DELITTI ED AMORI NEL RACCONTO DI CALABRìA
Chi
scrive, al giorno d’oggi, ha di fronte a sé un tempo che tutto fagocita, che
scorre rapido, spesso rabbioso, sempre più asettico di emozioni. Rendere il
pathos con la penna diventa, pertanto, complesso e a tratti inesprimibile. Ci
riesce, e bene, Alessandro Calabrìa, giovane avvocato e scrittore, che in “Notturno canaglia a Milano” (pubblicato
per Edizioni Nuove Scritture nella collana Letteratura
diretta da Angelo Gaccione) ci accompagna in un vortice tumultuoso di emozioni:
il suo è un racconto poliziesco e sentimentale insieme che porta il lettore a
scandagliare gli abissi della mente umana per risalire, sul finale, verso più
positivi lidi. Da laureato in legge Calabrìa conosce le mille sfaccettature che
la giustizia (quando non l’ingiustizia se summum
ius summa iniuria) assume, di fronte al criminale più efferato che crede di
avere in mano le carte vincenti di una partita a poker con la legge. Faide e
vendette mafiose si intersecano con esplosioni improvvise e “pericolose” dei
sentimenti tra un avvocato ed un pubblico ministero. Sullo sfondo una Milano
opaca e incolore, ben descritta dall’immagine di copertina. Sull’asse
Italia-Moldavia si snoda un susseguirsi di avvenimenti che l’autore arricchisce
con dotte citazioni tratte in alcuni casi da capolavori della
letteratura. Un bel racconto, dal gusto dolceamaro e dal sapore forte, che
tiene desta l’attenzione del lettore sino alla fine.
Federico
Migliorati
POETI
Due testi inediti di Gaetano Capuano
Gaetano Capuano |
TIEMPU DICIEMMIRARU
Duòppu se’ anni, quattru
iorna
e midemma tièmpu
dicièmmiraru
riassummavanu i fantasimi
di na putìa azzizzata a
Natali
e u scantatizzu
d’arristari arriè
luntanu dȏ pani
travagghiatu
Tannu fu na sciddicunata
supra na lastra di giacciu
stavota a lausu di na
machina
ca mpaia arrimazzannuti
supra na banchina di
strata
Stissu spitali, stissu
scinariu
Anzicà cincu misi cu un
vrazzu ruttu
fuòru cincu iorna cu un
pedi scavigghiatu
C’è cu’ dici ca chiovi
supra u vagnatu
e cu’ ca ci vulissi un
parrinu
cu un catu d’acqua santa
Ognunu àvi un àncilu
custodi
u miu àvi l’ali d’oru
e svulazza sempri ntuòrnu
Cridu! Ma nun sugnu
manciasignuri:
pi mia fu sulu sulu culu
ruttu
Mi va di pinsari a ma
matri
ca binidiciènnumi ogni ura
miraculìa
cà s’annunca a dd’àncilu
astura alivoti facìa
cumpagnia.
Tempo di dicembre -
Dopo sei anni, quattro giorni / e medesimo tempo di dicembre / riemergevano gli
spettri / di una bottega adornata a Natale / e la paura di restare ancora /
lontano dal pane lavorato. // Allora fu una scivolata / su una lastra di
ghiaccio / stavolta a merito di un’automobile / che investe stramazzandoti / su
un marciapiedi. // Stesso ospedale, stesso scenario. // Anziché cinque mesi con
un braccio rotto / furono cinque giorni con un piede e caviglia storta. // C’è
chi dice che piove sul bagnato / e chi che ci vorrebbe un prete / con un
secchio d’acqua santa. // Ognuno ha un angelo custode / il mio ha le ali d’oro
/ e svolazza sempre intorno. // Credo! Ma non sono un mangia Signore: / per me
fu solamente una botta di fortuna. // Mi va di pensare a mia madre / che
benedicendomi ogni ora miracola / perché sennò a quell’angelo / a quest’ora
forse facevo compagnia.
I PALORI
Âiu già scrivutu supra ssu
tema
e cȏ miu scariri funnu
dicu st’atri quattru
cusuzzi
Iddi
i mȋ sànu essiri virrina
i vuòstri e chiddi di
l’autri
’ntra d’iddi su’ iucaluòri
i palori…
su’ stizzusi, nguttumanu
tiranu l’aricchi
astruppianu sparti
Quannu tiri a cu’ miri
e nzièrti a cu’ nun vidi
a usu mbasciati ȏ
talefunièddu
senza virguli,
ntirrucativi
e punti fermi…
quantu ncumprinsioni,
staviamiènti
Si misi niuru nto iancu
vànu addabbanna dȇ cincu
siènsira :
si capisci, vidunu
toccanu, sentunu, ҫiaranu
si ssapuranu
ma sparti si
ccarizzanu
si vasanu e si rrittunu
Una supra l’autra
fànu macari l’amuri…
i palori.
Le parole – Ho già
scritto su questo tema / e col mio sbirciare profondo / dico quest’altre
piccole cose. // Loro / le mie sanno essere trivella / le vostre e quelle degli
altri / tra di loro sono giocherellone / le parole … / sono biliose,
importunano / tirano le orecchie / fanno male inoltre . // Quando tiri a chi
miri / e colpisci a chi non vedi / come ambasciate al telefonino / senza
virgole, interrogativi / e punti fermi … / quante incomprensioni,
stravolgimenti. // Se messe nero sul bianco / vanno aldilà dei cinque sensi : /
ovviamente, vedono / toccano, sentono, annusano / si assaporano / ma inoltre si
accarezzano / si baciano e si eccitano. // Una sull’altra / fanno anche l’amore
… / le parole.
***
QUALCHE RIGO PER "LA STRISCIA DI CUOIO"
di Federico Migliorati
La copertina del libro |
Racconti "pastosi", pennellate di colore
offerte su un elegante vassoio alfabetico con un acuto tratteggio di atmosfere,
personaggi, luoghi e situazioni. C'è tutto questo in La striscia di cuoio, dello scrittore Angelo Gaccione, edito da
Viennepierre Edizion: la mano sensibile dell'autore si sposta con abilità in
epoche stanche, tra crisi sentimentali e affetti illusori, in periferie di
città con il loro carico di umana indifferenza. Gaccione "cammina"
con sagacia nei livelli narrativi e ci dona un piccolo saggio del suo ricco
lessico, appagante per l'occhio critico del lettore. C'è sempre qualcosa che
non riusciamo ad afferrare, qualcosa di insondabile e misterioso che ruota
attorno alle nostre vite: siamo noi, la nostra personalità multiforme, dalle
mille sfaccettature, una e trina, in bilico tra salvezza e perdizione, tra
eroismo e crudeltà, tra banalità e coraggio. Gaccione ce la spiattella talvolta
con crudezza, sul rigo tremolante di luce, in un occaso che è noir come il nostro destino.
Angelo Gaccione
La striscia di cuoio
Viennepierre ed. 2005
Pagg. 120 € 12,00***
LETTERATURA
GALLERIA DEL MILLENNIO
DI ALESSANDRO MOSCÈ
Intervista di Laura Margherita Volante
La copertina del saggio |
L.M.V. Il tuo libro Galleria del millennio è un viaggio attraverso tappe letterarie con
un filo conduttore che va dal 2004 al 2014. Come mai hai scelto questo decennio
e perché proprio dal 2004? Qual e l’obiettivo culturale che ti ha spinto in
tale indagine critica?
A.M.
Ho unito, idealmente, la maggior parte dei miei scritti critici che sono stati
pubblicati da dieci anni a questa parte in quotidiani e riviste. Quindi è stata
un’operazione di raccolta, nulla di più. Il 2004 è l’anno
spartiacque del mio lavoro, perché ho iniziato alcune collaborazioni che sono
durate nel tempo e che mi hanno permesso di esercitare la critica militante.
Non c’è un obiettivo culturale, ma semplicemente un’indagine determinata dalle
mie preferenze, dal mio sguardo che oscilla nelle tre branche della
letteratura: poesia, narrativa e critica. Una critica nella critica, possiamo
dire, che illumina un decennio controverso, affastellato, dispersivo e che è
alimentata non solo dalla lettura dei libri ma anche dalla conoscenza e dalla
frequentazione di alcuni scrittori “compagni di via” con i quali ho condiviso
un percorso formativo. Tra gli altri Giorgio Saviane, con il quale intrattenevo
lunghe conversazioni telefoniche, Alberto Bevilacqua, che andavo a trovare
nella sua casa romana a Vigna Clara, e i conterranei Umberto Piersanti e
Massimo Raffaeli, nella loro residenzialità che è diventata anche un modo di
dire, qui nelle Marche. Il viaggio letterario, per chi lo compie, ha bisogno di
punti di riferimento. Tra le nuove generazioni emerge un’estemporaneità fine a
se stessa, una sorta di ipertrofia dell’io e di ipervisività priva di
conoscenza, di approfondimento, di studio. Credo che sia necessario virare in
tutt’altra direzione perché la letteratura non diventi puro intrattenimento,
qualcosa di simile al mondo dello spettacolo. L’antropologo Marc Augé dice che
viviamo di stagioni sportive, scolastiche e politiche. Anche i libri rischiano
questo processo di dissolvimento fugace.
L.M.V.
Nella presentazione parli di letteratura dell’esperienza contrapponendola a
quella sperimentale.Vuoi approfondire la differenza fra questi due concetti e
cosa intendi trasmettere?
A.M.
La letteratura dell’esperienza nasce dalla vita, nel cerchio esistenziale,
iniziale e finale, vita-morte. Nella clessidra che attraversa il tempo ci sono
l’amore, la perdita, il bene,il male, cioè gli archetipi. La poesia nasce con
l’uomo, perché nessuno sarebbe ciò che è senza amore, senza il ricordo
personale o la memoria collettiva. Lo sperimentalismo privilegia una scrittura
programmatica studiata a tavolino, gergale, tipica degli accademici sofisticati
e spesso decontestualizzati dalla realtà quotidiana. Io propendo per la prima
opzione, e non a caso cito Carlo Bo e i suoi Otto studi che delineano una traccia in tutto il Novecento. Jorges
Borges diceva che la letteratura è un sogno guidato. E’ una difesa, una
resistenza, ma non ideologica. E’ umanità espressa nella disperata vitalità di
Pier Paolo Pasolini, nella fantasessualità di Alberto Moravia, nell’utopia
reale di Paolo Volponi, nell’eco del mare caraibico di Derek Walcott, nella
poesia orfica di Milo De Angelis.
L.M.V. Indaghi
il presente in una prospettiva-guida verso il futuro per una vita motivata e
interrogativa fra ésprit de geometrie ed
ésprit de finesse. Il passato, che
ruolo ha in tutto questo? Rappresenta una guida personale che diventa guida per
tutti? Non è un po’ presuntuoso?
A.M.
Non c’è un intento sociologico, né tanto meno pedagogico in questa
prospettiva-guida, perché non rientra nella mia volontà di scrittore. Il libro
non è neppure una guida con l’aspirazione che diventi guida per tutti. Il
passato, come il presente, è un punto d’osservazione, nient’altro. Senza
pretese e senza presunzione. Ma un critico deve esporsi, selezionare,
discernere secondo una mappa orientativa. Credo che siano chiare le direttrici
che hanno mosso la mia indagine, anche perché le ho esplicitate nella premessa,
che è già una definizione di poetica. I luoghi sono un altro comun
denominatore, ma in Galleria del
millennio risulta un’infinita gamma di elementi aggreganti: l’infanzia, la
giovinezza, la depressività, il dolore, il metasogno, la provincia, la donna
ecc. Susanna Tamaro nel romanzo Per
sempre (Giunti 2011) fa dire alla protagonista: “Tutti noi abbiamo una
definizione che ci permette di esistere e questa definizione è la nostra
zattera”.
L.M.V.
Galleria del millennio si compone,
fra testi editi e inediti, di tre parti suddivise in “Fuori pagina” -
“Interviste” - “Appunti quotidiani”, con recensioni di autori di grande
impatto, da Pasolini a Scataglini, per rendere l’idea. A questo proposito c’è
stata una selezione attenta: con quale criterio?
A.M.
Il criterio l’ho già indicato. Ho scritto degli autori che amo di più, che ho
letto e riletto, e che appartengono alla nostra contemporaneità. C’è attenzione
per il mondo marginale, ad esempio, per i mattocchi di Federico Fellini, di
Gianni Celati, di Ermanno Cavazzoni, di Ugo Cornia. La letteratura romagnola ed
emiliana mi hanno aperto una finestra per conoscere l’uomo, perché i viaggi
sono reali e mentali. Penso ai personaggi (o meglio agli anti personaggi) di
Cavazzoni che parlano con la luna e con i pozzi, a quelli di Cornia, che sono
ombre evanescenti, voci improbabili. E che dire del viaggio di Fellini, che
immagina l’aldilà abitato da grandi orchestre e da treni senza destinazione?
Anche l’immaginifico fa parte di questa selezione, ma non è scorporato da una
concretezza terrigena. Qualche anno fa
ho vissuto una vicenda simile. Un amico, un omino della casa di riposo di
Fabriano, voleva parlare con la Madonna e pensava che fosse nascosta in un
fondo al pozzo di un chiostro. Era convinto che attraverso le fenditure dei
muri sua madre, deceduta, per farsi sentire dall’altra parte della parete, soffiasse
quella dove i morti si muovono di soppiatto. Un critico e uno storico della
letteratura come Ezio Raimondi, venuto a mancare da poco, parlava di una
“coscienza affettiva” accennando all’amore per le persone mai indeterminate e
irrelate.
Moscè col poeta Adonis |
L.M.V.
La tua analisi critica riguarda anche opere lette occasionalmente che
costituiscono, nel loro panorama, un flusso unitario. Che percezione hai avuto
alla luce di oggi, in un’ottica universalista, che esclude altre culture? Non
ritieni di dover proseguire in un’indagine interculturale, oppure ritieni che
la nostra cultura sia il faro dell’umanità?
A.M.
Non ritengo che la nostra cultura sia il faro dell’umanità, ma in Galleria del millennio non c’è affatto
l’esclusione di altre culture. In un’intervista con il grande poeta siriano
Adonis emergono i conflitti del mondo arabo e l’incapacità di distinguere lo
Stato dalla religione. Ogni fondamentalismo è sbagliato e provoca dissidi. Il
romanziere israeliano David Grossman racconta la perdita del figlio in guerra e
la sua angoscia riversata sulla moglie. Tahar Ben Jelloun, il noto autore
franco-marocchino, ammonisce la cultura araba e il rapporto con il tempo, con
l’individuo, auspicando il riconoscimento del singolo e soprattutto il valore
della donna. Yves Bonnefoy, il più grande poeta francese, insegna che la poesia
rende più intenso il rapporto con l’altro. Seamus Heaney, l’irlandese che vinse
il Premio Nobel, afferma che quando si riesce a dire di sì alle cose anche
l’arte può dirsi finalmente riuscita. Lo sguardo, insomma, supera senz’altro i
confini italiani, entrando anche a contatto con un universo teatro di scontri e
di repressioni.
L.M.V. Ogni recensione o
intervista è datata, lasciando una traccia indelebile nello spazio e nel tempo.
Quali progetti hai in mente? Pensi di continuare questa minuziosa ricerca nel
2015? Con quale formula, visto il momento epocale in cui ci troviamo fra ansie
e speranze?
A.M. Non
so in quale epoca ci troviamo, ma non penso che i nostri nonni che uscivano
dalla seconda guerra mondiale stessero meglio di noi. La traccia indelebile non
è mai un’intervista o una recensione in sé, ma il senso che racchiude
un’intuizione artistica, un messaggio trasmesso attraverso l’opera d’arte. Non
credo che continuerò meticolosamente una ricerca critica, perché ho già finito
di scrivere la mia nuova raccolta poetica, che sto integrando con altri versi
finora inediti e rivisitati in questi giorni. Sta per essere pubblicato il mio
nuovo romanzo dal titolo L’età bianca,
che è una sorta di prosecuzione del precedente, Il talento della malattia, costituendone con quest’ultimo un
dittico. Non ho mai rifiutato la scrittura biografica, che diventa perfino
scrittura in prima persona. Tempo e spazio, come dici, sono le coordinate
essenziali anche della critica. Le prime e insostituibili coordinate. Nello
spazio e nel tempo si annidano le domande ossessive dell’uomo: da dove veniamo
e dove stiamo andando? Dal nulla al nulla, o verso un’imprecisata realtà-altra
che non possiamo toccare con mano prima della morte? Il mistero del non sapere
è già una persuasione fortemente letteraria.
***
LIBRI
CLAUDIA AZZOLA, IL MONDO VIVIBILE
di Donatella Bisutti
Claudia Azzola
è una figura che occupa un posto particolare nel nostro panorama non solo
poetico ma culturale in senso lato. Una
figura che ha delle caratteristiche singolari che la differenziano e la
connotano in maniera precisa.
Claudia Azzola ha prima di tutto nel suo lavoro una
dimensione europea, non circoscritta nel bene e nel male alla nostra Italia,
con i limiti che questo comporta, ma ha uno sguardo che va al di là dei confini
nazionali e non solo per interesse intellettuale , ma per una sintonia, una
sinergia, una immedesimazione che coinvolge
tutto il suo essere e che quindi permea il suo essere poeta.
Claudia ha vissuto in questi anni intensamente il suo
rapporto con la Gran Bretagna al punto da diventare bilingue e scrivere, come
faceva Rosselli, indifferentemente in italiano e in inglese. Ha assorbito e fatto
sua quella letteratura, quella cultura, tanto
da avere anche un’“anima inglese”.
Però il suo interesse è sempre andato anche alla Francia,
dove ha molto viaggiato e ha anche vissuto, e anche questo è un apporto forte e
determinante nella sua scrittura.
Aggiungerò che Claudia Azzola ama profondamente la Storia,
almeno quanto ama la letteratura, e perciò anche qui la sua attività di
scrittrice e di poetessa corre su un doppio binario, come provano anche le
novelle che è andata e va scrivendo. Ma di Storia è imbevuta e intessuta anche
la sua poesia.
Inoltre Claudia Azzola
ha anche da sempre un rapporto intenso con l’arte figurativa, e non
dimentichiamo che per vari anni si è occupata di una galleria d’arte.
Quindi molteplici sono i filoni che convergono nella sua
scrittura e ne fanno come dicevo una
figura con connotazioni particolari e diverse cui si può accostare, forse, per quanto riguarda la parte inglese, quella
di Roberto Sanesi, che peraltro è uno dei suoi scrittori di riferimento.
Non per caso ha fondato da alcuni anni una rivista che nel
titolo unisce la Traduzione alla Tradizione. Claudia Azzola non è solo traduttrice di testi, molto attiva peraltro,
ma traduttrice di culture, ponte fra diverse culture, e la tradizione per lei si identifica con la Storia: quindi
la sua può essere considerata credo una poesia di tipo sperimentale, e perciò
molto attuale, molto contemporanea, ma
con delle solide basi in una cultura classica (ho dimenticato di dire anche del
suo amore per la Grecia), cioè la
cultura che viene dalla frequentazione di grandi poeti e pensatori che peraltro
cita in questo suo ultimo, libro della sua piena e consapevole maturità.
La sua è certamente una poesia intellettuale, in cui sembra
prevalere il significante, ma si dà molto peso anche al significato.
La Storia che Claudia
Azzola privilegia è quella degli storici che cita, quelli che hanno scritto la
storia non dei potenti ma degli sconosciuti, degli umili, come Le Goff, e
questo perché è forte in lei anche il senso sociale, della giustizia sociale,
il senso di un impegno politico non militante ma che sicuramente s incarna nei
suoi versi.
Il fondersi e l’intersecarsi di tutti i vari elementi che
sono andata elencando fa sì che la sua scrittura -e questo suo ultimo libro lo
prova- abbia una densità che a volte
quasi per un eccesso di sintesi sfida la comprensione, risulta oscura,
ma questa è anche un’oscurità cercata, come lei stessa dice nella
postfazione che è un effettivo manifesto
di poetica. Questa poesia così se vogliamo intellettuale ha in realtà
un’origine magmatica, e questo corrisponde non solo all’essenza del poetico, ma
anche a una connotazione specifica della personalità di Claudia Azzola, che è
la passionalità. Per cui in questo libro passione civile, passione
intellettuale e passione poetica sono tutt’uno. Claudia Azzola è contraria a
molte cose, che elenca nella sua posta fazione, ma io vorrei aggiungere che è contraria al
nichilismo, all’Harmageddon imperante, perché crede nella vita, nella storia e nella poesia e per questo
la sua è una scrittura vitale.
La copertina del libro di Azzola |
Una lettera di Annamaria De Pietro
sul libro di Claudia Azzola
Nella foto Annamaria De Pietro |
Cara Claudia,
ho letto il tuo libro in due lunghe sorsate. È bellissimo.
Rispetto ai precedenti mi pare accentui una paratassi-panoplia, un viridario
prontuario schedario immaginario erbario salterio e tutte le altre parole che
in ario (o erio) squadernano casa per casa, lunario per lunario, gli stuporosi
possibili. Insieme acuta fenomenologia, polvere porporina d’oro di libro d’ore,
severo urbano manuale di etica e vita e storia e ricordo e tiro con l’arco. Che
è tutto un trascorrere le flessibili corsie del tempo, le corde del saio e del
gibet e dell’arco ad Azincourt e della viola da gamba E ovunque vige l’arco
della parola, della parola poetica, che nobilmente, magistralmente sta, eretta,
tra fenomeni, antropologia, storia, ricordo, aspra dolcezza, tiro con l’arco.
Essa è la chiave di volta, il contraltare che osta, combatte e (verbigrazia)
vince, ma non per il momento, non adesso: ancora molto occorre vegliare. Chiuse
accecanti; segmenti indispensabili, versi incontrovertibili; antichissime, lunghissime
usanze; la metamorfosi del bagnato; erbaggi: tua magnifica parola. Via dei
fienili, Via dei foraggi, a Roma, a Parigi: tra il fieno la prima casa della
Sorbona.
E mi pare a posteriori che le corde e i fili e i tiri con
l’arco che infilano il tempo, il molteplice disperso e la parola poetica, con
l’aiuto dei quali ho cercato di rappresentare quel che mi appariva leggendo,
concordino con una risaltante frase della tua postfazione: “La curvatura del
reale, pur nella frantumazione, è il filo d’acciaio che tiene insieme un testo
che è il moderno ‘cantare’”.
Molte dovrebbero essere le osservazioni, e soprattutto le
citazioni di versi e segmenti, ma preferisco un’affettuosa solerzia.
***
LIBRI
Dal buio della terra
di Mariacristina Pianta
La poetessa e scrittrice Donatella Bisutti |
Il buio, la notte, la morte che ci
accompagnano rappresentano il nucleo centrale della silloge di Donatella
Bisutti. Ma è solo apparenza perché la vita ci chiama, ci cattura. Subito
emergono pittoricamente le valenze: nero e rosso che si alternano: “…e gli
uccelli neri/tagliano la luna”, “Una radice di fuoco/inabissata/una nera
radice/una nera/di fuoco”. Le isole sono fiammeggianti, la colata lavica brucia
come “bruciano silenziose le stelle”, “bruciano gli alberi”. A volte è, invece,
il freddo che prevale, quando “la luna è di ghiaccio”, “la vita si protrae
sotto la neve”, “Sulla neve/brevi appunti di un freddo volo”. Una natura, talvolta
ostile, diviene sinonimo di palingenesi, di vita. L’angoscia, la sofferenza
possono farci rifiorire. Le antitesi giocano un ruolo fondamentale perché
morire interiormente significa, in un secondo momento, riscoprire segni di
primavera anche durante l’inverno. La scrittura si nutre di dolore, di ansia,
di scavo interiore, capace di generare una sorprendente forza emotiva. L’esperienza
personale diventa universale, la vita dell’individuo ripercorre quella del
cosmo e viceversa. Per questo trovano largo spazio i paesaggi, i luoghi
geografici precisi: le isole Eolie, la Grecia, con riferimenti al monte Athos,
la piana di Filippi, la città di Genova, le Cévennes si caricano di
significati. Ogni elemento naturale, ogni situazione è un correlativo
oggettivo, metafora del destino dell’universo e dell’essere umano. Il mito è
vissuto nella sua dimensione terrena, è calato in un contesto vivo,
vibrante, vicino a noi nella nostra
quotidianità in un impatto visivo. Luci e ombre si contrappongono, come nei
dipinti di Caravaggio o di George de La Tour. Sembra di scorgere la magia che
emana da una luce intensa di candela, da un raggio di sole che illumina una
buia stanza.
Un altro colore di spicco nella
silloge è il bianco: “la pianta di convolvolo/amorosa/con i suoi bianchi fiori
molli/le bianche labbra molli…”, i bianchi fiori del cappero “come veli di
sposa” si possono ricollegare all’atmosfera sospesa de Il gelsomino notturno di Pascoli: “E s’aprono i fiori notturni
nell’ora che penso a’ miei cari” “Sono apparse in mezzo ai viburni le farfalle
crepuscolari”.
L’antitesi
tra bianco e nero, gioia e dolore, distruzione, rinascita, inverno, primavera
ci riporta a Leopardi che ci fa amare la vita proprio perché quell’abisso
orrendo che ci aspetta rende affascinante il nostro accidentato cammino. Dal
buio della terra riemergiamo in un’avida ricerca di felicità e di valori
autentici. La tensione ad una vera spiritualità è molto sentita, diviene
protagonista di un itinerario verso una maggiore consapevolezza. Particolare
attenzione è rivolta agli altri, dalla prigioniera Aung San Suu Kyi, agli
studenti, al padre che si muovono con discrezione e empatia.
Donatella Bisutti |
Notevole il linguaggio utilizzato
in una sintesi di immagini. Creano notevole suggestione le anafore in G 8 : “Genova Genova in croce/Genova
senza voce/…Genova straniera…” Per citare qualche altro esempio, si può
individuare la medesima figura retorica in Canto
in morte : “Da dove riappare leggero/…Da dove ritorna ad infrangere”,
in Se
: “Se un cavallo fosse…/se non fosse l’occhio visionario e folle/.. se esso non
fosse un’oscura montagna”.. Oltre alle metafore, svolgono una funzione di
rilievo le similitudini: “Quando l’anima come un cane/ si lascia accarezzare,
inerme..” (La vibrazione delle cose),
“Come s’accorda un colore ad un colore/ così io cerco di accordarmi a te..” (Come s’accorda un colore ad un colore).
Analogicamente ripenso al canto XII del Paradiso: “Sì tosto come l’ultima
parola/la benedetta fiamma per dir tolse/a rotar cominciò la santa mola;/ e nel
suo giro tutta non si volse/ prima ch’un’altra di cerchio la chiuse,/e moto a
moto e canto a canto colse;…” Determinanti
per scandire il ritmo, i versi, a tratti brevi, in certi casi più lunghi: “Tu
come morto…/ Eppure a volte ancora la voce mi chiama..” e i frequenti
enjambement: “Abbiamo fatto l’amore su/un lenzuolo rosso”.., “ Sei tornato
dall’ombra di un passato che ho voluto/dimenticare..” Interessante risulta la
presenza del polisindeto in posizione di anafora (Più allegra a tutti), che assume l’aspetto di climax per un
crescendo di angoscia, contrapposta al richiamo della vita. Significato e
significante si fondono in un binomio inscindibile e nella polisemia di ogni testo.
Donatella Bisutti
Dal buio della terra
Empiria,
2015
La copertina del libro |
***
LIBRI
Incombe Tirteo
di Claudio Zanini
La copertina del libro |
L’orrido pianeta Tirteo, che incombe minaccioso oltre
l’orizzonte -enorme luna butterata-, richiama alla mente certi dipinti di Savinio,
dove compaiono, improvvisi, lo smisurato, il mostruoso, il perturbante. Tirteo sovrasta
lo scenario in cui si svolgono i fatti narrati in Andavano a sud, uno dei racconti di Prove di città desolata (Mobydick, Faenza, 2003), ma da quel racconto
l’orrore sembra uscire e dilatarsi, proiettando la sua ombra sinistra su tutti
i racconti di questa raccolta dovuta alla penna di Giuseppe O. Longo.
A una
prima lettura il testo rimanda alla psico-fantascienza da incubo (vedi i film Solaris di Tarkowsky e La jetée di
Chris Marker) ispirata alle immagini surreali (à la Salvador Dalì) di paesaggi irraggiungibili, ma in cui si è
sempre e ineluttabilmente imprigionati, mutevoli e tuttavia sempre ripetuti. Mi
è venuto alla memoria anche L'anno scorso a Marienbad di Alain Resnais, con
quel falso movimento che attanaglia i personaggi, e quella sorta di
sceneggiatura dove tutto potrebbe essere indifferentemente diverso e opposto.
Angoscia e spaesamento di personaggi che si sdoppiano, si vedono agire, sono agiti da forze estranee e misteriose.
Viviamo in questo mondo d’inspiegabili accadimenti, poiché, come dice
Wittgenstein, “Il mondo è tutto ciò che accade”.
I racconti sono stati scritti tra il 1987 al 1999, e nel
volume sono disposti in un ordine non cronologico ma piuttosto di contenuto,
come si scopre via via leggendoli. È da notare che sono legati da elementi
comuni e ricorrenti: temi, scenari, accadimenti, personaggi, tanto da essere
quasi i diversi capitoli di una narrazione unitaria. I paesaggi, per esempio:
immensi blocchi di edifici in rovina, enormi hangar in uno sconfinato aeroporto
abbandonato, un oceano oppresso da un cielo carico di nubi, la costa d’un mare color
ocra, sfibrato. Lo spazio è quasi sempre saturo d’una luminosità abbagliante
come dopo una deflagrazione atomica. Rimane impresso, in particolare, un
padiglione sulla spiaggia, dove sono accampati i profughi, i rifugiati della
bomba. All’orizzonte, la colonia di Punta Marina biancheggia fantasmatica,
nella calura d’una lontananza brumosa.
Lo stesso paesaggio arido e desolato si ritrova nel già
menzionato Andavano a sud, dove la
medesima luce abbagliante illumina uno sconfinato drive-in disseminato di
carcasse d’auto, sul cui lontanissimo schermo si susseguono freneticamente brani
di film diversi, mescolati e sovrapposti, mentre sulla landa deserta e
surriscaldata incombe l’enorme e butterato pianeta, o asteroide, Tirteo
(protagonista di un curioso racconto à
rebours, Premesse a Tirteo, che
fa parte della racconta dello stesso Longo,
Il Ministro della Muraglia, Trasciatti, Lucca, 2010).
La macchina
La “macchina”
appare nel racconto Atlantico, forse.
Una macchina che dovrebbe mettere l’uomo in comunicazione con il mondo. Fuori,
oltre la finestra, un paesaggio che si prepara, “dilaga in sé stesso, si conosce e riconosce senza fine”. Sono
incessanti prove di paesaggio (di controllo o di decifrazione del mondo),
tentate dall’uomo?
(Questa macchina
mi ha ricordato il congegno misterioso, messo in funzione dalle onde del mare,
che nell’Invenzione di Morel, di Bioy
Casares replica gli eventi all’infinito). Per entrare nel paesaggio, si dice, l’uomo dovrebbe rinunciare alla macchina. Dovrebbe immergersi in un caos inesplicabile. Fra l’uomo e il mondo c’è una frattura insanabile, che
forse nessun meccanismo potrà mai riparare.
Anche la creatura artificiale del primo racconto, Aviatore al tramonto, è una sorta “macchina”
ciborganica. È un deposito vivente d’organi di ricambio, una specie di mostro
di Frankenstein da scomporre nelle sue parti secondo le necessità di trapianto.
La scoperta che nella creatura agisce una misteriosa brama tellurica, una
remota coscienza primordiale (quasi umana?), sconvolge Giulia, la protagonista,
la cui tragica vicenda è prefigurata in un fiammeggiante e sanguigno tramonto
che evoca l’origine o la fine del mondo. Come Giulia, che prova un’oscura
fascinazione per la mostruosa creatura, così Else, in Varani a Komodo, è attratta dal pittore Grey-Sanders, il quale nel
suo desiderio fatto “di violenza, di
sopraffazione, di morsi, come si getta su un animale indifeso per divorarlo il
varano di Komodo”, riflette il lato perturbante e tenebroso della natura,
di cui la ragazza stessa porta un lieve ma inequivocabile segno: una leggera
zoppia, che fomenta il desiderio del pittore e porta a una conclusione inattesa
e cruenta.
Un’altra “macchina” domina il racconto La storia centrale. L’uomo impaurito dalla
vuota immensità del cielo sereno, colmo d’una luminosità abbagliante, cerca
nella casa dove abita una “cosa”, la cosa che può generare il mondo.
Nell’ultima stanza della casa la trova: “una
cosa intricata e rotonda (…) un lungo filamento avvolto su sé stesso
innumerevoli volte, un gomitolo pesante e compatto” che userà per costruire
il mondo. L’uomo tesse il suo filo, crea il mondo, “contempla la sua creazione” della quale si compiace (un’eco della
Genesi). Dalle sue mani nasce “una macchina
intrecciata e complessa che potrà, forse,
dare risposta alle sue domande.”
“La macchina cresce (…) si sviluppa (…) infine, lo guarda.”
“La macchina
vive (…) sente (…) Comincia a parlare con l’uomo.”
“La macchina allarga le braccia, apre le sue cavità, si offre all’uomo come rifugio.”
L’uomo è
accolto nella “macchina”, si adegua e aderisce a lei; lui e la macchina diventano
una cosa sola. Il tempo trascorre, il cielo luminoso comincia di nuovo a sgomentarlo,
l’uomo sente nascere in sé l’ansiosa esigenza di cercare qualcosa. “Sa che la cosa cercata è un sogno intricato
e tenace, che può generare il mondo.” Nell’ultima stanza scopre un
gomitolo… la storia si ripete, incessante.
Nel
racconto I sogni viventi, un paesaggio
desolato è dominato da due misteriosi operatori -sorta di funzionari kafkiani- che
organizzano lo scenario e la vita di un uomo (vedi ancora L’invenzione di Morel), manovrando gli interruttori e le manopole
di una grande “macchina”, una megamacchina (collegata a una più piccola e
antica, tanto che la macchina grande ha inglobato la piccola da cui pare
giungano messaggi o sogni, forse dal profondo dell’inconscio). Nella macchina
tempo e spazio si sovrappongono, si ripetono, s’arrestano, si riavvolgono
tornando indietro, si contraggono e si dilatano. Già abbiamo visto come la macchina
si rigeneri ininterrottamente.
“E se gli cambiassimo mondo?”,
dice uno dei funzionari che manovrano la “macchina”. Ciò si tradurrebbe in
uno sconvolgimento della vita dell’uomo e in un cambiamento dei suoi ricordi.
Per esempio si potrebbe fornirgli una vita
“comune, con incidente”, il che significa “che la vita che si dà al personaggio è ordinaria, comune. Gli si dà un
passato tranquillo, che però a un certo punto è stato interrotto da un episodio
grave e doloroso.”
Lo scenario è surreale, un sogno immaginato da Dalì. C’è
la donna, che l’uomo disperatamente cerca di raggiungere; c’è la Bestia,
misteriosa e possente: essa “è il centro della montagna, è la voce dei
secoli, il canto dell’Universo (…) è un enigma inespugnato.” È un dio
imperturbabile, il cui battito delle palpebre dura millenni, un dio che ricorda
gli immortali di Borges. Tuttavia, anche la Bestia soggiace alla “macchina”. L’uomo
entra nella Bestia enorme e scopre, all’interno, i due funzionari davanti alla macchina
che governano pulsanti e manopole, e, tuttavia, accanto alla macchina, c’è, a “una distanza immensa”, la Bestia. Avviene
dunque un abissale scambio di dimensioni spaziali (in cui una cosa è dentro
l’altra, che è dentro la prima), e d’identità dei personaggi (in cui uno è allo
stesso tempo gli altri). I due funzionari sono sosia dell’uomo, sono l’uomo che cerca sua moglie Linda
attraverso i piani spaziotemporali. A un certo punto uno dei funzionari sta per
premere un Tasto Rosso.
“Quello no!” esclama l’altro e gli
spiega: “È il tasto di annientamento. Se
lo si preme si cancella il programma.(…) Fuzet si arrabbierebbe molto.”
Con
Fuzet, si allude forse a un altro dio, a un ulteriore supervisore, a un
demiurgo? (Dio, con un nome così buffo? Ma, forse, potrebbe essere il vero nome
di Colui che è, il nome taciuto dalle
Scritture).
L’uomo
teme che Linda stia per essere divorata dalla Bestia, ma la donna l’attraversa
come fosse una nuvola (l’uomo piange di gioia!): la Bestia e la donna,sono in
due mondi paralleli e non comunicanti.
Se “il
mondo è tutto ciò che accade”, qui accade una vertiginosa mise en abîme,
Tirteo e Punta Marina
In Dune, gabbiani, una donna vorrebbe raggiungere
Punta Marina, che biancheggia fantasmatica nel barbaglio d’una lontananza caliginosa.
Vorrebbe partorire in un luogo meno desolato del padiglione sulla spiaggia
popolato dai profughi. La luce è abbagliante come dopo una deflagrazione
atomica. Sulla spiaggia decine e decine di balene arenate e agonizzanti, con
gabbiani che ne dilaniano le carni emergendo sanguinanti dalle loro ferite. In
città sono comparsi i varani.
Lei deve
partorire o è soltanto un sogno?
“Una volta non li volevo (i bambini).
Adesso me li faccio in sogno”
“Sei una donna” dice l’uomo.
Il suo
destino, dunque, è partorire.
“A Punta Marina potrebbe uscire”, dice la
donna. “Pensai al mio ventre, qualcosa nel buio caldo delle mie viscere. Forse.
Quei grumi di sangue.” Durante il tentativo di
raggiungere Punta Marina l’uomo è aggredito dai gabbiani e cade dilaniato dai loro
becchi. Lei scende nell’acqua, s’immerge.
“Sentii il fresco nel ventre. Là
dentro rimaneva qualcosa di lui, una liquida contaminazione.” Altro sangue.”
Uno scenario da catastrofe atomica. Perché partorire figli
in questo mondo? Tuttavia, l’amore e la compassione nascono dalla corporeità,
dalla carne; non dallo spirito. La carne patisce, soffre, ama; l’intelletto
vacilla smarrendosi di fronte a una realtà inesplicabile. Sono due vettori
opposti.
Nel racconto Andavano
a sud, il desolato drive-in dominato
dall’enorme e butterato pianeta Tirteo, è lo scenario dell’incontro fra Trevor e
un bizzarro terzetto: Mullaly, suo padre e una nana. Tutti cercano riparo di
fronte alla devastazione che avanza fuggendo verso sud. L’atmosfera e i
personaggi vagamente freak evocano certi
film americani on the road, in
particolare Strade perdute di David
Linch e i romanzi di Corman MacCarty, come The
road, dove si parla di un’umanità in fuga di fronte a misteriose catastrofi
(o al cospetto della propria cattiva coscienza un’oscura colpa, cui in realtà non
si può sfuggire).
“Oh, le Furie… hai sentito il rumore delle
loro ali di notte?” cita Longo.
Un
misterioso e tragico destino incombe sull’umanità, forse una colpa terribile e
inespiata? La fuga, tuttavia, è impossibile da un mondo che è diventato “il rovescio devastato della creazione”:
“la trasformazione delle foreste in circuiti
stampati, delle scimmie antropomorfe in automi, delle passioni in campi
elettromagnetici; (…) il grande edificio bianco… al quale ci si (può)
avvicina(re) senza mai raggiungerlo (come alla colonia di Punta Marina)”;
La realtà è riassunta e illustrata dalla collezione di
“traumi”, una raccolta di migliaia di fotografie scattate da Trevor, contenute
in due enormi valigie: impietose immagini delle più atroci torture inflitte
dall’uomo all’uomo. Un memento che
egli porta con sé nel suo viaggio verso il sud.
In
questa reinvenzione del mondo, si prefigura una sua fine che si trascina
penosamente, con illuminazioni salvifiche di speranza subito trasformate in
beffarda disillusione. La “macchina” non funziona, la sua razionalità non serve
(come il supercomputer calcolatore
Hal di 2001 Odissea nello spazio (e il robot primigenio del racconto di Asimov)),
il mondo ricade nel baratro dell’inconoscibilità,
sconvolto da cieche forze primordiali e inarrestabili, entro il magma vitale di
un susseguirsi di nascite e morti.
Tra l’altro, la fine
del modo fa parte del programma di un’agenzia turistica. A ogni gruppo di
viaggiatori si mostra una fine del mondo diversa. Dunque, un’infinità di “fini
del mondo” che, in ultima analisi, non attraggono più nessuno, tanto che l’agenzia
deve chiudere.
Mette in
scena una serie di frammenti insensati Che
cosa fare a Denver quando si è morti, che, come scrive Longo, potrebbe
essere il titolo di un racconto pulp: “Elaborazione:
personaggi che vogliono morire ma non ce la fanno. Disappunto per non essere
cartoni animati. Fantasmi, ectoplasmi collegati per telefono.” Racconto,
questo, che ha l’andamento di un film di Tarantino: dialoghi farneticanti da
teatro dell’assurdo, salti incongrui da una situazione all’altra, elenchi di
sogni, accenni di vicende gialle in poche righe e così via. (Evidentemente,
qui, qualcuno (il narratore?) sta manovrando con arbitraria frenesia le
manopole della megamacchina).
Il programma di Fuzet, “situazione comune con incidente”, sottoposto a un montaggio casuale, come nel
racconto precedente ma con più profonde zone d’ombra, atrocità e perturbamenti,
si replica in Variazioni con boia.
Qui, il leitmotiv, ovvero la cornice che lega e racchiude i vari accadimenti, è costituito da un’azione che, appena
accennata da un primo folgorante indizio: “la
testa” - istantaneo frame filmico
-, si precisa (“la testa di porco”),
cresce e si sviluppa man mano che procede, prendendo alla fine il sopravvento; e
dove orrore, voluttà e morte (tema centrale dei primi due racconti) si
mescolano inscindibilmente: la testa di porco putrida e quasi verminosa che un giovane
è obbligato a divorare, con ribrezzo e voluttà,(…) mentre una donna gli succhia
il pene, e qualcuno avanza verso di lui con un grande coltello. Episodio tremendo, che verrà ripreso, nell’ultimo
racconto, dal punto di vista della protagonista.
