sono trasformati in un vero e proprio spettacolo da cui la morte, e i suoi significati, sono scomparsi. Spesso uno spettacolo indecoroso fatto di applausi, dichiarazioni fuori luogo e retoriche, letture, come se si fosse a una festa e non ad una cerimonia di lutto. È un fastidio che tutte le volte mi prende e che non riesco a rimuovere.
Forse è stato per sfuggire a questa pessima pratica che un drammaturgo come Samuel Beckett, ha voluto che la notizia della sua morte fosse data alcuni giorni dopo gli avvenuti funerali; e altrettanto ha fatto l’amico e poeta bolognese Roberto Roversi.
La scrittrice fiorentina Grazia Livi è morta a Milano il 18 gennaio di quest’anno. Meno di un mese prima, e precisamente il giorno di Natale, era morto, anche lui a Milano, il poeta mantovano Gilberto Finzi. Entrambi erano amici: avevano collaborato ad un libro a quattro mani (“Mi hanno detto no”) uscito per la Leonardo nel 1992, in cui davano conto di una serie di clamorosi rifiuti editoriali di importanti autori; Finzi le aveva anche pubblicato nel 2010, nella Collana che allora dirigeva per Lampi di Stampa “L’approdo invisibile”, firmando anche l’introduzione al volume.
Di entrambi sono stato amico anch’io: nel 1995 Finzi scrisse l’introduzione al mio libro di racconti “La striscia di cuoio” e collaborò a “Odissea”; Grazia Livi mi voleva bene: fu la persona che mi telefonò di più durante la lunga convalescenza seguita al brutto intervento chirurgico che avevo subìto nel 2012. Apprezzava “Odissea” a cui era abbonata, e di cui parlava entusiasta ai suoi tanti amici. Era stata lei a favorire il contatto con l’urbanista Jacopo Gardella e a chiedermi di invitarlo a scrivere sul giornale. Quando poteva, non mancava agli incontri da me organizzati allo “Spazio Lattuada” e negli altri luoghi della città. Si era commossa alla lettura del mio libretto “Lettere ad Azzurra” e mi lasciò un messaggio bellissimo sulla segreteria telefonica. Diceva che era “magico” con la g pronunciata con il suono dolce della sua lingua toscana.





                          Foto: In terza fila Grazia Livi con i suoi bei capelli bianchi
                          alla sala del Grechetto della Biblioteca Sormani di Milano
                          il 27 Settembre 2013 per il decennale di “Odissea”.
                          In prima fila i filosofi F. Papi e R. De Monticelli.
                          Nando Dalla Chiesa  sfoglia “Odissea”. 


Prima dello scorso Natale le avevo lasciato in portineria il librino di poesia di Piscitello di cui apprezzava gli scritti su “Odissea”. Non mi aveva chiamato come faceva di solito; pensai fosse andata a Roma dalla sorella per le feste. Invece la salute l’aveva tradita e da lì a poco è morta. In quel periodo anch’io ero ammalato e mi dibattevo in varie angustie. Non ho fatto in tempo a rivederla e ho saputo della sua morte a distanza di tempo. Dalla signora che l’ha accudita fino alla morte, ho saputo che la salma è stata portata a Fubine, in provincia di Alessandria, dove da anni passava le estati e dove aveva avuto una casa. A Fubine è sepolto l’uomo che aveva sposato, l’omeopata Mario Garlasco. Grazia era nata a Firenze nel 1930, ma viveva a Milano, in via Galeazzo Alessi, fra Porta Ticinese e Porta Genova: a due passi dalle Colonne di San Lorenzo. Quella via e quella zona gliela avevo fatta raccontare per il ponderoso volume da me curato e pubblicato dalla Viennepierre (“La città narrata”), di cui facemmo ben 3 edizioni. Per il libro di racconti dedicati agli oggetti e pubblicato nel 2008 dalle Edizioni Nuove Scritture, mi diede invece un delicato raccontino dal titolo “Il salvadanaio”.
Era mite e dolce e ammirava la devozione con cui Mirella mi curava, soprattutto dopo la mia malattia. La lettura del racconto “Sonata in due movimenti” che le avevo mandato in anteprima subito dopo averlo scritto e in cui raccontavo l’allucinante esperienza ospedaliera che mi era capitata, la turbò molto e le sue telefonate mi erano di conforto.
È stata una magnifica scrittrice, Grazia Livi, e una donna rigorosa. Lontana dal vaniloquio e dalle mode: le volevo bene anche per questo.






"Odissea" ha chiesto ad alcuni amici della scrittrice  di scriverne un ricordo per ricordarla nel modo più degno e come meritava. Questi di Giulia Contri e di Roberto Caracci sono i primi, altri seguiranno.