La rete, i libri
In Questo lo facciamo dire a Posthuma, all’orizzonte
brumoso balugina sempre la fantasmatica e inaccessibile Punta Marina, mentre i
personaggi sono: ancora la donna - che pensa all’uomo, in fuga verso sud (gli
uomini se ne vanno, le donne restano caparbie a partorire o a interrompere una
gravidanza) -, il ragazzo e il vecchio Posthuma, il custode della rete, un simbionte
con un doloroso chip piantato nel cervello (la rete, tuttavia, non funziona più,
è scomparsa, ingoiata dal tempo e da se stessa. Negli ultimi tempi della sua
esistenza non si sapeva più scrivere e nessuno leggeva più, facevano tutto le
macchine).
Ora
restavano i libri, ”i dischetti ormai sono
illeggibili. Della rete restano solo quelle bave sugli scogli allumacati
(…) Bisogna ricominciare dai libri.” Dalla
biblioteca di Punta Marina, circondata da un muraglione rosso, alto, solido, inespugnabile,
unico vestigio umano, contro il quale si sfracellano i gabbiani, gli assassini
del mare (che, sanguinolenti, rovistano negli squarci sul corpo delle balene…)
“In noi o in nessun altro luogo sta l’eternità con
i suoi mondi, il passato e il futuro” dice il giovane. “Ascoltare i passi
dei libri è come ascoltare le voci dell’universo riverberanti di echi (il
mormorio della galassia).”
Il giovane dice alla
donna: “la rete (…) oltre a essere una “megamacchina” (ci si chiede se tale “macchina”, la rete, non sia la stessa “macchina” di La storia centrale o
di I sogni viventi, che decide
arbitrari destini e scenari con un girar di manopole)… è uno sconfinato ipertesto… esclusivo, autoreferenziale e
invincibile… un non luogo e un non tempo, che vive in un eterno presente. In
questo universo utopico e ucronico la storia è stata uccisa”
“In questo modo le categorie fondamentali del
mondo reale, il tempo, lo spazio, la casualità, vengono sovvertite,
s’intrecciano e contaminano per formare categorie nuove o spariscono, generando
un vuoto categoriale che viene riempito dall’accumulo (…) di dati, richiami,
immagini, testi.”
“Questo accumulo (…) ha ben poco della narrazione
tradizionale o del ragionamento argomentativo, (…soffocati) dall’accrezione
caotica delle informazioni e scompare tra le quinte del tempo annullato (…) Non
si può più ragionare, sistemare, ordinare perché i nuovi dati incalzano, i
collegamenti ammiccano invitanti, spingendo il visitatore in altre zone del
non-tempo.”
In breve, la fine del
nostro mondo, del nostro spazio-tempo.
Qui,
nelle parole del giovane, si riverberano le riflessioni del narratore sul testo
che sta scrivendo, sulle modalità secondo cui è ancora possibile (o impossibile)
redigere un testo che non tradisca il mondo, cioè “tutto ciò che accade”, che
non lo violi (anche se non ha senso), poiché tuttavia, nonostante sia ormai
scardinato il fondamento della realtà e, quindi, d’ogni narrazione, i libri
rimangono, forse unici strumenti di conoscenza. (Ancora un rispecchiamento: il
giovane parla del narratore che scrive del giovane che parla del narratore…)
I libri
sono quelli che Posthuma preleva dalla biblioteca. Mentre il giovane legge, lui
scrive in un miscuglio di lingue, citando da Joyce a Mallarmé, da Novalis a
Tolomeo, allo stesso Longo (dalla Gerarchia
di Ackermann), ecc.; scrive, soprattutto, del Labirinto, simbolo d’angoscia
e speranza; e del Minotauro che espia una colpa di cui non è responsabile. “Nessuno è responsabile: eppure incombe sopra
di noi la stessa Moira” (che, insieme al lugubre battito delle ali delle
Erinni, dianzi citate, prefigura un futuro gravido d’inspiegabili sciagure).
Nell’ultimo racconto, Prove di città desolata, l’uomo decide
di partire (è il suo destino) verso sud, dove “tutto declina verso uno sfinimento” (autostrade, aeroporti abbandonati,
deserti colmi di miraggi, laghi prosciugati, cartelloni pubblicitari, tralicci
contorti, ecc.).
La
donna resta, frequenta le riunioni nel mattatoio comunale. Odore di sangue
rappreso, echi di muggiti e urli; al tramonto sacrifici cruenti. La donna ha
conosciuto il giovane; sembra innamorato di lei. L’uomo è lontano. Lei scrive, “Vorrei che tu tornassi, ma è un desiderio
remoto, allentato. Le tue lettere aprono piccole ferite, ascessi, arricciano
squame.”
Al mattatoio hanno
scoperto una testa di porco: putrida, verminosa. Hanno obbligato il suo giovane
amico a mangiarla. “Non gli possono fare
questo, pensavo, mentre qualcuno mi carezzava, una mano s’insinuava sotto la
gonna… Mi sono liberata, ho preso il giovane per un braccio, l’ho trascinato
via.”
Le donne non
partoriscono più; scendono nel fiume immergendosi nell’acqua putre; anche la
donna va al fiume, “aspetta che quei
liquidi artigli la raschino a sangue”.
S’ipotizzano,
in questo racconto finale, diversi sviluppi e prove (di realtà, si fatti),
molteplici congetture, ogni cosa potrebbe essere un’altra, il futuro della
città, le destinazioni dell’uomo, i sensi e il corpo stesso della donna, che
potrebbero mutare in modalità infinite (partorire o abortire, ecc.), in qualità
diverse. Infine, un campo lungo sulla città. “Si dovrà decidere se alimentare una speranza (…) (volo di rondini contro un cielo finalmente
azzurro, sorriso di madre che allatta un neonato, altalena con un bambino
sull’altalena) (...) oppure se
condannare definitivamente la città al declino e alla morte. La decisione sarà
presa entro i prossimi giorni (o secoli) (…) Il nome della città desolata sarà composto da tutte le lettere di
tutte le parole di questo scritto.”
Dicevamo che il narratore
congettura, propone, azzarda ipotesi: sembra non dominare più la materia. Pare assalito
da immagini perentorie, forti (i “traumi” fotografati da Trevor), che tuttavia
subito si sfilacciano, svaniscono, mentre i personaggi gli sfuggono, le loro
identità si scambiano e si confondono Anche la narrazione si tronca
all’improvviso con brusche interruzioni, come sopravvenisse l’ordine perentorio
di ammutolire, la scomparsa d’ogni possibile rappresentazione di ciò che
chiamiamo mondo.
L’autore non è più il deus ex machina del romanzo classico, né
l’ordinatore di materiali magmatici e torbidi, in quanto è sovvertito il
fondamento d’ogni narrazione; giungendo perfino a ignorare ciò che succede
nella materia che, in re, sta
lavorando; né riesce a governare le manopole della “macchina/scrittura”,
visto che essa dipende da un severo ma incognito Fuzet, il cui nome già rivela
un’evidente inconsistenza (Godot, suona più autorevole e rispettabile), come
pare ineffabile e beffardo il suo programma.
La scrittura che
descrive questo mescolarsi insensato d’accadimenti, tuttavia, è ricca,
magmatica, fluente (e singhiozzante), incendiata spesso d’immagini abbaglianti
che rendono con grande efficacia l’ininterrotto costituirsi di mondi e il loro
consumarsi. Una scrittura pervasa da una costante tensione e da una
ininterrotta angoscia, ma animata da una profonda pietas che, sotto traccia, percorre il susseguirsi casuale dei
fatti; da un’intima compassione nei confronti degli umani manovrati dagli
occulti macchinari. La fantasmatica
Punta Marina (raggiunta, infine) è l’immensa biblioteca, dove il libro e la
scrittura si riscattano? È l’unica cosa che resta? La stessa “Fine del Mondo”,
termine ineluttabile del Tutto, viene vanificata (anche con il concorso delle
agenzie turistiche): essa non ha fine, si ripete stancamente, non sussiste
univoca e decisiva. Avviene in ogni istante, replicata all’infinito dalla
“macchina”. Anche il minaccioso Tirteo, dunque, non sarebbe che una maschera di
cartapesta replicante orrore, un patetico travestimento di pianeta butterato
(come nel film di Meliés!)?.
I primi racconti sono
una specie di prologo, esercizi d’antropofagia e sbranamento disseminati d’indizi
folgoranti di catastrofi; ma il cuore rovente della raccolta sta, a mio parere,
nell’irridente “megamacchina” provvista di manopole, tasti e pulsanti, una sorda
ferraglia che presiede ai destini del cosmo, governata dalla mente d’un folle.
Come dice Shakespeare in Macbeth, “La vita è un racconto narrato da un idiota, pieno di
strepiti e furore, significante niente”.
***
PAGHERÒ
Pagherò
le mie colpe con la morte,
sarà
una punizione sufficiente.
Dimentichiamoci
del trascendente,
che
lascia sempre chiuse le sue porte.
Se
credere è anche bestemmiare,
misfatti
attribuendo al proprio dio,
la
fede, consegniamola all’oblio,
la
realtà, la dobbiamo sopportare.
L’osservatore
altera l’evento,
causalità
or non più rigorosa.
Ora
l’oggetto non è più la cosa,
ma
di concetti un accavallamento.
Caduto
il realismo newtoniano,
Einstein
reinterpreta la realtà.
Lo
spazio non è più o qui, o là,
il
tempo? Un concetto solo umano.
Dell’infinito
Sartre ha nostalgia,
ma
c’è un’antinomia non risolta
tra
libertà e necessità . Raccolta
la
sfida fu dalla astrologia.
Pur
di fuggire dalla realtà,
a un Nulla si ricorre ch’è Mistero,
ma
ciò ch’è falso a volte è anche vero,
quel
che conta è che dia serenità.
[Milano,
18 aprile 2015
Lettera inedita autografa del compianto amico e scrittore
Giuseppe Pontiggia, indirizzata alla poetessa Lorenza Franco.
(Archivio "Odissea")
***
POETIClaudia Azzola
Sii a me vicino
Sii a me vicino come la
vita
ora che non c’è più il
carbone
da seminare, la povere d’oro
degli almanacchi si stinge
in fondi
di cortili, portiamo a
casa sporte
di spaesamento. Nuovo
sentire?
Il cuore fu quello che non
ero io,
per la sapiente opera del
servo arbitrio;
la mia voce si chiama
Sibilla, Titania,
ma anche Oberon e Amleto;
è stato pagato il prezzo
dei saecula
saeculorum il divenire, così ti getto
nel sogno di una notte la poesia:
lo scambio è tra l’àugure che smangia
pezzi di destino, e la
colomba
col ramo della pace del
tempo
passato, passato via, con
taluni
punti oscuri preclusi
alla memoria
***
POETI
DON BURNESS
Don Burness |
Memoria
È un giorno
di autunno
A Kyoto
Il vento ha
il sapore di
Settembre
in Alsazia
Cammino lungo
un canale
È bellissimo
Belle le anatre
La testa di un colibrì con una striscia gialla
Un airone decolla
Come una poesia
E improvvisamente
È autunno a Strasburgo
1965
Stiamo camminando
Lungo un canale
Mano nella mano
È bellissimo
Ora stringo le mani
Con la memoria.
[Traduzione Max Luciani]
Vermeer a Kyoto
Per Mary-Lou, che come Proust ha amato Vermeer
Vermeer a Kyoto
Vermeer il più
Elegante
Dei pittori occidentali
Kyoto la più
Elegante
Delle città
Una giovane donna con una brocca d'acqua
Semplice bella eterna
Come le rocce a Ryoanji
La mappa del mondo
Sulla parete di fondo
L'olandese a Nagasaki
Vermeer a Kyoto
Museo Civico Kyoto 14 novembre 2015
[Traduzione Max Luciani]
***
No in rosso
Al tempio di Long Shan
A Taiwan
Parlo al dio
Faccio al dio
Una domanda
Troverò mai l'amore di nuovo
O almeno una donna
Che porti la felicità
Lancio la rossa pietra divinatoria
Per terra
La risposta
NO.
È la risposta attesa
È la risposta appropriata
Sorrido
Lo so
Mi allontano con Mary-Lou
L'abbraccio e la bacio
Sorrido.
Taiwan - 7 dicembre 215 [Traduzione Max Luciani]
Taiwan - 7 dicembre 215 [Traduzione Max Luciani]
***
L'INTERVISTA
Laura Margherita Volante conversa con Nabil Al-Zein
Babil Al -Zein |
L.V.
Dalla Siria sei venuto in Italia in giovane età,
dove vivi dal 1966, stabilendoti definitivamente a Tolentino, nel maceratese, esercitando
oltre all’attività di artista la professione medica. Quanto hanno inciso la
famiglia, l’educazione e la formazione culturale siriane nell’integrarti in una
paese molto diverso dal tuo? Quali le difficoltà e se ci sono state?
N. Ho avuto la
fortuna di nascere in una famiglia di albergatori da generazioni, per cui il contatto
con gente di varie provenienze, costumi, arte culinaria, religioni, culture e modi
di fare, è stato collaudato sin dalla prima mia infanzia. Inoltre ho avuto la
fortuna di avere un padre con una cultura invidiabile a 360° e che concepiva la
vacanza solo viaggiando nel mondo. Con lui il mio primo impatto con l'Italia risale
a 11 anni, dove abbiamo assistito ad un'opera alle terme di Caracalla, per
visitare poi anche l'America a 15 anni.
Credo nella civiltà mediterranea, risultato
delle traversie di questi popoli delle varie sponde e della loro contaminazione,
l'una con l'altra sia mediante il commercio, che per le invasioni, ma anche
mediante pacifici viaggiatori esploratori. Tutto ciò da formare un unico popolo
che si esprime con svariate lingue, simili
usi, costumi e abitudini, ma che lo differenziano totalmente
dai Nord-Mitteleuropei, popoli dell'Africa Sud Sahariana e da quelli del lontano Oriente. Detto ciò, credo che né
io né nessun altro Arabo, abbiamo mai trovato difficoltà d'inserimento sia in
Italia che in Spagna o Grecia.
L.V.
Oltre agli studi universitari ti sei cimentato ad esprimere il tuo talento
creativo e artistico attraverso una ricerca e una evoluzione concettuale,
ottenendo successi e riconoscimenti prestigiosi. Quale ponte hai dovuto
attraversare per trovare un punto focale, che unificasse il prima e il dopo
delle tue esperienze formative e culturali? Come ti sei approcciato all’Arte
Occidentale?
N.
Sin da piccolo mi divertivo con i colori e i miei lavori parlavano in
qualche mondo nel linguaggio di Matisse
e dell'Espressionismo del Novecento, con
delle puntate di arte concettuale sotto la spinta rivoluzionaria (allora nel
mio Paese, appena raggiunta
l'indipendenza e minacciato dalle grandi potenze e da quelle locali "Israele").
Come detto prima la mia frequentazione sin da piccolo con l'arte occidentale, specie
durante i viaggi, ha fatto sì che dopo mi trovassi in mezzo a quella senza sentirmi
di attraversare nessun ponte. Forse
molta influenza hanno avuto anche i miei studi scientifici (sono medico) fin da
imprimere ai miei lavori specie in questi ultimi
tempi, una deriva scientifica.
L.V.
Da dove sei partito e in quale espressione artistica, movimento e autore hai
trovato il germe per poter individuare e sviluppare nel tuo humus
psicosocioculturale un linguaggio che andasse oltre al già esplorato, detto,
trovato? Ciò è avvenuto per caso in un crocevia di studi formazione esperienze
oppure una motivazione personale ha innescato un meccanismo di ricerca per
esprimere la tua interiorità in una nuova visione del mondo, che avesse
fondamento fenomenologico?
N.
Non posso precisare chi incoscientemente ha avuto influenza sulla mia arte,
ma posso dire che la grande spinta dopo una certa timidezza nell'espormi e
presentarmi al pubblico (per il fatto di essere autodidatta), me l'ha dato
Enrico Baj col suo libro "Impariamo
la pittura”, vincendo la titubanza derivante dalla mancata frequentazione di
Accademie di Belle Arti. Posso dire comunque che ho sempre ammirato il nostro
grande Giò Pomodoro che potrebbe avermi incoscientemente influenzato, ma anche
una incondizionata ammirazione per la spontaneità di Van Gogh, per il talento
di Kandinski, la libertà espressiva di Michelangelo Pistoletto e tutto quanto
meravigliosamente espresso nell'arte di Vaserely. Posso dire anche che
un'assidua frequentazione di musei, pinacoteche e mostre nazionali ed
internazionali ultimamente più indirizzate verso l'arte moderna e contemporanea
e il mio tuffo e immersione senza fiato in una lettura e contemplazione di
libri, cataloghi ed enciclopedie di arte moderna e contemporanea, la mia
partecipazione ad infiniti appuntamenti artistici con tanti colleghi anche
giovanissimi sia in Italia che all'estero, sono stati quelli che hanno
costituito il mio bagaglio culturale innovativo che ho interpretato in questo
mio linguaggio individuale. Mi divertivo nel non avere una linea espressiva
univoca che contraddistingue la mia arte e mi sentivo un artista libero alla
Pistoletto, e così andavo dall'iconico al concettuale, astratto, ecc. senza
tanti sforzi. È stato poi l'incontro con gli amici del Movimento
Iperspazialista che si rifà allo spazialismo di Fontana, ad imprimermi un nuovo
corso preferenziale, dedicato ad esplorare ogni punto ancora inesplorato nel
mondo della terza dimensione, fino a quando
sono arrivato alla conclusione che dopo un secolo della tematica spazialista
era ormai tempo di rivolgere l'attenzione nella ricerca della quarta dimensione
temporale coniando il mio motto "Dare più spazio al Tempo per avere più tempo per lo Spazio"
e così sono riuscito a coinvolgere tanti amici iperspazialisti ed altri ad
abbracciare una ricerca volta ad individuare il tempo, registrarlo e vederlo
mediante la sua influenza su tutto quello che ci circonda ma anche sulla nostra
vita stessa, dal momento che il Tempo per via dell' incessabile
movimento, fa sì che tutto l'Universo sia in continuo mutamento che segnala la sua vitalità.
Quarta dimensione |
L.V.
Da italo siriano qual è il tuo punto di vista di fronte alla tragedia siriana
del suo popolo? Quale soluzione proporresti per fronteggiare tale crisi
planetaria ed epocale? Ci sarebbe una soluzione? Cosa dobbiamo aspettarci?
N.
Gli
Arabi sono un popolo unito nella loro lingua, tradizioni, usi e costumi, storia,
religioni e cultura in generale. L'ondata nazionalistica che ha travolto i
popoli europei con conseguente unità d'Italia, tedesca ecc. ha fatto nascere il
sentimento nazionalistico anche tra gli i Arabi, i quali ribellandosi al dominio turco-ottomano nella 1a
Guerra Mondiale, aspiravano alla realizzazione di tale unità. Invece si sono
trovati intrappolati dal colonialismo occidentale anglo-francese che li ha
suddivisi artificiosamente in una ventina di Paesi mai autosufficienti e che a
causa del dramma del popolo palestinese e dei conseguenti continui conflitti
con lo stato ebraico, si è creata una ipertrofia militare di quei Paesi che ha
travolto le loro istituzioni finendo il popolo sotto il giogo di feroci dittatori, che hanno reso loro la vita ancora più
difficile di quanto era sotto gli usurpatori colonialisti. Cinque anni fa la Primavera
Araba: una gigantesca ma pacifica ribellione di tutto il popolo arabo senza rispettare
i confini disegnati dagli imperialisti, ha invaso come marea incontenibile,
piazze e centri delle maggiori città reclamando libertà, dignità e uguaglianza. Era una
rivolta di orgoglio di tutto un popolo senza distinzioni sociali, razziali, politiche
o religiose; finita purtroppo come strumento in mano alle grandi potenze e a quelle
locali che l'hanno trasformata in una insensata guerra civile tra razze e
religioni, mai state in conflitto tra
loro dai tempi più remoti, il tutto per realizzare il maledetto disegno della
nuova destra americana "Dividere
il già diviso", il solo modo
per annullare i nemici intorno ad Israele. Solo quando questi malfattori si
accorgeranno che l'incendio appiccato rischia di bruciare le dita proprie (vedi
emigrazione e crollo dell'economia della vecchia Europa) forse si sveglieranno
e si daranno da fare a convincere gli USA a darsi una regolata, essendo ormai
questa interessata ai soli suoi rapporti
con i Paesi del Pacifico, considerando il patto Atlantico ormai non più funzionale a suoi nuovi interessi, visto che la Russia del nuovo Zar non presenta più pericolo anzi è un socio nella
spartizione del vecchio continente.
L.V.
Quale lo stato d’animo di un artista di fronte agli accadimenti attuali di
violenze, guerre, terrorismo, fame, malattia, ecc? Il messaggio di un artista
trova ancora interlocutori disposti a confrontarsi con ideali di uguaglianza
giustizia pace? Cosa proporresti per realizzare la formazione dell’uomo e della
donna planetari superando le differenze e i conflitti di religione?
N.
L'artista ha il dovere (anzi anche il piacere) di vivere tutto quanto che lo
circonda tra gioie e dolori e i suoi lavori quando è onesto con se stesso,
interpretano sempre questo. La pace, l'amore tra tutti gli uomini e tra loro e
tutto il creato (intendo con questo sia mondo animale che quello vegetale e anche il così definito inanimato) è
il messaggio primario di tutte le religioni comprese quelle monoteistiche (Ebraismo,
Cristianesimo e Islam), nati nella stessa terra, dalla stessa famiglia a poca
distanza chilometrica l'uno dall'altro. Tutti figli di Abramo e dell'Unicità di
Dio, ed è per questo è una pura invenzione del materialismo l'idea del "conflitto
inevitabile tra civiltà". Non si può dare la colpa alla religione di
provocare le guerre come sostengono i materialisti infami, altrimenti non
capiamo il perché della 1a e della 2a Guerra Mondiale e
di tante altre se le vogliamo capire sotto quest'ottica di lettura. Il Corano
recita: "Oh gente, vi abbiamo
creato da un maschio e una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù
affinché vi conosciate. Il migliore di voi è il più timorato del Creatore".
Come si vede questo annuncio coranico è rivolto a tutti gli uomini senza
nessuna distinzione e non è indirizzato ai soli Musulmani né a qualsiasi
credente, ma a tutto il genere
umano, con precisa 'uguaglianza tra uomo
e donna, in quanto mai nessuna religione ha predicato l'attuale prevaricazione
nei confronti delle donne che oggi si vuol pretendere in nome di Dio. L'arte è una lingua universale
che non ha frontiere, è uno strumento efficacissimo che deve essere sempre
utilizzato per promuovere amore, pace, uguaglianza, libertà per combattere
guerre, deturpazione dell'ambiente e delle coscienze. Gli artisti devono sempre
essere all'avanguardia in questo compito e mai strumenti al soldo del potere
politico né di quello economico. Ho
cercato nel mio piccolo di affrontare queste tematiche, vedi le installazioni: "Oil",
"Oil 2", "Watch the watch", ecc. (http://www.nabil-art.it/?page_id=30)
Tecnica mista |
L.V.
Oltre i Tagli di Fontana… ci vuoi spiegare sintetizzando la tua opera
artistica, i traguardi e le prospettive?
N.
Nella mia visione lo spazialismo e la terza dimensione di Lucio Fontana,
ritornano oggi a rifiorire, dopo un secolo, quando vengono agganciati al loro gemello
siamese inseparabile il Tempo. Spazio-Tempo sin dagli anni '50, da Einstein in
poi, sono stati sempre considerati una cosa unica e le mie opere mettono in
concreto questo gemellaggio. Opere che fotografano il Tempo per via del
movimento segno di vita, che cambia lo Spazio. Così estroflessioni,
introflessioni, tagli, ecc. non sono più fisse ma subiscono aumenti e
diminuzioni, apparizioni e sparizioni in un'alternanza meravigliosa di
vuoto-pieno nello spazio ad esprimere armonia di evoluzioni, caratteristica
essenziale del nostro universo. Nelle
mie opere ho voluto anche individuare l'artefice del taglio e delle
estro-introflessioni in un oggetto comune di vita che può essere una forchetta,
una palla o altro ancora definendo cosi il mio spazio "Spazio Vitale"
per distinguerlo da uno spazialismo immutabile nel tempo che non esprime la
vera realtà.
L.V. Progetti prossimi e futuri in tale clima
caotico come pensi di realizzarli e come raggiungere un’ottica universalista,
accessibile a tutti?
N.
La mia arte è stata sempre sperimentale, attraversa percorsi accidentati mai
esplorati e questo mi mette davanti a tanti ostacoli sia di natura economica
che progettistica nello studio di materiali e la loro compatibilità
fisico-chimica. Ciò rende la nascita di una mia opera, frutto di un lungo e
gravoso travaglio, anche perché il mio intento è sempre il coinvolgimento del
fruitore dandogli un prodotto giustamente comprensibile eL stimolante indipendentemente dalla sua preparazione artistica.
L'INTERVISTA
Laura Margherita Volante conversa con Giancarlo Trapanese
Laura Margherita Volante conversa con Giancarlo Trapanese
Giancarlo Trapanese |
Volante.
Tu Giancarlo, che hai iniziato l’attività di giornalista scrivendo per il Resto
del Carlino e Corriere Adriatico e poi in Rai collaborando con importanti
trasmissioni sportive, come sei passato a quel fuoco sacro della scrittura
letteraria con romanzi di indubbio successo, percorso che inizia nel 1990 proseguendo fino al tuo ultimo romanzo "Chi mi ha ucciso?" (Italic-Pequod
editore)?
Trapanese. Forse è
stata proprio la constatazione che per tanti, tantissimi anni (ora sono 42) di
giornalismo e di impegno in questo settore, la dittatura del tempo e dello
spazio (le trenta righe o il minuto e mezzo) l’ho sempre sofferta troppo, nel
senso che era per me difficilissimo esprimere in modo esaustivo e compiuto le
sensazioni e le riflessioni che tanti fatti (soprattutto di cronaca nera) mi
provocavano. Così piano piano è maturato il desiderio di mettermi davanti al
computer senza un limite, di ascoltare ciò che mente e cuore suggerivano senza
lacci e confini e affrontare temi importanti e delicati che sentivo miei.
V. I premi
legati all’attività di scrittore e non solo ormai non si contano più. La
passione per la psicologia e il couseling quanto hanno inciso sui temi centrali
dei tuoi romanzi e quanto invece le tue esperienze personali ed esistenziali?
Si intrecciano o fanno parte di un’innata sensibilità volta ad esplorare i
meandri anche più oscuri dell’anima
umana?
T. Sono
decisamente uno psicologo mancato, è vero. Alla mia epoca (parliamo del 1972)
la facoltà di psicologia di Roma era unica e ai primi passi, non esisteva
ancora l’ordine degli psicologi e quando espressi il desiderio di andare in
quella direzione trovai comprensibili opposizioni in famiglia perché si
trattava di una professione tutta da delineare dove Freud ancora dettava legge (o
quasi) . Così mi limitai a leggere molto di psicologia, mi iscrissi a Legge e
nel frattempo seguivo gli studi (in psicologia) di una mia amica leggendo i
suoi testi, approfondendo argomenti. Chiaro che questa passione unita poi al
mio lavoro hanno creato grandi opportunità di analisi e riflessione e che
quindi le due passioni si siano saldate più che intrecciate. Devo dire che
senza alcuna spinta da parte mia (anzi…) mia figlia Gloria ha intrapreso quella
strada ed è divenuta psicologa ed anche direi una psicologa di grande
sensibilità.
V. Nella
raccolta di racconti “Se son fiori”
sviluppi attraverso la narrazione il tema dell’indifferenza: dodici storie di
amori impossibili, ansia di autenticità anche attraverso la trasgressione,
speranze e tradimenti, ecc… L’indifferenza a cui ti riferisci è frutto di una
società malata: di irrelati in cerca di un’identità mancata o di solitudini
incapaci a trovare la strada di casa, quella che porta alla realizzazione del
sé, attraverso la memoria di esperienze condivise?
T.
Assolutamente
vero: l’indifferenza è uno dei grandi cancri di quest’epoca malata di egoismo e
di interesse. Quasi tutti i miei libri hanno profondi riferimenti a questo
problema e Se son fiori, il primo, fu
il mio approccio d’esordio ad una tematica complessa. Sono dodici racconti ma
in realtà, erano dodici romanzi in fasce…
Giancarlo Trapanese |
V.
In “Luna traversa” affronti
attraverso i suoi protagonisti, genitori alle prese con un adolescente in cui
le dinamiche familiari affondano le loro radici nei vissuti d’infanzia di
ognuno. Quanto è difficile oggi essere genitori, primi educatori di queste
nuove generazioni destinate a vivere una realtà ingestibile, imprevedibile e
piena di insidie? Quanta l’influenza dei mass media e quanta invece l’incapacità
a crescere come genitori affetti da adolescenza interminata?
T.
La
coppia che scoppia, il diverso da sé che raramente viene accettato, l’amore che
è possesso e non donazione, persino la coesistenza di cristianesimo e islam
sono al centro di quel libro per me molto importante. Le dinamiche familiari e
la difficoltà di una relazione positiva con i propri figli sono la riflessione
che propongo con una storia di “fantasia” ma che affonda le radici in tante
storie e testimonianze che ho raccolto sia in un periodo durante il quale
facevo il consulente di coppia”on line” sia in una frequentazione di amici e
coppie islamiche. Un modo per capire e per capirsi.
V.
“Madre vendetta” offre uno spaccato
inquietante dei giorni nostri. Romanzo dalle forti tinte del giallo, nel quale
le donne diventano martiri e vittime di uomini deboli e per questo violenti. Il
rapporto fra giustizia e punizione è spesso inadeguato. Cosa ti ha spinto a
scrivere un romanzo da piegature delicate e forti allo stesso tempo? Quale lo
stato d’animo di uomo di fronte a tanti femminicidi?
T.
La
conoscenza occasionale (face book) della madre di una vittima di femminicidio,
Rossana Wade, uccisa dal fidanzato nel 1991, con condanna del’assassino che ha
scontato solo 12 anni di carcere, diede il via a questa storia. Lunghi
confronti e colloqui con una madre che non è mai riuscita a perdonare e che
odio e rabbia hanno letteralmente distrutto e che non è mai riuscita ad avere
giustizia tanto che non ha ricevuto mai una sola lira… Da lì l’idea di un
romanzo-denuncia, dalle forti tinte gialle come dicevi, ma anche dall’analisi
di come la tragedia non si annunci con squilli di tromba, ma spesso covi in
atteggiamento sottovalutati ed incompresi.
V.
Il romanzo “La giusta scelta” mi
riporta alla memoria il racconto di Pirandello “Il treno ha fischiato”. Infatti,
il protagonista del tuo romanzo Sauro Rocchi, impiegato di banca, frustrato per
un senso di fallimento deve scegliere se mantenersi onesto o intraprendere una
via illecita per cambiare la propria esistenza in una società che non premia il
merito, ma i “senza scrupolo”. Mentre al protagonista di Pirandello, anch’egli
impiegato, contabile affidabile e ligio al dovere, con un carico familiare
incredibile la soluzione avviene nella sua immaginazione tanto da decidere di
fingersi pazzo. Cosa è cambiato oggi? Esiste una giusta scelta o è una
provocazione per…?
T.
Pirandelliano
anche il riferimento a “Il fu Mattia Pascal”
perché in fondo Sauro Rocchi decide poi di sparire al mondo con la sua identità
e crearsene un’altra scoprendo poi che i soldi non sempre garantiscono la
chiusura con il proprio passato da “ sfigato” e non consentono la chiusura dei
conti con il proprio passato. Ma c’è un altro riferimento molto forte: quello ad
una società dove se “non conosci qualcuno” non sei considerato, non vai avanti,
non vieni considerato per quello che realmente vali. La meritocrazia che manca
e che è uno dei mali più grandi, uno dei problemi più devastanti della società
in genere ma dell’Italia in particolare.
La copertina del libro |
V.
L’ultimo tuo romanzo “Chi mi ha ucciso”
esce dalla dimensione di introspezione psicologica dei personaggi per
avventurarsi in un giallo-triller in atmosfere surreali, i cui confini con la
realtà diventano specchi deformanti in un labirinto di universi paralleli. È la
proiezione di questo mondo incerto indefinito e complesso oppure ansia di
assoluto per oltrepassare quella soglia o quella siepe di leopardiana
memoria?
T.
Chiusi
in una villa del ’700 con un classico del giallo mondiale (cena con il delitto)
i personaggi di questo giallo sono in fondo una..perifrasi dei mali della
nostra epoca con i quali dobbiamo fare i conti per “uscire” dal circolo chiuso
dell’esistenza che è volta al sé e non all’altro. Perdono, amore, accettazione
e un po’ di speranza sono i condimenti di un giallo insolito nel quale ho anche voluto affrontare il tema della “dimensione del tempo e dello spazio” di
straordinaria attualità dopo la conferma della teoria della relatività di
Einstein. È un libro per me molto importante, un qualcosa che mi permette di
spaziare sia nella mia passione per il “thriller” (forse figlia del mio vecchio
lavoro di cronista di nera) sia negli argomenti trattati in tutti gli altri
libri. Un giallo a sorpresa con una serie infinita di colpi di scena e di
occasione di meditazione.
***
LIBRI
LA LOGOFENICA. TRA PENSIERO ED ESISTENZA
di Laura Margherita Volante
"Noi sentiamo
che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto
una risposta i nostri problemi
di vita non sono neppure ancora toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta".
L. Wittgenstein
La copertina del libro |
Si studiano infatti le singole scienze,
ma separatamente, senza affrontare il problema del sapere scientifico come
tale, nel suo formarsi, attraverso un’evoluzione socio-culturale. Il
superamento della dicotomia fra sapere umanistico e sapere scientifico e la
proposizione di un’ottica realmente interdisciplinare, non possono porsi tanto
come punto di partenza quanto come punto di arrivo. Non competizione, ma un “arrivare insieme” nello studio, nella
ricerca, nella esperienza su uno sforzo di scambi di idee organizzando
un’adeguata rete di rapporti. Nessuno nega l'utilità di ricercare nel passato
le radici umane ed in particolare le remote origini della volontà e capacità di
comportamento etico. Se il sapere scientifico fallisce nel tentativo di
costruire una "teologia della storia" come può allora rispondere ai
"problemi di vita" sulla base dei puri dati della scienza? E per le
giovani generazioni la maturazione psicologica e la ricerca del proprio ruolo
sociale è reso più difficile proprio per la molteplicità e la complessità dei
modelli e delle informazioni proposte. Bisogna qui tenere presente il
fenomeno che gli antropologi chiamano “irrazionalità delle culture” e di
“vischiosità dei fatti culturali”.La psichiatria più evoluta dialoga con le
neuroscienze che prendono in esame: la coscienza, gli aspetti cognitivi, gli
aspetti inconsci che rivelano la sfera emotiva. Il rapporto fra questi tre
elementi, dove l’aspetto emotivo e motivazionale determinano/condizionano il
cognitivo, è la via possibile per recuperare, riscoprire, accogliere,
reinventando rapporti capaci di ricondurre all’interazione ciò che ora appare
diviso: il dialogo tra famiglia e società. Fatta questa premessa, l’opera “La Logofenica Tra Pensiero ed Esistenza”
di Gil Gallo e Bruno Gallo mi riconduce all’Educazione
Sentimentale di Flaubert, romanzo in antitesi alla struttura tradizionale
dei romanzi romantici dell’800 europeo. Infatti, la narrativa di Flaubert si
contrappone con un rincorrersi di vicende, di incontri, di un amore mancato,
dove gli individui hanno difficoltà a costruire un progetto di vita regolare,
razionale. In una lettera Flaubert dice che ogni opera deve fare la “punta”
come una piramide, ossia raccogliere tutte le linee e le spinte narrative in un
punto chiave, ossia come punto di irradiazione e scioglimento della vicenda.
Flaubert stesso avverte che l’Arte non è la Natura. Infatti, essa chiede una
dose di combinazione e di artificio, che egli tuttavia rifiuta, con un sottile
senso di malinconia: per la giovinezza che svanisce, per gli amori che si
estinguono, per le disillusioni e la vita che inesorabilmente s’invola: “L’arte non è fatta per dipingere le
eccezioni”. Flaubert con i suoi personaggi mette in
scena una psiche che non riusciamo a comprendere semplicemente con giudizi
morali e neanche con una diagnosi “caratteriale”. L’educazione sentimentale è
un libro destinato a chi è disposto a percepire i legami tra sfera delle
passioni, meccanismi della libido e azioni dell’intelligenza. Per questo
motivo, il caso, la visione interna del mondo legato all’esperienza e ad una
educazione sentimentale e su quali valori, restano inesplorati. Il tema rimane
aperto in questa sospensione di relazioni intraprese, perse in un’esistenza
ciclica: un ciclo ne apre un altro e poi un altro ancora, dove gli individui
sono gli strumenti di un pensiero universale, che dal caos facendosi caso, si
muove armonicamente in piccole esistenze piene di contraddizioni, di contrasti
in una ricerca ansiosa di unitarietà all’esterno, senza la comprensione di una
unicità, non fuori ma dentro, in una interazione fra ragione istinto
sentimento. Ecco che il pensiero esistenziale/sentimentale degli autori, in una
visione bi-logica dell’esistenza, varca nuovi orizzonti, che sorgono e
risorgono esplodendo in un rinnovato big-bang di fatti ed eventi fra morte e
vita: l’una la creazione dell’altra, destinata a morire per dar vita ad una creazione continua in un vitalismo
infinito il cui respiro, fra vita e morte, è il battito senza tempo
dell’Universo. Ma il battito fa parte dell’uno
che scandisce verso l’unità
esistenziale, contraddistinta da miriadi di energie complesse e indeterminate
ad continuum. La memoria non si spegne, radicata nell’inconscio collettivo
distinto e unito fra cultura prima e dopo, in un susseguirsi di parallelismi
attraverso un viaggio di diverse umanità scortate dalla Natura e
dall’Esperienza. In tutte le culture dell'antichità musica e medicina erano
praticamente una cosa sola. Lo sciamano, ad esempio, sapeva che il mondo è
costituito secondo principi musicali, che la vita del cosmo, ma anche quella
dell'uomo, è dominata dal ritmo e dall'armonia. Sapeva che la musica ha un
potere incantatorio sulla parte irrazionale, che procura benessere e che nei
casi di malattia può ricostituire l'armonia perduta. L’azione
dei suoni sull’essere umano è molto profonda e reale perché, effettivamente, la
nostra costituzione interiore è conformata come un vivente strumento musicale,
le cui corde sono il tessuto animico sovrasensibile del corpo astrale che,
vibrando, riproducono le armonie e la musica del cosmo, risuonando
nell’elemento “acqua” del corpo vitale. Secondo il mito, quando la Luna si
staccò dalla Terra, Osiride trasferì la sua azione su questa e, suonando
l’entità astrale umana, fece scaturire dal midollo spinale le ventotto paia di
nervi in collegamento con le ventotto fasi lunari (il fatto che i doppi nervi
siano trentuno dovuto allo sfasamento tra il ciclo lunare e quello solare).
Strumenti come la lira, la cetra ed altri simili nascono, quindi, come vere
immaginazioni spirituali, essendo concrete realtà dell’interiorità umana. Il
violino lunare rappresenta le tre facoltà dell’anima: pensare sentire volere.
Nella chitarra a cinque corde la parte inferiore della cassa armonica
rappresenta la Luna “volere”; la rosa
(apertura al centro della tavola armonica) corrisponde al Sole “sentire”; la
testa dello strumento (parte terminale del manico) richiama lo Zodiaco
attraverso la sfera di Saturno “pensare”. Le cinque corde rappresentano i
pianeti: Saturno, Giove, Marte, Venere e Mercurio. C'erano determinate melodie,
composte per le passioni dell'anima -gli stati di scoraggiamento e di
depressione- che pensavano fossero di grandissimo giovamento. Altre erano per
l'ira e l'eccitazione e ogni altra consimile perturbazione dell'animo. Inoltre
esisteva una musica di genere differente, escogitata al fine di contrastare il
desiderio. I pitagorici usavano anche danzare, e lo strumento di cui si
servivano a questo fine era la lira, perché il suono del flauto lo
consideravano violento, adatto alle feste popolari e del tutto indegno di
uomini di condizione libera. Per favorire l'emendazione dell'animo usavano inoltre
recitare versi scelti di Omero e di Esiodo. Gli antichi, quindi, hanno colto
l’impalpabile linguaggio dell’Universo estendibile e circoscritto entro
dimensioni parallele e infinite, in un reticolo di corde vocali dell’esistenza
entro altre esistenze, in corpi sonori che risvegliano le coscienze dal coma
per quell’Eco ancestrale evocata. In tal modo la cultura ha perso ogni
vincolante rinvio ad un universo etnico stabile, per venire a connotare una fragile
ragnatela di significati generati continuamente dall'interazione sociale e non
solo.
Gil Gallo e Bruno Gallo
La logofenica. Tra pensiero ed Esistenza
Corso editore Ravenna 2006
Pagg. 90 € 15,00
***
AFORISMI
di Laura Margherita
Volante
Ogni morale ha la sua storia.
I segreto della felicità è
tagliare i rami secchi.
La poesia è colpire l’anima con il
pugno di ferro in un guanto di velluto.
Cur” Carpe diem?” Memento mori…!
L’intelligenza dei montati è idiozia.
Le parole velenose sono le bacche
di chi è sempre pieno di veleno.
Il buono e il bello sono i
pilastri dell’anima amorevole.
Dal vero amico si scopre
l’inimicizia di un altro…
Il tempo corre e i veri amici
restano scolpiti nel cuore.
Il sapere senza esperienza non
porta alla vera conoscenza.
Chi ne sa di più succede che non
capisca niente…
Chi si circonda di adulatori è
privo di autostima.
Le delusioni arrivano da persone
non funzionali alle aspettative.
Mulinelli sociali. Chi sa
galleggiare…non affoga.
Erotomania da intellettuale.
Quando il cervello fuma l’espresso è pronto.
De gustibus…C’è chi si rilassa solo
con i pompaggi alla cervicale.
I perdenti nel ritrovarsi…
diventano vincenti.
Non accettare i segni del vissuto
è come non aver guardato la vita…
Chi soffia contro il tempo… si
gonfia!
Il mondo in una frase. Troppe
frasi al mondo si disperdono
alla velocità della luce.
Il mondo questo sconosciuto. Chi
si concentra su di sé vive fuori dal mondo…
Chi abbandona ha già abbandonato
se stesso all’inferno.
La mancanza di accoglienza è fuga
da qualsiasi responsabilità.
Il quadro d’arte fa quadrato fra i
suoi cultori.
Il bacio è un soffio di rugiada
per un nuovo giorno.
***
Catastrofi in miniatura: un invito all’aforisma.
di Amedeo Ansaldi
L'albero della sapienza |
Definizione di ‘aforisma’
Che cos’è un aforisma? La
definizione che possiamo trovare in qualsiasi dizionario, recita più o meno: ‘Breve massima che enuncia una regola
pratica, una norma di saggezza o una sentenza filosofica.’
Definizione ineccepibile, non
esaustiva. La caratteristica subito evidente dell’aforisma è la brevità,
l’estrema economia di mezzi espressivi, lo stile disadorno.
La necessità di riuscire
stringati nell’esposizione delle idee, a beneficio del lettore non meno che dell’arte,
apparivano chiare già in epoca antica. Fin dagli albori della filosofia Talete
ammoniva che: “Molte parole non sono mai
indizio di molta sapienza.”, e secondo Seneca: “E’ proprio di un grande artista saper racchiudere tutto in un piccolo
spazio.” Amleto sosteneva che “la
brevità è l’anima della saggezza.” “Poco
e buono” sarà il criterio che informa i Ricordi
del Guicciardini: meglio “uno fiore che
accumulare tanta materia.” Questi appelli alla concisione si ripetono nel
corso dei secoli - il che autorizza il sospetto che siano rimasti, in larga
misura, inascoltati. Blaise Pascal si scusava con un amico a cui scriveva
dicendo: “Ho fatto questa lettera più
lunga solo perché non ho avuto il tempo di farla più corta.”: quindi la
brevità - anche - come risultato di una lunga e tenace applicazione. L’aforisma
non si dilunga in particolari che possano essere vantaggiosamente sottaciuti. “Il segreto per annoiare sta nel dire tutto”,
ricordava Voltaire.
Jules Renard, autore, fra
l’altro, di diari in forma aforistica, esorta piuttosto a non concedere tregua
al lettore: “Avere uno stile esatto,
preciso, in risalto, da risvegliare un morto.” E in effetti,
l’ambizione - talora malcelata - dell’aforisma, è di togliere il fiato al
lettore; magari di farlo sobbalzare sulla sedia. In questo senso va intesa anche
la definizione coniata da Giovanni Papini:
“L’aforisma: una verità detta in poche parole
- epperò in modo da stupire più di una menzogna.” Il critico Alfonso
Berardinelli, dal canto suo, rileva: “E’
una piccola leva con cui si possono sollevare interi mondi.”
La semplicità
è un’altra delle caratteristiche irrinunciabili. L’aforista rifugge dalle
parole strane, ricercate, rare. Nessun lettore comune dovrà mai mettere mano a un
vocabolario per penetrare il significato di un aforisma; gli ostacoli che il
genere propone sono solo di ordine concettuale.
Montaigne diceva: “Nel linguaggio, la ricerca di frasi nuove e
di parole rare proviene da un’ambizione scolastica e puerile. Possa io non usar
altre parole che quelle che servono abitualmente a qualunque cittadino”.
Mentre Karl Kraus osservava: “Adoperare
parole inusuali è un atto di maleducazione letteraria. Solo le difficoltà di
pensiero devono essere messe fra i piedi del pubblico.”
Prezzolini, dell’aforisma,
preferisce sottolineare il carattere eletto, aristocratico: “Scrivere aforismi è da gran signore: un
gran signore regala bottiglie di vino pregiato; un villano regala una botte di
vino mediocre.”
Un’avvertenza: non chiedete
mai a un autore il significato di un suo aforisma. E’ probabile che non sappia
rispondervi. Diceva Michaux: “Si ha
voglia di scrivere un romanzo, e si scrive un’opera di filosofia. Non si è mai
soli nella propria pelle.” E anche Borges esprimeva un concetto analogo
(con riferimento alla poesia, ma altrettanto calzante se riferito all’aforisma):
“Ogni poesia è misteriosa; nessuno sa
fino in fondo che cosa gli è stato concesso di scrivere.” Mentre Karl Kraus
riconosce:“Io domino solo il linguaggio
degli altri. Il mio fa di me quello che vuole.”
L’aforisma è sempre il coronamento
di una serie di riflessioni che lo precedono e che rimangono implicite, e nello
stesso tempo funge anche da punto di partenza per riflessioni nuove, affidate
all’iniziativa del lettore avvertito.
Sempre Prezzolini sosteneva: “Gli aforismi sono vasi che il lettore
riempie con il suo vino.” E Karl Kraus: “L’aforisma non coincide mai con la
verità: o è una mezza verità o una verità e mezzo.” Mentre Carlo Gragnani, grande
aforista ticinese sul quale torneremo, scrive: “Talvolta le nostre parole ci ritornano cariche di sensi di cui si era
ignari quando le abbiamo licenziate.” Finiamo con le parole di un altro autore
ticinese, Mario Postizzi (presente oggi fra di noi): “Il nucleo di un concetto sprigiona un’energia sempre rinnovabile.”
Rapporti tra aforisma e altri generi letterari. L’aforisma si distingue dalla filosofia per il suo
carattere asistematico (Cioran in un’intervista avvertiva: “Scrivo aforismi
perché sono un irresponsabile”). L’aforista può permettersi quello che a un
filosofo non è consentito: la contraddizione. In un’opera di filosofia i conti
alla fine devono sempre tornare, deve esserci coerenza di pensiero nel quadro
di una visione organica del mondo; in una silloge aforistica i conti spesso non
tornano perché questa forma letteraria, frammentaria per natura, ricalca la
vita nei suoi aspetti contradditori. Per comprendere un libro di filosofia
bisogna leggerlo fino in fondo, con metodo, dalla prima all’ultima pagina. Con l’aforisma
si può procedere diversamente. Sempre Carlo Gragnani: “Cerco un libro che si possa leggere con interesse anche aprendolo a
caso. Ogni frase sufficiente a se stessa.”
L’aforisma si differenzia, e
anzi si pone agli antipodi, anche rispetto ad altre forme d’espressione quali
lo slogan, il motto propagandistico, la
battuta. L’unico aspetto di apparente somiglianza è dato dalla
brevità. Lo slogan vuole trasmettere
certezze; l’aforisma spesso, pur nella sua perentorietà, suggerisce il dubbio,
obbliga il lettore a rimettere in discussione interi sistemi di valori. Lo
slogan si propone di paralizzare il pensiero dopo aver imposto acriticamente
un’idea, l’aforisma di offrire alla mente continui stimoli. Gli slogan (per
es.: “Colpirne uno per educarne cento”: Mao; “Un popolo, un impero, un capo.”:
motto nazista) non offrono alcuna nuova prospettiva al pensiero. L’aforisma, al
contrario, sprigiona senso lentamente, nel tempo, e il lettore che vi ritorni
sopra col pensiero, magari a distanza di secoli, scoprirà sempre nuove
sfumature, significati nascosti, correlazioni impreviste.
La battuta, dal canto suo,
non si prefigge altro scopo che quello di far ridere; spesso, come vedremo,
anche l’aforisma è divertente, ma la risata che suscita serve solo a mettere in
moto il pensiero; non rappresenta il fine ma il mezzo. Più difficile stabilire
una distinzione fra aforisma e paradosso, dal momento che l’aforisma, molto
spesso, capovolge il senso comune. Oscar Wilde sosteneva che la verità è
nel paradosso; e si potrebbe aggiungere che il suo maggior merito è di saperlo
nascondere tanto bene. Il dottor Freud sosteneva: “Non si è mai tanto seri come quando si scherza.”. L’aforisma
paradossale è spesso anche scorretto:
“Se vi danno uno schiaffo restituitene quattro, non
importa su quale guancia.”
(Chateaubriand)
“Preferirei avere del sangue sulle mani piuttosto che
dell’acqua come Ponzio Pilato.” (Graham
Greene)
“Come tutti gli egoisti di buon cuore non sopportava
la vista delle persone che rendeva infelici.” (Wilde)
“La sottigliezza non abbandona mai gli uomini di
spirito, specialmente quando sono nel torto.” (Goethe)
“Gli amici si dicono sinceri, i nemici lo sono.” (Schopenauer)
“Certe parole, più che dal seno, sembrano sfuggite
dalla scollatura.” (Dino Basili)
Anche il ticinese Carlo
Gragnani scrisse spesso aforismi in forma paradossale:
“Non sarei stato contrario a un secondo matrimonio di
mio padre. Piuttosto (se avessi potuto) mi sarei fermamente opposto al primo,
che ha avuto per me conseguenze incalcolabili.”
“Solo un’esagerata opinione di se stesso gli consentiva
di avere tanti rimorsi.”
“Chiarire i malintesi. Sì, ma non facciamone una
regola. Ne amministro taluni con profitto.”
“Confessioni di un medico: molti morti pesano sulla
mia coscienza, ed anche taluni vivi.”
Foto di Livia Corona |
Aforisma e citazione. Esistono raccolte di aforismi propriamente dette
(es.: le Massime di La Rochefoucauld
o i 111 Pensieri di Leopardi), e ci
sono aforismi, anche molto famosi, che sono semplicemente citazioni tratte da
romanzi, opere teatrali, saggi, ecc. che possono venir estrapolate dal loro
contesto senza perdere nulla della loro autonomia di significato. La più
giustamente celebre è forse l’incipit
di Anna Karenina (“Tutte
le famiglie felici si assomigliano; ogni famiglia infelice è infelice a suo
modo.”); ma molto noti (anzi, i più universalmente citati e venduti) sono
anche gli Aforismi di Oscar Wilde,
mere citazioni da sue commedie o saggi critici. Questa breve presentazione del
genere letterario contiene sia aforismi ‘puri’, cioè concepiti in quanto tali,
sia citazioni di carattere aforistico da opere appartenenti ad altri generi. Una
caratteristica connaturata all’aforisma è l’universalità dei significati,
favorita dalla sua stessa sostanziale ambiguità. Meno parole un aforisma
contiene, maggiore è il numero di significati che sarà possibile attribuirgli,
anche al di là delle intenzioni dell’autore.
Un tratto comune alla
maggioranza degli aforisti, almeno da La Rochefoucauld in poi, è il sostanziale
pessimismo: uno degli aspetti che maggiormente contribuisce ad allontanare il
grande pubblico. Che non è un pessimismo per partito preso, compiaciuto,
gratuito, ma una onesta presa d’atto della natura umana e delle storture della
società, che deriva dalla viva esperienza e si esprime in modi ora amari, ora
ironici, ora beffardi. L’aforista è un uomo, prima ancora che uno scrittore, con
una visione sconsolata del mondo, che guarda alle cose per quello che sono e
non per come si vorrebbe che fossero, e che descrive la realtà senza sconti.
Tiziano Rovelli "Opera in rosso" |
L’aforisma nell’antichità greco-romana
Nell’antichità l’aforisma assolve
soprattutto alla funzione di massima di saggezza. In qualche caso si tratta davvero
di forme letterarie brevi, cioè raccolti di pensieri, sparsi o legati l’uno
all’altro, quindi, diremmo oggi, opere a carattere prevalentemente aforistico
(come nel caso del Manuale di
Epitteto, o i Ricordi dell’imperatore
Marco Aurelio); in altri di frammenti superstiti di opere andate perdute (per
es. i frammenti eraclitei, e dei presocratici in genere), che compendiano in
poche parole (l’eracliteo ‘Tutto scorre”; o l’epicureo “Vivi nascosto”) interi
sistemi filosofici; altri ancora sono semplici citazioni, ma che dimostrano
come lo spirito sentenzioso fosse tutt’altro che estraneo all’antichità
classica. Ecco alcune formule capaci di sintetizzare in un breve giro di frase
l’intera opera di un filosofo, o la visione del mondo di un poeta, di un
drammaturgo, di un favolista:
“Non scenderai due volte nello stesso fiume.” (Eraclito: l’idea del ‘divenire’)
“Non è facile fermare un sasso quando è uscito dalla
mano, né un discorso quando è uscito dalla bocca.” (Euripide, l’idea di ‘destino’.)
“Nessuna cosa basta a colui, al quale il poco non
basta.” (Epicuro)
“Taluni pensano che commettere ingiustizie sia il solo
modo di esercitare il potere.”
(Sallustio)
“Nulla è più duro di una pietra e nulla più molle
dell’acqua, eppure la molle acqua scava la dura pietra.” (Ovidio)
“L’alleanza con uno più potente non è mai sicura.” (Fedro)
“Niente è più contrario alla guarigione quanto il
cambiare spesso i rimedi.” (Seneca)
“Non sono le cose reali a turbare gli uomini, ma le
opinioni che essi si fanno delle cose.”
“Checché dica qualcuno sul tuo conto, non badargli,
perché non è cosa che ti riguardi.”
(Epitteto)
“Le conseguenze della collera sono sempre molto più
gravi delle sue cause.” (Marco
Aurelio)
La tradizione della massima
di saggezza si prolunga ben oltre l’antichità greca e romana, arrivando fino ai
nostri giorni. Ecco qualche esempio più recente:
“La virtù ci costa tanto, per colpa nostra; perché se
fossimo sempre savi, raramente avremmo bisogno di essere virtuosi.” (Rousseau)
“La vera felicità costa poco; se è cara, non è di
buona qualità.” (Chateaubriand)
“Finché ti si elogia, credi pure che non sei sulla tua
strada, ma su quella di un altro.”
(Nietzsche).
“Chi ascolta la verità non è inferiore a chi la
pronuncia.” (Khalil Gibran)
A partire dal Rinascimento
spesso la letteratura aforistica si risolve in consigli, ammonimenti, norme di
accortezza, non di rado spregiudicati e tendenti al cinismo e al calcolo (si
pensi solo al ‘fine che giustifica i mezzi’, attribuito al Machiavelli):
“Chi non applica nuovi rimedi, dev’essere pronto a
nuovi mali; poiché il tempo è il più grande degli innovatori.” (Bacone)
“Le ingiurie si debbono fare tutte insieme, di modo
che, assaporandosi meno, meno offendano; e i benefici si debbono fare a poco a
poco, di modo che si assaporino meglio.”
(Machiavelli)
“Guardatevi dal fare agli uomini quei dispiaceri che
non si possono fare senza fare eguale dispiacere ad altri; perché chi è
ingiuriato non dimentica, e chi è beneficiato non ricorda.” (Guicciardini)
“Il più certo modo di celare agli altri i confini del
proprio sapere, è di non trapassarli.” (Leopardi)
“Chi non sa mettere in ghiaccio i suoi pensieri non
deve portarsi nel calore della disputa.”
(Nietzsche)
“Bel vantaggio la gloria: avere un nome che si
trascina sulle labbra degli stolti.” (Barbey
d’Aurevilly)
A partire dal ‘600, in particolare
con La Rochefoucauld, si impone la tendenza, negli scrittori moralisti a sondare
con acutezza i moti dell’animo umano, spesso mostrandone senza reticenze le sue
motivazioni meno nobili. Come nel Rinascimento, l’uomo è posto al centro della
riflessione filosofica, ma per indagarne piuttosto il volto nascosto, quello
che di solito, per un malinteso senso del pudore, si preferisce lasciare in
ombra:
“Sono rari i difetti che non siano più perdonabili dei
mezzi usati per nasconderli.”
“I vecchi amano dare buoni consigli per consolarsi di
non poter più dare il cattivo esempio.”
“Ciò che rende i dolori della vergogna e della gelosia
così acuti, è che la vanità non può aiutarci a sopportarli.”
(La Rochefoucauld)
“Ambiremmo meno alla stima degli uomini se fossimo più
sicuri d’esserne degni.” (Vauvenargues)
“Per molti la morale consiste solamente nelle
precauzioni che si prendono per trasgredirla.” (A. Guinon)
“E’ curioso a vedersi che gli uomini di molto merito
hanno sempre le maniere semplici, e che sempre le maniere semplici sono prese
per indizio di poco merito.” (Leopardi)
“Le lodi, se fossimo sicuri di meritarle, ci
sembrerebbero sempre assai; ma noi ne siamo tanto avidi perché ci persuadono
poco.” (Rostand)
“Il vero egoista accetta anche che gli altri siano
felici, se lo sono grazie a lui.”
(Renard)
L’aforisma moderno
L’aforisma moderno, tende, più
che mai, a smascherare gli aspetti meno nobili, o anche più francamente sordidi
della realtà, e a illuminarli con la luce più cruda. Ha la capacità di cogliere le falle che si aprono nella realtà e di porle,
senza cedere a ipocrite tentazioni consolatorie o fastidiose reticenze,
all’attenzione del lettore. Parafrasando Jonathan Swift, potremmo dire che
l’aforisma “fruga ogni angolo sporco
della natura, portandone alla luce la nascosta corruzione.”
L’aforisma moderno è quasi
sempre quindi uno strumento di opposizione alle convinzioni più diffuse nel
proprio tempo, una forma di resistenza contro qualcosa o contro qualcuno. Niente
sfugge agli strali velenosi dell’aforista: i regimi politici, il giornalismo, la
tecnologia, l’idea stessa di progresso, le donne, la religione.
Lo spirito capitalistico è
una delle vittime più frequenti dell’aforisma moderno:
“Per il mercante persino l’onestà è una speculazione
finanziaria.” (Baudelaire)
“E’ solo non pagando i propri debiti che si può sperare
di vivere nella memoria di un commerciante.” (Wilde)
“Niente spinge a commettere crimini finanziari più di
una grande miseria o di una grande ricchezza.” (Twain)
“Che cos’è rapinare una banca, in confronto al
fondarla?” (Brecht)
“Se per sfruttare l’uomo certuni predicano la rinuncia
ai beni terreni; altri, per sfruttarlo meglio, lo invitano a desiderarli.” (Gomez-Davila)
Tanti altri aspetti della
vita moderna (il progresso, il mito della velocità, perfino l’istruzione
obbligatoria) sono apertamente contestati:
“Vi fu sempre di più nel mondo di quanto gli uomini
potessero vedere, per quanto lenti andassero; non lo vedranno meglio andando
veloce.” (Ruskin)
“Non avere un pensiero e saperlo esprimere - è questo
che fa di uno un giornalista.”
(Kraus)
“Un esperto è una persona che sa sempre di più su
sempre di meno, fino a sapere tutto di nulla.” (Bloch)
“La scienza fa che i cuori battano più a lungo - ma li
ha avviliti. Paghiamola senza ringraziarla.” (Guido Ceronetti)
Abbiamo già detto che
l’aforista si esprime nello stile più semplice possibile; ripudia qualsiasi
atteggiamento snobistico. Sue vittime predestinate sono la figura del falso
intellettuale, arido e presuntuoso; il ciarlatano; l’erudizione spocchiosa e
fine a se stessa:
“Un libro è uno specchio: se è un asino che vi si
rimira, non aspettarti di vederci un apostolo.” (Lichtenberg)
“La filosofia a ogni passo che fa getta via la pelle
vecchia, e in essa si infilano i suoi seguaci peggiori.” (Kierkegaard)
“I grandi libri hanno la cortesia di re magnanimi:
accolgono il lettore come un loro pari. Lo scrittore mediocre cerca di
umiliarci per nascondere la sua bassa posizione.” (Gomez Davila)
In Italia si impone nel ‘900 una
nuova figura, quella del ‘malpensante’ che, nel suo rifiuto delle opinioni
egemoni, si pone con orgoglio ‘dalla parte del torto’; indaga il rovescio delle
cose. I maggiori aforisti ‘malpensanti’ furono Leo Longanesi, Ennio Flaiano e
Gesualdo Bufalino, che si distinguono tutti, fra le altre cose, per l’estrosità
e la bizzarria degli spiriti:
“In Italia i fascisti sono una trascurabile
maggioranza.”
“Una volontà d’acciaio, che lo costringe a un orario
di ferro, per mantenere una famiglia di fango.”
“Sono un carciofino sott’odio.”
“Vissero infelici perché costava meno.”
“Un’idea che non trova posto a sedere è capace di fare
la rivoluzione.” (Leo Longanesi)
“Il peggio che può capitare a un genio è di essere
compreso.”
“Stanco dell’infinitamente piccolo e
dell’infinitamente grande, lo scienziato si dedicò all’infinitamente medio.” (E. Flaiano)
“Diffidate degli ottimisti, sono la claque di Dio.” (Gesualdo Bufalino)
L’aforisma e le donne –
Aforismi sull’amore, aforismi misogini, donne scrittrici di aforismi
Aforismi sull’amore:
Uno dei temi più ricorrenti
negli aforismi sono le donne. E gli aforismi sull’amore: non bisogna pensare ad
aforismi languidi e svenevoli, ma, al contrario, ad aforismi che manifestano
forti perplessità sul sentimento dell’amore, il matrimonio, ecc.; aforismi che
tendono a sottolineare l’eterna difficoltà nei rapporti fra persone di sesso
opposto:
“L’uomo vuole fare tutto il bene possibile o, se non
può, tutto il male possibile, a colui che ama.” (La Bruyère)
“Quando gli uomini promettono a una donna di amarla
sempre, suppongono che per parte sua la donna prometta di essere sempre
amabile; e se lei manca alla sua parola, non si sentono più impegnati alla
loro.” (Montesquieu)
“L’amore perfetto significa amare quella persona che
ci renderà infelici.” (Kierkegaard)
“L’innamorato comincia con l’ingannare se stesso, e finisce
con l’ingannare gli altri. Ecco ciò che il mondo chiama romanticismo.”
(Wilde)
“L’amore è come certi alberghi che hanno il lusso
tutto e soltanto nell’atrio.” (Paul Jean
Toulet)
“Le donne ricordano solo gli uomini che le hanno fatte
ridere; gli uomini solo le donne che li hanno fatti piangere.” (Henri Régnier)
“Lei lo sposò per averlo sempre con sé. Lui la sposò
per dimenticarla.” (Canetti)
“Con le donne accade due volte di non saper che cosa
dire: all’inizio e alla fine di un amore.” (Bufalino)
“Una giovane coppia. Sembrano molto contenti: lui, di
aver sposato lei, lei di essersi sposata.” (Gragnani)
“L’amore che si accende e si spegne a intermittenza
presto si fulmina.” (Basili)
Gli aforismi sulle donne sono
spesso e volentieri incentrati sui difetti (veri o presunti) del gentil sesso;
aforismi dal sapore misogino, un genere del quale esiste una tenace e prolifica
tradizione:
“La natura volle fare della donna il suo capolavoro;
ma si sbagliò di tono, e lo prese troppo acuto.” (Lessing)
“Le donne, quando non amano, hanno tutto il sangue
freddo di un vecchio avvocato.” (Balzac)
“Per vedere nel cuore delle donne, bisogna guardarle
dai buchi che facciamo nel loro amor proprio.” (Barbey d’Aurevilly)
“La donna è migliore di quel che si dice; infatti ride
delle lacrime degli uomini soltanto quando è stata lei a farle versare.” (George Courteline)
“La Bibbia dice che la donna è l’ultima cosa che Dio
ha fatto. Infatti deve averla fatta il sabato sera: vi si sente una mano
stanca.” (Dumas figlio)
“Hanno ragione a chiamare la moglie la mia metà;
perché un uomo ammogliato non è più che una metà d’uomo.” (Romain Rolland)
“Cosa si intende per donna perversa? Oh, quel tipo di
donna di cui un uomo non si stanca mai.” (Wilde)
Il maschilismo nell’aforisma può
toccare anche accenti di ostentata volgarità (ve ne risparmio la lettura), atteggiamento
che non deve però scandalizzare più del dovuto, se conveniamo con Gustave
Flaubert che: “Chi non dice male delle
donne, non le ama affatto; perché la maniera più profonda di sentire qualche
cosa è di soffrirne.”
La profonda ingiustizia del
pregiudizio misogino è dimostrato, anche in materia di aforismi, da una
notevole, e al giorno d’oggi sempre crescente, produzione femminile. L’aforisma
francese, da La Rochefoucauld a Chamfort a Joubert, vanta una tradizione senza eguali
al mondo. Pochi sanno che molte donne diedero un validissimo contributo a
questo movimento culturale; ecco alcuni esempi di aforismi coniati da donne
nell’epoca d’oro della massima francese:
“L’amicizia non può vivere senza la stima; ed è questo
uno dei tanti vantaggi che ha sull’amore.” (M.lle de Sommery)
“La calunnia è come una moneta falsa. Molte persone che sarebbero
incapaci di averla emessa, la fanno circolare senza scrupolo.” (Comtesse Diane)
“La gloria è il superfluo dell’onore; e come ogni
altra cosa superflua, anche questa spesso s’acquista a spese del necessario.” (Madame Guizot)
“Le donne preferiscono che gli uomini le facciano
ridere senza amarle piuttosto che le amino senza farle divertire.” (M.me de Rieux)
Anche l’Italia, nel
Novecento, ha espresso alcune importanti scrittrici di aforismi, come Lalla
Romano e Alda Merini. Mi limito a quella che secondo me è la maggiore fra
tutte, Maria Luisa Spaziani:
“Bombardato da immagini, perse l’immaginazione.”
“Le pietre che mi avete lanciato sono state un ottimo
materiale da costruzione.”
“Apprezzo che mi abbia avvertito, ma da quando mi ha
aperto gli occhi non lo posso più vedere.”
“In principio c’era il verbo. Il guaio cominciò con le
coniugazioni.” “Scrivete pure dei versi: presto ci sarà un’amnistia.”
“E ora parliamo un po’ di te. Mi ami?” (Maria Luisa Spaziani)
Aforismi su Dio e la religione
Per l’aforisma non esiste niente
di sacro. Anche la religione, e Dio stesso, possono diventare oggetto di critica,
se non di dileggio, ma il vero bersaglio resta la falsa devozione, l’ipocrisia
nella fede. Naturalmente questa tendenza (inimmaginabile, per es., nel
Medioevo) è abbastanza recente e comincia a manifestarsi nei secoli successivi:
“Per compiere un’azione malvagia la devozione sa
trovare delle giustificazioni di cui un galantuomo sarebbe incapace.” (Montesquieu)
“Abbiamo abbastanza religione per odiarci a vicenda;
ma non abbastanza per amarci l’un l’altro.” (Swift)
“La prima cosa che un missionario insegna a un
selvaggio è l’indecenza.” (Twain)
“Dio ha tratto ogni cosa dal nulla, ma il nulla
traspare.” (Paul Valéry)
“L’impazienza di Dio nel pubblicare il mondo non
finisce di sbalordirmi. Cose così si tengono nel cassetto per sempre.” (Bufalino)
Antonio Porchia
Non tutto l’aforisma
novecentesco ha carattere apertamente polemico nei confronti del secolo col
quale è chiamato a misurarsi. Un caso molto particolare è quello di Antonio
Porchia, autore di straordinaria stringatezza, che sembra richiamarsi piuttosto
a certi saggi taoisti o filosofi presocratici (le sue Voci sono state accostate al Libro
del Tao di Lao-Tzu e ai frammenti eraclitei). Porchia, nato a Conflenti, in
Calabria, era emigrato a 13 anni in Argentina, e deve essere considerato a
tutti gli effetti un autore di lingua spagnola, con Gomez-Davila il maggiore
aforista sudamericano. Porchia coniava non più di 5-6 ‘voci’ all’anno,
meditandole, sfrondandole, scarnificandole progressivamente fino a ridurle a
concetti di pochissime parole davvero essenziali.
Troverai la distanza che ti separa da loro, unendoti a
loro.
Cento uomini, insieme, sono la centesima parte di un
uomo.
Anche se ottenessi il bene che non merito, non potrei
viverlo; il bene che
merito quello sì potrei viverlo, anche se non lo ottenessi.
merito quello sì potrei viverlo, anche se non lo ottenessi.
Ti amo come sei, ma non dirmi come sei.
Parole che mi hanno detto in altri tempi, le sento
oggi.
Quando tu e la verità mi parlate, non ascolto la
verità. Ascolto te.
Ciò che ho dimenticato di questo, di quello, è ciò che
ho dimenticato di me.
Molto di quanto ho smesso di fare in me, continua a
farsi in me, da solo.
Il lontano, il molto lontano, il più lontano, l’ho
trovato solo nel mio sangue.
Vedere piangere, è molto più che piangere.
Ciò che ti ho dato, lo so. Ciò che hai ricevuto, non
lo so.
Sei legato a loro e non sai come, perché loro non sono
legati a te.
La povertà altrui mi basta per sentirmi povero; la mia
non mi basta.
Il prima di me e il dopo di me si sono quasi uniti,
sono quasi uno solo,
sono quasi rimasti senza di me.
sono quasi rimasti senza di me.
Aforismi sulla vecchiaia e la morte
Una caratteristica comune a
molti aforisti è l’età non più verde. Il fenomeno è determinato, credo, dal
fatto che molto spesso gli autori comincino a scrivere aforismi quando hanno
maturato una lunga e profonda esperienza del mondo e degli uomini e tirano le
somme della loro vita, riflettono sul significato delle cose e della loro
stessa esistenza. Come scrive
l’aforista spagnolo Fernando Menéndez: “L’aforisma è un genere che nasce con
l’età, con il disinganno della vita.” Gli aforismi sulla vecchiaia hanno
quasi sempre un timbro piuttosto pacato, intriso di malinconia e di saggezza;
non di rado sono anche meditazioni sulla morte incombente.
“La vita è una stoffa che i giovani vedono dal diritto
e i vecchi dal rovescio.” (Camillo
Sbarbaro)
“I giorni indimenticabili nella vita di un uomo sono
cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume.” (Flaiano)
“Fotografie, lettere, dediche, nascoste come dai nonni
le monete nel materasso. Finché scadono, vanno fuori corso.” (Bufalino)
C’è un grande autore ticinese
che abbiamo già nominato e che, non fosse altro che per motivi anagrafici (la
sua attività letteraria si svolse fra i 78 e i 100 anni di età), scrisse
aforismi importanti su questo tema:
Carlo Gragnani, nato a Livorno nel 1910, economista e studioso di filosofie
orientali, direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale a Washington
dal 1952 al 1960, e vissuto a Lugano dal 1983 fino al 2010, anno della sua
scomparsa. Si è sempre definito “né italiano né svizzero al 100%, ma uomo di
confine”. La vecchiaia, come si può immaginare, è uno dei motivi ricorrenti,
anche se non certo l’unico, nei suoi aforismi:
“Morire molto vecchio è come essere l’invitato che se
ne va per ultimo. Possono anche chiedergli, per gentilezza, di trattenersi. Il
fatto è che, appena se n’è andato, spengono subito la luce.”
“Dopo Gerovital, ritorno in forza della memoria. Mi
ricordo anche di cose che non sono mai successe.”
“La battaglia per allungare la vita. Noi, ottantenni e
passa, occupiamo la prima linea, pronti a morire per la causa.”
“Intervistato alla radio. Assaporo le gioie di una
notorietà quasi postuma.”
Approfitto qui per accennare
brevemente all’aforisma nel Canton Ticino; ci sono almeno ancora due autori,
oltre a Gragnani, che meritano di essere ricordati (almeno fra quelli che
conosco). Uno è Romano Amerio, nato a Lugano nel 1905, teologo e docente di
filosofia all’Università Cattolica di Milano, che ha lasciato uno zibaldone in
34 quaderni:
“Del viaggiare si deve
dire che suscita nuove idee in chi già ne ha molte, ma al contrario estingue le
poche in chi ne ha poche.”
“In una proposizione
falsa c’è sempre un’infiltrazione di sé.”
Il maggiore aforista ticinese
vivente, vincitore nel 2010 del premio Torino in sintesi, è l’avvocato di
Bellinzona, ma che esercita la professione a Lugano, Mario Postizzi, autore già
di tre volumi di aforismi, gli ultimi due pubblicati con Aragno.
“Con il plagio si portano a spasso le frasi degli
altri. I più dotati di mano ignorano l’affidamento e vanno dritti all’adozione.”
“L’uomo ha conquistato lo spazio, non il tempo.”
“Una
forma di impiccagione: pendere dalle labbra di qualcuno.“
“Siamo
esauriti. Per di più, non sono previste nuove o altre edizioni.“
“Nel vocabolario le parole sono allineate, stanno
sull’attenti, hanno la faccia pulita. Appena si incrostano di realtà, rompono
le righe, e si liberano disordinatamente nelle piazze: allentano cintura e
cravatta, mostrano la lingua e si sporcano le mani.”
Riflessioni sulla storia, la società, la politica
L’aforisma condensa spesso in
poche parole lunghe riflessioni sulla storia e la società umane:
“Le streghe hanno cessato di esistere quando noi
abbiamo smesso di bruciarle.” (Voltaire)
“La servitù degrada l’uomo fino al punto di fargliela
amare.”
(Vauvenargues)
“Negli individui la pazzia è qualcosa di raro, ma nei
gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche è la regola”. (Nietzsche)
“Persuaderete facilmente gli uomini d’ogni cosa che
vorrete, poiché il loro intelletto è debole; ma non riuscirete a farli vivere
in conformità, perché il loro temperamento è forte.” (De Bruix)
“Se uno uccide un uomo è un assassino. Ne uccide un
milione, è un conquistatore. Li stermina tutti, è un Dio.” (Jean Rostand)
“Uno stupido è uno stupido. Due stupidi sono due
stupidi. Diecimila stupidi sono una forza storica.” (Longanesi)
Stanislaw Lec
Il Novecento è stato anche il
secolo delle grandi dittature e questo non poteva non riflettersi nella storia
dell’aforisma. Un autore ebreo polacco di nome Stanislaw Lec - che Umberto Eco,
non a torto, considera il maggiore aforista del XX secolo - conobbe sia nazismo
che comunismo. Scampato ai campi di sterminio, ebbe poi rapporti abbastanza
complessi con il regime comunista. Quando i suoi Pensieri spettinati approdarono in Occidente, furono interpretati,
a torto o a ragione, come l’opera di un dissidente. Ma quello che davvero conta
è la qualità - inarrivabile - dei suoi aforismi: stringatissimi (una, due righe
al massimo di regola), cupi, crudeli, ma non privi di un certo spirito
umanista, rievocano la vita come si svolge sotto i regimi polizieschi di ogni
luogo e di ogni tempo:
Prenditi cura di te, sei proprietà dello Stato.
Lo hanno portato via scambiandolo per un altro, ma
lealmente hanno restituito proprio il suo cadavere.
Si può condannare qualcuno all’oblio. Ma la sentenza
deve essere eseguita su coloro che ricordano.
La folla urla con una sola grande bocca, ma mangia con
mille piccole.
Il segno che distingue i paragrafi sembra già uno
strumento di tortura.
Se il popolo non ha voce, lo si riconosce anche quando
canta inni.
Quelli che hanno orizzonti più ampi hanno in genere
prospettive peggiori.
L’aforisma contemporaneo
L’aforisma contemporaneo
vanta diverse scuole, molto attive: quella spagnola, la finlandese, la rumena,
e sicuramente ce ne saranno altre che purtroppo non conosco: in traduzione
arriva pochissimo nei diversi paesi. Non ultima fra le scuole, quella italiana.
E proprio Torino è la sede di quello che probabilmente è il più importante
premio letterario internazionale per aforismi, appunto il ‘Torino in sintesi’,
che ha scadenza biennale. Tuttavia, non potendo dilungarmi troppo, per ragioni
di tempo, sull’aforisma contemporaneo, mi soffermo su quello serbo, non solo
per i risvolti tragici legati alla guerra nella ex-Jugoslavia, ma anche per il
valore intrinseco di tanti autori che gravitano attorno al Circolo Aforistico
di Belgrado. L’aforisma serbo costituisce una straordinaria testimonianza,
umana e artistica, dall’inferno della guerra nella ex-Jugoslavia, e
un’occasione unica per conoscere più da vicino la cultura e le vicende recenti
di un popolo che negli ultimi 30 anni ha attraversato ogni sorta di tragedie
(la dittatura nazional-comunista, le atrocità della guerra civile e i
bombardamenti della Nato, le amare delusioni di un’incerta democrazia), e
segnatamente una generazione di scrittori serbi, cultori della forma breve, che
per l’eccezionale intensità, forza e qualità stilistica della loro opera non ha
probabilmente eguali al giorno d’oggi. Gli autori sono stati tutti oppositori
del passato regime di Milosevic, quando non anche di quello di Tito. I temi che
si rincorrono da un autore all’altro sono quelli legati alla drammatica storia
recente del popolo serbo. I grotteschi personaggi del regime (“Siamo guidati da figure storiche, e anche
da alcune figure preistoriche.” “L’ordine è venuto dalla posizione più alta. Da
un rifugio sotterraneo.”). Il permanente stato di polizia (“Ho solo una scelta: o sarò una marionetta,
o la mia vita sarà appesa a un filo.” “La polizia e i manifestanti sono uguali
davanti alla legge. Non davanti allo specchio.” “Le forze di polizia continuano
a cercare l’assassino. Hanno un nuovo lavoro per lui.” “E’ stato tracciato un
identikit ideale. Il sospettato assomiglia a tutti.” “Quando sono tornato
dall’interrogatorio, mia madre mi ha subito riconosciuto. Il cuore le diceva
che ero io.”). Il protrarsi estenuante di negoziati condotti in manifesta
malafede (“Due più due fa cinque! Questa
è la nostra ultima offerta.”). La missione di pace - come venne denominata
con involontaria ironia - della Nato (“La Serbia è uno Stato
parlamentare. Tutte le decisioni importanti per il nostro Paese sono prese dal
Congresso americano.” “L’America sostiene fermamente il dialogo per la pace -
con un’azione congiunta per mare, per cielo, per terra.” “Il mio televisore si
è rotto. Dovrò seguire i bombardamenti dalla finestra.”). Gli orrori senza
fine della guerra civile (“I rifugiati
sono liberi di tornare alle loro case. I nuovi proprietari sono ansiosi di fare
la loro conoscenza.” “C’è una luce in fondo al tunnel. Sono le nostre case in
fiamme.” “Era una guerra di religione. Solo Dio sapeva per cosa stavano
morendo.”). Le delusioni della neonata democrazia (“Il vecchio regime è morto, ma ha donato gli organi a quello nuovo.”
“I cambiamenti sono così rapidi che anche i camaleonti sono visibili.” “I
nostri politici sono divisi in elementi di sinistra e di destra. Dipende da
quale metà del loro cervello non funziona.” “Gli antichi mestieri sono in
crisi, con l’eccezione del più antico.” “Cercate lavoro nel nostro ministero. I
salari sono bassi, ma i guadagni sono enormi!” “Sto aspettando i risultati
delle elezioni. Voglio sapere per chi ho votato.”).
Quello che distingue
l’aforisma serbo da altre esperienze contemporanee è l’eccezionale drammaticità
degli eventi che ne costituiscono la fonte d’ispirazione, e che si risolve in
un umorismo nero espresso con rare efficacia, felicità ed economia di mezzi. Ci
sarebbero ancora tante cose da dire e autori da citare, credo comunque che con
l’aforisma serbo contemporaneo abbiamo concluso al meglio questa sommaria e un
po’ schematica rassegna sulla storia dell’aforisma in Occidente.
***
IL SOGNO POETICO DI
ALESSANDRO MOSCÈ
di Laura
Margherita Volante
Alessandro Moscè |
L.M.Volante. Comincio
dalla tua infanzia e dall’amore per il calcio iniziato a cinque anni quando tuo
padre, tifoso della Lazio, ti accompagnò alla stadio. Posso immaginare
l’emozione di un bambino accanto a suo padre. Cosa ti è rimasto di quel primo
amore, quale gusto, odore e sensazione, attraverso i sensi e gli occhi di un
bambino?
A.Moscè. In
realtà non era l’emozione data dalla vicinanza di mio padre che mi aveva
innescato un cortocircuito sensoriale, specie visivo. Fu l’agonismo dei
giocatori della Lazio che per la prima volta focalizzavo in presa diretta,
nella classica divisa bianco-azzurra. Wilson, Martini, Garlaschelli, D’Amico: i
reduci di una squadra di pazzi che tre anni prima aveva vinto lo scudetto
sconfessando tutte le logiche calcistiche, a partire dall’unità di un gruppo e dalla
condotta giudiziosa degli atleti. Sapevo che nel tempo libero quegli
“anarchici” indomabili si divertivano a sparare dalla finestra di un albergo ubicato
sull’Aurelia, colpendo i lampioni. Per me bambino si prefigurava la stessa
esperienza di chi, in epoca romana, assisteva alla sfida tra gladiatori in un’arena
pubblica. Del resto lo stesso Borges ha definito il calcio un’epica minore. Il
calcio, peraltro, ha molte implicazioni sociologiche e ancestrali. È una
metafora dell’esistenza, dove il più forte cerca di sopraffare il più debole
secondo una legge di natura, impietosa e tremenda.
L.M.V. Tuo padre è
vissuto per alcuni anni a Roma. Quanto è stata importante quell’esperienza
romana, fuori dalla provincia, lontano dagli affetti familiari, per la tua
formazione futura?
A.M. È
stata un’esperienza determinante. Mio padre, durante la settimana, era assente da
Fabriano, dove tuttora vivo, e da piccolo non ne capivo il perché. Ma il
venerdì notte tornava a casa e il sabato mattina mi prendeva in disparte. Mi
raccontava di Roma, della capitale del mondo. In quelle narrazioni orali
introiettavo il piacere della scoperta, dell’avventura. Roma, per me, era come
l’America. Il Colosseo, il Pantheon, la Fontana di Trevi e i Fori Imperiali mi
sembravano cartoline che provenivano da un aldilà. Nella provincia marchigiana
il tempo scorreva lentamente e immaginavo un mondo favoloso, picaresco da
qualche altra parte. Mio padre mi parlava spesso di Giorgio Chinaglia, il
centravanti della Lazio del 1974, quella dello scudetto, che durante un derby
con la Roma andò ad esultare sotto la curva dei tifosi avversari e li sfidò.