NON DONNA DI DOVERI MA DI “POTERE”
di Giulia Contri

Anche l’uomo nasce oppresso
da poteri e doveri
il più delle volte
fare il padrone
gli costa la fatica di Sisifo
Edith Bruck¹




Parlavo spesso con Grazia Livi, mia amica da anni, del problema che le donne hanno di “potere” (verbo) soddisfare la propria autonomia di pensiero senza dipendenze e sottomissioni a chiunque (agli uomini? ai modelli familiari, sociali, culturali?) ritenuto (obtorto collo?) onnipotente a fronte della propria insignificanza e inconsistenza.
Avevo compreso che di tale questione, consapevolmente elaborata da lei, e scandagliata con singolare acume nei testi delle poetesse e delle narratrici cui aveva dedicato la propria instancabile opera, ella desiderava parlare con una persona reale, hic et nunc. Con me, psicoanalista, nel caso, che faceva di tale problema di “potere” un nodo da sciogliere non solo dalle donne ma anche dagli uomini, in stretta relazione sì con la differenza sessuale, ma anche a con tutte le altre differenze.
In secondo piano, negli ultimi anni, era passata per lei la conclusione, tratta ai tempi della propria analisi, di non aver superato lo scoglio della presupposta impossibilità che “uomini e donne lavorino insieme alla medesima causa”, “due soggetti uno accanto all’altro in un equilibrio difficile e in una complementarità ardua, tutta da reinventare”(2). L’aver ella scelto come analista un uomo, inevitabilmente legato, a suo dire, ad una “concezione del mondo androcentrica”(3), non le avrebbe facilitato quel superamento.
Suo desiderio era, nell’attuale, di frequentare persone in carne ed ossa -per quanto mi riguarda, ovviamente, la sottoscritta- con cui confrontarsi sul punto dei rapporti, che le faceva problema. “Volevo amare di più…volevo essere capita meglio”(4): dare spunto, dunque, lei a possibili interlocutori a colloquiare con lei; trovare lei materia negli altri per conversazioni soddisfacenti, al fine di “recidere il filo di dipendenza e di possesso che lega agli altri”(5).  
Era chiaro che il nodo dell’“obbedienza” all’ipse dixit ella si proponeva di scioglierlo come donna, storicamente pensata nella cultura, e pensantesi poi ella stessa individualmente, pur senza adattarvisi, “smarrita nella propria nullità”, per usare le parole della poetessa Neera, per la quale l’uomo è “la sovranità incarnata”(6); o ancora presa, come Emily Dikinson, da “timore spaurito e adorante” nei confronti dell’uomo in quanto, come donna, ella è “colei che sta al margine e da quel margine tenue, dubitoso, incerto, leva lo sguardo per incontrare la vetta”(7); o teorizzante “l’insignificanza della donna…e la sua assenza dalla storia” come la Virginia Woolf de Le tre ghinee (8); o “anelante a perdersi nell’onniscienza dell’altro, nei suoi imprevisti domini, ad arrendervisi” in una dedizione sacrificale, come la sposa di Tolstoj de Lo sposo impaziente (9).


Nodo irrisolto, seppur contraddittoriamente vissuto, restava per Grazia Livi quello di una certa concezione deterministica delle donne, vittime, designate storicamente, dell’idea della loro inferiorità a fronte del posto di protagonista attribuito all’uomo.
Era proprio questa contraddizione che lasciava aperto per Grazia, nelle conversazioni con me, lo spazio per ripensare l’inferiorità come concepibile e assumibile allo stesso modo da soggetti di ambedue i sessi: quando parlammo, infatti, della protagonista di un suo racconto, La finestra illuminata (10), che fantastica dell’uomo come possibile partner senza riuscire a pensarlo tale, ella mostrò di aver desiderio di mettere in causa con me quel ‘duello’ o ‘colluttazione’ -in cui diceva ne Lo sposo impaziente consistere i rapporti ‘matrimoniali’- come per correità dei due partners, laddove presupposto ne potrebbe essere la disponibilità reciproca a farsi apportatori di conciliazione e di intesa.
Ricordo che al proposito le avevo ricordato che anche Sonia e Lev de Lo sposo impaziente duellavano, alternando continuamente affetto e guerra, incapaci l’uno di uscire da una posizione di comando, l’altra da quella di soggezione. Questa equa attribuzione di ruoli a uomo e donna nel far fallire la pace nei rapporti la interessava incuriosendola intellettualmente.
Quando poi rammentai, sempre in quella conversazione, a Grazia che ella stessa in Narrare è un destino diceva: “Ci deve essere qualche collaborazione nella mente tra la donna e l’uomo…ci deve essere un matrimonio dei contrari” (11), annuiva al mio dire che, se tale collaborazione, tale matrimonio -o incontro- tra dissimmetrie non si dà, è perché ambedue i partners affondano a pari merito il ‘coniugio’ non fondandolo sullo scambio proficuo che sulla dissimmetria si può basare.
Accettava dunque di buon grado da me, facendone motivo di riflessione e di rappacificazione del proprio pensiero, che dominio e sottomissione, timore e sopraffazione, dedizione e imposizione non possono che esser posti da donna e uomo insieme come ostacoli complementari al buon funzionamento tra sessi: così come essi ostacoli vanno ad impedire la soddisfazione in genere nel rapporto tra diversi se la diversità si fa motivo di scontro e inimicizia piuttosto che occasione di profitto e di beneficio.
Sottolineo, a conclusione di questo mio ricordo, che con me -e penso anche con altri interlocutori- nei suoi colloqui degli ultimi tempi della sua vita Grazia Livi non sentiva neppur più la necessità di far riferimento ai temi della sua produzione letteraria, che dava per scontati: le stavano a cuore i buoni rapporti che riusciva a stabilire con chi invogliava a corrisponderle e con chi le esprimeva piacere ad incontrarla, al di là che fosse uomo o donna, scrittore o psicoanalista, filosofo o giurista.