Uno contro tutti. L’Uomo Ragno, Capitan Harlock e Tex erano personaggi irreali,
mentre Chinaglia esisteva in carne ed ossa, era una credenza mitica, ma non
religiosa e neppure fantastica.
Alessandro Moscè |
L.M.V. A tredici anni
la grave malattia, durata un anno, credo. Adolescente ospedalizzato con una
diagnosi infausta. Eppure trovasti il modo, attraverso quell’amore per il
pallone, per giocatori, fra i quali Giorgio Chinaglia, di vincere un sarcoma.
Cosa ti è rimasto di quel periodo?
A.M.
A tredici anni sono stato colpito da un sarcoma di Ewing al bacino.
All’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, dove mi hanno curato per due anni,
sono morti tutti coloro che soffrivano del mio stesso male. Io,
inaspettatamente, ce l’ho fatta. Si sono registrati due soli casi, fino agli
anni Novanta, di guarigione clinica. Uno dei due guariti sono io. Mi sono posto
molte domande da trent’anni a questa parte. Posso dire che non è rimasto un
buco nero, ma una certezza: la malattia non si fronteggia con la sola speranza
di guarire. Né con la commozione, che è un sentimento di tenerezza. Meno che
mai con la disperazione o la rabbia. La malattia va semplicemente ignorata. Lo
so, è un compito improbo, tanto è vero che può riuscirci un bambino, un
adolescente, nella sua incoscienza. Potevo cercare la consolazione della
famiglia, e l’ho fatto. Ma nei momenti in cui la consapevolezza di poter morire
prendeva il sopravvento, la mia reazione salvifica contro il “vuoto pneumatico”
consisteva nel pensiero felicemente ossessivo di un simbolo di forza. Mi ha
aiutato molto la figura dell’idolo calcistico di allora, appunto Giorgio
Chinaglia. Specie per far fronte ai luoghi di reclusione e di separatezza dalla
vita, gli ospedali. Il campione come simbolo di vittoria, uno spazio di
leggerezza come naturale antitesi alla malattia, così da annientare il terribile
horror vacui. Giorgio Chinaglia, mito incontrastato della Lazio degli
anni Settanta, era già un “compagno insostituibile” di giochi nell’infanzia e
mi garantiva quella “felicità bambina” che è diventata anche il modo migliore
per affrontare psicologicamente il sarcoma. Il mio romanzo Il talento della malattia, uscito da Avagliano nel 2012, e che
tanto successo di pubblico e di critica ha avuto, non è solamente un’opera
letteraria, ma una testimonianza impudicamente affermata con lo sguardo
fanciullo di una volta.
L.M.V. Una lettera al
tuo eroe: un atto di amore e di coraggio per afferrare quel filo del palloncino
senza paura di volare scappando dalla vita. Cosa successe, ce lo vuoi spiegare?
A.M.
Un bambino ricoverato nella mia stessa stanza stava morendo asciugato da un
osteosarcoma che gli aveva annientato i polmoni salendo da un arto inferiore. Accorgersene
fu atroce. Credo che l’impatto, nella coscienza di un infante, potesse essere
equiparato a ciò che avveniva nei deliranti campo di concentramento. Ho
iniziato a scrivere una lettera, mai spedita, a Giorgio Chinaglia. Di fronte
alla morte ci vuole l’irriverenza. Ci vuole la sfrontatezza di chi manda a fare
in culo l’allenatore della nazionale italiana ai campionati del mondo del 1974
dopo una sostituzione. Ci vuole il sogno, quello che gli psicologi moderni
chiamano “motivazione antagonista”, un’operazione di metamorfosi
dell’afflizione: pensare ad altro per non pensare al male. Queste sono state le
mie armi. In quei giorni avevo fatto mio uno slogan, lo stesso dei tifosi della
Lazio: “Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia”. Lo urlavo da un letto
d’ospedale, mentre intorno vedevo ragazzini amputati alle gambe o alle braccia.
Il mio voleva essere un grido di riluttanza, di opposizione alla morte. Per
questo non credo alla resistenza ideologica nella storia, ma alla resistenza
biologica di ogni singola persona.
L.M.V. Diventato un
uomo hai pubblicato un romanzo con il titolo forte come un pugno in un guanto
di velluto: Il talento della malattia.
Un atto di generosità da donare a un mondo sempre più malato per non perdere
mai la speranza di sognare. I sogni si avverano secondo te, oppure sono una
scommessa, quasi una sfida, un’opportunità?
A.M.
Non credo nella realizzazione del sogno, ma nella sua “terapia”. Si deve voler
sognare e saper sognare, diceva Baudelaire. Adesso è la malinconia,
paradossalmente, che mi tiene agganciato alla storia del mio male e
dell’incredibile guarigione. In un certo senso è come se fossi rimasto un
adolescente. Ma l’adolescenza, solo l’adolescenza, è un’età eterna. Uno
scrittore non può diventare mai un adulto fino in fondo, perché sarebbe banale
nel suo conformismo. L’adolescente, invece, è sempre fiero, invulnerabile,
trasgressivo.
Moscè con Alberto Bevilacqua |
L.M.V. Dalle tue poesie
traspare una malinconia nel descrivere solitudine e indifferenza umana. La
città, i volti, le cose, l’ambiente urbano con le sue strade, le piazze, i
giardini sono al centro del punto di osservazione. Per cercare cosa?
A.M.
La mia è una poesia di luoghi, senz’altro. Ma mai in senso contemplativo o
naturalistico. Ritengo di essere un poeta lirico, melodico, ma soprattutto esistenzialista.
C’è una tensione verso il trascendente nelle mie poesie, come confermato
nell’ultima raccolta Hotel della notte
edita nel 2013, dove Dio è presente anche se non viene mai nominato. Tu citi i
volti, giustamente. La mia è anche una poesia dove emerge un vasto campionario
di personaggi con il loro bagaglio di esperienze anomale. L’omino della casa di
riposo, per esempio, è un sapiente gnomo felliniesque
al quale ho dedicato una sezione di Hotel
della notte. Parlava con i pozzi e invocava la Madonna come se oggetti e
divinità facessero parte di un rito propiziatorio, scaccia crisi.
L.M.V. Nella tua poesia
ricorre spesso la figura dei nonni, molto amati. Un punto di riferimento
affettivo o altro? I nonni sono importanti per lo sviluppo nel processo di
identificazione di un bambino?
A.M.
I nonni sono ricondotti ad un elemento peculiare della mia poesia: gli affetti
familiari, come aveva ben notato Alberto Bevilacqua scrivendo di Stanze all’aperto. Non saprei dire
quanto siano importanti in un processo di identificazione, ma ricordo che le
vacanze natalizie, per la mia famiglia, corrispondevano ad una lunga permanenza
nella città di Ancona. Nella mia poesia emerge un incessante dialogo tra i vivi
e i morti, per lo più i nonni che risiedevano ad Ancona. La tavola imbandita e
il gioco delle carte nella grande casa di nonno Alvaro o di nonno Ernesto, rimangono
evasioni gioiose, esilaranti. È come se un tempo irripetibile, quello degli
anni Settanta, si riaffacci ogni Natale con la stessa intensità di allora. Parafrasando Ernest Hemingway potrei dire: “Avere un
cuore da bambino non è una vergogna. È un onore”.
La copertina del suo libro |
L.M.V. Giornalista e
scrittore tradotto anche negli Stati Uniti e non solo, sei un critico di primo
piano, raffinato e sensibile. Quali i tuoi autori preferiti e da quali hai
trovato ispirazione?
A.M.
I grandi classici, da Dante a Leopardi, a Manzoni. Baudelaire, Sartre, Mann,
Rilke. Moravia, Pasolini, Saviane, Volponi, Saba, Montale, Sereni, Gatto. Sono
stati un’infinità gli autori della mia formazione, sin dai tempi
dell’adolescenza, ormai lontana. Continuo a rileggerli anche oggi,
naturalmente.
L.M.V. Quali saranno i
tuoi prossimi appuntamenti editoriali?
A.M.
È appena uscita una raccolta di interventi critici, in parte rivisitati e
ampliati, apparsi dal 2004 al 2014 su giornali e riviste specializzate. Si
intitola Galleria del millennio. A
maggio uscirà il mio nuovo romanzo, L’età
bianca, che è una sorta di prosecuzione di Il talento della malattia. Un libro intenso, sofferto. Sto
ultimando una nuova raccolta di poesie, L’amore
aiuta a vivere, che è un verso tratto da Primizie del deserto di Mario Luzi. C’è senz’altro un comun
denominatore in questi tre lavori: provo a
rintracciare le ragioni di un’intera esistenza, non solo quelle di un libro.
Sono convinto che letteratura e vita possano coincidere senza infingimenti.
***
LIBRI
Perché parlare a Gwinda?
di Claudio Zanini
La copertina del libro |
Nella Roma di Costantino, il dominus romano
Cornelio si chiede sconcertato: parlare a Gwinda?... perché parlare a una
schiava comprata da una tribù di barbari che si esprime in rauchi versi?
La schiava Gwinda è uno dei sette personaggi femminili
(più un ottavo, maschile) protagonisti dei racconti di Claudia Azzola, Parlare a Gwinda, (ed. La Vita Felice,
2013).
Si tratta d’un libro complesso che affonda la sua luce in
diversi periodi storici ma, soprattutto, di un testo in cui si parla di
linguaggio quale sofferto strumento di acquisizione della coscienza di sé e
della cognizione del reale. Una meditazione sul linguaggio, dunque, redatta -e
non poteva essere altrimenti- con una scrittura densa e poetica, che si
dispiega in una narrazione di mutevoli risonanze. L’autrice s’avvale d’un
lessico dove l’accostamento delle parole spesso evoca significati e immagini
molteplici che incidono nitidamente la scena rendendo più complesso e ricco il
quadro d’insieme; illuminazioni inattese che sforano in ambiti d’altrove;
improvvise e laceranti visioni in cui affiorano echi che riportano alla luce
remoti suoni, voci, accenti d’un passato di magmatica ricchezza. Ed è proprio
questa lingua multiforme a restituire la specificità d’ogni novella, la sua
particolare aura; virando dall’elegante grazia evocante le miniature cortesi,
all’orrore delle figurazioni del bestiario medioevale (nel racconto Maria di
Francia); dal lucido e disperato monologo della domina romana Sempronia, alla
conquista della lingua da parte della giovinetta barbara e della serva Filomena
in una Milano settecentesca; dall’ansioso e confuso travaglio del racconto
veneziano, alla disperata messa in scena barocca della Merope. Ciascun
personaggio ha una propria cognizione della lingua e della scrittura; e dunque,
dell’eloquio in cui s’esprime, segnando della medesima coloritura lo sfondo
della scena, l’ambito in cui agisce, il paesaggio in cui dimora. Tale
complessità, come s’è visto, è frutto, non solo, dei diversi registri e
modulazioni d’uno stile sapientemente controllato, ma nasce anche dall’intensa
partecipazione affettiva e dalla profonda compassione dell’autrice nel
raffigurare le donne protagoniste delle novelle, mal amate e, spesso, vittime
ma non vinte, sempre inesauste e tenaci testimoni d’un profondo vissuto. Sono
creature preveggenti, sia con afflizione e sofferenza, annichilendo nella
feroce casualità della storia; sia con straordinaria pienezza nella
comprensione del reale e con un’incredibile e umile capacità di prenderne
coscienza.
Per suggerire che storia e linguaggio s’intrecciano
proseguendo lungo un filo esiguo, tuttavia mai interrotto, compare, in tutti i
racconti, arcaico testimone, il medesimo specchio decorato con l’effige d’una
divinità etrusca. Simbolo d’una coscienza di sé in dolente divenire, questo
specchio mi ha suscitato nella memoria il monolite misterioso (il Logos?),
vagante nell’universo e presente nei momenti cruciali, del film di Stanley
Kubrik, “2001 Odissea nello spazio”.
Segno che attraversa il tempo storico e mai s’esaurisce.
Ma torniamo a Cornelio che, turbato si chiede: parlare a
una schiava, dunque? Egli non si rende ancora conto di quanto la sua domanda
sia foriera di sviluppi sorprendenti e inattesi.
Questa, di Cornelio, è una domanda retorica; perché, chi
ha mai parlato con una donna? E chi, soprattutto, ha mai ascoltato una donna?
Nel primo racconto, infatti, La voce di Sempronia, nessuno ascolta le parole
accorate della matrona romana Sempronia Tuditana, di cui lo specchio riflette
impietoso l’angoscia. Coinvolta nella congiura di Catilina (62 a.c.), Sempronia
subisce tragicamente la propria epoca e ne viene travolta. Sebbene avverta la
catastrofe nel proprio vissuto con l’intera persona, non è in grado di
evitarla: “Per la donna, violenza come voluttà come letizia passano per il
ventre, non solo per l’intelletto. Come anche ogni soffio che preannunci
sciagura.”(pg.6)
È una voce inascoltata, soffocata dalla cruda iniquità
del reale.
Allora, si deve parlare a Gwinda?
Cornelio, vir romano paziente e ben disposto, ci prova.
Gwinda è una strana creatura che pare giungere da ignote
lontananze temporali esprimendosi con suoni gutturali e quasi indicibili.
Tuttavia, ben presto Cornelio scopre quanto sia dotata d’un’intelligenza vivida
e inquieta. In breve, lei apprende il linguaggio di Cornelio, ne comprende il
senso a tal punto da superarne i limiti, circoscritti all’empirico mondo
dell’accadere e alla pura razionalità stoica. La giovane schiava evoca una
figura aliena rivestita del sembiante femminile per andare oltre, con gli umani
strumenti, verso orizzonti di comprensione che dilatano incomparabilmente i
propri confini. Lo specchio, nelle sue mani, riflette il sole, luce divina che
illumina la storia umana e la rende intelligibile. Se, dunque, l’inascoltata
Sempronia si deve rassegnare al silenzio: “nella fluttuazione di un destino che
non comprendo”(10), Gwinda incarna l’articolarsi libero del linguaggio che
nasce dalle sonorità primigenie d’una coscienza in via di formazione. È una
lingua nuova quella di Gwinda. Una lingua altra, straniera, non usurata
dall’impiego, né dai protocolli del potere. Una lingua inafferrabile.
A tal proposito, mi torna in mente ciò che scrive il
filosofo tedesco Theodor W. Adorno in Dialettica
negativa (1966): ciò che rende il pensiero vitale e creativo è “pensare il
diverso dal pensiero stesso”. Vale a dire, non pensare quello che si pensa e,
soprattutto, il pensiero istituzionalizzato nei protocolli del pensare. È
dunque necessario pensare (scrivere) il rimosso, l’inconsueto, il diverso con
scandalo e, come sostiene Roland Barthes, con “perversione” (nell’accezione di
diverso dalla normalità, deviato rispetto al senso comune).
È quel diverso che affiora sulle labbra di Gwinda e poi
della serva Filomena -protagonista del settimo racconto-, con gran travaglio e
gioia, nell’elaborazione d’una lingua primigenia, ancora incontaminata, dove la
corporeità non sia separata e soffocata dall’intelletto, dove l’intuizione che
nasce dalla percezione del corpo e dell’anima (che non è intelletto) non venga
rimossa a favore d’una razionalità dominante. È, quindi, del tutto naturale che
un pensiero di tal genere sia incarnato dal femminile, a iniziare dalla prima,
ineluttabile contrapposizione di Antigone (legge del cuore) e Creonte (legge
della razionalità politica). Lo specchio, con il suo mistero che illumina e
oscura nello stesso tempo, riappare nel terzo racconto, tra le mani di Maria di
Francia, dama della regina Eleonora d’Aquitania, e autrice di raffinati lais.
“Lo specchio è conoscenza e anche eros. Eros vive, è
nell’energia che ci nutre, nella bellezza, è necessità di cielo e terra.”(33)
Questo dice Maria, Conoscenza profetica e visionaria, dunque. Infatti, Maria
percepisce, quanto la realtà delle trame e degli intrighi per il potere (nella
corte di Eleonora) sconfini inesorabilmente oltre, invadendo i territori del
ferino oscuramento delle coscienze. “Vede”, quindi, anche la presenza occulta
dell’orrenda creatura uomo/bestia, ne percepisce l’oscuro aggirarsi nel
castello, come un morbo insidioso e nefasto; scopre come la bestia intrattenga
rapporti con membri della corte. Ha coscienza dell’orrore e, allo stesso tempo,
la sensazione d’una paralizzante impotenza.
Una corporeità dolente e sofferta, che matura a vissuta
cognizione del reale, sostanzia la storia di Sofia. Donna selvaggia e
solitaria, pratica d’alchimia e assetata di conoscenza, ma docile “carne da
mordere e da perdere”(54) per gli uomini che l’hanno posseduta, Sofia mette al
mondo una bambina nell’abbandono d’un misero fondaco veneziano. “Una nascita
senza tripudio”(53), dice; mentre luce opaca riflette lo specchio. Tuttavia,
Sofia accetta la figlia e si rende conto che la sua vita si prolunga in quella
bambina, e questa crescerà nella conoscenza che Sofia le avrebbe trasmesso,
imponendo al mondo la sua vivida presenza. Riguardo all’accettazione dell’altro
e del lato oscuro che ciascuno in sé reca e dissimula, esemplare appare la
vicenda narrata in Émilie e la sposa turca. Parigina borghese ed emancipata,
avvocato di Francia all’epoca degli Stati Generali, Èmilie riconosce il suo
arcano doppio in una donna straniera incontrata per caso. Una turca, sposa
bambina, ripudiata e, per di più, assassina del marito. Nonostante Émilie la
identifichi quale emblema spaventoso della femmina da harem - sottomessa e
umiliata -, scopre la loro reciproca e perfetta somiglianza; rendendosi conto,
attraverso l’accettazione in lei dell’altra parte di sé, la misteriosa e
complessa unicità dell’essere umano. Fusione della luna nera dell’occidente e
del sole diurno dell’oriente.
Singolare appare il racconto dedicato a La Merope,
personaggio della tragedia seicentesca, Aristodemo, di Carlo de’ Dottori. È una
splendida rappresentazione del teatro barocco, oltre i cui scenari si nasconde
il vuoto, il nulla. Quel teatro del mondo che, tuttavia, qui non è presente nei
suoi virtuosi artefici di magnifiche illusioni (come il Bernini e il Borromini,
che trasformano il sacro in un supremo macchinario per carpire il consenso stupefatto
dei fedeli) ma, in chi soggiace ai suoi perversi inganni. Qui si mostra nella
figura di un’attrice vecchia e malata che, indossati i panni di scena della
Merope -nel cui ruolo ha sempre recitato-, si fa carne umiliata e sconfitta. Si
tratta di una meditazione sul tempo, quale lunga e ineludibile preparazione
alla morte.
Un’altra figura femminile -una popolana goffa e consumata
dalle fatiche domestiche-, lavora come servente presso una famiglia di nobili
milanesi. È Filomena, La serva del detto ostrogoto, affascinata dai suoni delle
lingue. Affamata di scrittura e abilissima nella narrazione, Filomena ha il
dono del linguaggio. Tanto che, quando narra le fiabe e le favole sapienziali
nella cucina o presso i signori, tutti si fermano ad ascoltarla affascinati. Ma
sono altri suoni, quelli che ode riecheggiare nel profondo del suo animo,
“suoni di una lingua dell’origine, suoni gutturali, cupi… suoni di un dialetto
prelombardo, ostrogoto, dal sapore di orda che avanza battente,
scalpicciante…”(100).
Lei si chiede, sbigottita, come tali suoni di un idioma
germanico possano trasformarsi nei segni della scrittura (una scrittura alta),
mentre intuisce la ricchezza d’un mondo da cui è esclusa, ma alle cui soglie
s’è affacciata. Due lingue in lei si fronteggiano, una con cui incanta i suoi
uditori, l’altra, interna, nata in lei da tempi antichissimi. Questa duplicità
si fa vissuto. Filomena riscopre, nel modularsi della narrazione, la sua
giovinezza e il suo corpo, umiliato e negletto.
Come Gwinda, la sua antenata barbara, la serva Filomena
fonda il sapere del mondo in una lingua altra, straniera e, come direbbe
Barthes, “perversa”. Una lingua che sfida il mondo, pur prendendosene, quando
le viene permesso, amorosa cura.
Parole profetiche mormorano le donne di queste dense e
complesse novelle. In una lingua che i personaggi maschili non capiscono,
mentre si agitano affannati in sottofondo. Sono ombre sinistre come i
congiurati di Catilina; miniature eleganti da Libro d’Ore, ma ambigue come gli
intriganti cavalieri e cortigiani di Aquitania, o presenze oscure come il padre
della figlia di Sofia, dal volto ignoto. Diversa è la figura di Cornelio che
percepisce l’arcana complessità di Gwinda, ma non giunge a comprenderla né ad
andare oltre. Un’apparizione affannosa, “mezzo uomo e metà bestia”, è l’amante
della Merope; mentre gli uomini di Émilie e la sposa turca, per la maggior
parte, sono brutali, violenti, possessivi, infantilmente egocentrici. Infine,
il maschile di Filomena è un uomo sognato, suscitato da vaghe reminiscenze
adolescenziali e dai poemi uditi in casa dei signori.
Uomini che non amano le donne (se non mi sbaglio, rara è
la parola amore, nel testo). Uomini incapaci, dunque di aver profonda
cognizione della realtà (dell’amore e del dolore)?
Non del tutto, pare; poiché un uomo che patisce il reale
e forse se ne riscatta è quello dell’ultimo inatteso racconto. Il protagonista,
Ferdinando D. è un lucido capo clan, occulto boss del capitalismo finanziario,
dominus dei consigli d’amministrazione, che percepisce la fine del suo mondo,
di un’era, del sistema in cui aveva lottato con successo: la fine della
“teologia del libero mercato, dell’economia ultraliberista”(121), di cui si era
nutrito.
Una musica, suonata al pianoforte da una donna, gli
sommuove profondamente l’anima, sollecitando antiche reminiscenze. Si guarda in
uno specchio remoto e consunto, lo specchio che, di mano in mano, attraversando
il tempo e le epoche, è giunto a lui. Vede il suo viso sofferto ma uno sguardo
in cui s’accende vivida una luce, “un brillio nuovo negli occhi”(124). Faville di una vitalità in cui ritrova se
stesso e in cui, ci si augura, rinasce a una vita diversa, immerso in un
silenzio dove tutto il disordinato clamore, la confusione, le perentorie
disposizioni, le urla feroci del mercato, finalmente tacciono. Ci si chiede,
perché proprio nell’ultimo racconto, l’inaspettato protagonista sia un uomo?
Suggerisco un’ipotesi: credo perché prende vita dal vissuto delle donne che nel
testo (e nella storia) lo hanno preceduto. Potrebbe figurare quale il risultato
del loro travaglio faticoso, della consapevolezza carnale della crudele
insensatezza della storia, dell’inesausto lavorio nell’elaborazione di un
pensiero libero che, superando i generi, sia totalmente umano, in grado di educare
e ammaestrare, di pensare oltre, altrove. Se la donna rigetta quel ruolo
passivo e subalterno, subìto da secoli, anche l’uomo è affrancato dal suo stato
di dominus tirannico e oppressore. Aggiungerei che qui il femminile si fa
carico dell’alterità dentro di sé (vedi Émilie), come consapevolezza della
propria identità, ma anche poiché sussiste un altro carnale nella gestazione
(vedi Sofia). Il maschile, al contrario, rimuove il perturbante altro dentro di
sé (il bambino mai cresciuto?), lo sprofonda e ammutolisce nel fondo della
coscienza. Combatte strenuamente con le ombre che, tuttavia, esso suscita e che
minano il potere conferitogli dal ruolo di dominus (vedi Cornelio/Gwinda). In
questo conflitto è chiaro come la donna gli rappresenti l’altro (che subìto e
palesemente gli si mostra, dall’istante della nascita) amorevole ma, allo
stesso tempo, ostile e inascoltato. Che suscita vaghi sensi di colpa, voce
sussurrante moniti perversi, disturbanti (vedi Sempronia, Maria di Francia,
Filomena). Soltanto la Merope, da questa dialettica è esclusa, sola abbandonata
e annichilita nella sua maschera di teatrante (il suo altro da sé?).
Nell’ultima novella, è l’antico specchio etrusco, che ha
riflesso inseparabilmente luci e ombre, a rivelare al protagonista il reale,
terribile ma anche passibile di riscatto.
Sempronia Tuditana, dice all’inizio: “Scrivere. Devo
scrivere”(5), Sebbene amaramente concluda con: “La mia è una gola che si
chiude. Una voce che si perde”(11). Tuttavia, la sua voce non si spegne,
continua nel corso dei secoli, risuona di bocca in bocca, per giungere fino
all’anima del protagonista dell’ultimo racconto. Parlerà a Gwinda e, questo, lo
salverà?
Claudia Azzola
Parlare a Gwinda
Ed. La Vita felice
Pagg. 132 € 13,50***
LIBRI
Aharon Appelfeld: Scrittura e Shoah
di Gabriele Scaramuzza
Aharon Appelfeld,
Oltre la disperazione,
Guanda,
2016
Pagg.
144 - € 14.00
***
LIBRI
LA PERSONA E LA CRISI
di Gabriele Scaramuzza
La copertina del libro di Emilio Renzi |
“Persona -leggiamo nelle prime righe dell’ultimo libro di Emilio Renzi- è l’esigenza
profonda, è la domanda della filosofia nell’età della globalizzazione. È il
‘rimorso’della filosofia contemporanea”. “Persona” - sarà il tema di tutto il libro. Ma
perché “esigenza”, e “profonda”, dei nostri tempi; perché “rimorso”. Questo fa
già capire il tono di fondo del saggio. Quello non solo teoricamente, ma
affettivamente, se posso dire, più coinvolgente. Ad esso si annettono gli
interlocutori di Renzi, da Banfi, a Paci, a Olivetti a quelli chiamati in causa
nell’ultima parte del volume. Renzi sa scrivere benissimo, in un modo che
prende, non solo per le sue qualità letterarie. E questa non è una notazione a
latere, non riguarda qualcosa di soltanto esornativo. Non è raro che consimili
notazioni “estetiche” abbiano più il sapore di una concessione benevola,
relativa a qualità in molti sensi secondarie, che non intacca la sostanza
“primaria” di un lavoro. Non è così, neppure per i più grandi filosofi. Non lo
è per Renzi. Nel modo di scrivere c’è la sua partecipazione, il suo modo di essere nei confronti dei
problemi tematizzati nel libro. In esso è depositato un significato che dice non poco sul suo atteggiamento, sul
significato (del tutto condivisibile) che per Renzi assumono i temi che
affronta.
Ma torno
alle sue parole. “Persona” innanzitutto. È un tema per solito considerato
appannaggio di filosofie confessionali e pertanto relegato in un ambito
estraneo agli sviluppi della cultura laica, cui tutti noi apparteniamo. Lo
stesso Banfi lo affronta, ma senza dargli pubblicità, forse proprio per non
entrare in un dominio considerato di pertinenza cattolica.
Eppure il
tema della persona accompagna Banfi fin dal nascere dei suoi interessi
filosofici. Non a caso la sua tesi di laurea con Martinetti (e qui una prima
domanda a Renzi sarebbe come mai non è presente Martinetti nelle sue analisi) -
che Banfi riprende nella prima parte degli Studi
sulla filosofia del Novecento (a cura di Daria e Rodolfo Banfi, Editori
Riuniti, 1965) - riguarda temi di assoluto rilievo per il problema della
persona. La filosofia di Bergson offre infiniti spunti a questo proposito. Il
contingentismo di Boutroux (contingenza e originalità degli strati, loro
irriducibilità a un’unica matrice) apre al tema della libertà, coessenziale alla
persona (su questo tema, in riferimento al libro di Renzi, e anche nei suoi
risvolti giuridici, ha scritto pagine ricche e illuminanti Sabrina Peron: Appunti su persona e libertà,
“Persona&danno”, 2015).
Ma
personalismo in senso proprio è la filosofia di Renouvier: la personalità -scrive Banfi (op. cit., p. 116)- è per lui “la categoria delle categorie”, “la
legge di relazione stessa”. Afferma Renzi: “Persona è relazione ed è relazione
di relazioni” (p. 11)- e già il tema della relazione rinvia immediatamente al
pensiero di Enzo Paci, uno dei pensatori cardine del testo. A Renouvier Renzi
dedica il paragrafo due del secondo capitolo, mentre il terzo paragrafo è
dedicato a Mounier, a Maritain e a Esprit.
A Renouvier lo stesso Banfi rinvia in alcune pagine dei Principi di una teoria della ragione (Parenti, Milano-Firenze,
1960, pp. 478-480); leggiamo: “Questi, preoccupato soprattutto dei valori
spirituali e del significato della personalità e della libertà aveva cercato
[…] di lottare, da un lato, contro il materialismo scientificistico, dall’altro
contro l’idealismo assoluto, colpevoli l’uno e l’altro di aver espresso il reale nell’astrattezza di un dogmatismo
semplicistico, in cui la complessità e
la ricchezza dell’esperienza andava perduta” (pp. 478-479). Sono temi che
tornano nel libro di Renzi.
Tutti i pensatori
sopra nominati coinvolgono sfumature e sfondi religiosi, cui il personalismo
cattolico di Mounier e di Maritain daranno grande rilievo, e che
influenzeranno, sia pur non dal lato confessionale, Adriano Olivetti. E anche
qui si potrebbe porre a Renzi la domanda di cosa ne resti, di come si articoli
il tema religioso nel mondo di Olivetti, e di riflesso come possa sussistere
nel nostro.
Anche dal
punto di vista stilistico ho apprezzato le pagine sul personalismo
fenomenologico e soprattutto l’intreccio delle voci di Banfi e di Paci nel cap.
III.2 e nella sua appendice. Dai capitoli successivi sulla persona e i
comunitarismi e sul socialismo comunitario, cosmopolitismo non ho avuto che da
imparare, e con soddisfazione, sull’attualità. Mi ha colpito la pagina su
Jeanne Hersch, di cui conoscevo solo Tempo
e musica. Nomi famigliari quali
Bobbio, Volponi, Capitini, mi sono apparsi sotto luci nuove. E mi sono trovato
a condividere toto corde le proposte di Renzi.
Riprendiamo ora la prima frase del testo di
Renzi. La persona è l’ “esigenza profonda” dalla nostra filosofia, che vive
negli anni della globalizzazione. Ne è il “rimorso” anzi, dato che
evidentemente è stata rimossa non solo da un pensiero dominato da una forma
mentis globalizzante, ma anche per l’imporsi di una versione confessionale
della persona, sentita come estranea dal pensiero laico.
L’altro
termine su cui è necessario soffermarsi è “globalizzazione”. Non entriamo nelle
discussioni sui molteplici aspetti e risvolti del problema. Mi limito a
osservare che c’è un termine tipicamente banfiano che della globalizzazione è
l’antidoto: il termine “complessità”. Che implica articolazione varia e
molteplice, i cui termini sono sì posti in relazione, ma mai ricondotti del
tutto l’uno all’altro. Né mai sono riassorbibili senza residui in un disegno
globalizzante che cancella ogni differenza. Annullando con ciò ogni
“sensibilità e amore per la fresca
ricchezza dell’esperienza” (sono di nuovo note parole di Banfi). La complessità
salva da ogni reductio ad unum, è irriducibilità, e dunque salvaguardia della
libertà. Se globalizzazione è estensione totalizzante, senza limiti, la
complessità è residuo non omologabile, eccedenza rispetto a ogni tessuto a
maglie strette che cancella le differenze.
È la persona
dunque che sul piano filosofico può rispondere ai danni e alla crisi indotta
dalla globalizzazione. Così, su un diverso piano, il nesso tra persona e arte
come risposta alla Shoah è importante nel pensiero di Aharon Appelfeld, questo
è esplicito nel suo Oltre la disperazione
(Guanda, Milano, 2016).
D’altronde a
questo proposito è opportuno di nuovo rifarsi a Banfi (come fa del resto anche
Renzi). Banfi ci ha lasciato appunti editi solo postumi sul tema della crisi (risalenti
agli anni ’34-35, ad anni dunque di fascismo trionfante); e appunti di nuovo
editi postumi sul tema della persona, scritti tra il ’43 e il ’44, gli anni
dunque del suo impegno: adesione (tramite Roveda) al Partito Comunista,
partecipazione alla Resistenza. Renzi propone una “rilettura incrociata” dei
due testi banfiani, e giustamente. La persona disegna in certo modo il rimedio
che Banfi propone per la crisi, l’uscita da essa, laddove ad es. le poesie di
Antonia Pozzi non offrivano a suo avviso un’adeguata risposta alla crisi. Come
mi conferma Fulvio Papi (di cui su questo tema è da leggere la bella
recensione: Persona. Il nuovo libro di
Emilio Renzi, pubblicata da poco nella rubrica Officina di “Odissea”), gli appunti sulla persona sono in certo modo il proseguimento di quelli sulla
crisi, contengono una risposta di Banfi; tracciano un itinerario personale che
va da una crisi vissuta sulla propria pelle negli anni Trenta al riscatto da
essa negli anni dell’impegno
fattivo. Nel suo impegno politico Banfi
è sorretto da una sorta di “fede”; i termini che usa in proposito hanno un netto
sapore religiosa. È noto il bellissimo
dialogo, a questo proposito, tra lui e Paci nell’immediato dopoguerra; è
assolutamente da leggere, di Enzo Paci, Colloqui con Banfi, introdotto da Guido D. Neri, 1945: un confronto teologico-politico tra
Paci e Banfi, in “Aut aut”, numero doppio, 214-215 (luglio-ottobre 1986),
rispettivamente pagg. 72-77 e 57-71.
Emilio Renzi
Persona. Una antropologia
filosofica nell’età della globalizzazione,
ATì Editore
2015,
pp. 138 € 15.
***
LIBRICONVERSAZIONE CON FRANCESCO VARANINI
In occasione
dell’uscita del suo libro “Macchine per
pensare”
Francesco Varanini |
Fabrizio Amadori:
Sembra quasi che ci sia un piacere, un gusto perverso, nell'immaginare scenari
apocalittici nei quali l'uomo è sostituito da Macchine-Dio che pensano e
governano il mondo al nostro posto. E anche nell'immaginare un futuro dove
uomini e macchine finiscono per ibridarsi, fino a divenire un nuovo unico
essere vivente. Perché tutto questo?
Francesco
Varanini: È vero, più degli stessi informatici, biologi, cognitivisti,
neuroscenziati, un certo tipo di filosofi, futurologi, esperti di scenari,
scrittori di fantascienza, concordano nel coltivare l’immagine di un medioevo o
di un rinascimento prossimo venturo, dove macchine hanno preso il posto dell’uomo
nel pensare e nel governare il mondo. O si sono ibridate con l’uomo in un nuovo
essere senziente.
Amadori:
Qualcuno parla di fisica digitale, e quindi di filosofia digitale. Tutto
sarebbe fatto di bit. L'uomo sarebbe, senza saperlo, un computer, e l'universo
stesso sarebbe uno sterminato computer.
Varanini: Colgo
in queste ipotesi una sorta di cupio
dissolvi. In qualche modo, c’è un eco della lettera paolina ai Filippesi.
Essere sciolto dal corpo, però, non per essere con Cristo, ma per essere con
una macchina, dentro una rassicurante macchina.
Vedo in ciò un umanissimo desiderio di allontanarsi dalle
proprie pene. Ma anche un allontanamento dalle proprie responsabilità.
Nel mio libro, Macchine per pensare, scelgo di non
rispondere direttamente, di non contrapporre argomentazione ad argomentazione.
Semplicemente, mi limito a raccontare un’altra storia. La storia dell’uomo che
costruisce macchine. Credo sia doveroso ricordare, innanzitutto, che il
computer non è che una macchina. Una delle tante macchine costruite dall’uomo.
L’umanità manifesta se stessa costruendo macchine.
Poi, certo, dobbiamo accettare di guardare a ciò che
differenzia il computer da ogni altra macchina. Il computer non solo aiuta
l’uomo nel lavoro materiale, ma anche nell’agire, e nelle più alte
manifestazioni dell’umanità: il pensare, e direi anche il meditare. Considero
per questo l’avvento del computer sulla scena evento di enorme importanza,
discontinuità più significativa dello stesso passaggio dall’oralità alla
scrittura.
Ma anche guardando ad un eventuale futuro popolato da
macchine divenute capaci di autoriprodursi e di convivere da pari a pari con
l’uomo, scelgo un campo. Scelgo di osservare la scena dal punto di vista
dell’uomo.
Amadori: Ecco,
ci spieghi bene questo punto di vista.
Varanini: È
ben vero che siamo tutti figli di Cartesio. L’umanità - l’essere, o meglio l’esistere
umano - si manifesta nel pensare. La separazione che Cartesio vedeva tra res cogitans e res extensa, però, ci porta fuori strada – o perlomeno: lungo una
strada dalla quale mi tengo lontano. Mente e corpo sono nell’uomo inscindibili.
L’uomo, che è mente e che è corpo, può immaginare e costruire un futuro dove i
computer sono strumenti, utensili nelle sue mani, attrezzi che si definiscono
nell’uso, all’interno di un progetto umano.
Perciò ho scritto un libro che ripercorre quei filoni di
pensiero filosofici e matematici che hanno portato alla costruzione del
computer: Leibniz, Frege, Hilbert. Per questa via, il computer ci appare
macchina tesa alla conquista del vero. Logicamente opposto al falso. Ma
ripercorro anche, cogliendo l’intersecarsi delle strade, il pensiero che ci
parla di un diverso uso del computer, e di altre macchine possibile, strumenti
nelle mani dell’uomo che si avventura nel profondo, nelle zone grigie e
nell’incertezza: Freud, Wittgenstein, Heidegger.
E poi, in ogni caso, metà del libro è una pura
narrazione. Quasi un romanzo. Perché la ragione umana si manifesta innanzitutto
attraverso la narrazione. Le macchine, invece, non sanno narrare.
La copertina del libro |
Francesco
Varanini,
Macchine per
pensare
Guerini & Associati Ed.
Pagg. 315 € 24,50 ***
A “CARTE SCOPERTE”
di Cataldo Russo
La copertina del libro di Walter Pozzi |
Parafrasando il titolo di una nota canzone di Gino
Paoli del ‘91, i protagonisti del romanzo di Walter Pozzi, Carte scoperte, sono “quattro amici al bar”, ma quattro amici non
più giovani e pieni di sogni. Quattro amici disillusi dalla vita e dalla
politica, che non credono di poter cambiare il mondo in cui vivono, un mondo
che si sta, giorno dopo giorno, quasi liquefacendo. Quattro amici che, presi
nell’ingranaggio della quotidianità, fatta di disoccupazione, di difficoltà
economiche, di tradimenti e svendita
delle conquiste ottenute con lotte che hanno comportato sacrifici anche di
sangue, osservano con ironica lucidità e impotenza il tradimento che una classe
politica sempre più opportunista, istrione, bugiarda, legata alla poltrona e
priva di valori ideali, perpetra, con cinismo, non solo ai danni del paese, ma
soprattutto di quella militanza di sinistra, da sempre in prima fila, che ha creduto e che continua a credere nei
valori nobili e alti del socialismo, della libertà e dell’uguaglianza.
Sono quattro amici che non parlano più “con profondità di
anarchia e di libertà”, perché si sentono traditi non dai nemici di sempre, la
destra, i fascisti, i populisti, gli industriali avidi, ma dai propri leader
che stanno trasformando il maggior partito di centro sinistra in una creatura
irriconoscibile e priva d’identità. Più che due generazioni o due differenti
ceti sociali, a confrontarsi, a distanza, sono da un lato coloro che utilizzano
il mandato del popolo non per fare il
bene di coloro che dovrebbero rappresentare, ma per fare i loro interessi o quello di chi li finanzia,
e dall’altro coloro che, legati ancora alle ideologie del ’900, ai valori di
classe, al senso dell’onore, alla militanza come scelta di vita sono destinati
a essere sempre più frustrati e a perdere.
Due mondi paralleli scorrono nelle pagine del romanzo Carte Scoperte. Quello patinato e
apparentemente misurato e composto rappresentato da coloro che contano, che
hanno il diritto di dire l’ultima parola, che con le loro decisioni incidono
profondamente nella vita e negli affetti della gente normale, e quello delle
persone comuni, che devono fare i conti con le bollette, le multe,
l’inflazione, la disoccupazione, la globalizzazione selvaggia e senza regole
che ha finito con il mettere in
concorrenza fra loro i poveri, i diseredati, gli emarginati della terra.
Due mondi che non vengono mai in contatto diretto, perché
l’uno parla, standosene al riparo da contestazioni, attraverso lo schermo
televisivo, usando la parola come verbo, mentre l’altro può semplicemente
ascoltare e adeguarsi a decisioni già prese.
Il romanzo abbraccia un arco di tempo di circa sei anni,
dal 1998 al 2004. Sono gli anni in cui si tessono le lodi del neo liberismo e
si rincorre il consenso del cosiddetto ceto medio, e per questo si è disposti a
svendere tutto, persino l’anima al diavolo, pur di meritarselo.
D’Alema, Veltroni, Rutelli e molti altri leader della
sinistra storica si muovono e agiscono come calchi di gesso in un tempio greco.
Non c’è alcuna coerenza fra i loro enunciati e la loro pratica di vita. Anche
loro, come Berlusconi, trovano molto più comodo pontificare standosene
comodamente seduti in uno studio televisivo fra lustrini, paillettes, ragazze coccodè che non a contatto diretto con le
persone che non riescono ad arrivare a fine mesi in uno squallido e sperduto
circolo operario di una periferia
anonima di una grande città.
Mario, il protagonista del romanzo, si è lasciato alle
spalle le lacerazioni di una separazione voluta dalla moglie e sei mesi di
carcere per piccoli reati fiscali. Pian piano prova a risalire la china e a
trovare il proprio equilibrio. Si guadagna da vivere con il gioco delle carte
spostandosi dal bar, gestito da un giovane, che potremmo definire un no-global,
Geremia, a un circolo operaio frequentato per lo più da nostalgici del PCI e
gestito da Brando, anche lui nostalgico di quella sinistra erede dei valori
della Liberazione e che oggi si sente tradita. Brando non disdegna, di tanto in
tanto, una “mano” a carte con gli amici di sempre: Osmate, Alferio, Montecchi,
Orazio, Ritanna e altri. Mario è un giocatore lucido, non abituato a barare,
anche perché le giocate non sono mai da capogiro. Contrariamente a Mattia, il
protagonista del romanzo di Pirandello “Il
Fu Mattia Pascal”, Mario non vive per la grande vincita, il colpo di
fortuna che più risolvergli tutti i problemi, ma per sbarcare il lunario. Il
gioco, quindi, concepito quasi come lavoro. Infatti, alla pag. 95 del libro
Mario dirà a Geremia, l’amico e gestore del bar che gli ha posto alcune
domande: “Loro si siedono per giocare. Io lavoro.”
Come Mattia, anche Mario vive nell’anonimato, ma mentre
Mattia lo fa per mettersi alle spalle la vita precedente, scandita da alcuni
fallimenti, assumendo l’identità di Adriano Melis, Mario vive nell’anonimato
per sfuggire all’accerchiamento dei tanti messi comunali e uscieri che lo
rincorrono per notificargli bollette e multe da pagare. I personaggi, tutti ben
delineati e caratterizzati con le loro storie, apparentemente normali, offrono
allo scrittore la possibilità di parlare non solo di temi esistenziali, del
disagio del vivere o di alienazione, ma principalmente di politica e di storia.
Nel romanzo di Pozzi, le vicende dei personaggi
s’intrecciano sia con la nostra storia nazionale, cui si è già accennato, sia
con la storia internazionale, indirizzata in quegli anni più a trovare un
pretesto, per giustificare l’invasione dell’Afghanistan, programmata
cinicamente a tavolino dall’America e dalle altre potenze europee, che non a
capire i fermenti di quelli popolazioni che non sono più disposte a
sacrificarsi per la ricchezza di pochi.
Un romanzo, quindi, a tutto tondo, ben scritto e privo di
ridondanze o abbellimenti letterari. Un libro che si lascia leggere agevolmente
e che nello stesso tempo ci fa pensare sul nostro presente, il nostro passato e
anche sul nostro futuro.
Walter Pozzi
Carte Scoperte
Edizioni Paginauno, 2015
Pagg.194 - € 15,00
POETI
LE CARTE DEL TEMPO DI PIERANGELA ROSSI
di Angelo Gaccione
La copertina del libro |
Scrivere
di “Carte del tempo” di Pierangela
Rossi il giorno di santo Stefano e in una Milano soffocata dallo smog e dalle
polveri sottili può apparire paradossale. Ci siamo appena mobilitati sul piano
internazionale per fare pressione sui capi di Stato riuniti a Parigi per la
Conferenza Mondiale sul Clima, consapevoli che ad essere impazziti non sono i
fenomeni atmosferici, ma gli uomini di questo tempo. Ed è certo che se si
continuerà su questa china, “tempo” ne rimarrà poco per tutti. Tuttavia
Pierangela Rossi, che è una poetessa, al tempo atmosferico e alle sue mille
varianti e sfumature, ha dedicato un intero libro. Il tempo atmosferico ha una
valenza forte in letteratura. Lo è anche nel cinema, in pittura, e, ovviamente,
in teatro. Un uomo che avanza sperduto in una tormenta di neve e in piena
notte, ha sul lettore, o sullo spettatore, un impatto completamente diverso di
una coppia di innamorati sdraiati su una spiaggia rassicurante in una luminosa
mattina d’estate. Ma lo ha sugli stessi personaggi e il loro umore, e finisce
per condizionare il loro stesso agire e la loro stessa giornata: “Noooo… ma non la smette più… che tempo di
merda… sono tre giorni, tre giorni di fila!” Ecco come si lamenta la Jenny
del mio testo teatrale “Single”,
seccata dei tre giorni di acqua che il cielo rovescia sulla città. Perché se
ogni vicenda umana si svolge in uno spazio dato e in un tempo definito, c’è un
terzo elemento che entra a condizionarla in maniera pesante e spesso decisiva:
il tempo meteorologico con le sue varie fasi e mutamenti.
Ora le stagioni fanno le
bizze: in questi giorni di fine dicembre al Polo c’è un grado, a Londra venti e
a Berlino più di quindici. In montagna non c’è un fiocco di neve e nelle città
del nostro Sud pare estate, mentre molti corsi d’acqua sono tragicamente a
secco.
Il poeta ligure Angelo
Barile poteva scrivere di una lontana nevicata sul suo paese di mare come di un
miracolo:
“Da noi la neve è festa rara./
Quando sorprende il paese che dorme/
ci si risveglia attoniti, in un chiaro/
ch’è d’altro cielo:/
è una chiara vacanza. (…) ”
Mai avrebbe potuto solo
immaginarlo, Barile, così come non avrebbe potuto immaginare un Natale come
questo, senza pini innevati e senza il becchettare dei pettirossi sul
davanzale, un poeta di montagna. Ma Pierangela non ha bisogno di un miracolo (o
di un dramma) fuori stagione: il suo “diario meteorologico” procede quasi
quotidiano, come testimoniano le date e le ore riportate sotto i testi. A volte
può capitare che le sue “registrazioni meteo” si dispieghino per un ampio arco
della giornata, scandite dal variare ravvicinato delle ore, come si può vedere
dalle sei composizioni poetiche del 24 aprile del 2013, per esempio. E dove
anche i minuti si susseguono spesso con scarti alquanto contigui. Questa
parabola temporale copre all’incirca due anni e qualche mese. Si apre con un
testo del 12 gennaio 2013 (ore 9 del mattino), e si chiude con uno del 19
maggio 2015 (ore 10,26). Se le date sono fondamentali per la precisione delle
mappe, altrettanto lo sono le ore e i minuti, e dunque la minuzia maniacale del
poeta vi si deve attenere, sia per un obbligo di verità oggettiva, sia perché è
questa verità oggettiva a produrre quella esistenziale. La scintilla prende le
mosse da lì; la sensibilità mette in campo tutte le sue risorse, ed ecco che
come per incanto, ogni sensazione, ogni suggestione, ogni visione, ogni
impressione, anche la più marginale e inavvertibile, prende corpo e forma e si
fa concreta attraverso la scrittura. Ed è una scrittura minima, scorciata, essenziale,
“trasparente” come “quella del vetro”, secondo la bella ed
efficace definizione di Alessandro Zaccuri, che firma una dotta e spiritosa
post-fazione, ma pronta ad “appannarsi” questa trasparenza (sempre Zaccuri) per
un moto del cuore, una nostalgia, un ricordo. Una scrittura che sceglie le
parole e a cui spesso basta un distico per farsi senso, perché di senso è
ricchissima. È una scrittura dall’andamento narrativo e che, come nella costruzione
di un quadro impressionista, procede per piccoli tocchi, lievi filamenti di
colori.
Se il succedersi delle
stagioni e il variare del tempo colto nei suoi mutamenti, danno peso a questa
poesia (“Si allungano le giornate/ e
fugano ombre impervie/ nei recessi già vicini/ del prospiciente autunno”),
essa è intrisa tuttavia di un sentimento amoroso che si interroga di continuo e
che in punta di penna, stabilisce un dialogo familiare a più voci, che attraversa tutto il libro. Ma
di altri momenti essa (poesia) vive, attenta com’è a cogliere lacerti di
esistenza, scampoli di vita, piccoli semi di saggezza. È difficile raccontarne
gli umori, ciò che di impalpabile resta dopo la lettura: il meglio è proprio
lì, in quegli echi un po’ evanescenti che vi risuonano dentro.
Pierangela Rossi
Carte del tempo
Campanotto Editore 2015
Pagg. 128 € 12,00
LIBRI
LA GRANDE MACELLERIA
di Angelo Gaccione
Giuseppe Langella |
Prezioso quanto necessario, questo libretto mette assieme una serie di illustrazioni (14 per la precisione), e un pugno di versi (in tutto 12 composizioni poetiche) di Giuseppe Langella. Sto parlando di Reliquiario della grande tribolazione e che porta come sottotitolo Via crucis in tempo di guerra con tavole d’artista. Forse il lettore avrà già intuito che il lemma “grande tribolazione” sta qui per quella che è stata definita Grande Guerra, e che più correttamente, considerato il numero spaventoso di morti, dobbiamo abituarci a chiamare con il nome che le spetta: Grande Macelleria. Si tratta del primo conflitto mondiale, quello del 1914-1918, che chiude i fasti effimeri della Belle Époque, e che i libri di storia continuano a riportare con le iniziali maiuscole. Langella ha le idee chiare in proposito e titolo e sottotitolo li ha scelti con cura, perché nessuna ambiguità tradisse il suo pensiero, e mettesse da subito le cose in chiaro. Perché di vera e propria tribolazione si è trattata (ogni guerra lo è, qualunque nobile motivazione la infiori), e una dolora via crucis ha dovuto sopportare l’umanità che ne è stata coinvolta: soldati, popolazione inerme, animali, piante, territori, anime che non saranno più le stesse, e oserei dire ogni elemento del creato, divorato da un’empia, sacrilega, folle distruzione. Siano sempre maledetti dunque, come dice questo papa, i loro artefici e chi sui massacri lucra e spera di lucrare. Anche la data di stampa di questo piccolo grande libro non è casuale: 24 maggio 2015; la data della nostra entrata in guerra, il 1° centenario, e a qualcuno dei lettori verranno sicuramente in mente i versi de “La leggenda del Piave” di Ermete Giovanni Gaeta, “ (…) dei primi fanti il 24 maggio…”.
Edoardo Nonelli: Croce (2014) |
Il motivo occasionale che lo ha generato, lo dice Franca Grisoni nella bella introduzione, è dovuto all’incontro fra Langella e Edoardo Nonelli, uno scultore di Pontedilegno, che, recuperando alcuni reperti di quella guerra nelle zone delle trincee (le montagne dell’Adamello), ha creato una scultura poverissima, come poverissimi sono i materiali con cui la ha assemblata: una striscia di lamiera, dei chiodi arrugginiti, un pezzo di tavola logorata dal tempo, alcuni sassi. Poverissima, dicevo, ma di grandissimo significato simbolico e di forte presa evocativa; Nonelli ha disposto quei materiali in una delle forme divenute, nella visione e nella coscienza dell’umanità intera, il simbolo per eccellenza della sofferenza e del dolore; dello strazio della carne e dell’anima lacerata dalla passione. E non solo per i credenti e per i cristiani. Questo simbolo è la croce, e “Croce” porta come titolo la scultura che Nonelli ha realizzato nel 2014 con quei materiali. L’immaginazione del poeta Langella a questo punto si è messa in moto, e come accade ad un poeta dotato di sensibilità e di attenzione anche alle cose più minute e umili della realtà, ha dato loro voce; si è fuso con i materiali e con le situazioni, con gli uomini e i luoghi di quella guerra, con i loro oggetti e i loro brandelli, con il loro sentire e la loro disperazione, con i sentimenti di figli e con il cuore devastato di madri. Perché non solo Langella scrive un testo emozionante per quella scultura, usando un titolo bellissimo, “Legno dei dolori”, ma riscatta magistralmente quel legno chiudendo il testo con un verso straziante: buono per la baracca e per la bara.
Giuseppe Langella |
E poiché il libro vuole essere un reliquiario, alle reliquie umili, dolorose, mute, appartenute agli uomini di quella guerra bisognerà dare voce. Nascono così, dalla frequentazione diretta di quei luoghi e di quei materiali, gli altri 11 testi poetici o litanie, dai titoli inequivocabili: Lamiere, Reticolati, Chiodi, Elegia sopra una scatoletta arrugginita, Pietra diaccia, Cunicoli, Brandello di stoffa, e così via. Sono versi cantilenanti, con le rime che si rispondono e che conferiscono ai testi un andamento musicale e teatrale insieme. Li si potrebbe immaginare anche teatralizzati e con voci di cori, a sostenere un corteo di oggetti e di anime che procedono verso un’oscurità inesplicabile che li inghiotte. Versi asciutti, essenziali, privi come sono di ogni retorica, di ogni concessione che non sia alla vita e alla morte nella loro nuda e spoglia verità. È stata un’ottima intuizione questa di Langella ed il risultato è più che degno. Il libro è arricchito anche, come ho detto all’inizio, di illustrazioni: sei acqueforti, tre disegni, un' incisione, due litografie, una xilografia e una tecnica mista (la croce di Nonelli). Sono scene quotidiane realizzate da artisti che hanno preso parte a quella guerra, e ognuno lo fa con la tecnica che gli è più congeniale e secondo un’esigenza prettamente soggettiva, legata oltre che al luogo, anche alla temporalità. Come ci informa Langella, fanno parte di una più ampia collezione meritoriamente realizzata e custodita dall’ associazione culturale “Arte della Grande Guerra”.
La copertina del libro |
Giuseppe Langella
Reliquiario della Grande Tribolazione
Via crucis in tempo di guerra con tavole d’artista
Interlinea Ed. 2015
Pagg. 48 € 12,00
***
IL TEATRO DI CATALDO RUSSOdi Angelo Gaccione
Cataldo Russo |
Quando siano vivi ed efficaci sulla scena, se n’è
avuta una prova dalla lettura drammaturgica avvenuta di recente nella bella
sala teatrale della Biblioteca di Settimo Milanese. Sto ovviamente parlando
degli otto testi teatrali (tre drammi, quattro commedie e un dialogo) che lo
scrittore e poeta calabrese Cataldo Russo, ha raccolto in un pregevole volume
dal titolo: “Il rumore del silenzio”
(Eldonejo ed. 2015, pagg. 212). Russo ha ormai al suo attivo una significativa
quantità di opere teatrali pubblicate in volumi, e può vantare, altresì, un
numero considerevole di allestimenti teatrali dei suoi lavori, superiore a
qualsiasi altro drammaturgo italiano della sua generazione. Presentissimo nei
circuiti delle scuole, e dunque degli studenti, i lavori di Cataldo Russo si
avvalgono di un pubblico giovane, attento, interessato e soprattutto numeroso e
vitale; anche se registi e attori non disdegnano di portarli all’interno di
circoli culturali, teatri più tradizionali con letture di supporto alle
presentazioni dei volumi. Il libro in questione contiene otto lavori: “Il
foglio di carta bollata sulla testa”, “Il sogno di volare”, “Scollegamenti”,
“Rappresaglia e rancore”, “Il pagamento della pensione”, “Il capomastro Facciapiatta”,
“Professione stagista”, “Fausto e
Iaio: una sera di primavera gli spari”. Come si può vedere già dai titoli, alla
commedia si affianca il dramma; alla farsa si affianca la poesia, toccando
alcuni dei nervi più scoperti della storia e della cronaca dei nostri tempi. Il
drammaturgo si serve abilmente e magistralmente di tutte le sue risorse
espressive, e sa adeguare lingua e forma alla sostanza che si appresta a
maneggiare. Passa con disinvoltura dal tono mitico e poetico a quello
drammatico; da quello ironico farsesco a quello parodistico; dalla critica
feroce e radicale (tutto politico e tutto intensamente etico) a quello
popolare, anzi popolano, sorretto magnificamente dal parlato dialettale (il
dialetto di Crucoli e dintorni), che ha la forza, come tutti i dialetti
sapientemente padroneggiati, non solo di connotare i personaggi, definire i
caratteri e determinarli sociologicamente, ma anche di spremerne la vis comica, attraverso la scelta dei
lemmi dialettali, l’ambiguità e le allusioni che quel parlato permette. E il
pubblico si diverte e sta al gioco, così come si indigna, si irrita, si
emoziona e si commuove. Perché in un teatro come questo dove anche la cronaca
(tragica o farsesca poco importa) viene immediatamente trasformata in storia
(storia del costume e storia civile), ci è messa sotto il muso senza alcun
compromesso e viene perentoriamente ad interrogare la nostra coscienza. Che
siano le vicende del popolo palestinese o l’assassinio dei due giovani
antifascisti dei centri sociali; o quelle della condizione assurda dei giovani
eternamente precari, questa materia ci riguarda tutti e se mescola storia
grande e cronaca minuta, se anzi le due istanze si intrecciano senza prevalenze
di gerarchie, è perché ci troviamo davanti ad un teatro mosso da una fortissima
motivazione civile che al bisogno di conoscere, di capire e di decifrare, si
accompagna all’obbligo morale di prendere posizione, di stare da una parte, di
esercitare la sua irrinunciabile e radicale critica ai fatti ed ai rapporti,
così come sono venuti a configurarsi. Un teatro di demistificazione, di
contaminazione con l’esistente, sulla scia della più antica e nobile
tradizione: da quel teatro greco che educava, illuminava, criticava, e mai
perdeva di vista la realtà, la cronaca, i rapporti sociali, le trame bieche dei
poteri, fino al teatro di denuncia contemporaneo con le narrazioni sul disastro
del Vajont o la strage di Piazza Fontana; la morte del banchiere di Dio (Calvi)
o le tresche dello Ior e del Banco Ambrosiano. Cataldo Russo è, a mio parere,
uno dei più interessanti drammaturghi contemporanei, uno dei più consapevoli, e
la sua lezione estetico-morale è un argine alla deriva qualunquistica, frivola,
inconsapevole, disimpegnata, di tanta scrittura teatrale oggi imperante. Sulla scia
delle sollecitazioni dello scrittore Tom Wolf, che invitava gli scrittori
americani a tornare ad occuparsi della realtà e della cronaca, (quella che lui
ha chiamato la bestia da un miliardo di
piedi), Russo mette al centro della sua riflessione e della sua
rappresentazione, ciò che è necessario e ciò che è indispensabile. Ci aiuta a
capire e ad interrogarci per cogliere le aporie ed evitare i pericoli; per
schivare le tragedie, per smascherare le falsità, i privilegi acquisiti, le
ipocrisie di un mondo capovolto. Lo fa con la dolente sapienza di Mehmet come
con la risentita dignità della giovane stagista che nell’atto unico non ha
neppure un nome (privata com’è di tutto, persino del futuro, questa generazione
di giovani). Lo fa con le voci, i cori, le singole figure che si alternano
meravigliosamente in quel dramma corale e straziante che è “Il sogno di
volare”, e lo fa con timida e dignitosa ritrosia di un’altra madre straziata,
Angela Iannucci, nell’atto unico “Fausto e Iaio: una sera di primavera gli spari”.
Il rumore del silenzio è un libro
importante e alcuni testi sono dei piccoli capolavori. La mano di Russo ha
raggiunto anche nella produzione teatrale la sua piena maturità. Attentissimo
alla realtà che ci ruota intorno e ci circonda, egli ce la sa raccontare e
proporre con la scrittura, come pochi veri artisti sanno fare.
La copertina del libro con un dipinto di Mario Bracigliano |
Russo mentre presenta i suoi lavori teatrali |
Russo in una insolita veste di attore *** |
STORIA, ETICA ED ESISTENZA IN FILIPPO RAVIZZA
di Angelo Gaccione
Filippo Ravizza |
Della generazione dei poeti milanesi
degli anni Cinquanta, Filippo Ravizza è uno dei migliori, se non il migliore in
assoluto. La mia stima nei suoi confronti è doppia: per la qualità della poesia
e perché è fra i rarissimi letterati di questa città, ad aver conservato una
sana consapevolezza civile. È stato il solo poeta, nell’indifferenza generale,
che ho incontrato al sit-in di protesta sotto gli uffici del Consolato Francese
di Milano, dove una folla di cittadini, francesi e non, si era riunita per
esprimere il proprio sdegno e far sentire una calorosa solidarietà
internazionale alla redazione parigina di “Charlie Hebdo”. Ad onor del vero
c’era anche Cesare Vergati, ma lui lavora all’Istituto Francese di Milano, ed
era quasi scontato che lo avrei trovato lì. Ravizza non è solo un ottimo
verseggiatore e un critico di poesia attento e puntuale, la consapevolezza
civile di cui ho detto, ne fanno anche un acuto saggista. Il suo itinerario
poetico è scandito da tempi ragionevolmente dilatati, segno che la materia ha
richiesto una doverosa decantazione prima di approdare alla pubblicazione, ed
anche il corpus che negli anni è
andato a comporsi, è abbastanza contenuto: indice anche questo di rigore e
sorvegliata attenzione per il proprio laboratorio. Ne ha guadagnato sia
l’espressività (mai banale e priva di cadute), sia la materia che da quella
espressività è sorretta e riscattata in tutte le sue profonde significanze.
Insomma, la poesia di Ravizza dice
qualcosa al lettore, perché ha
qualcosa da dire, e dunque questi non ne resterà deluso.
La copertina del libro |
Chi prende in esame un libro (per me importantissimo e
di straordinaria maturità) come Nel
secolo fragile, potrà verificare direttamente alcune delle valutazioni qui
espresse. Vi accorgerete subito che Ravizza è un poeta che sta dentro la storia
(vicina o lontano poco importa): che sia l’esaltante epopea del Sessantotto con
i suoi entusiasmi, ideali, speranze di cambiamento o il Risorgimento italiano,
a partire dalla Repubblica Romana del 1849 con i suoi giovani eroi
generosamente immolatisi per la patria. Sta dentro la storia, come non accade
più da tempo ai poeti italiani del dopoguerra (intendo il secolo tremendo e
infinito del Novecento e che alcuni hanno impropriamente connotato con un
aggettivo altrettanto improprio, e che non rende giustizia alla sua tragica
dismisura: breve), e ci sta con tutta
la sua lucida consapevolezza. Testi come “Ci pensi ancora?”, “Il mio nome”, “In
memoriam Colomba Antonietti”, per citarne alcuni, ne sono l’esempio più
lampante. È così presente la storia in questo libro di poesie, tanto che il
testo di pagina 75 dedicato alla presa della Bastiglia del 14 luglio 1789, si
intitola proprio “La Storia”. Storia di uomini e di eventi, di passioni e di
ideali, di piazze e di volti. Ma sta anche dentro una dimensione geografica
precisa questo libro: l’Europa. Quell’Europa che oggi delude per il suo gretto
egoismo, per le sue chiusure, per non avere imparato nulla delle più recenti
lezioni della Storia, e che Ravizza assume come paradigma di una civiltà
comune, di radici linguistiche comuni, e non solo come sentire, come cultura.
Radici linguistiche che fondano la lingua che sarà dei poeti, e dunque egli
come poeta non può che sentire madre e patria il suo spazio, i suoi confini.
Un’Europa fatta di ponti che si attraversano e di fiumi che ci conducono, non
di muri; un’Europa di piazze e di luoghi che sono ora memoria di ciascuno. Da
questo punto di vista Ravizza è forse il solo poeta italiano di mia conoscenza
(di questi anni), a cantare ancora l’Europa, a farsene sentinella della parola.
Alcuni dei versi risentiti della poesia “Geografia” sono eloquenti:
“Europa Europa perché solo io ti canto?
Non passano più popoli e poeti
non guardano più nell’orizzonte
non vedono speranza non vedono futuro?
Davvero questa è la fine della tua Storia?
Ma numerosi
sono i testi che la mettono al centro della sua speculazione e della sua
elaborazione formale: da “Europa Europa” a “La pietra dove finisce l’Europa”;
vi troviamo il limes (Portogallo) e
vi troviamo la luce del pensiero che si
fa poesia (Grecia). Come dire: la centralità della tradizione europea e il
suo polo opposto, tuttavia ponte aperto verso altri lidi, altre contaminazioni.
Non dunque, l’hic sunt leones degli
antichi. Questa poesia fatta di materia e di storia, di realtà effettuale e di
pensiero, e che non rinuncia ad una ferma indignazione morale, non trascura
tuttavia la sua dimensione più privata, la sua “urgenza esistenziale”, come
scrive in post-fazione Mauro Germani. Da tale punto di vista, un filo continuo
corre lungo il tracciato di questo libro e si interroga sulla sorte di
ciascuno; sulla comune esperienza mondana; sulla precaria, breve ed effimera
condizione umana che ci sovrasta, con una radicalità pessimista che segna
davvero una svolta nel sentire del poeta. Avrei solo l’imbarazzo della scelta
nel citare i numerosi testi e nel riportarne gli altrettanti copiosi versi che
ho evidenziato ad abundantiam con una
matita rossa. Di passaggio voglio dire che da tempo non mi capitava di
sottolineare, felicemente ammirato, la quantità di versi e blocchi interi di
versi come in questo caso, per la loro pregnanza e la loro bellezza. C’è, ora,
in questa visione ragionatamente sconsolante di Ravizza e che segna tutto il
libro, la presa d’atto del limite, della sconfitta, del “grande mai più” che tutto azzera, il vuoto che ci inghiotte. Per
trovare una consapevolezza così determinata bisogna andare alle pagine di
alcuni celebri filosofi (non bisogna trascurare che Ravizza ha compiuto studi filosofici),
vediamolo da questi versi di chiusura del testo “Lieve possa esserti il passo”
: (…) poi nulla resterà,/ nulla: nemmeno
il ricordo…/ saperlo è giusto, saperlo è l’enigma/ che noi siamo./ E ancora dal testo “I grandi fiumi” : (…) sarà un tempo breve amico mio,/ il tuo e il mio sarà dal nulla al nulla senza
saperlo,/ ignorando il vuoto che per poco/ ci ha ospitato…/. Niente, vuoto,
mai più… intorno a questi lacerti, a questi lemmi si avvitano testi dolenti ed
esemplari nella loro sconsolata presa d’atto: “dopo è tutto buio e nulla/ e tutto muore/ persino la memoria”/. Ed
il testo scritto dopo una visita ad un amico morto, al cimitero di “Lambrate”,
così chiude: vivere non ha senso/ né
storia né speranza/. Nelle toccanti e struggenti poesie dedicate alla madre
morta (“Ricordo il vetro” e “La più grande -in memoriam-”), proprio perché ad
esserne toccata è la carne viva del poeta, “l’inutile
e sconsolato vivere” leopardiano trova in Ravizza i modi, le forme e gli
accenti più vibranti e più veri. Sono parole autentiche, misurate, in grado di
incidersi nella nostra mente per restarvi.
Biblioteca Sormani di Milano settembre 2013 alcuni Naviganti di "Odissea" al centro Mirella, da sinistra Luciani, Seregni, Gaccione Piscitello, Amietta, Ravizza |
Forse il rimedio al quieto
orrido, all’infinito nulla, al niente che non è niente e neppure esiste (sono
versi di “Viaggiatore d’Occidente”), che ci attende e dove neppure la memoria
ha scampo, sta in un raro, miracoloso, incontro fraterno di uomini; in una
solidale condivisione al dialogo, in quella proustiana “consanguineità delle
menti” in cui la poesia possa tornare ad essere “un argine al male” come ha
scritto Elsa Morante, o venire a noi, come scrive splendidamente Ravizza: “come una lieve benedizione/ indulgente rassegnazione
della notte…”
Filippo Ravizza
Nel secolo fragile
La Vita Felice, 2014
Pagg. 100, € 13,00
***
Intervista al poeta Filippo
Ravizza
“Nel
secolo fragile” è un libro di grande importanza, non solo poetica, abbiamo
rivolto al suo autore alcune domande.
Filippo Ravizza |
Gaccione: Come collochi questo libro
all'interno della tua produzione poetica?
Ravizza: “Nel
secolo fragile” è il mio settimo libro di poesie, dopo un cammino lungo il
sentiero accidentato e impegnativo della parola poetica, durato ormai quaranta
anni; eppure, almeno nelle mie intenzioni, questo libro che si porta dietro
quelle che riconosco essere le tematiche costanti e ricorrenti di tutta la mia
produzione (la riflessione sui rapporti tra vero poetico e vero storico;
sull'enigma del tempo; sul destino e sulla mancanza di un destino; sul “grande
mai più” ovvero l'annientamento che ci attende) è anche un libro che vuole
tentare uno slancio, un'apertura di percorso teoretico ed esistenziale verso il
futuro, verso ipotesi di costruzione sistematica del futuro. Il secolo fragile
è il nostro, il ventunesimo secolo. Ed è fragile perché nasce (abbiamo finora
vissuto solo i primi quindici anni di questo secolo) all'insegna della più
pervasiva e tendenzialmente totalitaria di tutte le ideologie: l'ideologia che
dice che è finita l'epoca delle ideologie, una ideologia, sia detto per inciso,
che tutto è tranne che innocente perché serve ad eternizzare il presente e
rende impossibile la pensabilità stessa del cambiamento.
Gaccione: Puoi raccontare ai nostri lettori la
genesi di questo libro e le pulsioni che ci stanno dietro?
Ravizza: Tutti i miei libri sono sempre stati
il frutto di quelle che possiamo tranquillamente chiamare ossessioni
ricorrenti. “Nel secolo fragile”
nasce, in questo senso, quasi dieci anni fa un pomeriggio di sole a Lisbona. L'
"urto" emotivo fu la visione del “Ponte Veinticinco de Abril”, questo
grande ponte che attraversa il largo, imponente fiume Tago e congiunge Lisbona
con la città sita sull'altra opposta riva. Questo splendido ponte mi richiamò
alla mente tutti i ponti delle grandi e belle città dell'Europa e diede inizio
ad una ricorrente e ininterrotta riflessione sul ponte come opera dell'uomo,
opera con cui l'uomo, hegelianamente si potrebbe dire, interviene sulla natura
e sul paesaggio, modificandoli a proprio vantaggio, mettendo in contatto, in
collegamento, realtà e territori, dimensioni che sarebbero destinate a rimanere
separate, divise, contrapposte, se non ci fossero i ponti. Da lì la voglia di
costruire un libro che si giovasse di tutta una serie di “ponti”,
“architetture”, costruiti di forma e contenuto, finalizzati ad unire e comporre
in affresco tutta una serie spazio/temporale di luoghi, situazioni, dimensioni,
di volta in volta individuali o comunitari, generazionali o esistenziali,
oppure storico/culturali. Insomma, uno sforzo di unità in affresco di tanti
frammenti. Un desiderio di unità. Affidando anche alla parola poetica un ruolo
di resistenza al nostro presente frantumato, questo secolo fragile a cui si
vorrebbe negare la narrazione del futuro, la speranza.
Gaccione: “Nel ritmo del passare” è,
dell'intera raccolta, il testo più ultimativo. Nulla è destinato a restare,
tutto è provvisorio, transeunte...
Ravizza: Io non dimentico mai la grande,
coraggiosa e dura riflessione di un filosofo, un letterato, un maestro come
Jean Paul Sartre: “L'uomo è una passione inutile”. È il frutto di una
concatenazione casuale di eventi, sicuramente stupefacente, ma altrettanto
sicuramente priva di qualsiasi causalità. L'uomo è un caso e la sua esistenza è
un breve arco temporale tra il non ancora e il grande mai più (direbbe
Heidegger). Non solo, con noi muore anche la memoria che noi abbiamo di noi,
che io ho di me. E quindi, un attimo dopo la nostra morte sarà come se non
fossimo mai nati. Questo io scrivo: “(...) bisogna
dirlo bisogna scriverlo/ è questa o poesia o mia poesia l'unica/ forza il vero
amore che tutto abbraccia/ riesce ad abbracciare con occhi lucidi,/ grandi di
quanta dignità è possibile/ nel nostro essere uomini.”
Gaccione: Puoi dirci qualcosa sulla tua
officina creativa e sul modo come lavori?
***
La fotografia, il silenzio e il tempo
di Gabriele Scaramuzza
La copertina del volume |
Si
è inaugurata il 23 ottobre 2015 e resterà
aperta fino al 6 gennaio 2016 la bella mostra (curata dalla Fondazione Cineteca
Italiana in collaborazione con il Centro Internazionale Insubrico "C.
Cattaneo" e "G. Preti" dell'Università dell'Insubria di
Varese) di fotografie e brevi filmati di Antonia Pozzi, cui fanno da contorno
un’ampia rassegna cinematografica e taluni eventi speciali. Tra questi ultimi
segnalo in modo particolare il recital del 7 novembre con recitazione e
drammaturgia di Elisabetta Vergani; ma anche due concerti di musiche (il 27.11
e il 9.12) legate ad Antonia Pozzi. Il catalogo della mostra, curato da
Calvenzi e Pellegatta, contiene saggi di esperti studiosi di Antonia Pozzi
quali Graziella Bernabò e di studiosi dell’ambiente in cui visse, quali Fabio
Minazzi. Al cinema nel mondo pozziano è dedicato il saggio di Matteo Pavesi; la
regista Marina Spada racconta del suo film su Antonia Pozzi. Alle fotografie
infine, last but not least, sono dedicati gli ultimi tre saggi: di Ludovica
Pellegatta, Giovanna Calvenzi e H-57.
A Ludovica Pellegatta si
deve l’ispirazione dell’iniziativa; le si deve essere grati per questo. Esperta
di fotografia, fin dalla sua tesi di laurea si è dedicata alle fotografie di
Antonia Pozzi. Per prima le ha catalogate e interpretate, per prima ha messo
nella giusta luce un aspetto della
figura culturale di Antonia Pozzi prima trascurato, un aspetto molto significativo, ma anche
difficile da inquadrare in modo soddisfacente.
Le foto sono uno dei mezzi
espressivi cui la Pozzi ricorre, il loro ruolo, accanto alla sua poesia, nella
sua vita è centrale e ormai indiscutibile. Sentiva la necessità di esprimere se
stessa anche attraverso i mezzi visivi, e in particolare la fotografia.
Uno dei temi in cui si può
inquadrare il problema le foto è quello
del silenzio - cui ha dedicato un libro significativo Tiziana Altea: Antonia Pozzi. La polifonia del silenzio.
Se nel mondo del silenzio rientra quel vasto ambito di realtà e di possibilità
espressive estranee al mondo delle parole, vi rientra anche il mondo della
fotografia; ne è una possibile modulazione.
Il silenzio certo è
qualcosa che filtra attraverso le parole; può essere intrinseco alla stessa
poesia. Ma nella vita di Antonia Pozzi ha un grande rilievo il silenzio delle
pause, quello di tutti gli spazi della vita quotidiana che nel silenzio si
consumano: in un silenzio che può essere pienezza di vita vissuta, valore di
per sé: risponde a “un gran bisogno di calma e di raccoglimento”; “contemplare così non è un riposo, ma è una
vita intensissima e bella”, come scrive lei stessa.
Non necessariamente
tuttavia il silenzio è questa pienezza di senso; può essere anche vuoto
angosciante, attesa inquieta, qualcosa di oppressivo. Per questo nasce nella
Pozzi il desiderio di catturare, di esorcizzare, nella fotografia “le povere
cose, torturate nel loro gigantesco silenzio”, come si esprime essa stessa, di
sottrarle alla loro presenza insensata perché inespressa.
La fotografia qui è un
diverso silenzio, il silenzio di un dar senso attraverso le immagini, che non
hanno bisogno di parole. Il tacere della poesia si riempie di altri segni. C’è
un tacere delle parole, un vuoto di parole (una loro insufficienza anche), che
si riempie di immagini visive. È il silenzio che costruisce immagini
fotografiche: il silenzio dell’osservazione, o della contemplazione, della
messa a fuoco, che prepara lo scatto della macchina fotografica; il silenzio
vivo dell’immagine che ora abbiamo davanti agli occhi. La foto qui è anche
affermazione, anzi accentuazioni, di vitalità: “Mi sono cimentata in
mirabolanti ‘exploits’fotografici”, scrive Antonia a 17 anni durante una
gita.
Quello che più mi ha
attratto delle foto della Pozzi è tuttavia anche qualcos’altro. Ho sempre
pensato che fare foto (e soprattutto le foto-ricordo di viaggi, gite, momenti
significativi della vita, avessero o non avessero pretesa artistica) avesse
qualcosa a che fare con l’angoscia del tempo e con l’ansia di trattenerlo: “Del
tempo ho paura, del tempo che fugge così in fretta”, scrive Antonia. Fare foto
ha a che vedere con un avvertire la vita come carente, dunque. Oltre che col
timore della morte, con l’ansia di fermare un tempo che non si sente come
compiuto dentro di sé; anche con l’anelito a rendersi “chiara e amica la morte”,
come sempre Antonia scrive. Questo non
tanto in riferimento alla particolare morte di Antonia Pozzi; ma a tutta la sua
vita, che non deve essere necessariamente tutta vista nella prospettiva di
quella morte.
Un altro punto che mi ha
fatto riflettere: Ludovica Pellegatta ha messo una volta in luce le comuni
finalità di poesia e fotografia nel mondo della poetessa. Ne annota talune diversità, e giustamente: la poesia interverrebbe su una situazione di “conflitto terribile tra realtà e spirito”,
sarebbe “lotta affinché emerga l’oltre della vita”; un conflitto e una lotta
tuttavia risolti nei versi. La fotografia invece esprimerebbe piuttosto un
“accoglimento della vita e del mistero dell’essere”, sarebbe “riconciliazione”,
darebbe quindi voce a una situazione in cui ci si sente spontaneamente a casa
propria nel mondo.
Né nella poesia né nella
fotografia potrebbe mancare, come momento di affinità, un comune puntare verso
una superiore risoluzione, data tuttavia per così dire naturalmente nel caso
della fotografia, faticosamente
conquistata nel caso della poesia. Vi
sarebbe dunque una complementarietà, una pacifica convivenza tra questi due
diversi mondi espressivi.
Ci si potrebbe infine
anche chiedere: il ricorso alla fotografia, il non accontentarsi dei mezzi
espressivi che la poesia offre, non potrebbe denunciare una sorta di
insufficienza della poesia a esprimere pienamente la vita spirituale di Antonia? Cosa dentro la poesia la porta a cercare una
sorta di completamento di sé nelle immagini fotografiche? Non è questo spia di
una sorta di carenza interna alla poesia, che postula il ricorso ad altri
mezzi? E, aggiungerei anche (al di fuori
di ogni riferimento alla fotografia), che postula un compimento di sé su altri
piani?
O anche, non si può
avvertire una sorta di conflittualità irrisolta tra i due mezzi, o, meglio, senz’altro risolta (se guardiamo alla riuscita artistica, al valore estetico),
nella coscienza di Antonia, a vantaggio della poesia?
Forse la generale
conflittualità entro cui si muove la vita di Antonia, e la sua vita spirituale,
trovava espressione anche nel dualismo tra poesia e fotografia (che alla fine
diventerà anche dualismo tra poesia e prosa, romanzo - differenti possibilità
espressive (e di vita) che le si aprono ed entro cui non sceglie mai,
lasciandole scorrere in parallelo, ma conflittualmente, in tutto l’arco della
propria vita culturale.
Antonia Pozzi
Sopra il nudo cuore.
Fotografie
a
cura di Giovanna Calvenzi e Ludovica Pellegatta
Silvana
Editoriale, Cinisello Balsamo, 2015
Pagg.
160 € 28,00
***
LIBRI
Scrivere
il coraggio
di
Giovanni Bianchi
Umberto Ambrosoli |
Cosa insegnare ai figli
Scrivere
il coraggio è utile e politicamente pedagogico. Umberto Ambrosoli, capolista
del centrosinistra alle ultime elezioni regionali lombarde, non ci regala una
memoria del padre che è entrato nel martirologio civile del Novecento, ma parte
dal deposito dell’esperienza familiare per una riflessione sul coraggio che
attraversa gli ambiti odierni della società civile italiana. Infatti La storia dell'avvocato milanese che indagò sulla Banca Privata
Italiana di Michele Sindona e fu ucciso a Milano 35 anni fa è entrata nella
nostra letteratura e anche nella filmografia, che costituiscono le modalità del
ricordo che hanno progressivamente sostituito i monumenti nelle piazze. Un
libro esile, ma, come talvolta accade, da leggere due volte.
La cifra del testo è racchiusa in una frase del padre di Umberto: “Non posso insegnare ai miei figli a non
fare, per paura, ciò che reputo giusto”.
L’archetipo non detto del testo è in Ritratti del coraggio, un libro del 1955 scritto da John
Fitzgerald Kennedy, allora giovane senatore, che consentì all'autore di vincere
il prestigioso premio Pulitzer nel 1957. Del resto i Kennedy avevano un occhio
di riguardo per la letteratura italiana, essendosi proprio John occupato degli
scritti sulla dottrina sociale della Chiesa di Amintore Fanfani.
Una virtù civile
Il lavoro del giovane Ambrosoli
affronta il coraggio come virtù civile necessaria agli abiti virtuosi del
politico. Si parte con la citazione di un eroe negativo, Schettino, diventato
nell’immaginario degli italiani, e non soltanto delle cronache giudiziarie, il
comandante che abbandona la nave che affonda ancora carica di passeggeri. Ambrosoli
si incarica di fondare le ragioni del coraggio e prende come riferimento il talento della libertà, lasciando
sottintendere che si tratta di talento da esercitare anche quando non si è
vincenti o ottimisti.
L’occasione per un riferimento ai
settant’anni del 25 Aprile in molti giovani (i partigiani erano incredibilmente
giovani, non soltanto in Italia) che persero la vita nella Lotta di Liberazione
per un ideale che trascendeva l’orizzonte della loro vita e talvolta quello
della loro fede. Da ciò discende un no tondo all’arrendevolezza all’“inevitabile”.