Note
1.Narrare è un destino, La Tartaruga Edizioni, Milano 2002, p. 157.
2.Ivi, p. 155.
3.Ivi, p. 162.
4.Ivi, p. 19.
5.Ivi, p. 166.
6.Ivi, p. 160.
7.Ivi, p. 149.
8.Da una stanza all’altra, La tartaruga Edizioni, Milano, 2012, p. 41.
9.Lo sposo impaziente, Garzanti, Milano, 2006, p. 55.
10.La finestra illuminata, La Tartaruga Edizioni, Milano, 2000.
11.Narrare è un destino, cit., p. 79.


 

VIAGGIO IN CARROZZA VERSO IL DESTINO
di Roberto Caracci


Il migliore modo di cui dispongo per ricordare quella grande narratrice, saggista e soprattutto ‘donna’ che è stata Grazia Livi, è riportare qui quanto ebbi modo di scrivere sul suo ultimo romanzo, imperniato sull’amato Toltsoj e la sua consorte, e mirabilmente condotto e documentato, in occasione della presentazione della Livi al ‘Salotto Caracci’ di Milano, di cui era affezionata amica. Essendo ancora frastornato da questa scomparsa, non posso che farle giungere -se da qualche parte ancora si trova- questo piccolo omaggio, già da lei letto in vita, con l’augurio che il suo ‘vaggio in carrozza verso il destino’ sia stato e magari continui ad essere meno triste di quella di Sofia Tolstaja, la sua ultima eroina.

Appunti su Lo sposo impaziente
UNO SPECIALE VIAGGIO DI NOZZE IN CARROZZA
Tutto in un viaggio in carrozza. Tutto il destino futuro di una coppia celebre come il 34 enne Tolstoj e la 18 enne Sofia concentrato nel viaggio di nozze e di trasbordo da una casa all’altra: dalla casa di lei ancora quasi fanciulla e ignara della vita, alla casa di campagna del conte Tolstoj, dove rimarranno l’intera esistenza e metteranno al mondo tredici figli. Un racconto con un retroterra storico, densamente documentato, raffinato, leggero, di sottilissima perizia psicologica, che ricostruisce con maestria di stampo quasi ottocentesco l’incontro-scontro fra due grandi personalità, l’una nascente e ancora nel guscio (quella di lei), l’altra ormai forte e consolidata.



Il TEMPO INTERIORE DEL DOPPIO DIALOGO E DEL DOPPIO MONOLOGO
Il tempo narrativo -il tempo di questo trasbordo in carrozza tra pozzanghere e scossoni- è un tempo quasi reale, lento e fluido, in presa diretta. Ma non è tanto il tempo delle azioni, dei gesti, dei due personaggi (poco accade durante il percorso di una scomoda carrozza a due cavalli su un sentiero accidentato delle campagne russe) a scorrere, ma quello interiore delle emozioni, degli stati d’animo e dei pensieri. Vi è un doppio tipo di dialogo e un doppio tipo di monologo: da un parte, il dialogo ad alta voce fra Lev e Sofia, fatto di frasi brevi, di schermaglie a volte dolci a volte taglienti, e poi il dialogo muto fra di loro, con pensieri e riflessioni pronunciate solo nella mente e non detti. Dall’altra, un continuo monologo che divide abissalmente i due universi interiori e li fa scorrere su binari divergenti o per lo meno su rette parallele destinate in fondo a non incontrarsi all’infinito; ma ad un secondo livello, anche qui il mon