Un modo per dire -cito il corrucciato
Mino Martinazzoli- ai giovani di successo che “l’autocritica non è la critica
delle auto”. E d’altra parte Ambrosoli avverte che era assolutamente
indispensabile andare oltre la rassegnazione di chi dice: “Oggi non ci sono più
persone come quella”. Insomma, il vincere e la velocità non sono sinonimi del
coraggio, così come lo intende Umberto Ambrosoli. L’autore si concede un po’ di
scandaglio etimologico, che, dopo le miniere in tedesco di Heidegger, hanno
trovato utili sequele anche nel nostro Paese e tra i nostri autori. Così ci
viene proposta la riflessione sulla circostanza che il coraggio non è un moto
esclusivamente razionale, salvo (dico io) fondare diversamente il concetto (e
il sentimento) della ragione. Soprattutto ne discende che i giovani vanno presi
sul serio, non osannati, magari anche evitando l’eccesso di distanza che il
grande Aristotele dimostra nelle prime dieci pagine dell’Etica a Nicomaco. Ambrosoli
costruisce quindi una sorta di etica del coraggio nelle diverse professioni,
allineando i personaggi in una galleria di quadri in esposizione. Così ci
imbattiamo, nella prima parte, nel coraggio degli imprenditori.
Lo sguardo si distende tra “gli ulivi
della piana di Gioia Tauro”. L’imprenditore messo sotto la lente è Giuseppe De
Masi (e figli), di 58 anni.
Nord e Sud uniti nella sconfitta
Ci imbattiamo in una frase
rivelatrice: “Si va avanti comunque, nell’interesse degli operai, per non aggiungere altra disoccupazione alla
piaga della criminalità organizzata, che sta uccidendo questa terra”. Ma non la
scrive uno degli imprenditori, bensì un giornalista che si è mosso sul suo
territorio per un’inchiesta anziché scaricare dal computer le notizie di
agenzia. Questo libro invita meritoriamente ai confronti e alle comparazioni.
Come viene interrogato un sestese doc come il sottoscritto da un simile
approccio?
La Sesto San Giovanni delle fabbriche
non c’è più. Quella che tutto il Paese denominava Stalingrado d’Italia. Siamo
passati da 50.000 tute blu a 1000 dipendenti: di ABB, Oracle, Wind… I grandi
imprenditori del fordismo avevano coraggio perché avevano anzitutto il coraggio
di sognare. (Il fordismo è pratico ed organizzato, ma anche onirico: nei
padroni delle ferriere, ma anche negli operai che hanno difeso dagli invasori
le loro macchine.)
Gli imprenditori sestesi avevano
anche l’abitudine di tenere sulla scrivania i modellini in legno dei prodotti
che giravano per tutto il mondo. Alla fine degli anni Ottanta hanno deciso,
all’unanimità, di smettere di sognare. Hanno chiuso le fabbriche e si sono
seppelliti come finanzieri. Una moda diffusa, dal momento che anche l’ultimo
Gianni Agnelli, il re di Torino, aveva dato l’esempio licenziando Ghidella e assumendo Romiti: mostrando cioè a tutto il
mondo che in cima ai suoi pensieri c’era la cassaforte di famiglia.
Così nel Bel Paese abbiamo assistito,
disattenti e attoniti, al suicidio di massa degli imprenditori. L’antico
richiamo finanziario, risalente al Rinascimento, dei Bardi e dei Peruzzi, aveva
colpito ancora come una maledizione. Non tra gli ulivi della piana di Gioia Tauro,
ma nella selva di ciminiere della Metropolis dell’hinterland; quella Sesto San
Giovanni che aveva resistito a Kesselring e ai nazisti e s’è trovata desertificata
(la più estesa superficie di aree dismesse di tutta Europa) dai padroni delle ferriere.
Ci imbattiamo nel libro di Ambrosoli nelle icone della malavita. Vi si legge:
“Il pizzo è una privazione della libertà, il marchio a fuoco che c’è il padrone
sopra di te, che di te fa quello che vuole”: così la pensano in famiglia i De
Masi. E va aggiunto che il pizzo non è una prerogativa esclusiva delle zone
mafiose del Mezzogiorno, ma, inseguendo il business e lo sviluppo, si è
pienamente insediato nelle economie del Nord. E mette i brividi più che far sorridere
leggere della proposta in un’assemblea di imprenditori mirante a pagare il
pizzo collettivo…
Stupisce purtroppo meno leggere che
contro De Masi il sistema bancario si schiera compattamente. E l’imprenditore
coraggioso non trova di meglio che profferire: “Io sono morto che cammina”. Non
poteva mancare in questa terra desolata il ricordo a Libero Grassi, assassinato
nel 1991. E quindi rincuora gli animi l’iniziativa di Addiopizzo, che si rivolge alla società civile. Con un ammonimento
lapidario: “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. È lo
slogan che compare su centinaia di adesivi la mattina del 29 giugno 2004 nel
centro di Palermo.
La libera professione
Liberato Passarelli, 60 anni,
presidente dell’Ordine dei commercialisti di Castrovillari, nel 2009 viene
ucciso nel suo studio a colpi di pistola da un imprenditore che gestiva un
villaggio turistico. In questo caso è stato il normale esercizio della
responsabilità professionale la ragione della morte dell’avvocato. Ancora una
volta il commento è asciutto e va diritto all’animo: “Serafino Famà ha operato
in una Catania dove era in corso una delle più sanguinose campagne di
aggressioni mafiose mai riscontrate: dove la vita umana valeva – per i
criminali – quanto quella di un cane randagio”. Per sintetizzare, è necessario
osservare che il ruolo dei liberi professionisti che si attengono alla
correttezza professionale costituisce inciampo per la malavita e occasione per
portare morte ed assassinio.
È la politica? Non poteva evidentemente
mancare un capitolo dedicato alla politica e ai guasti provocati da una lunga
consuetudine con il potere. È qui che i populismi mediatici alla moda sono
messi spalle al muro. Da chi? Non certamente dai finti censori che conducono troppi
inutili talkshow. Ambrosoli cita la lettera dal carcere di Giacomo Ulivi,
classe 1925, in attesa della esecuzione capitale. Commuove la constatazione che
l’imminenza della morte non impedisca al giovane Ulivi una serie di riflessioni
pacate e prospettiche sul fascismo e sulla sortita dalla dittatura, insieme a
una presa di distanze dalla generalizzazione del disprezzo per quella che già
allora veniva chiamata la “sporcizia” della politica.
Interessante anche la citazione
accostata all’azione di Maria Carmela Lanzetta, del comune di Monasterace:
secondo Sant’Agostino la speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il
coraggio.
La normalità del coraggio
Esiste tuttavia quella che possiamo
definire la normalità del coraggio. Una normalità che non esclude la paura,
anzi la implica, consentendo di evitare la temerarietà.
La riflessione è strappata ad Ardito
Desio, il principe dei geologi italiani e il capo della spedizione al K2. Con
l’avvertenza che cedere alla paura è non voler vivere. Un leitmotiv che torna nel caso di Giuseppe Carini,
“l’amico del prete antimafia”.
Così pure coraggio e determinazione
illustrano la figura di Tina Anselmi, già giovane staffetta partigiana, più
volte ministro democristiano, presidente, nei primi anni 80 della Commissione
parlamentare d’inchiesta sulla attività della Loggia Massonica P2.
Un testo tra i più preziosi in
assoluto tra quelli prodotti dai lavori parlamentari nel dopoguerra. Ed è
proprio Tina Anselmi che pronuncia la frase: “È questo che vorrei raccontare:
la nostra normalità”. E poi le icone di Lech Walesa e della moglie Danuta. Il
ricordo di una trattativa sindacale in cui il leader di Solidarnosc si trovò
solo e isolato dalla base, e tuttavia non desistette, ottenendo alla fine il
consenso e l’abbraccio dei compagni di lavoro.
La moglie Danuta conferma il detto
che “al fianco di un uomo forte c’è una donna ancora più forte”. Mentre Lech
Walesa ne esce con un ritratto di uomo estremamente pratico, che non riesce ad
arrivare alla fine di un libro che ha cominciato, chi si affida soprattutto al
buon senso, come per “aggiustare una lavatrice”.
Insomma il coraggio non è merce
corrente, ma neppure richiede spericolate arrampicate. Importante è che l’uomo
coraggioso non scordi un antico ammonimento di papa Paolo VI, quando tesseva
l’elogio di un uomo che “non ha mai sacrificato per la vita le ragioni della
vita”.
Umberto Ambrosoli
Coraggio
Il Mulino Edizioni, 2015
Pagg.112 € 12,00
***
LIBRI
SILVIA VEGETTI FINZI: L’INTERMITTENZA DEI RICORDI
di Gabriele
Scaramuzza
La mia tentazione al solito è di parlare, più che
del libro in sé, delle mie impressioni di lettura, dei miei percorsi entro il
libro. E dovrò far fatica a scegliere tra il troppo che mi vien da dire, e la
necessità di sfoltire, concentrandomi su qualche parziale prospettiva. Non
leggo, e tanto meno scrivo, per mera informazione culturale o curiosità.
Dev’esserci qualcosa che mi cattura.
Cosa mi ha indotto ad acquistare il libro, da cosa è nata
la mia voglia di leggerlo innanzitutto. Ho letto da qualche parte il titolo, mi
ha subito attratto, in particolare perché associato a un cognome noto e, ancor
più, connotato qual è Finzi. E qui mi ha prima cosa attratto il termine “stella”,
Una bambina senza stella è il titolo,
appunto. Ho subito pensato, dato il cognome dell’autrice, alla stella di
Davide; ma perché “senza”, è stata la prima domanda; ci doveva essere altro nel
contesto. E, in effetti, il titolo allude a una duplice assenza: segnala un
vuoto affettivo oltre che simbolico: la bambina è “senza stella”, leggiamo,
“nel senso che non è stata marchiata, come gli ebrei di altri Paesi, con la
stella giudaica, ma anche nel senso che, coinvolta nelle persecuzioni razziali,
ha dovuto affrontare la sfortuna di un precoce abbandono”.
In seguito mi è capitato di leggere la recensione di Remo
Bodei, e di accennare del libro ad amici: Fulvio Papi, Silvana Borutti, Anna
Ferruta. Qualcosa ho cominciato a capire, un reale interesse mi ha preso. Senza
contare che, a incrementare la voglia di leggere, quel “senza stella”, proprio
nella sua ambivalenza, mi ha rinviato, impropriamente certo, ma non del tutto,
a un autore che amo: Aharon Appelfeld, e in particolare al suo Storia di una vita; ma anche, per
assonanza nel titolo, a Paesaggio con
bambina. Naturalmente mi sono subito accorto che le storie in gioco sono
molto diverse, ma un nucleo di consonanza resiste.
Immerso nella lettura, sono stato catturato dalla storia,
dal suo ritmo narrativo che prende dall’inizio alla fine e crea l’ansia di
sapere “come va a finire”. Quanto alle riflessioni, mi hanno fatto parecchio
pensare, a volte mi hanno creato difficoltà (data anche la mia scarsa
dimestichezza col mondo che Silvia Vegetti Finzi padroneggia magistralmente).
Il libro è infatti costruito come un contrappunto tra due voci (come risulta
chiaramente già dal titolo e dal sottotitolo): “l’una narrativa, l’altra
riflessiva, talora psicoanalitica”. Ho cercato il più possibile di scrostare
gli eventi narrati dal tessuto di mediazioni culturali in cui sono immersi. Di
“liberare” così, in certo senso, il paiolo di rame, Pippo, “Lili Marleen”,
Brill e Guttalin, l’antisemitismo, le giovani coi capelli rapati a zero, “sola
me ne vo per la città”; ma anche i difficili rapporti coi genitori, la
solitudine… Un mondo in gran parte appartenente anche alla mia infanzia, e per
questo tanto più ricco di sapori e di suggestioni per me. Ho tentato di “liberare” tutto questo al
duplice fine di farne emergere il tono sensibile, la tinta emotiva che conserva
per me; e di liberare mie possibilità di ripensarlo, di fantasticarne magari.
E infine una notazione sul tempo del racconto. Il tempo
delle memorie raccontate non è pieno, né lineare: “la sua catena è composta di
segmenti che solo a posteriori vengono connessi nella narrazione e inscritti
nella cornice della storia. L’intermittenza dei ricordi rivela che il nostro
passato è una costruzione, per certi versi arbitraria, mossa dal desiderio di
continuità e di senso che ci abita”. La frammentarietà del racconto non toglie
tuttavia che tutto in esso tenda verso un fine che lo anima, e che è il senso
della storia. Un senso ricco di risonanze non solo in me, e per cui si deve
esser grati a Silvia Vegetti Finzi di averne scritto, e con tanta
partecipazione.
Silvia Vegetti
Finzi
Una bambina senza
stella.
Le risorse
dell’infanzia per superare le difficoltà della vita.
Rizzoli, Milano, 2015 pp. 229, € 18.50
***
POESIA
POESIA
IL NUOVO LIBRO DI CANNILLO
LA BIBLIOTECA FANTASTICA
di Rinaldo Caddeo
Luigi Cannillo con in mano il suo libro |
Come
osserva Sebastiano Aglieco nella Prefazione,
è il tema della perdita ad attraversare tutto il libro di Luigi Cannillo. Il
dolore della perdita, in particolare nella prima sezione, L’ordine della madre. Un dolore che non dà in escandescenze o in
fremiti, né si dichiara troppo apertamente. La sua intonazione ermetica e la
sua cadenza soffocata, sono tenute in sordina, ma diffuse sottotraccia,
determinate e destinate al tempo sospeso dell’esilio, dislocate nello spazio
del vuoto. Un vuoto senza abissi o vertigini, suggerito dalle assenze del
presente ma sobillato dagli spettri della presenza mnestica: la madre,
l’ospite, il padre, un rilkiano-montaliano “tu” fantasmatico-ossessivo o il
baudelairiano incontro clandestino con uno sguardo sconosciuto.
***
Al centro della sezione
centrale (12 segni) del libro, come nota Aglieco, c’è il tema del doppio (gemelli), dove il tu a cui si
rivolge, oltre che alter-ego, è il destinatario di una invocazione-evocazione
(“Cercami”, “Fermami”) che traccia un percorso dei contrari che si dividono e
si riuniscono, ridefinendosi insieme. Ebbene, il doppio si manifesta, oltre che nell’immagine sul muro (ombra,
riflesso), “nel vuoto scavato
nell’aria” (pag.33), nel calco del nostro corpo, lasciato, messo e tolto in
continuazione, al vuoto, anzi, scavato, seppellito/disseppellito, con tutte le
giuste ricadute di senso, di ordine psichico, ma anche morale, politico (la
fratellanza) e storico-mitico (Caino e Abele, Romolo e Remo), collegato e
fomentato dai successivi chiasmi, figure dell’ossimoro permanente e dell’intreccio simultaneo di
repulsione/attrazione, perdita/ritrovamento: “Siamo i lembi separati da sempre/
da sempre ricongiunti”, “incontrandomi ti perdi/ ritrovi il gemello perduto”.
Vuoto stratificato e
istantaneo, lievito di un mondo di sommovimenti nascosti che si sorregge sulle
linee di forza di nitidi, palpitanti, a volte lampeggianti ma volatili confini,
come nelle stampe giapponesi di Hokusai che sul vuoto modulano le forme, gli
ossimori e i colori degli elementi della natura, animali, gesti, azioni: dal
vuoto nascono, si formulano e giungono al culmine nel punto e nel momento in
cui fanno naufragio in esso e in esso sono destinati a dileguarsi. Nebbie,
foschie, penombre, tenebre, corridoi bui, acque acherontee, sogni, istituiscono
repentini fondali e dissolventi scenari ma tali da conferire una risoluzione
particolare alle singole immagini. Forme fluttuanti nella notte, respiri, voci,
preghiere, nastri invisibili, stelle cadenti, frecce, barche, eliche, cerchi
concentrici, specchi, cappi, rocche, muri, nidi, lacci, piume, orologi, lampi,
orme, scie, emersi dai campi elisi della realtà, si imprimono sulla pagina,
apparizioni/sparizioni (asparizioni,
come le definiva Giorgio Caproni) metafisiche, con una pronuncia colloquiale
inconfondibile, dotate di un rilievo visivo evanescente ma preciso. Come in Dialoghi nel sogno, in viali...: «La
casa è scomparsa dietro ai muri/ Unica traccia del commiato/ la scia della
bicicletta sull’asfalto» (pag.56). La
scia della bicicletta sull’asfalto: tipico emblema del ritmo di fuga, del
tenore e della tenuta delle immagini di Galleria
del vento e dei loro objective correlative (perdita, smarrimento, ma
anche focalizzazione, avvistamento, traccia, commiato, saluto, conclusione, congedo).
Luigi Cannillo
Galleria del vento
La Vita Felice ed. Milano, 2014
Pagg. 72 - € 12
Luigi Cannillo, poeta, saggista e traduttore, consulente editoriale,
è nato e vive a Milano. Ha pubblicato, tra le sue raccolte di poesia più recenti,
Cielo Privato, Ed. Joker, 2005; e Galleria del Vento, Ed. La Vita Felice, 2014. È presente, come poeta, curatore o
con interventi critici, in antologie e raccolte di saggi. È redattore della
collana Sguardi dell'Editore “La Vita Felice”. Collabora alla rivista
internazionale “Gradiva”, New York/Firenze.
***
DI ADAMO CALABRESE
Omaggio a Pavese |
***
LIBRI
La realtà non è
come ci appare
Carlo Rovelli è uno scienziato, un fisico teorico, lavora all'Università di Aix - Marsiglia dove dirige il gruppo di ricerca in gravità quantistica. Ho letto questo libro e l’ho trovato interessante, completo e cosa assai preziosa per il tema scientifico complesso, di facile comprensione e accessibile alla maggior parte del pubblico. Si connota come un testo scientifico divulgativo. D'altronde quest'opera si è aggiudicata dei premi. L'autore partendo dall'antichità classica ci porta a scoprire o riscoprire tutti quegli uomini di scienza che hanno fatto progredire l'umanità. La fisica con l'apporto di formidabili pensatori si è sempre più avvicinata a conoscere di che cosa sia costituita la realtà, l'essenza del nostro mondo e dell'Universo, le leggi che regolano e sottendono alla costituzione della materia, dell'energia e di molto altro ancora. Inizia con la dottrina di un illuminato filosofo della civiltà ellenica Democrito di Abdera, il primo che intuì la materia formata da atomi, segue tutta la storia della fisica come in un cielo dove brillano i luminari che hanno segnato significativi balzi in avanti nelle conoscenze umane (debitamente spiegati in maniera semplice). Si giunge così all'età contemporanea (XX e XXI secolo) che vede il pensiero più avanzato della disciplina in oggetto basarsi su due grandi pilastri: la relatività di Einstein e la teoria dei quanti. L'autore si spinge oltre, alle frontiere delle più moderne conoscenze acquisite: l'evaporazione dei buchi neri.
Carlo Rovelli è uno scienziato, un fisico teorico, lavora all'Università di Aix - Marsiglia dove dirige il gruppo di ricerca in gravità quantistica. Ho letto questo libro e l’ho trovato interessante, completo e cosa assai preziosa per il tema scientifico complesso, di facile comprensione e accessibile alla maggior parte del pubblico. Si connota come un testo scientifico divulgativo. D'altronde quest'opera si è aggiudicata dei premi. L'autore partendo dall'antichità classica ci porta a scoprire o riscoprire tutti quegli uomini di scienza che hanno fatto progredire l'umanità. La fisica con l'apporto di formidabili pensatori si è sempre più avvicinata a conoscere di che cosa sia costituita la realtà, l'essenza del nostro mondo e dell'Universo, le leggi che regolano e sottendono alla costituzione della materia, dell'energia e di molto altro ancora. Inizia con la dottrina di un illuminato filosofo della civiltà ellenica Democrito di Abdera, il primo che intuì la materia formata da atomi, segue tutta la storia della fisica come in un cielo dove brillano i luminari che hanno segnato significativi balzi in avanti nelle conoscenze umane (debitamente spiegati in maniera semplice). Si giunge così all'età contemporanea (XX e XXI secolo) che vede il pensiero più avanzato della disciplina in oggetto basarsi su due grandi pilastri: la relatività di Einstein e la teoria dei quanti. L'autore si spinge oltre, alle frontiere delle più moderne conoscenze acquisite: l'evaporazione dei buchi neri.
Il panorama è vasto e completo e ricco di riferimenti, di
citazioni, di fotografie degli emeriti studiosi e di rappresentazioni grafiche
esplicative. A volte sono riportate le più importanti formule matematiche che
ovviamente ai più risulteranno ostiche; ma ciò solo come esemplificazione o
dimostrazione. L'autore termina il suo lavoro con considerazioni che mi trovano
del tutto in accordo. Questa, secondo me, è una conclusione particolarmente
valida e significativa del libro.
Cito dal capitolo finale Il mistero:
“(…) per
imparare qualcosa in più bisogna avere il coraggio di accettare che quello che
pensiamo di sapere... possa essere sbagliato... apertura all'apprendere, a
rimettere in discussione il sapere... perché allo spirito scientifico fanno
sorridere coloro che dicono... di avere un accesso privilegiato alla Verità.”
Da ultimo non posso che sottolineare l'ammirevole attenzione
e precisa puntualizzazione che esiste nel testo tra intuizioni scientifiche e intuizioni
poetiche (valga una per tutte: la rappresentazione tradizionale dell'universo
dantesco). Esiste anche una sottesa critica al sistema universitario italiano e
più in generale la mancanza di istituzioni scientifiche adeguate nel nostro Paese
vista la continua, incessante ed emorragica fuga di cervelli verso i paesi
stranieri: i giovani scienziati italiani emigrano e lavorano all'estero.
Tiziano Rovelli
Carlo Rovelli
La realtà non è come ci appare.
La struttura
elementare delle cose
Raffaello Cortina Ed.
Pagg. 241 € 22,00
***
LIBRI
Green
Autobiography
La natura è un racconto
interiore
di Gabriele Scaramuzza
Non può
spingere a occuparsi di un libro un mero dovere di informazione, di
aggiornamento, di pubblicità, tanto meno di superficiale curiosità. Dev’esser qualcosa che prende, un accordo con
le problematiche di fondo, qualcosa che leggendo si è imparato, in cui ci si è
riconosciuti - e ha dato frutto.
Nella mia presentazione non potrò che procedere per flash centrati
su momenti particolari. La ricchezza e la densità, l’ampiezza di temi e di
problemi del libro mette in guardia da ogni tentativo di esposizione
esauriente. Mi concentrerò solo su ciò che più mi ha coinvolto.
In primo luogo, in questo caso, a catturarmi è stata l’idea di
autobiografia che vi agisce, molto più profonda e propria di quel che
normalmente con questo termine va per la maggiore. Già Duccio
Demetrio aveva scritto un testo dal titolo emblematico, tutto da condividere: Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé
(ed. Cortina, 1995); al cui centro appunto è l’attenzione all’ineliminabile, e
spesso a torto trascurata, componente terapeutica che allo scriver di sé è
essenziale. Ci possono essere molte componenti nelle scriver di sé,
naturalmente, ma quella terapeutica resta fondamentale.
In questo contesto è quanto meno da ricordare anche il numero di
“Adultità” (rivista diretta da Demetrio e ricca di suoi contributi) del 4
ottobre 1996, dedicato a Il metodo
autobiografico.
Un abbaglio irrealistico è intendere per autobiografia un racconto
che parla di una persona astratta da ogni cosa gli sia “esterna”, quasi si
avesse a che fare con un essere del tutto scisso dal mondo circostante e
perduto nei meandri di itinerari solo privati:
“possiamo scrivere di noi -dichiara Demetrio- solamente raccontando
cose, personaggi, viaggi, incontri, peripezie, rapporti con i mondi umani e
naturali, direttamente vissuti e incontrati” (p. 32). Recensendo Su “Il Sole-24
Ore” di domenica 23 agosto 2015, la traduzione italiana di Gli anni di Annie Ernaux, Chiara Pasetti cita dalla scrittrice
francese: "Non si può non parlare degli altri scrivendo di sé". E
sempre di rapporti con un “altro”, di qualsiasi natura, si parla anche se ci si
propone di dire strettamente di sé.
In realtà -non è così banale ricordarlo- l’io o, meglio, gli io
che di volta in volta sono protagonisti delle nostre narrazioni autobiografiche,
sono centri di relazioni, con gli altri e con le cose. Un’autobiografia non può
che parlare dei rapporti di un io e un “altro” che incontra nella vita:
persone, cose, eventi naturali e storici…. Soggetto e oggetto, interno ed
esterno sono indistricabilmente connessi, sono meno separati di quanto una
cattiva astrazione lasci credere.
Anche per questo il fastidio (un tempo di moda) per tutto quanto è
autobiografico, soggettivo, lo ritengo superficiale; non tiene conto che la soggettività
è sempre coinvolta, a livelli diversi, anche in scritti apparentemente
“oggettivi”. L’altro è presente, sia pur al negativo, anche nelle solitudini
estreme, anche laddove in gioco è ciò cui si dà il nome di interiorità. Mi ha
sempre affascinato il tema dell’interiorità, e dell’interiorità maschile così
come ne hanno scritto Kafka nella Lettera
al padre, Carla Ravaioli in Maschio
per obbligo e, da ultimo, soprattutto Duccio Demetrio in uno dei suoi libri
più affascinanti e innovativi (L’interiorità
maschile. Le solitudini degli uomini - edito da Cortina nel 2010). Qui
assai pertinente è la distinzione tra “maschio” e “uomo”; parafrasando Simon De
Beauvoir si può senz’altro sostenere che “maschi non si è ma si diventa”.
Ha ragione Andrea Emo, che opportunamente Demetrio riporta a p.
51: “uno scrittore è tanto più grande e tanto più interessante, quanto maggiore
è il suo coraggio di confessare quello che egli è veramente […] la maggior
parte delle persone parla e scrive per nascondersi […]. Solo chi è sincero, chi
ha il coraggio di manifestare quello che egli è può sperare che altri si
riconoscano in lui”.
Centrale più di quanto non si pensi è l’incontro con la natura,
tema privilegiato di un racconto interiore, in cui essa appare filtrata dalla
soggettività di chi nell’incontro con essa le conferisce un senso. Se penso ai
miei conati autobiografici non ho difficoltà a riconoscere che la natura vi ha
un posto preminente, è uno dei centri della riflessione su di sé, realtà che
irresistibilmente attrae ed è coinvolta.
Particolarmente opportuna e appropriata è dunque la ricerca che
sul tema ha condotto Duccio Demetrio; e non solo per la splendida scrittura,
essa stessa compenetrata di sapori naturali, e molto stimolante. Ma anche, non
ultimo, per la profondità e varietà di punti di vista che mette in gioco. Nei
quali viene spontaneo riconoscersi.
Non tacerò che tra i motivi attrazione del libro c’è anche la scelta
dei passi posti ad esergo dei vari capitoli, alcuni dei quali appartengono a un
mio personale repertorio. Un brano di Paul Valéry esprime benissimo il
necessario coinvolgimento della soggettività: “Ritengo sia più utile raccontare
quanto si è provato, invece che simulare una conoscenza indipendente da
qualsiasi individuo e un’osservazione priva di osservatore” (p. 19). Mi ha
coinvolto la ripresa a p. 98 di una poesia - Sensation - di Rimbaud che mi sono ricopiato fin dai miei primi
anni di studio. Per non dire del senso di partecipazione, che mi ha provocato
la citazione e il commento di tre poesie di Antonia Pozzi (alle pp. 70-71).
Il tema del silenzio mi ha decisamente coinvolto:
significativamente Duccio Demetrio dirige anche l’Accademia del Silenzio; nella
collana "Accademia del silenzio" (edita da Mimesis) vorrei citare
quanto meno il saggio di Stefano Raimondi (Portatori
di silenzio). Per altro verso è da tener presente, sul tema del silenzio
nella poesia di Antonia Pozzi (ben presente a Duccio Demetrio), il saggio di
Tiziana Altea: Antonia Pozzi. La polifonia del silenzio (Cuem,
Milano 2010). Ma naturalmente non vanno taciuti gli scritti di Duccio Demetrio
stesso: I sensi del silenzio. Quando la
scrittura si fa dimora (Mimesis 2012), e Silenzio, edito a Padova lo scorso anno.
Demetrio cita anche passi assai coinvolgenti quali: “Ora il
silenzio è tornato da me e io lo porto con me, continuamente” (p. 227), scrive
Etty Hillesum, associandolo al tema della natura, la cui modalità di presenza,
il modo di viverla dentro di sé, è proprio il silenzio. E Pasolini: “Un
silenzio meraviglioso è intorno a me […]. Piove. Il rumore della pioggia si
mescola con delle voci lontane, fitte, incalcolabili” (p. 247).
Nella poesia, nelle memorie, nei ricordi, il silenzio assume un
ruolo imprescindibile: non solo come pausa tra le parole, o come sfondo da cui
se ne staccano, ma come humus di cui vivono e cui sempre devono ritornare. Il
silenzio segnala il non esaurirsi delle cose nelle parole. Le parole non coprono
le cose, resta sempre un margine di non detto, di altrimenti dicibile magari,
coi mezzi che altre arti mettono a disposizione; ma soprattutto di propriamente
indicibile. E questo non è un residuo inerte, si fa anzi propulsivo, è energia
che spinge a cercar sempre nuove parole, incentivo a dire con altri mezzi.
Il silenzio delle cose è propulsore di diverse modalità di dirle;
che siano molteplici, e differenti, segnala l’impossibilità di ognuna di esse
di esaurire in sé le cose, e il contributo di ognuna al dirle. La natura si
esprime, e con quanto splendore, nel mondo delle arti visive, della pittura
soprattutto. Ma anche in misura tutt’altro che trascurabile nella musica: gli
esempi sono innumerevoli: da molti luoghi della Pasorale, al temporale in Rigoletto,
al fuoco del Trovatore, al mare in Simon Boccanegra, alle onde del Reno e
al fuoco della Tetralogia e in
particolare Waldweben espresso con
tanta suggestione in Siegfried, fino
a Das Lied von der Erde di Mahler, a
tanto Debussy, ai paesaggi invernali di Castiglioni... Gli esempi si potrebbero
moltiplicare all’infinito.
Nella green autobiography
il silenzio segnala una, e non la meno significativa, modalità di presenza
della natura nel parlare di sé, quella in cui gli io che scrivono lasciano la
più palpabile traccia di se stessi.
Duccio
Demetrio
Green Autobiography
Booksalad 2015
Pagg. 352 € 15,00
***
ORDINE
E TRASGRESSIONE
Il
nuovo libro di Fausta Squatriti
di
Luigi Cannillo
Fausta Squatriti |
L'ultimo
romanzo di Fausta Squatriti presenta una sorta di deformazione, di
storpiatura, già dal titolo: “La cana” è il modo in
cui il protagonista, il tedesco Siegfried, chiama l'amata e devota
Lili, la cagna che gli è vicina da quando ha deciso di trasferirsi
in Italia, nel tentativo di ricostruirsi una vita dopo le esperienze
devastanti dell'educazione nel periodo nazista, della guerra, della
diserzione e del dopoguerra. A ben vedere tutto il romanzo -anche la
sua struttura- consiste in una serie di personaggi e situazioni
borderline, eventi devianti dalla norma di uno sviluppo
lineare e consueto. E proprio per questo materia di avvincente
narrazione.
Siegfried
(tutt'altro che simile all'eroe tragico di cui porta il nome) decide
di ritornare in Italia, nello stesso territorio che lo ha visto
combattente e sconfitto e di acquistare una villetta malandata ai
confini del bosco. La grande Storia e la storia del protagonista si
intrecciano: le vicende personali sono strettamente legate e
dipendenti dagli eventi storici, ma,a loro volta contribuiscono a far
interpretare gli avvenimenti storici stessi da un'angolatura
particolare. Così l'educazione nazista e la giovinezza rubata
producono anche nei decenni successivi alla caduta del regime un
atteggiamento rancoroso nei confronti dei genitori e del paese
d'origine e la reiterazione di comportamenti che manifestano ancora
aspetti violenti, maniacali e anaffetivi.
Questi ultimi riguardano in particolar modo la vita sentimentale e
le donne, vecchie amiche e amanti, esse stesse vittime di vite
insoddisfacenti o scialbe, figure comunque provate da una esistenza
tutt'altro che eroica. I tentativi di riscatto affettivo del
protagonista, comunque destinati al fallimento, offrono però
occasione, più che per pause di sentimentalismo, per significativi
episodi di erotismo livido e talvolta violento.
La
presenza dell'io narrante dell'autrice è puntuale, con
sottolineature e commenti che esulano dalla pura descrizione degli
avvenimenti ma che piuttosto tendono a prendere le distanze dagli
stessi, come nel racconto della vita famigliare del giovane
Siegfried, negli incontri con le amanti in visita o nelle descrizioni
degli edifici e degli arredi: si tratta di notazioni specifiche di
tipo anche artistico ed estetico, digressioni che aggiungono alla
nuda descrizione o esposizione dei fatti coloriture e spunti critici
disincantati. Il romanzo alterna ai momenti più crudi frequenti
riferimenti alla cultura, all'arte e alla musica che pongono in primo
piano la bellezza e il gusto insieme alle conoscenze, alle velleità
filosofiche e alla spiccata sensibilità artistica del protagonista
ex bibliotecario. Gli stessi luoghi, i paesaggi, sottolineano una
bellezza eterna eppure perduta, che si cerca di ricreare anche
attraverso l'ordine che l'uomo cerca di imporre sugli elementi
spontanei. Questo atteggiamento convive con una forma di
contemplazione e di godimento solitario che ben si intreccia ai
motivi colti dalla cultura romantica tedesca in pittura e in musica,
con le citazioni di opere di C. D. Friedrich e Beethoven.
“La
cana” è un romanzo appassionante e inconsueto nella tematica e nel
tono mai complice dell'autrice con i personaggi, nel lasciare al
lettore la libertà di un giudizio etico ma non moralistico. L'uso
del tempo presente aggiunge pregnanza agli avvenimenti ma anche
distanza e straniamento. Sempre al presente vengono inseriti
efficacemente i flashback, in un alternanza fluida e conseguente tra
eventi che si svolgono su un piano di contemporaneità o nel passato.
L'attività e l'esperienza di artista visiva di Fausta Squatriti
sembra poi dirigere lo sguardo della narrazione con particolare
sicurezza e attenzione nell'uso di riferimenti culturali ed estetici
oltre che nella descrizione dei luoghi e degli ambienti.
Contribuiscono al fascino del romanzo le fotografie e i disegni posti
alla fine del libro.
La copertina del libro |
Tematica
carsica del libro è quella del rapporto tra ordine e trasgressione,
tra valori tramandati e disagio nell'interiorizzarli e mantenerli, a
partire dalla figura del padre del protagonista per arrivare
all'ossessione numerica del conteggio di Siegfried, al suo tentativo
di ricreare un nuovo ordine esistenziale, nel quale addomesticare e
controllare, oltre alla vita e gli istinti della cagna, anche gli
amici, le donne, la natura. Il tutto in opposizione alla coesistenza
del proprio impulso verso sprazzi di libertà e trasandatezza agiti
però ancora con intemperanza: il bere, il disordine della casa, la
tracotanza, la sopraffazione. “Nessuno è padrone di se stesso”,
spiega Siegfried a una delle proprie amanti”. Una dichiarazione che
getta un'ombra inquietante non solo sulla contingenza dei personaggi
creati, ma, data la loro
collocazione storica, proprio sulle radici antropologiche e culturali
che hanno creato i momenti più tragici della storia del secolo
scorso.
Fausta Squatriti
La
cana
Puntoacapo
Edizioni 2015
Pagg.190 € 18,00IL POTERE SALVIFICO DELLA PAROLA
di Angelo Gaccione
È certo che chi ha iniziato per primo a raccontare
storie, storie sapienziali, storie con finalità morali e di ammaestramento,
rispetto alla vita e ai suoi risvolti, ignorava le tecniche e gli studi di cui
si oggi serve Costanza Savini, per confezionare il suo libro dal titolo: “Sette storie per l’anima” (sottotitolo: parole come rimedi). Tuttavia, quegli
antichi e lontani narratori, sapevano bene come la “materia”, e soprattutto il
“modo”, (tono, mimica, espressione, pause, silenzi, e così via), possedessero
anche uno straordinario potere di guarigione dell’anima; fossero un efficace
medicamento dello spirito. Da questo punto di vista, quando la psicanalisi
compare all’orizzonte in Occidente, non ha nulla da insegnare. Era stata
preceduta dai narratori antichi di ogni tempo e luogo. Quanto l’Oriente fosse
ricco di quella saggezza, è oggi a tutti noto. Era stato così perché quegli
uomini non si erano assolutamente separati (oggi diremmo scissi) dalla Natura di cui si sentivano parte integrante; dal
Cosmo da cui ogni aspetto della loro vita era regolato. C’è un albero sulla
copertina del libro di Savini, un albero che termina al suo vertice con la
corolla di un girasole, ma potrebbe anche simboleggiare un sole. Ho sempre
pensato, a proposito della fusione uomo-natura, che la verticalità dell’uomo è
simile alla verticalità dell’albero. Che i suoi piedi sono le radici, le sue
braccia i rami, il suo busto il tronco, le sue orecchie le foglie e la sua
testa la chioma. Se l’albero è uno dei simboli più forti della vita e della sua
rigenerazione, se è l’elemento che più ci accomuna, ha fatto bene l’autrice a
volere questo albero così particolare in copertina. Ma è la natura nel suo
complesso che in questo libro vibra. I sette racconti, o storie, come le definisce la sua autrice, sono appunto storie di
cura, hanno una funzione lenitiva, perché invitano a guardare nel profondo di
se stessi, a cercare le ragioni del nostro disagio nel mondo, del male che ci
attanaglia come uomini di questo tempo, sempre più soli e smarriti. Le favole
(alcune sono davvero delle favole), si dispiegano per un’intera settimana, e
sono tutte precedute da una serie di riflessioni che vanno dalla postura al
sentire, dall’energia della parola all’importanza del silenzio e così via. Sono
stilisticamente ben scritte, spesso intrise di poesia e senza dimenticare
mistica e scienza. Il dialogo Oriente-Occidente è molto presente e credo che
ogni lettore possa trovare, in queste pagine, qualcosa di aderente al proprio
personale sentire.
Costanza Savini
Sette storie per
l’anima
Il Ciliegio Edizioni – 2014
Pagg. 144 € 14,00
***
LAURA MARGHERITA VOLANTE
LÀ IN FONDO
Un
racconto di Lisa Albertini
Il
gregge se ne andava disperso, per le terre dell’Anatolia color fieno. A sfondo,
i profili delle balze di terreno senz’alberi. Decine di pecore chiare e
ricciolute, governava il pastore. Veniva da Ankara e si spostava verso un
paese, prima di Konya. Giorni di strada e notti sotto a ripari di fortuna.
Erhan non avrebbe abbandonato quella terra per nulla al mondo. Sin da piccino
vi camminava, e mai, senza scopo. Le sue pecore le chiamava Oria, Kurè, Pama, Ochia,
Tema, Lor, Meli e in tanti altri modi. Ognuna la conosceva per nome e se ne
vantava. “Agli altri sembrano tutte uguali, ” diceva, “ma invece sono come noi:
ciascuna mi guarda a suo modo e mi segue come vuole.”
Erhan
in città aveva casa sua, degli amici e pure un lavoro impiegatizio, per alcuni
mesi l’anno. D’inverno era sempre andato a scuola, anche da grande. L’estate
invece tornava al gregge, con orgoglio.
Una
sera, quando la stagione era già troppo fredda per andare ai pascoli, si trovò
al bar con l’amico Berrin. Erano giorni di lavoro, il traffico intenso, le
strade che pullulavano di gente, tra il mercato e le varie attività cittadine. Loro
due avevano condiviso studi e amicizie negli anni passati, e ancora, ogni tanto,
si ritrovavano. Dall’ultima volta erano trascorsi almeno tre mesi. Berrin, che da
poco più di un anno svolgeva un impiego al Consolato, guardava l’altro
esprimendosi vivacemente, gesticolando, rimanendo seduto a fatica, al tavolino
di legno vecchio da trattoria.
“Tu,
Erhan, ti senti bene con le tue pecore, ma io, In un mondo dove ogni cosa non
ha più un senso compiuto, dove è vero tutto e il contrario di tutto, dove la
logica che ha guidato per decenni l’azione di molti uomini si è spezzata, come
faccio, da misero mortale, a trovare un’identità?” Berrin parlava a Erhan con
aria insofferente, quasi annaspando nell’aria insufficiente che aveva intorno.
“Come faccio, dimmi! Mi piacerebbe vivere sostenendo una tesi, o ‘vivere per’
sostenere una tesi. Ma ogni tesi adesso viene sconfessata, ogni correzione di
tesi contestata. Nulla, si salva. Già ho
tentato di espormi, per qualche tempo. Ho trent’anni, alla fine. Ma sto solo ricevendo delusioni; ancora di più: dissacrazione di
ogni idea, oserei dire. E
allora che cosa faccio? Continuo a pensare e a provare ancora, per tutta la
vita? O divento uno di quelli che si adeguano a tutto, come in un branco? Così,
divento? Ma quella non è un’identità, permettimi, quella è dissoluzione
dell’Io!”
Erhan
ascoltava seriamente, ora. Avevano iniziato per scherzo, e tuttavia il discorso
si stava facendo serio. Guardò Berrin con un’occhiata intensa ma sfuggente,
quasi non volesse entrare nel vivo dell’argomento.
“Dissoluzione”riprese
Berrin, “e nient’altro. Bella roba, per uno di trent’anni. Magnifica!”
“Già,
e senza alternative.” Rispose asciutto Erhan. “Come fossimo uomini privi di
meta.”
“E
se poi ti dicessi che sono solo, in tutto questo? Se ti confessassi che nessuno
mi può capire?”
Erhan
ascoltava, e ancora ascoltava. Gli sembrava che Berrin non avrebbe smesso. Era
tuttavia disposto a prestargli attenzione all’infinito. Quella sera le parole
scorrevano via dalla bocca di Berrin come l’acqua continua da una fontana di
strada. Mentre, poco prima di uscire, gli suonavano dentro come una serenata
nelle notti d’estate. Ed era pur strano, tutto ciò.
“Tu
dirai che mi lamento come un ragazzino, lo so. Che parlo da immaturo. Invece il
gioco di questi eventi si moltiplica in me, come la tua immagine quando visiti
una galleria di specchi. Gli effetti presenti e futuri di quanto sta accadendo
mi crescono dentro come erba marcia, sfalsando il clima del mio animo
‘inesorabilmente’. Significa che temo di non riuscire a ritornare com’ero una
volta, anche se le cose dovessero cambiare in meglio.”
“Esageri,
ora, Berrin!” Esclamò forte Erhan, silenzioso sino allora. “Ciò che hai dentro,
mica se ne va! Magari è depositato in fondo, ma rimane. E prima o poi, guarda,
trova lo spazio e si fa sentire.”
“Sei
un illuso!” Disse l’altro subito, di rimando. “Le tue pecore ti danno troppa
tranquillità.”
“Ma
no, te lo assicuro. Ciò che hai in fondo all’animo, è come qualcosa che ti
urge, dentro, e non ti abbandona. Che devi dire a tutti i costi, per esempio. E
non potrà mai essere soffocato.
Berrin
rimase senza parole.
Nemmeno
Erhan, tuttavia, riuscì a proseguire. Qualcosa gli aveva interrotto il
pensiero, bruscamente. Era stato letteralmente assalito da un’immagine vivida:
il suo gregge sulla terra color fieno, sparso a macchia d’olio in un movimento
lento e modellato, con passo continuo. Si spostava diretto, senza sbandamenti.
Unito, si potrebbe dire. Si recava verso
il segno d’infinito che divideva terra e cielo laggiù in fondo. E lui dietro,
davanti, di fianco, a guidarlo con cura. Con zelo e convinzione: un’idea da
sostenere, divisa tra un centinaio di teste lanuginose, che aiutava a non
sbandare, a proseguire vicine. Verso il cielo notturno pieno di stelle e l’alba
dalle sfumature lilla, fresca e umida di rugiada, verso il sole a picco nell’aroma
arso di fieno, verso l’acqua di mare che lambiva, calma, la graniglia sabbiosa,
verso il paese e la tosatura, per farne maglie calde per i bimbi e gli uomini,
verso. . .
Erhan,
gli occhi socchiusi per qualche istante, tornò a guardare l’amico.
“Non
ti abbattere Berrin, il futuro è dentro di noi, là in fondo.”
“Il
futuro. . .” disse Berrin.
***
Laura Margherita Volante |
Una toccante poesia inedita di Laura Margherita Volante
MAMMA
non sei vissuta invano
dal momento che vibra
in ogni mia cellula di ricordi
la foto a ventosa sulla mia anima
nell’anelito perduto nella tua carne
della mia carne sperduta
fra le piaghe del vento.
***
L'ARIA TIRA...
*Semplicità classe ed
eleganza: una meraviglia fatta stupore.
*L'eccentricità a tutti i
costi è come lo shock anafillatico al contrario...
*Il mondo che dorme si
distrae da me perdendo un'occasione...
*I sogni sono
temporeggiatori
*Chi medita ha coraggio...
*I matti danno il meglio
di sé...
*Oggi vanno le pale non le
palle per giocare sugli spazi verdi.
*Oggi va la rotonda non
l'asso di cuore che centra il problema...
*Il cubo a Venezia. Una
lesione da decubito.
*Gli appuntamenti che non
mancano mai sono quelli che ti dà la vita...
*Chi ha toccato il fondo
dell'amore e del dolore se la cava sempre...
*La maldicenza apre le
porte dell'inferno.
*Chi è povero di spirito
si nutre di maldicenze.
*Oggi non si costruiscono
i rapporti umani perché il tempo, che non c'è,
serve per rincorrere il denaro
dimenticando a cosa potrebbe essere di utile.
*I gesti dell'avaro sono
come gli starnuti mancati al profumo di campo concimato.
*Senza democrazia l'Arte è
irrelata.
*La magrezza piace a chi
ha il cervello ristretto.
*Emancipazione...Ieri si
annusava la coccoina. Oggi si sniffa la cocaina.
*Le discoteche non vanno
chiuse ma aperte accanto ai cimiteri...
*Ieri si fischiava dalla
contentezza. Oggi si fischia per disperazione.
*Chi si lamenta sempre il
danno è continuo o l'ha già fatto...
*I Grandi ci sorprendono
in anticipo e sono incompresi.
*Nei Grandi si trova
comprensione ai nostri mali...
*Gli adulti devono
apprendere il linguaggio dei bambini
e non i bambini quello viziato degli
adulti.
*Assuefazione. L'amore è
una medicina e come tale ogni tanto bisogna interrompere la cura.
*La solitudine trascorre i
giorni di festa in convalescenza...
*Ti cancello...La
tecnologia esasperata ha spezzato il filo conduttore dei valori umani.
*Ieri si poteva assistere
a qualcosa di singolare. Oggi singolare è l'uso del quotidiano vivere...
*Il vento mi riporta all'espansione
dell'universo...
Laura Margherita
Volante
***
di Gigi Tasso
Un racconto sulla barbarie della guerra
“Perché
vedi, Gigi, le tasse non si devono pagare…”
Interessante
incipit -penso io- Tipico, stimolante incipit “à la Vince”. Di che cosa mi
parlerà questa volta? Lo guardo. I suoi occhi vagano lontano …
Arrivati
in hotel da chissà dove, sbronzi per il viaggio, non ne potevamo più di aerei, di
taxi, di caldo e di cattiva aria condizionata. “Dai, usciamo per una
passeggiata” mi ha proposto Vince.
Eccoci
dunque qui. Stanchi, in un torrido, bagnato, opprimente pomeriggio di luglio. I
colori come grigi sbavati, Milano, letteralmente, suda. Il marciapiede fuma. I
tombini fumano. Il traffico d’auto appare ai nostri occhi loffio, stracco, sfumato.
Anche
le nostre teste vaporano. La mente galleggia, a brandelli, e mette insieme
isole di memoria che affiorano e sfumano un po’ alla volta, lentamente, come
onde sul bagnasciuga.
“Ecco,
era una giornata come questa” ricomincia pensoso Vince. Parla lentamente. Si
interrompe. Aspetta che una nuova ondata porti il ricordo giusto.
“Vedi:
la gente crede che in un campo di battaglia le cose siano chiare: noi di qua,
il nemico dall’altra parte. Noi spariamo di là, loro sparano di qua. Poi
qualcosa succede, e avanziamo noi se abbiamo vinto noi, o torniamo indietro se
hanno vinto loro.
Niente
è più sbagliato: un campo di battaglia è una grande confusione.”
Qualche
passo in silenzio, a fianco di grandi palazzoni. Un’auto ci sfiora, ma è solo
un bagliore, un riflesso appiccicoso. Poi, “Tutti sparano contro tutti. C’è la
gran polvere sollevata dagli elicotteri e dalle bombe, c’è il fumo nero delle
sterpaglie in fiamme, c’è l’odore acre del bruciato, c’è il rumore assordante
dei mezzi, degli spari, degli scoppi. Tu ti muovi, e gli altri si muovono. Sei
lì, ma non sei lì: l’orientamento non esiste più. Se intravedi una figura
emergere dalla nebbia, non distingui se è amico o nemico finché non sei che a
pochi passi. E a quel punto che fai? Speri solo di essere tu più bravo a
sparare, se devi farlo. E puoi usare solo il revolver… ma è così impreciso! O
la baionetta, ma quella è macelleria. Il fucile è solo di peso -riflette Vince-
e hai una gran paura addosso! Che è ancora più pericolosa!”
Un
giardinetto pretenzioso, figlio di un bizzarro boom economico, spunta nella
bruma con i suoi alberelli spiluccati. Ci distrae, e lo attraversiamo senza
parlare.
“Ci
avevano sbarcati da tre elicotteri nel campo di riso. Noi e i tank. Sapevamo
che i giap si nascondevano nei filari al confine. “Sloggiateli” era l’ordine.
E noi
allora avanzavamo. Nel fumo, nel caos, nella nebbia. Io, dal tank, cercavo di
tenere la pattuglia compatta, che non ci sparassimo l’un l’altro. La mia prima
preoccupazione era quella di riportare indietro i miei uomini sani e salvi.
Madri, e spose, mi avevano affidato la vita dei loro giovani.”
Milano è
acquosa di calura, il pomeriggio vapora di indifferenza attorno a noi. Grigio,
in un oceano di luminescente grigio.
“C’era
proprio questo tempo qui, che fai fatica a pensare, che i riflessi sono lenti,
che i vestiti ti si appiccicano addosso, che il sudore ti acceca sotto
l’elmetto, che le mani scivolano nei guanti.”
Un
cenno di affanno.
“Io non
me ne sono accorto, sai. La granata è scoppiata a pochi metri e mi ha buttato
giù dal tank. Per non so quanto tempo, non ho più né visto né sentito niente, e
quando mi sono svegliato avevo proprio male dappertutto. Tanto male. Soprattutto
alla spalla e al costato. E al braccio poi… Avevo tutto rotto… Ma la nebbia si
era nel frattempo diradata: la battaglia era finita e si riusciva a vedere
attorno. Gruppetti di soldati giravano per il campo. Succede dopo ogni
battaglia: si cercano altri compagni, ma soprattutto si fa bottino di quel che
si trova. Soprattutto sui corpi dei morti.
Qualcuno
anche spara ai corpi distesi. Morti o non morti. Un gioco cretino di tiro a
segno... Crudeltà? Stupidità? Vigliaccheria? Non lo so. Di sicuro la guerra è
una brutta, brutta cosa”.
Ci
fermiamo un attimo a riflettere. Poi, l’onda dei ricordi riprende.
“È così
che mi accorgo che due giap stan venendo verso di me. Steso per terra, pancia
in giù, decido di dar loro un’esca: sporgo il polso con l’orologio di valore,
perché me lo rubino e non mi facciano altro. Mi fingo morto. Ma con l’altra
mano, nascosto sotto il costato, tengo pronto il revolver col colpo in canna. Sono
pronto a sparare, se capisco che hanno brutte intenzioni. Non sopravvivrei a
uno scontro a fuoco, ma di sicuro ne ammazzerei almeno uno, maledetti giap!
Per
fortuna, mi accorgo che non hanno armi alla mano: sono due ragazzini che
bighellonano, parlano e ridono tra loro.”
“La mia
esca funziona. Uno di loro si accorge del mio orologio, ma per portarmelo via -maledetto
lui usa il coltello. Mi taglia il cinghino e poi, per gioco -lui pensa che io
sia morto, maledetto lui- per gioco -lo
ripeto- me lo ficca nella mano, poi nel polso, nell’avambraccio, e poi ancora
nel polso, nella mano, e così ancora, più e più volte, come se fossi un bollito
da controllarne la cottura”. Fa il segno con le due dita che si piantano
nell’arto, ripetutamente, per fare male, per ricordare il dolore.
“Maledetto
lui e tutta la sua famiglia! Mutilato, sanguinante, cerco di rimanere immobile,
di resistere al dolore, alla paura … ma sono troppo forti, insopportabili, e
svengo di nuovo”.
Il
ricordo fa male. Vince lo rivive come se accadesse di nuovo in questo momento:
sceglie le parole lentamente, con accuratezza, con pienezza. Ogni parola, una
ferita. Il suo viso è terreo: il caldo bagnato di Milano, il suo traffico caotico
e stupidamente rumoroso si sovrappongono al campo di riso, al frastuono dei
mezzi e delle armi, i vestiti madidi di sudore, la mano orribilmente torturata,
il dolore, la paura.
“Sai
Gigi, di queste cose ho parlato pochissime volte nella mia vita… con pochissime
persone… C’era questo tempo qui, quel
giorno…”
“Dai,
rientriamo in hotel adesso!”
Solo
dopo aver attraversato la strada per tornare sui nostri passi Vince riassume: “Bastards!”
Riprendiamo
la nostra camminata.
“Di
quel che è successo in seguito ricordo abbastanza poco. Il recupero dal campo di
battaglia con l’elicottero di soccorso, il dolore continuo e l’intontimento
degli analgesici, il breve soggiorno all’ospedale di campo, e il rapido rientro
negli Stati Uniti. Ho passato un anno in ospedale. Lì mi hanno ricostruito
tutto il braccio e la mano. Lì ho rimparato ad usarli.”
Risaliamo
una scalinata fradicia d’umidità. Una signora corpulenta, sudata, emerge
dall’oceano di grigio che ci circonda. Porta soffiando una pesante sporta. Si
suda molto. Si fa fatica. Ci fermiamo un attimo.
“E la
sai una cosa? Dopo un po’, lo zio Sam mi ha mandato a casa il conto di buona
parte delle cure ospedaliere …
Vedi
Gigi perché le tasse non si devono pagare: con quei soldi gli stati fanno le
guerre, ti ci mandano, vai in missione, ma se ne torni ferito, mutilato, storpio,
alle cure mediche devi pensarci tu…”.
Ripartiamo
verso l’albergo con calma, passo dopo passo, in silenzio. In fondo, penso, siamo
tutti solo piccoli miserabili puntini nell’universo della storia. Il tramonto
sta colorando con uno strano bagliore arancione la cappa di vapore che inonda
la città. Sono sprazzi. I riflessi di un campo di battaglia.
PS.
Ingrid,
la moglie di Vince, ha scritto queste parole nel novembre 2011, in occasione di
una importante ricorrenza di reduci: “ Vince ha dato cinque anni della sua vita
all’Esercito Americano, di cui uno al fronte, vivendo in una tenda con
temperature spesso sotto zero, il suo elmetto come scodella, e l’artiglieria in
sottofondo come notturno musicale. Ha ricevuto una Stella d’Argento, due Stelle
di Bronzo (una dalle mani dello stesso Colonnello Stilwell) e due Cuori di
Porpora (uno per l’episodio qui narrato e per cui ha rischiato di perdere un
braccio). Ha passato un anno intero all’Ospedale Murphy dell’Esercito dove
l’hanno rimesso insieme. Non parla mai della guerra: ha fatto il suo dovere:
era stato richiamato. La guerra fu la guerra di Corea: la guerra dimenticata (e
com’è stato possibile, con più di mezzo milione di giovani uccisi solo dal lato
americano!). Vince dice che i veri eroi sono morti… e se una volta gli succede
qualcosa di brutto commenta sempre “Ne ho viste di peggiori!”
L'AFORISMA
“Nella gioia siamo
diversi, ma nel dolore siamo tutti uguali”.
Giovanni Bonomo
***
IL NUOVO LIBRO DI CARLO SINI SU ENZO PACI
di Sabrina Peron
Carlo Sini |
L’incontro
di Sini con Paci avvenne nel 1957, quando quest’ultimo venne chiamato
all’Università degli Studi di Milano, per la cattedra di filosofia teoretica
(Sini era allora un giovane laureando).
In
questo periodo Paci aveva iniziato a maturare un ritorno alla fenomenologia
dopo l’esistenzialismo (o, meglio, un ritorno
a Husserl dopo Heidegger), che sarà una delle avventure più grandi e
feconde del suo cammino. Avventura che prende le mosse dagli studi di Paci su
Vico (nel 1949 Paci pubblica Ingens sylva.
Saggio sulla filosofia di G.B. Vico, “forse il più bel libro di Paci”), il
cui pensiero viene interpretato come un’anticipazione della “scienza del mondo della vita” di
Husserl, inteso come qualcosa che sta prima
di ogni “scienza della natura o dell’uomo, qualcosa di radicalmente vitale
attivo nella concreta esistenza di ogni essere umano in quanto in cammino verso
la ricerca del senso del vivere e del sapere”. Vivere, dunque, che
semplicemente significa “esperire come
ognuno di noi vive il mondo nelle modalità delle percezioni, perché ognuno di
noi è psiche e corpo proprio”.
Nel
frattempo in Italia esplode la società consumistica, nasce l’università di
massa e l’aula 111 della Statale si riempie di un pubblico variegato: non solo
studenti, ma anche artisti, architetti, medici, psichiatri, psicologi,
sociologi, avvocati e letterati. La fenomenologia diventa “di moda” e si tengono letture comuni e incontri su Husserl. In
quest’universo -frenetico ed in perenne ebollizione- si muove Paci, incarnando
la nuova figura di intellettuale e di filosofo, con le sue lezioni in Statale
che rappresentavano una sorta di centro propulsore: “brandiva la sua matita rossa e blu, con la quale sottolineava tutti i
libri, e si muoveva con decisione tra i vari testi e volumi con i quali aveva
ricoperto la cattedra (…). Ad un certo punto ecco che scattava il fatale
riferimento. Poteva essere a una immagine della Recherche, a un personaggio di
Thomas Mann, a una espressione dell’Ulisse, a un’opera o una poesia di Goethe, e
la lezione prendeva il volo esplodendo in un fuoco d’artificio di
improvvisazioni, di invenzioni, di divagazioni meravigliose e irripetibili”.
Ma
il successo pubblico della fenomenologia e, soprattutto, della sua rinascita
alimentata dal lavoro di Paci e della sua scuola, non ebbe vita facile e
suscitò opposizioni tenaci e critiche anche feroci. Così la fenomenologia venne
bollata come “un vecchio realismo
scolastico, un idealismo pre-gentiliano, un empirismo psicologistico ingenuo,
un dubbio e astratto razionalismo, un palese irrazionalismo”.
Ma
Paci non si ferma alla critica e va oltre, il suo itinerario di studi, ricerche
e pensiero, prosegue approfondendo la relazione fenomenologia-marxismo; e se -come scrive Marx- le merci “sono cristalli di lavoro umano, cristalli di
sostanza sociale”, Paci osserva come questa cristallizzazione ignori gli individui
concreti rendendo impossibile una società concreta: “le categorie astratte della
scienza economica, il cattivo uso di tale scienza fanno sì che il valore del
lavoro sia nascosto dalla merce. Per questa ragione è molto difficile
analizzare la merce”.
Questo
nuovo itinerario, che coincide anche con l’esplosione del ’68, lo si ritrova in
pieno anche scorrendo gli indici delle annate di “aut-aut”, dedicate appunto ad
approfondire i rapporti tra fenomenologia e marxismo. Il libro di Sini
ripercorre, dunque, il suo rapporto con il maestro e con l’eredità umana e
culturale che Paci ci ha lasciato, avvertendo il lettore, sin dalle prime
battute, che “ci sono ancora in giro una molteplicità
di figure di Paci, che ognuno porterà con sé (…); ognuna di queste figure è a
suo modo vitale e alimenta una memoria, certo con i suoi limiti, che sono però
anche parte dei pregi insostituibili del ricordo”. Sini dunque avvisa di
non avere la pretesa che il suo Paci sia
più verace di altri, perché il libro
non racconta lui, ma l’incontro con lui, “di questo parlo”, scrive Sini: “racconto l’esperienza della immensa forza ed
energia che investendomi da fuori, mi ha reso dentro, in buona parte ciò che
sono”.
La copertina del libro |
Carlo Sini
Enzo Paci
Feltrinelli,
2015 pp. 141, € 14,00***
SATIS VIXI*
Foto: Franco Bettini |
Del tempio di Esculapio il
sacerdote
m’attende con il bisturi
sguainato,
il dio di medicina va onorato,
ma esangui della vittima le gote.
Mi sveglierò con la pancia
tagliata,
dalle mie viscere tratti gli
auspici
di eventi infausti o forse felici,
ma alla mia trippa m’ero
affezionata.
Sfrattate dalla sede naturale,
riparo non avran le mie
frattaglie,
già testimoni di tante battaglie,
esposte alla bufera e al
fortunale.
Forse le annuserà un gatto
randagio,
incredulo dell’insperato pasto.
Condite già dal mezzo di
contrasto,
gli leniran della fame il disagio.
Quando l’umanità sarà civile,
di Esculapio la crudele lancia
non
ferirà una settantenne pancia,
privata di difese in modo vile,
bensì vincendo ogni ipocrisia
si lascerà al male il suo decorso,
e quando doloroso sarà il morso,
provvederà la fata Eutanasia,
dei Campi Elisi schiudendo le
porte,
oppur d’un ineffabile nirvana,
a cancellare ogni speranza vana
d’un aldilà che trascenda la
Morte.
Lorenza Franco
*Parole di Epaminonda
morente ma vincitore della battaglia di Cheronea.
***
CIBO PER L’ANIMA
di Laura Margherita
Volante
Foto: Franco Bettini |
LAMPO
Viene il giorno ad aprire le sue ali
alla polvere d'oro della duna
in questa sera d'estate
al chiarore della luna che
dietro un sospiro sparisce
tu volgi lo sguardo lontano
nella notte dei tempi lasciati
cercando smarrito il lampo
del vento più rosso ché non sporga
il sangue corrotto
degli innocenti.
Foto: Franco Bettini |
RESPIRO
Avvampa la stella del mare
sulla notte più nera
per darti il respiro del fondale
fra sciami di coralli
mentre il vento spinge
PACE
Il poeta apre il cuore
alle foglie dorate
per la pace rivelata
fra turbini di sole
mai paghe di cielo.***
LUANA FABIANO: “UN POETA VERO”
In questa lettera all’autrice, Luigi Bianco svela l’essenza più vera e profonda
della materia con cui è impastata la poesia della poetessa calabrese.
Luana Fabiano |
Gentile
Luana,
che magnifica sorpresa!
Prima del resto, grazie.
Grazie non solo per il libro: innocente contenitore di parole. Grazie per
avermi fatto ritrovare dopo anni le parole di Antonio Spagnuolo: medico
napoletano ed eccellente poeta-critico. Ho sempre pubblicato sue poesie sulle
mie riviste e non dimentico lo scambio di alcune lettere significative. Non
l’ho mai incontrato di persona ma una stima reciproca ci univa.
E grazie per quei versi in
quarta di copertina. Stupendi e irraggiungibili: un capolavoro. Ora so che li
ha strappati da “Ingiusta canzonatura”. Non importa. O importa il coraggio di
averli strappati.
Contengono il virus
polifonico che la obbliga a scrivere con tanta passione (e disperazione?). Tutto
è perfetto. Suono musica significati (quasi una dichiarazione di poetica) e
quella scelta di parole precise, preziose, immaginifiche, evocative.
Rinfrescate in una chiara sintesi che toglie il respiro e fa gridare con altro respiro:
finalmente la poesia!
Dopo tanto felice stupore
ho aperto con paura le pagine con le altre poesie. Avevo paura di andare
incontro a una delusione. Così non è stato ma mi sono perso nel mio silenzio:
non sapevo più come entrare nelle sue parole e nei suoi sentimenti. Poi su “la Repubblica”
del 18 luglio ho letto una Lectio di Massimo Cacciari, (filosofo che stimo).
Lectio per la laurea honoris in filologia classica conferitagli dall’Università
di Bologna. Alcuni concetti mi hanno aiutato a capire come lei, Luana,
custodisca un mistero profondo: sprofondato negli abissi spalancati dalle
parole che lei fa riemergere per toccare consapevolmente l’essenza della vita e
della verità. Lei sa di avere doti non comuni per scegliere la poesia come
compagna di vita e sa di dover raggiungere e difendere con la poesia la sua e
la nostra verità (anche nella denuncia amara dei moti più sgradevoli dei comportamenti
violenti e incivili). Lei adotta “ un fedele figlio di carta” (Adozione) in
tempi di “carestia di parole nella credenza” (La favola infelice) perché solo
“l’olio della poesia e il latte della vita” (Cime di pace ) possono permettere
all’anima di afferrare “cime di pace”.
In “Fame di bellezza” lei
esplode in tutta la sua vibrante esplicita passione per spronare le “ anime
cieche”: “afferrate la poesia, / orcio di verità e di armonia”.
Ma alla fine di versi
assai belli e diretti -quasi un’implorazione- lei sente il bisogno di sprofondarci
nell’oscurità filosofica (bene). “Il tutto e il nulla” fino alla fine non sono
più un’implorazione vibrante: è riflessione misteriosa difficile da
interpretare (sempre alta nel tono e nella scelta un po’ surreale delle
parole). Sembra quasi che lei sia spaventata dalla sua chiara libertà e cerchi
un porto segreto per custodirla dal male. Sembra che voglia nascondere i suoi
versi diretti nella clausura degli abissi in attesa del tempo della
rivelazione. Giustezza del tempo e presente non sempre si conciliano. Per me,
non si stupisca, lo notavo già nel primo libro, “Il tutto e il nulla” è già una
poesia completa e suggestiva proprio per la sua difficoltà. Come il capolavoro
in quarta di copertina. Ritengo poesie complete suoi versi come “Nelle stanze
migrano le crepe dell’assenza” o “appena l’alba sguscia il giorno, / mani
immonde sbirciano tra rami d’ulivo”.
Mi perdoni il piacere
della libertà. La poesia “Respiri violati” mi dona un’altra prova riuscita di
poesia diretta e sofferta: con parole da brivido (“terra fata e strega, madre e
ladra”). Lei si è liberata di alcune impurità ed esalta il tono di versi intimi
sociali impreziositi da vocaboli fiammeggianti: non so se ricercati con cura o
nati di getto.
Nei suoi versi c’è una
chiara e densa luce di natura e di pittura. Le sue parole non solo si leggono e
si sentono ma ti aprono anche gli occhi su meraviglie che solo gli artisti
sanno cogliere.
Una poesia forte e intensa
come “Memoria” mi sembra uno splendido quadro espressionista. Quelle sue parole
sparse sul “gelo” sono pennellate perfette: con quel profumo d’ermetismo che
non guasta. Anche “Ingiusta canzonatura” ha un andamento pittorico: con
tonalità ora più mosse ora più tenere. E si stropiccia bene nei vicoli
dell’oscuro. Non so se sia autobiografica o sia un inno alla terra e ai
contadini (o a un contadino conosciuto nel profondo). Ripeto: il mistero non
guasta e fa venir voglia di conoscere e approfondire meglio l’autrice.
Non faccio grandi
distinzioni tra la prima e la seconda parte della raccolta: la passione emerge
da tutte le pagine. Non sono un sistematico: salto di qua e di là in libero
arbitrio.
Mi incuriosisce la poesia
d’apertura di Bellezza confinata. Perché “In fabbrica”? Ancora mistero? O è
solo la “fabbrica delle vite sospese”: dove il tempo tenta di forgiare le sue e
le nostre voglie?
La copertina del libro |
Lei forse vorrebbe avere
“una corazza senza sangue” (da Spiraglio) per vivere in serenità in una Magna
Grecia che canta ancora tra mare, luna e sole…
“si sfrangia la forza /
davanti a labbra / imbevute di sole (“Barcheal sole”) ma la realtà la inchioda
ai suoi doveri: a quello soprattutto di dire la verità. E la verità la dice in
straziante bellezza. Fuori dall’abisso anche del mistero (Percorro tempi e
ferite) perché dare un nome al male la fa sentire più libera (“anch’io sono più
libera”).
Oggi lei ha la fortuna di
tenersi lontana dalla poesia in voga: molto più piana e scorrevole. Rimanga
sulla sua strada rispondendo al suo sentire: non può che portare a lei e a noi
quella “fame di bellezza” di cui tutti siamo orfani.
Mentre leggevo il suo
libro mi ha telefonato un profondo artista e uomo di cultura (tra Roma e
Napoli) che ogni anno viene a passare qualche giorno da me. Alla solita domanda
(che c’è di nuovo a Squillace?) ho risposto in semplicità: finalmente anche a Squillace
abbiamo un poeta vero, una giovane donna. È tutto.
Ancora ringraziandola,
Luigi Bianco
(Squillace, Luglio 2014)
MA: I MORTI RIFIORISCONO?
di Giulia Contri
Una raffinata e approfondita
analisi della psicoanalista Giulia Contri
sul romanzo di
Marina Corona
Giulia Contri |
La luminosa
intelligenza di un bambino alla prova dell’indifferenza dell’adulto
Di rado mi è capitato di essere così profondamente
coinvolta nella narrazione della storia di un bambino come con La storia di Mario di Marina Corona[1].
Vi si tratta infatti della vicenda -
passionalmente e intellettualmente avvincente per il
linguaggio poetico messo al servizio di un’attenta osservazione- di un bambino
dotato di una singolare capacità di pensiero, che si manifesta come intensità
di stati di piacere o dispiacere dei sensi e dell’intelletto insieme, e come
desiderio di offrirli agli altri perché ne godano con lui.
Il merito, e l’interesse, de La Storia di Mario è di essere la narrazione delle vicissitudini
che deve attraversare questa capacità.
Dire singolare non vuol dire eccezionale. Sono gli adulti
semmai che, nella loro banale razionalità, non vi leggono che extra-vaganza,
quando non sintomo di patologia. “I moti infantili del sentimento sono
intensamente e inesauribilmente profondi, in tutt’altra misura rispetto a
quelli degli adulti”, scrive Freud[2]: degli adulti che, come i
genitori o i parenti o gli insegnanti di Mario, a quell‘arida, e anchilosata,
razionalità restano fissati per incapacità a consuonare con i moti d’altri.
Marina Corona sa magistralmente ripercorrere, quasi ne
fosse ancora protagonista, il pensiero di un bambino nel momento in cui si
autorizza, ancora ingenuamente, a farsi titolare di offerte. E sa dire,
convinta sostenitrice con Freud della “luminosa intelligenza del bambino”[3],
come Mario resista nelle sue proposizioni anche a fronte di adulti ottusi e
sordi, per i quali quanto lui pensa e fa di sua fonte è qualcosa di inaudito,
di inammissibile cioè per il loro scarso comprendonio.
“Non cape in quelle anguste menti ugual concetto” sembra
pensare Mario di loro con Leopardi: essi non vedono, non sentono, non
capiscono, non apprezzano nel suo valore l’eccellente occasione di rapporto che
egli mette loro su un piatto d’argento.
Colpisce come una pugnalata il lettore l’operazione di
rigetto del pensiero di Mario fatta, fin dall’inizio del racconto, dagli adulti
- siano essi i genitori, la maestra o i parenti, - anche e soprattutto laddove
la sua originalità immaginativa dovrebbe risvegliare la loro curiosità
intellettuale. E’ la pugnalata inferta dal disprezzo di chi non sa dare valore
all’apporto - assolutamente apprezzabilissimo - di un bambino come Mario solo
perché é un bambino.
Mario resiste a lungo a quel disprezzo: il suo pensiero
naviga a lungo indenne, nel corso del romanzo, dai danni che possono derivargli
dalla sua delegittimazione. Ma egli è presentato fin dalle prime pagine come individuo
costretto a fare i conti con l’indifferenza e con il conseguente deprezzamento
altrui: e insieme con la necessità di procedere comunque nel cammino, anche se
egli vi incede, nel limbo del non rapporto, spinto a una unilateralità di
funzionamento che è solo sua.
Marina Corona |
Due storie
La prima parte del romanzo è dedicata a Mario, la seconda
a Maria, sua madre.
Mario, pur delegittimato, sa giudicare l’altro come
quello che non vede e non sente, salvandosi così - pur mutilato nell’isolamento
in cui è relegato - dalla tentazione di arrendersi e rinunciare alla propria
sovrana autonomia.
Maria, invece, si presenta, già dalle prime pagine, come
colei che distorce il proprio orientamento di pensiero immaginando di doversi
sottomettere inevitabilmente a quello materno, che pur percepisce come per lei
inadeguato. Manifesta sì di aver contezza di aver concepito il figlio, quando
ancora era in gestazione dentro di lei, come da lasciar cadere, come difficile
a riconoscersi, marchiato come uno che vien giù, dal fondo più fondo delle sue
viscere segrete, per affondare senza remissione in un’acqua verde e limacciosa
annegandovi, “bacato”, “putrefatto” dal senso di morte che lei gli ha buttato
addosso al funerale di suo padre.
Essa non si mette sulla via di valutare che, come sua
madre era stata corresponsabile, senza mai riconoscerlo, della morte del marito
per averlo lasciato alla sua sorte di alcolizzato, così lei, nei confronti di
Mario, l’aveva immaginato come già morto prima ancora che iniziasse a
vivere. E tuttavia lo fa dichiarando che forse i suoi ricordi, che ella
proietta come un film su una parete di una stanza d’ospedale, sono proiezione
di qualcuno che ha interesse a mentire.
Ma è Maria stessa che mente a se stessa
sovrapponendo l’un accadimento positivo della sua vita ad altri negativi,
trascorrendo così dall’uno all’altro senza giudicare in maniera concludente del
segno di nessuno: delira, non si orienta più, insomma, nel solco di quale di
essi ella si trovi. La stessa soddisfacente bellissima esperienza d’amore con
Giulio - ragazzo indiano che l’avrebbe ‘deflorata’, “coperta cioè”, a suo dire
poeticamente, “di fiori su tutto il corpo” in un’ardente estate della sua
adolescenza - si sfalda assimilandosi quasi ad altre di segno contrario che
urgono nel ricordo.
Il racconto di Mario è strutturato per blocchi narrativi
contrapposti tra quanto Mario mette in campo positivamente con gli adulti e la
ripulsa che questi gli riservano ad ogni piè sospinto: blocchi che evidenziano
la contraddizione che si va istituendo a poco a poco nel suo pensiero tra
titolarità delle proprie prese di posizione e disincentivazione delle stesse da
parte dei cosiddetti ‘grandi’.
Nei loro confronti Mario non recede da un giudizio di
incapacità, uscendone bene o male a salvamento.
Anche il racconto di Maria procede per blocchi di
ricordi. Ma il ricordo delle vicissitudini della propria vita di rapporto è
troppo attraversato, disturbato, come in un caleidoscopio, dagli influssi
provenienti dalle idee e dalla personalità di padre, madre, giovane amante,
marito, figlio, perché possa intraprendere la strada del giudizio.
Peter Pan non è un animale che vola
Lascio al lettore di ripercorrere le diverse peripezie
disorientate e disorientanti del modo di procedere del pensiero di Maria, per
occuparmi di alcuni passaggi chiave del romanzo relativi al pensiero rimasto
sempre lineare di Mario quanto a fiducia nell’ortodossia del proprio libero
movimento intellettuale. Ad eccezione di alcuni incubi e di uno svenimento in
risposta agli intollerabili misconoscimenti di quell’ortodossia messi in atto
dagli adulti.
Andiamo con ordine, e incominciamo da quella tremenda
pagina di apertura del racconto in cui Mario, alla domanda della maestra su
quali siano gli animali che volano, indica Peter Pan: per lui Peter Pan è
l’amico che vola e che gli insegna a volare, e volare è possibile sol che Mario
si lasci dare una mossa da Peter Pan. La maestra reiteratamente, assieme ai
compagni, quasi fosse necessario rintuzzarlo a dovere, gli rimanda: “Ma Peter
Pan non è un animale, non è un animale, non è un animale”. La reiterazione è
un’arma appuntita, colpisce Mario e lo spinge a isolarsi dagli altri: “Gli
altri non vedono l’essenziale”. “Ma sei cieca, ma non hai visto?”, non cerchi
di capire che ti sto dicendo che voglio esser lasciato libero dai lacci e
lacciuoli di un sapere che mi fa da zavorra?
E’ qui che Mario, alla ricerca del calore che desidera
nel rapporto e che gli viene negato, fa volutamente la pipì nei pantaloncini
godendo del rivoletto caldo che gli scende per le gambe. E non lo fa per una
stupida ripicca: “L’ho fatto col mio pensiero” questo lago, afferma. “Dall’alto
egli si sente uno smisurato gigante”. “Sono un bambino d’oro, pensò”.
Il “sei cieca?”, “ma non hai visto?” non è detto da Mario
solo alla maestra che cassa le sue fantasie, ma anche ai genitori che non si
accorgono di aver reso disgustoso, con la teoria del “mangia, devi
crescere figlio mio”, quello che dovrebbe essere il piacere di mangiare.
L’appuntamento del pranzo e della cena Mario lo trascorre con i suoi in un
silenzio gelido, in cui le posate usate dai genitori sferragliano come armi nei
piatti, le mani della mamma puzzano dell’algida zuppa di piselli, i piselli che
nuotano nel brodo diventano dei soldatini da mettere in castigo (come fa la maestra
con i bambini) sul bordo del piatto, e la bistecca è dura come fosse di
catrame.
L’uscita di Mario a tavola “Io ho paura del cani” al sol
vedere la faccia cagnesca di suo padre non fa drizzare le orecchie ai genitori,
che son capaci solo di dire: “Ma qui non ci sono cani, Mario”. Cui segue,
insieme ad un disappunto che è quasi peggio di una scomunica, la condanna della
sua uscita nella frase della mamma: “Ma lo fa apposta, io non so più cosa
fare con lui! E’ inutile, è tutto inutile”, che si conclude nella proposta di
una visita dalla psichiatra.
Di Mario viene invece alla narratrice da concludere: “Lui
così non poteva più pensare”.
Si addormenta così
per terra - perde i sensi? - in un
nuovo caldo laghetto di pipì che lo consola.
Puzze e profumi
Il rapporto piacevole o spiacevole con l’altro Mario lo
connette con sensazioni piacevoli o spiacevoli.
Può essere la puzza delle mani della mamma a tavola, o il
profumo di rosa e di latte del suo golfino quando lei lo tiene amorevolmente in
braccio. Può essere la “voce di chiodo strusciato” della mamma che lo
rimprovera perché non mangia. Il braccio della mamma intorno alle spalle di
Mario può passare dall’esser morbido a diventare duro e rigido come il filo di
ferro messo dentro ai pupazzi di pelo. Quanto al gusto, a tavola Mario non
mangia perché, per la teoria dei genitori “mangia che devi crescere”, il cibo
gli fa nausea, non gli viene fame. Allo zoo, dove le noccioline per le
scimmie è lui che le vuole mangiare e gli piacciono, la mamma gli dice di non mangiarle
perché gli fanno male e gli tolgono l’appetito.
Allo zoo Mario è preso da un desiderio impossibile nella
realtà, quello di poter entrare nella gabbia delle scimmie e di “accoccolarsi
ai piedi della scimmia lavandaia, riposarsi e sentire il calore del suo corpo
caldo”.
Mario dunque si difende ancora efficacemente, non solo
disattendendo gli ordini che gli vengono dati di nutrirsi perché deve crescere,
ma anche facendosi prendere dall’attrazione per l’odore buono dei fiori, e,
immaginificamente, facendosi trasportare da sensazioni uditive piacevoli a
parlare delle api ronzanti in una glicine fiorita come de “il violino dei
fiori”. Dalla maestra, che aveva chiesto ai bambini di parlare dell’ape, egli
riceve in risposta ancora una volta una reazione di totale sordità e sconcerto:
“Ma cosa vai a pensare, Mario?”. E Mario reitera il giudizio sulla maestra: “Non
aveva capito”, “Non avrebbe capito”.
E sarà dopo questo ennesimo deprezzamento che Mario si fa
prendere da un incubo terribile: cadono le sbarre della gabbia dell’elefante, e
lui cade sotto le zampe del pachiderma. Perde così ancora i sensi.
La copertina del libro |
La guerra insensata degli adulti
Di fronte alla dottoressa che gli sorride dopo
l’incidente, ma con lo stesso sguardo di commiserazione dei suoi genitori,
Mario incomincia anche lui a sorridere “come uno che si arrende di fronte ad
una cosa insensata ma che non può combattere”.
La cosa insensata che non può combattere è la guerra ai
suoi pensieri che i ‘grandi’ gli fanno sparandogli addosso in più frangenti e
per motivi diversi fucilate che a volte sono divieti a volte comandi “Ma che
fai, Mario, ma che fai?”. Oppure: “Fermo lì”, “Fermo lì”, “Fermo lì”. Oppure:
”Forza Mario, dai pedala”, “Forza Mario, dai pedala”, “Forza Mario, dai
pedala”, di fronte a cui a lungo andare egli prova la tentazione di capitolare.
Il “Forza Mario” ha a che fare con l’insegnamento che suo
padre gli impartisce perché impari ad andare in bicicletta: il “Pedala”, che
gli reitera soffiandogli sul collo, assume per Mario il significato di comando
a darsi quella mossa che egli pensa che il figlio non si sappia dare.
“Sembrava che qualcuno avesse dato una regola nella casa
cui tutti dovevano obbedire”. “Perché tutto, tutto fosse in ordine bisognava
regolare il passo su quello della mamma”. Fino ad un certo punto Mario stringe
le dita sul manubrio della bicicletta e suona il campanello, ma “venne un
momento che Mario non suonò più”.
C’è un silenzio intollerabile in questa regola, nessuno
più parla a Mario, né i genitori né la maestra. Si aspetta solo la diagnosi,
minacciosa per Mario, della dottoressa-psichiatra.
A Mario vien da pensare che per lui non ci sia salvezza:
affacciato a un balconcino che dà sul cortile immagina che gli cadano
addosso due grossi comignoli del tetto. Per scansarli si spenzola dalla
ringhiera, ed è afferrato da qualcuno con un potente strattone che quasi lo
tramortisce perché non cada giù.
“Questo è il silenzio di quando non si aspetta più
niente, il silenzio delle regole, il silenzio della notte buia”.
Quale happy end?
Mario tuttavia non rinuncia neppure a quel punto all’idea
dell’appuntamento con l’altro nonostante le tante ripulse ricevute.
Quando il padre ringrazia la zia Viola (che guarda caso
ha il nome di un fiore) presso cui Mario ha soggiornato durante una degenza
della mamma in ospedale, poiché presso di lei “Mario è rifiorito”, speranzoso
che il padre si metta a ripensarlo attivo nel consorzio umano, Mario gli
chiede: ”Ma papà, i morti rifioriscono?”
Alla risposta-schiaffo del padre: ”Ma cosa dici, Mario?
Chi è morto?”, Mario capisce che suo padre è distante mille miglia dal pensarlo
come partner in un rapporto di parola. E sul viso della madre in quel momento
passa come un’ombra”, uno “sguardo di pena”. Cogliendo l’occhiata di intesa che
i genitori si scambiano, quasi un ponte che passa sulla sua testa, Mario
sente come un “grosso sasso che poteva cadergli addosso da un momento all’altro
e schiacciarlo”.
Anche se nelle ultime pagine della storia di Maria si
intravvede una possibilità che Maria riaccolga Mario in un nuovo patto
amorevole, resta che con quell’ombra gettata su di lui Mario dovrà fare i conti
nel prosieguo della propria vita a superamento dell’irresoluzione che lo
attanaglia tra “ritrovare in sé la propria sicurezza, o (..) rimanere in
allarme, fiutando un eventuale pericolo, un qualche sconosciuto ma sempre
possibile agguato dal quale difendersi fuggendo, con le sue piccole gambe
leggere, con il suo cuore terrorizzato”.
Note
[1] M. Corona, La storia di Mario, Robin Editori,
Milano, 2013.
[2] S. Freud, L’uomo Mosé e la religione monoteistica,
1938, OSF, vol. XI, p. 450.
[3] S. Freud, L’Avvenire di un’illusione, 1929, OSF,
vol. X, p. 476.
***
INTERVISTA
AD ANGELO GACCIONE SULL’AFORISMA
di Anna Antolisei
Angelo Gaccione - 2014 (Foto: Francesco Piscitello) |
Antolisei: Tra i
molti generi letterari, cosa determina in te la predilezione per la “forma
breve” e per l’aforisma in particolare?
Gaccione: L’aforisma permette il massimo di
comunicabilità e di significazione, ricorrendo ad una quantità minima di
parole. Un po’ come la poesia. A volte un buon aforisma riesce a sintetizzare
un’intera concezione estetica, un pensiero filosofico, un’istanza etica. La mia
predilezione è dovuta anche ad una motivazione morale, e nulla meglio
dell’aforisma mi permette di affrontare questo terreno insidioso senza
scivolare nella retorica. Oggi un buon autore di aforismi svolge lo stesso
compito dei grandi moralisti del XVIII secolo.
Antolisei: Quando
è avvenuto il tuo primo incontro “fatale” con l’aforisma? E da cosa sei stato
indotto a cimentarti in questo genere?
Gaccione: Sin da giovanissimo ho cominciato a leggere
con una matita rossoblù in mano. Come ho documentato nel volume Nero su bianco pubblicato nel 2000, in
cui ho raccolto aforismi di autori di ogni tempo, raccoglievo queste perle
estrapolandole dalle mie variegate e disordinate letture, per un puro piacere
personale. Col tempo questa pratica è divenuta sempre più intensa e selettiva.
Antolisei: Quali
sono stati i grandi aforisti della letteratura classica che più ti sono
congeniali e che ti hanno eventualmente ispirato? Ci sono uno o più aforismi
sull’aforisma che secondo te definiscono al meglio questo genere?
Gaccione:
Fondamentalmente gli antichi, quelli che chiamiamo per comodità “i classici”.
In loro c’è tutto: etica, filosofia, morale, radicalità civile. Ma anche gli
autori anonimi dei libri sacri e i favolisti. Sì, ce ne sono diversi. Alda
Merini nel suo primo libretto di aforismi da me pubblicato e introdotto per le
Edizioni Nuove Scritture nel 1992, definisce gli aforismi come incantesimi
della notte. Un’autrice di cui non ricordo più il nome, dice che l’aforisma è
un soffio che può increspare il mare. Per me è un grumo minimo di parole capace
di generarne altre mille.
Antolisei:
Ritieni che la letteratura aforistica contemporanea, in Italia, abbia dei
rappresentanti in grado di raccogliere qualitativamente l’eredità dei nostri
maestri del passato?
Gaccione: Quelli
validi sono pochissimi. La scarsa considerazione degli editori verso questo
genere, non spinge gli scrittori a cimentarvisi. Gli autori di teatro
potrebbero fare molto, soprattutto sul versante brillante, ma anche il teatro
scritto oggi è completamente marginalizzato.
Antolisei: A cosa
ritieni sia dovuto il calo d’interesse verso l’aforisma, nei tempi recenti, da
parte del mondo editoriale?
Gaccione: Gli editori
sono succubi del mercato e lo inseguono. Le televisioni, anche se in peggio,
almeno sono loro a influenzare gusti e tendenze del pubblico; l’editoria no, ha
rinunciato. Potrebbero farlo i piccoli editori di qualità raccogliendo la
sfida. Neppure i giornali ne pubblicano più, come avveniva un tempo. “Odissea”
è stato un caso a sé in questi oltre 11 anni di vita.
Antolisei:
Esiste, a tuo avviso, una strada da percorrere perché l’aforisma torni a
conquistare l’attenzione dei lettori, soprattutto quelli delle nuove
generazioni? Quali azioni indicheresti?
Gaccione: La vostra
iniziativa a Torino è una di queste vie. Le letture pubbliche sono altrettanto
importanti. Occorrerebbe che radio, riviste e giornali indipendenti tornassero
a dare spazio a questa forma espressiva. L’aforisma è una vera e propria forma
d’arte, difficile ma efficace. La sua perdita di centralità è un grave danno.
Antolisei: A tuo
avviso, l’aforisma può e deve distinguersi dalle varie forme di comunicazione
“veloce” oggi tanto in voga come il tweet, lo slogan, la battuta, ecc.?
Gaccione: Questa roba
non ha nulla a che fare con l’aforisma, anche se riconosco che ci sono degli
slogan efficacissimi, a volte poetici e colti, ma, ripeto: lo slogan non ha
niente a che vedere con l’aforisma, anche se ne condivide la brevità.
Antolisei:
Ritieni che la Grande Rete possa aiutare la diffusione del buon aforisma o che,
piuttosto, ne faciliti la degenerazione in forme superficiali e scorrette?
Gaccione: Sulla Rete
c’è di tutto, come avviene sempre in una agorà libera e senza controlli. Questo
è un bene. Il rischio è la mescolanza ibrida in cui non si distingue più ciò
che è valido ed originale, e ciò che non lo è. Tuttavia preferisco questo
eccesso: senza la Rete molti validi autori di aforismi non avrebbero alcun
luogo per esprimersi e farsi leggere.
Antolisei: Pensi
che la tua esperienza personale, quale autore di aforismi, sia stata fonte di
maturazione letteraria, intellettuale, umana? Altrimenti, può esserlo in
qualche modo?
Gaccione: Ci sono
delle frasi di vari autori che hanno modificato la mia esistenza e la mia
moralità. La mia scrittura ne è stata influenzata, ma soprattutto i miei
comportamenti pubblici.
Antolisei: Quali
ritieni siano le migliori doti che deve avere un autentico aforista, oltre alla
propensione per la sintesi?
Gaccione: Sono due le
qualità fondamentali: la profondità di pensiero e la moralità. Se a questo si
unisce la grazia di uno stile accattivante, allora è il massimo. Come lo si dice è altrettanto importante
di ciò che si dice.
Antolisei: Ti
senti contrariato se un aforisma di tuo conio viene pubblicato in contesti di
pubblica lettura senza che sia citata la sua paternità? In sostanza: secondo te
dovrebbe davvero, un aforisma, essere - come sostiene Maria Luisa Spaziani -
“cosa volatile, spontanea, che nasce come un fiore e non esige alcuna sigla di
origine”?
Gaccione: Le
barzellette sono tutte anonime e rientrano in una sorta di patrimonio
collettivo; ma le chiamiamo appunto barzellette. L’aforisma è una citazione in
genere dotta, con un suo blasone di autorevolezza. L’autore è parte di questa
autorevolezza, dunque è giusto che ne sia citato il nome. Noi diciamo: “Seneca dice…”; oppure: “Come afferma Esopo…”. Vedete che
l’autore non è un dettaglio marginale, ma fonte di credibilità di quel che si
cita.
Antolisei: C’è
una tua silloge, pubblicata o meno, alla quale ti senti più legato perché
meglio ti rappresenta?
Gaccione: La mia
scrittura è piena di aforismi, basta leggere una commedia come Tradimenti, o un libro di racconti come La signorina volentieri. Se si va a
cercarli in quanto ho pubblicato se ne potrà estrapolare una discreta quantità.
Tuttavia ho una piccola raccolta che ogni tanto si arricchisce di qualche
pensiero nuovo; si chiama Il lato estremo,
e l’ho iniziata moltissimi anni fa. Chissà, magari come è accaduto con gli
altri libri, primo o poi ci sarà qualcuno che se ne innamorerà e deciderà di
editarli. Non sono moltissimi, un paio di centinaia, ma io sono esigente e
parco allo stesso tempo.
***
***
Sperare
nel Mezzogiorno?
di Giovanni Bianchi
Un difficile congedo
Congedarsi
dal Novecento da medico nel Sud del Paese. Questo il libro testimonianza di
Pietro Lacorte. Congedarsi dalla grande proletaria. Dal suo timore di avere
troppa Grecia moderna al suo interno -non quindi solo Magna Grecia- e di essere
trattata allo stesso modo da quelli che in Europa chiamano Med il Mediterraneo, con l'inglese militare e dei centri turistici,
e di essere tuttavia trattata prima o poi come i nazionalisti di Atene. Si,
perché Tsipras prima che di sinistra è nazionalista. Una sindrome non
storicamente tragica, ma analoga a quella dei Balcani Occidentali, che avevano
combattuto una resistenza ritenuta paradigmatica, la migliore in Europa, e che
ha lasciato passare l'orrore della oramai -per tutti- ex Jugoslavia.
Una
lezione che gli "ottimisti" ignorano, dal momento che anche per loro
il Mediterraneo è Med piuttosto che Mare nostrum, o "lago di
Tiberiade" secundum La Pira, e che i "gufi" volgono in paura da
cavalcare mediaticamente ed elettoralmente, con un rapido trasferimento dal
federalismo a una propaganda sabauda riverniciata. E che il Mezzogiorno segua
con le sue salmerie sempre progovernative e clientelari. Perché la prima
domanda che ti viene fin dalla copertina del libro autobiografico di Pietro
Lacorte è se il cattolicesimo democratico possa congedarsi dal Novecento
rinnovandolo, pur di restare moderno e vincente: ossia se gli riesca di fare
quel che gli altri -cattolici democratici inclusi, ivi incluso un medico di
Ostuni- hanno tralasciato di fare. Chiarisco subito il mio punto di vista di
lettore: è quello di un italiano decisamente europeista che non teme di
esplicitare l'interrogativo diffuso, ma tenuto sottotraccia, se dopo i greci
tocchi agli italiani d'essere puniti nel welfare per salvare le banche. Con
quel moralismo avido che vede nei sudisti taroccatori di bilanci gente da
mettere in riga: visti da Berlino e Lubecca come peccatori, per una
contaminazione luterana della lingua, da chi dice nel Paternoster und vergib uns unsere Schuldner, con un
preoccupante sinonimo per le parole debito e peccato. Per il quale il debitore
risulta altresì peccatore.
Insomma
si può leggere Pietro Lacorte congedandoci rapidamente dal "nostro"
Novecento come se il trek stellare di Samantha Cristoforetti abbia cancellato dalla memoria del Sud e del
Nord Cristo si è fermato a Eboli? Può
il cattolicesimo democratico, in nome del quale Lacorte si interroga sulla sua cittadinanza attiva, mettere tra
parentesi la propria radice anche antimoderna consegnandola totalmente al
maritainismo rimosso?
Un’esistenza data nelle
mani della finanza
Partiamo
dalla crescita o dalle persone? Che l'uomo, anche quello meridionale, conti più
della crescita e della finanza è un'omelia della dottrina sociale della Chiesa
e dei suoi ritardi, o un punto di vista? Il Mediterraneo, tutto grosso modo
culturalmente terrone, incluso Israele, è quello del Club Med e dei raids
libici che ci hanno visti presenti nei cieli dei cacciabombardieri con i
francesi di Sarkozy e gli inglesi di Cameron combattere contro i nostri
interessi?
Povero
Giorgio La Pira, sindaco "santo" di Firenze, neanche più citato con
la metafora evangelico-artigianale del lago di Tiberiade...
Un
ufficio studi della italica Banca Nazionale del Lavoro vale e conta
infinitamente di più, con i suoi neolaureati resi presto miopi dal computer,
del millenario suq di Marrakech mirabilmente descritto (descritto, non
twettato) da Elias Canetti. Niente da fare, da qui guardo anch'io, dalla mia
esistenza tutta finanziarizzata, che neppure maledico, ma devo saperlo.
Mi
pare di osservare a una parte del mio Paese e quindi a tutto il Paese con
l'occhio col quale Frobenius guardava all'Africa e col quale io leggo
Frobenius. Ma per leggere Lacorte devi scegliere un punto di vista, che non può
essere solo mio, e che in maniera da subito evidente non coincide con quello
della testimonianza ruminata da Lacorte. Ma possiamo guardare al mondo e alla
nostra Europa a prescindere dal nostro Mezzogiorno? Chi ha risolto la
"questione meridionale"? Chi l'ha tolta dai teleschermi e dai libri? Non
ci sono indignati tra noi, mentre la
Spagna li manda al governo delle sue città maggiori. Perché allora leggo il
libro di un sopravvissuto? Perché mi sento a mia volta un reduce e un
sopravvissuto che volte fa votare i cerchi magici della mia parte politica, che
queste vicende non conoscono e non sono interessati a conoscere? Cristo e Eboli
non valgono una citazione di Marchionne né una vittoria della Ferrari al Gran
Premio.
Senza enfasi
Il
mio perché credo di conoscerlo e lo espongo alle spicce e alla plebea. Perché
non ho dimenticato il cattolicesimo democratico, anche se lo considero defunto.
Defunto, ma morto di parto. Ecco in questo libro uno che cammina senza essere
uno zombie. Anche il reducismo ha una sua verità e una lezione. Un medico
militante ne é figura a tutto tondo. Oltre il Cristo di Eboli. Solo memoria? Anzitutto
le memorie vanno interrogate, non per approfondire una morta stagione (perfino
il Leopardi dell'Infinito) ma per ritrovare incunaboli (Martinazzoli) di
futuro. Perché? Perché il problema politico di questo Paese non è il Pil, ma
l'antropologia degli italiani, il loro profilo in quanto nazione. Ancora
evidentemente da fare (D’Azeglio, addirittura). A partire dal Secondo
Risorgimento e dalla Costituzione del 1948 (Mussolini s'era astutamente tenuto
lo Statuto) che riesce a renderlo mito originario di quella che forse malamente
chiamiamo Prima Repubblica. Questi italiani, che quando andavano all'estero
parlavano il dialetto regionale (Prezzolini tra le due guerre), sono alle prese
con l'Europa e con la globalizzazione, e non possono restarci ed entrarci senza
identità di popolo. Non si accede alla globalizzazione da individui, ma con
un'identità di popolo, con una costituzione e il welfare che le corrisponde. E
con il Sud che ti ritrovi in casa. La massaia di Berlino, riluttante alla
leadership, è tuttavia custode dell’ordoliberalismus e di tutti i suoi effetti
reali, ivi inclusi quelli delle sue banche sul suo territorio. Così
virtuosamente pensa di evitare alla sempre grande Germania il rischio di un
ritorno al nazismo, non avendo ancora realizzato che la mala pianta, estirpata
dal suolo tedesco, possa essere trasportata dal vento bancario alla periferia
del vecchio continente. Dopo Tsipras c'è Alba Dorata.
Guardare
dal punto di vista dei popoli, del loro presbitismo e della loro zoppia, questo
è il problema del punto di vista e il dovere dell'ora. Un medico meridionale
cattolico-democratico ci presta lo sguardo e la scrittura. L'autocoscienza può
essere, non solo per le donne, uno sguardo sul mondo. Così sperare nel
Mezzogiorno cessa di essere una giaculatoria e un residuo da consegnare a De
Martino. Che il cattolicesimo democratico sappia ancora provocare è senz'altro
una bella notizia. Che provi a ripartire dalle antropologie nella stagione che
ha ucciso il primato della politica e ponga domande politiche ai soggetti
residui della società liquida è una seconda bella notizia. Che evochi la
cittadinanza attiva nell'impero globale del consumo e della pubblicità può essere
la terza bella notizia. E -come mi disse Andreotti- che Dio ce la mandi buona.
Ostuni quotidiana
Che
cos'è questo lavoro della memoria al quale Pietro Lacorte fa sovente
riferimento con citazioni ed esergo dotti e puntuali? Si tratta di una
radiografia di una democrazia locale storicamente situata in Ostuni, un pezzo
vivace del Mezzogiorno cattolico da scavare lungo un po' di stagioni sociali e
politiche, alcune morte ed altre rimpiante. Ostuni è l’Itaca di Lacorte.
L'ombelico dal quale guardare il resto del mondo. Con uno sguardo disincantato
e cattolico, come raramente accade. Per chi è cresciuto in una Chiesa locale
fortemente coesa diventa prima o poi inevitabile la domanda sull'esempio delle
comunità primitive, ossia su quale fosse la vita spirituale, sociale,
comunitaria delle prime comunità cristiane. E qui va detto che è bene tenersi
fuori dalla agiografia e dall’omiletica per una lettura puntuale disincantata
degli Atti. Anche se lo Spirito Santo
viene spesso invocato come un sodale delle decisioni comunitarie, non mancano
le difficoltà, i drammi, i contrasti e anche lo scacco del quale si dà conto al
capitolo quinto, che condurrà a una condizione di ristrettezze e di miseria che
obbligheranno l'apostolo Paolo a una colletta nel Mediterraneo per sostenere la
comunità di Gerusalemme.
Non
ci sono socialmente, anche per i cristiani, età dell’oro. Né Ostuni può fare
eccezione. Con il suo notabilato demodé ma rapace di proprietari terrieri, con
i braccianti in miseria che stanno sulla piazza, questo sì come nella
Scrittura, in attesa di un lavoro a giornata, con artigiani capacissimi, fieri
e rampanti, peraltro così ben fotografati da attirare il favore e la simpatia
del lettore. È questo Mezzogiorno, disponibile come terra assetata al pensiero
di Saraceno, Paronetto e Vanoni, che saprà giovarsi della riforma agraria di
Antonio Segni, mettendosi sulla via delle città e della creazione di una nuova
borghesia cittadina meridionale.
Il
processo è visto tutto dall'interno da Pietro Lacorte, dal basso, senza
dispiegamento di sociologie, con una partecipazione accorata, con un sermo humilis che ti prende e commuove.
Ma allora ha senso occuparsi -cristianamente e laicamente- di una comunità
locale? Può una democrazia apprendere da questa attenzione? E perché è utile
leggere con uno sguardo di oggi, anche dal profondo Nord, queste pagine così
sudiste? Cosa hanno esse da proporre e insegnare alla nostra democrazia
governata da una politica senza fondamenti? Quale la considerazione corrente
dell'ente locale? Non erano i Comuni -quelli di Sturzo e di Turati- il luogo
dove si riscattavano operai e cafoni imparando a leggere un bilancio comunale?
E noi, dove siamo? Non reggono i sindaci paracadutisti come Ignazio Marino a
Roma. La persona è proba e capace, si tratta di un grande chirurgo e di un
notevole intellettuale, ma la dimensione locale spiazza prima il cuore e poi
l’intelligenza. Marino evidentemente non è Petroselli. Ha dato l'impressione
che di Roma gli importi restaurare l'icona del sindaco. Renderla credibile.
Operazione utile e meritevole, che i mali di Roma tuttavia non consentono, non
consentono almeno nella consecutio
temporum che Marino ha scelto: prima il sindaco probo e popolare che gira
in bicicletta, e poi Roma malavitosa e le sue macchine amministrative.
Il
problema non è Marino: è anche nostro. Solo una comunità può governare una
città, sulla via di diventare tutti insieme -eletti ed elettori- una comunità
cittadina.
Ritroviamo
nella dimensione locale l'interrogativo che ci insegue in quella nazionale, in
quella europea, e anche in quella globale: ci importa governare il mondo, o la
sua rappresentazione? È anche il problema di Renzi, di Salvini, perfino di
Alfano e della Meloni. È un problema che narra dei rischi e della qualità reale
della democrazia. Cosa disperatamente penso di queste democrazie? La democrazia
è quella (tralascio il sostantivo perché mi metterei nei guai) che si occupa
degli altri, anche quando gli altri non si occupano di lei. Non la so definire,
ma avverto il rischio della perdita un bene prezioso. Recentemente Amartya Sen
ha pubblicato gratuitamente per i tipi di Laterza un aureo libretto per
dimostrare che il miglior antidoto (storico) per le carestie si è dimostrato la
democrazia. La democrazia, non Expo.
Quale speranza?
Essere
medico cattolico e cattolico-democratico nel Mezzogiorno è stato il problema
della vita di Pietro Lacorte. Con un problema nel problema: qual’è il
Mezzogiorno alle sue spalle?
Era
un Mezzogiorno duro e difficile, del quale si occupava in termini di
programmazione e sviluppo il trio di cervelloni cattolici di Morbegno in
Valtellina già menzionato, e non ancora Saviano. Duro come tutto il Mezzogiorno
dopo l'unità, ma non ancora finito nelle mani di Gomorra. Un Mezzogiorno con un
tessuto ancora popolare e solidale, dove il medico è un'autorità non soltanto
scientifica; è un punto di riferimento, un'autorità morale, un intellettuale
organico del territorio e, nel caso di Lacorte, un "militante" cattolico.
C'è
qualcosa di inconsapevolmente weberiano in questa figura del cattolicesimo
popolare. Perché in Pietro Lacorte professione e vocazione si tengono, non
solo, ma è stata la vocazione a determinare l'impegno professionale.
Un
impegno per giunta che incontra nell'Italia del secondo dopoguerra e della
ricostruzione l'icona, oggi scomparsa, del militante,
sulla quale è cresciuta, sotto diverse bandiere, tutta la democrazia italiana. Uso
ovviamente le mie categorie, costruite sulla cultura del Nord del Paese. Anzi,
sulla cultura cattolico-popolare del Paese. Il punto di partenza è il giudizio
del domenicano francese Marie-Dominique Chenu. Mi disse una mattina nel convento
di Saint Jacques: "Sai qual è la differenza tra il cattolicesimo francese
e quello italiano? Noi francesi abbiamo più cenacoli intellettuali e gruppi
liturgici. Voi italiani invece avete creato associazioni, cooperative, forni
sociali, casse rurali e artigiane: insomma il cattolicesimo italiano è
eminentemente popolare e associativo".
Vale
per il Lombardo-Veneto dopo Maria Teresa, e vale, in maniera differente per il
Mezzogiorno dopo i Borboni. Mi esprimo così perché penso sia necessario
acquisire uno sguardo meno sociologico e più storico sulla storia del
cattolicesimo popolare meridionale. Meno De Martino, ma anche meno LaPalombara
e Banfield, con il loro "familismo amorale" che non aiuta e non regge
nel caso del medico Pietro Lacorte: il suo familismo, e quello del parentado
che lo circonda, è tutto invece "morale", fin troppo.
Non
l'avidità gestita e secolarizzata dalla malavita, che volge il tessuto solidale
contadino in invidia sociale, ma figure, non soltanto il protagonista scrivente
-si pensi alla sorella di Pietro- che costituiscono reciprocamente garanzia
sociale e riferimento morale in questa dolente e generosa famiglia meridionale.
Una sorella che traduce una figura molto simile a quella della "zia",
che campeggia nella famiglia mediterranea italiana del Nord ancora negli anni
Cinquanta e Sessanta. Mica vero allora che Cristo si è ogni volta fermato a
Eboli. Il cattolicesimo lo scopre perché il suo sguardo, inclusivo della
cultura della "povera gente", si sottrae agli stereotipi di una
borghesia laica che ha il vezzo di considerare la cultura cattolica e popolare
alla stregua di un "residuo" paretiano. Il Paese non è soltanto così.
Il cattolicesimo meridionale non è soltanto quello descritto dal verismo di
Verga o dal disincanto aristocratico di Tomasi di Lampedusa. La quotidianità -questa
quotidianità- non si è però fatta analisi e pensiero. Raramente anche pensiero
cattolico ed ecclesiale. Salvo eccezioni formidabili, come quella di don Tonino
Bello. Hanno provato una qualche intrusione, una qualche rappresentanza e una
qualche colonizzazione le presenze nel Mezzogiorno dei testimoni di Geova. L'hanno
invece assunta senza troppe elucubrazioni gli amministratori e i politici
democristiani, salvati e favoriti dal loro diffuso provincialismo. Anche il
provincialismo dei democristiani interpreta e rende efficace questa cultura, la
organizza nel Comune e nel Partito -è anche non casualmente il percorso di
Pietro Lacorte- e la rende efficace nel contesto del Bel Paese. Le conferisce
la dignità di un magistero civile.
Un legame non studiato
C'è
un legame profondo e non studiato tra il cattolicesimo popolare del Sud e
quello del Nord. Non bisogna dimenticare che Giorgio La Pira viene da Pozzallo.
Nelle
pagine, calde e trasparenti, di Pietro Lacorte ho infatti incontrato un
"lazzatiano del Sud". E non si dimentichi il radicamento milanese,
fino all'uso reiterato e provocatorio (molto prima di Berlusconi) del
meneghino, così frequente in Pepìn Lazzati, costituente e rettore dell'Università
Cattolica del Sacro Cuore. È tempo, dopo questo libro di Pietro Lacorte, che è
molto più di una testimonianza, di inaugurare una via e un percorso, e di
proporci un quesito non tematizzato. Lo schematizzo così: il cattolicesimo
popolare italiano è rimasto estraneo al processo unitario del Paese.
"Estraneità" e più di opposizione. L'intransigenza nel Lombardo-Veneto
e quello che pudicamente i testi di storia continuano a definire
"brigantaggio" nel Mezzogiorno sono corpose presenze storiche e
popolari, in attesa del crollo di uno Stato indotto da sopra e da fuori dalle
baionette piemontesi, dagli zuavi francesi e protestanti di Porta Pia,
destinato a cadere in quanto creazione demoniaca, perché portae inferi non praevalebunt...
Tutto
risaputo. Quel che è poco studiato in una prospettiva diversa da quella
vincente è il recupero lento e corale, a partire dal sociale e dal civile e
dalle amministrazioni comunali, delle masse cattoliche impegnate al Sud come al
Nord. Con un paradosso: sono i cattolici
"estranei" ad assicurare nel secondo dopoguerra un idem sentire
a un Paese lacerato e sconnesso. A guidarne quanto meno la ricostruzione.
Va
riletta la Resistenza dal punto di vista dei "partigiani senza
fucile". Va riletta la Costituente. Non è casuale la regia di Dossetti e
dei professorini dossettiani. Non è piovuto dal cielo che tocchi al
giovanissimo giurista meridionale Aldo Moro il compito di ribadire con
insistenza alle masse cattoliche "estranee", al Sud come al Nord, che
non si dà associazionismo diffuso e dignitoso, che non si dà cittadinanza
attiva ed etica di cittadinanza al di fuori dello Stato democratico costruito
insieme con gli altri soggetti culturali e politici. Che la Costituzione è
chiamata a codificare diritti che le preesistono in quanto insiti nella umana
natura.
Non
è soltanto il successo di una classe dirigente che non si limita a gestirsi
come ceto politico: è la garanzia di una "militanza" cattolica (uso
ancora provocatoriamente un termine desueto) che si fa Stato faticosamente,
progressivamente, autocriticamente. E quando dimenticherà le radici e il
compito si dissolverà come partito lasciando la Repubblica senza architrave. Perché
a quel punto sarà il partito in quanto tale -nella sua separazione e nella sua
ostinata volontà di potenza- a farsi impropriamente Stato.
I
lazzatiani e del Sud e quelli del Nord verranno messi da parte da un astuto
doroteismo di corta visione e ambizione, e però capace di aperture al nuovismo
riformista di Craxi. Sarà questo ceto doroteo a provvedere al cambio
antropologico (il problema degli italiani continua ad essere la loro
antropologia storica e politica, non la crescita) e ad introdurci nella
ingovernabile "transizione infinita".
In ritardo
Tardivo,
troppo debole e forse perfino troppo brescianamente aristocratico il tentativo
di Mino Martinazzoli di raccogliere le membra disperse di quel che fu un corpo
vigoroso reso vitale da un animo nobile. Cosa dice dunque Pietro Lacorte nel
suo libro? Che il cattolicesimo democratico è morto, ma è morto di parto,
lasciando in giro figli, legittimi o naturali, non importa, nostalgici di una
grande avventura. E il futuro? Il futuro ha bisogno di speranza, non di
ottimismo. Perché solo la speranza evita di raccontare barzellette ai funerali
ed è capace di metamorfosi storiche e popolari. In grado anche di inediti meticciati.
Perfino -non è vietato sperarlo- di resurrezioni.
Pietro Lacorte
Sperare nel Mezzogiorno
Stilo
Editrice, 2015
Pagg.
216 € 16,00
AFOCALYPSE
Una straordinaria
testimonianza umana e artistica
attraverso gli
aforismi, dall’inferno della guerra nella ex-Jugoslavia
di Amedeo Ansaldi
Parliamo
oggi di un libro uscito, tra l’indifferenza generale, qualche anno fa, nel
maggio del 2012, e che meriterebbe, a nostro sommesso avviso, di essere recuperato
e rimeditato.
La pubblicazione di Afocalypse,
antologia dell’aforisma serbo contemporaneo, a cura di Fabrizio Caramagna
(curatore, fra l’altro, del più competente ed aggiornato blog aforistico italiano, appunto Aforisticamente), costituì, già allora, un’occasione unica, ma
perduta, per il nostro Paese, di conoscere più da vicino la cultura e le
vicende recenti di un popolo che negli ultimi 30 anni ha attraversato ogni
sorta di tragedie (la dittatura nazional-comunista, le atrocità della guerra
civile e i bombardamenti della Nato, le amare delusioni di un’incerta
democrazia), e segnatamente una generazione di scrittori serbi, cultori della
forma breve, che per l’eccezionale intensità, forza e qualità stilistica della
loro opera non ha probabilmente l’eguale, al giorno d’oggi, nell’ambito di
questo genere letterario. Gli autori sono stati tutti oppositori del passato
regime di Milosevic, quando non anche di quello di Tito. Negli anni Novanta,
come scrive Caramagna nell’introduzione al volume, “sotto i colpi della guerra
civile, il Circolo Aforistico di Belgrado, con il suo humour e la sua satira
‘sovversiva’, diventa l’arma più adatta e più letale nella lotta contro la
lingua propagandistica e guerrafondaia del regime”. Bisogna rilevare che negli
aforismi citati Slobodan Milosevic e gli altri esponenti di spicco della
nomenclatura ex-jugoslava non sono mai nominati in prima persona - aspetto che contribuisce
non poco ad accentuare il carattere di universalità di significati.
I temi che si rincorrono da un
autore all’altro sono quelli legati alla drammatica storia recente del popolo
serbo. I grotteschi personaggi del regime (“Siamo guidati da figure storiche, e
anche da alcune figure preistoriche.” “Forte come un leone, saggio come un
gufo, resistente come una quercia. C’è qualcosa di umano?” “L’ordine è venuto dalla posizione più alta.
Da un rifugio sotterraneo.”). Le menzogne della propaganda (“Non ci prendiamo
la responsabilità di quello che facciamo. Non siamo un’organizzazione
terroristica”. “Il presente è abbastanza monotono, ma il nostro passato sta
cambiando di ora in ora.”). Il permanente stato di polizia (“Ho sempre
desiderato conoscerLa, ma solo adesso ho avuto il mandato di cattura!”. "I
giornalisti vengono divisi. Alcuni sono chiamati per il briefing, altri per un
interrogatorio”. “Ho solo una scelta: o sarò una marionetta, o la mia vita sarà
appesa a un filo”. “La polizia e i manifestanti sono uguali davanti alla legge.
Non davanti allo specchio”. “Le forze di polizia continuano a cercare l’assassino.
Hanno un nuovo lavoro per lui”. “E’ stato tracciato un identikit ideale. Il
sospettato assomiglia a tutti”. “Quando sono tornato dall’interrogatorio, mia
madre mi ha subito riconosciuto. Il cuore le diceva che ero io”). Il protrarsi
estenuante di negoziati condotti in manifesta malafede (“Due più due fa cinque!
Questa è la nostra ultima offerta.”). La missione di pace -come venne
denominata con involontaria ironia- della Nato (“La Serbia è uno Stato
parlamentare. Tutte le decisioni importanti per il nostro Paese sono prese dal
Congresso americano.”, “Dio ci vede, ma un Awacs della Nato gli oscura la vista.”.
“L’America sostiene fermamente il dialogo per la pace - con un’azione congiunta
per mare, per cielo, per terra.”. “Il mio televisore si è rotto. Dovrò seguire
i bombardamenti dalla finestra.”). Riflessioni amare sulle atrocità commesse
dal proprio stesso popolo (“Uccido ortodossi, cattolici e musulmani. Sono un ecumenista.”.
“In previsione della chiamata alle armi mi esercito a casa. Sparo dalla finestra
ai passanti.”). Gli orrori senza fine della guerra civile (“I rifugiati sono
liberi di tornare alle loro case. I nuovi proprietari sono ansiosi di fare la
loro conoscenza.”. “C’è una luce in fondo al tunnel. Sono le nostre case in
fiamme.”. “Era una guerra di religione. Solo Dio sapeva per cosa stavano
morendo.”). I ripetuti rovesci militari (“Saremo una piccola Svizzera. Ne
abbiamo già raggiunto le dimensioni.”. “Non solo abbiamo difeso i nostri
territori, ma presto vi apriremo anche la nostra ambasciata.”. “La linea del
fronte si è spostata. Ora difendiamo le nostre case nella profondità del
territorio nemico.”). Le delusioni della neonata democrazia (“Il vecchio regime
è morto, ma ha donato gli organi a quello nuovo.”. “I cambiamenti sono così rapidi
che anche i camaleonti sono visibili.”. “I nostri politici sono divisi in
elementi di sinistra e di destra. Dipende da quale metà del loro cervello non
funziona.”. “Gli antichi mestieri sono in crisi, con l’eccezione del più
antico.”. “Cercate lavoro nel nostro ministero. I salari sono bassi, ma i
guadagni sono enormi!”. “Sto aspettando i risultati delle elezioni. Voglio
sapere per chi ho votato.”). L’agognato ingresso nel consesso delle nazioni
civili (“Entreremo a far parte dell’Europa. Hanno bisogno di una discarica.”).
Forse mai la forma breve
aveva conosciuto nella storia della letteratura mondiale una così fulminea e
straordinaria fioritura -se si eccettua la cerchia dei salotti francesi del ’600,
dove la massima era assurta al rango di raffinatissimo gioco di società. Ma quello
che precipuamente distingue l’aforisma serbo contemporaneo dai suoi illustri
antesignani è l’eccezionale drammaticità degli eventi che ne costituiscono la principale
fonte d’ispirazione, e che si risolve in un umorismo nero espresso con rare efficacia,
felicità ed economia di mezzi.
Il libro contiene circa 1.500
aforismi, uno più smagliante, risentito, commovente dell’altro; gli autori
citati sono in tutto 34: cifre che avrebbero potuto essere raddoppiate senza
che -assicura il curatore- la qualità media ne scapitasse. Non ci resta che
auspicare che ne venga pubblicata, in un futuro non lontano, un’edizione
ampliata.
Afocalypse. Antologia dell’aforisma serbo
contemporaneo
a cura di Fabrizio Caramagna,
Genesi Editrice (Collana Aforisticamente) - Euro 20
***
AFORISMI
di Laura Margherita
Volante
DALLE MIGNOTTE ALLE MIGNATTE
Quando un uomo riesce a far
perdere ad una donna il rispetto di sé,
le lascia una cambiale in bianco da pagare per tutta la vita.
le lascia una cambiale in bianco da pagare per tutta la vita.
MAI DIRE MAI?...
MAI: Massimo
Amore Indispensabile per ogni vita che respira
Mai
all'ingiustizia!
Mai alla guerra!
Mai
all'ignoranza!
Mai alla
solitudine!
Mai alla morte
dello Spirito!
Mai gettare la
spugna!.
Mai una bambina e
un soggetto debole debbano soffrire per questi mali
***
Gli aforismi di Amedeo Ansaldi
di Alessandra
Paganardi
Amedeo Ansaldi |
Oltre
duecento aforismi senza una precisa divisione tematica, ma comunque divisi in
tre “capitoli” (due più brevi uno più lungo) che si può immaginare abbiano un
significato non puramente grafico. Legittimo domandarsi se l’abbinamento e la
scansione siano casuali o meno. Proviamo ad azzardare qualche ipotesi, I temi sono
ovunque più meno gli stessi, spesso afferenti alla filosofia morale: la libertà, la durezza dei rapporti umani, l’ipocrisia
delle relazioni sociali, l’egoismo,
la menzogna, l’“homo homini lupus” (e, per spostamento dell’equazione, il lupus homo lupo, l’incompresa fraternità
e bellezza del mondo animale ingiustamente bistrattato: vedi aforismi a pag. 9
e 61). Ma anche (soprattutto verso la fine) il rapporto fra verità e tempo, fra verità e consenso (memorabili gli aforismi sulle rivoluzioni, sulla
storia umana delle idee e sui loro seguaci). La proporzione di questi temi
“metastorici” tende tuttavia a crescere con il procedere del libro, così come
tendono ad aumentare e a cambiare altri tratti, e ne isolerei in particolare tre:
innanzitutto l’attitudine al paradosso, definito
abbastanza paradossalmente, in un aforisma a pag. 8,“una banalità caduta in
disuso”. Ansaldi l’adotta con eleganza proprio confidando in questo disuso,
quasi si trattasse di un riciclo virtuoso di una pratica che, se abusata,
rischia di diventare un sofisma eristico. Poi la brevitas: all’inizio prevale l’aforisma lungo, quasi la riflessione
vincesse sulla conclusione, con chiaro debito verso il Leopardi dello
Zibaldone. Procedendo verso la fine si nota una maggior concentrazione. Infine,
ma non ultima, l’assertività. La
prima parte, più che non le ultime due, presenta tratti di incompiutezza che
sono una caratteristica di questa scrittura e una scelta dell’autore: come se
Ansaldi preferisse accompagnarlo per mano nel travaglio del pensiero, piuttosto
che presentargli subito quel prodotto lustrato e finito che è per natura
l’aforisma. Questa caratteristica,
ancora e sempre zibaldoniana, viene scemando con il procedere del libro e
lascia sempre più posto a una struttura un po’ più chiusa, con una logica più
convergente: c’è addirittura una pagina intera (la numero 30) in cui le
riflessioni possono essere viste come dei mini-sillogismi. Possono essere
divise in due, perché la seconda parte del pensiero, pur nella sua brevità, è
uno sviluppo parzialmente autonomo rispetto alla prima.
Con
lo sviluppo della struttura più breve e chiusa si nota poi l’emergenza
chiarissima di altri maestri, oltre al Leopardi dello Zibaldone. Prima di tutto
il Michel de Montaigne degli Essais: disincanto e un certo epicureismo che fanno
pensare alla famosa osservazione del filosofo francese, valida anche
nell’ambito aforistico : «Les autres forment l’homme, je le recit». Come il
filosofo francese, Amedeo Ansaldi racconta l’uomo in tutte le sue debolezze ma
anche i punti di forza, come la capacità di opporsi all’oppressione, di
accogliere la libertà (capacità da cui, a suo dire in un aforisma, si misura il
prezzo della libertà stessa: vedi p. 41) e di manifestare una generosità da
imperativo categorico kantiano, ben oltre il determinismo un po’ opaco dei
buoni sentimenti: «I piccoli princìpi morali ingombrano più di quelli grandi »,
scrive Ansaldi. O una capacità di avvicinarsi al sublime degna delle tre vie
schopenhaueriane di liberazione dal dolore, come si legge in un lungo aforisma a
pag. 30.L’uomo, dunque, in quanto categoria metafisica non è irreparabilmente e
per natura meschino; piuttosto è incline a una protervia non mediocre, e forse
per questo, nonostante tutto, interessante come oggetto di studio (altrimenti,
in fondo, perché scrivere aforismi)?
Manca,
in questi aforismi, lo scatto poetico: anche qui non per difetto, ma per
precisa scelta dell’autore: la stessa metafora, ingrediente pur possibile nella
scrittura aforistica (pensiamo a un René Char, o più indietro nel tempo, passando
dai francesi ai tedeschi, alle metafore scientifiche di un Lichtemberg e dello
stesso Goethe ) vi si presenta come molto parca. Forse l’autore, nel suo
desiderio di condurre il lettore ad un ragionamento condiviso, non verso la
verità ma verso una gestione onesta del dubbio (Manuale di scetticismo, appunto!!!) ritiene la metafora una specie
di offuscamento, di bilancia truccata. Un altro maestro di grande impatto per
Ansaldi è Gomez Davila, di cui mi piace ricordare a memoria un aforisma in
particolare, tratto da In margine a un
discorso implicito, che potrei mettere idealmente ad esergo del libro di
Ansaldi: «L’uomo preferisce discolparsi con l’altrui colpa che con la propria
innocenza».
Si
può dunque concludere che la struttura di questo Manuale sia una progressiva
concrezione che, dalla riflessione paziente e in qualche misura anche
pedagogica, perché sempre attenta ad accompagnare il lettore con l’onestà della
parola, passa sempre più ad affilare le lame e a scegliere la folgorazione
della brevità. Permane sempre comunque lo scrupolo della chiarezza, anche nel
colpo di scena. Il manuale di scettiscismo di Ansaldi ha dunque un andamento
dinamico che somiglia in parte ad una narrazione: non è una semplicemente una
serie di secche conclusioni, ma racconta nel suo svolgersi il modo in cui si
sviluppa un aforisma, per progressiva sottrazione e slittamento dal concreto
all’astratto, nella mente di chi lo crea. Anche per questo, in un genere
difficilissimo dove ogni difetto balza agli occhi come una macchia, l’opera
prima di Ansaldi invece convince; e promette sviluppi ancora nuovi di questa
suggestiva narrazione metalinguistica e meta-mentale.
Amedeo Ansaldi
Manuale di
scetticismo,
Puntoacapo ed. 2014
Pagg. 44 € 8.00
***
RICORDO DI GRAZIA LIVI
di Jacopo Gardella
Cara Grazia, dal comune amico Angelo Gaccione mi è
stato richiesto di scrivere un tuo ricordo da pubblicare sulla sua coraggiosa
rivista ODISSEA. Ho accettato il suo
invito con gratitudine e con la gioia di intraprendere qualcosa che credo ti faccia
piacere. Ma invece di scrivere un ricordo preferisco indirizzarti una lettera.
Voglio illudermi che tu sia ancora vicina a noi e che si possa ancora
conversare insieme.
Grazia Livi |
Da vera toscana la tua conversazione non era mai
neutrale, insignificante, anodina: era sempre vivace, pungente e a volte anche
tagliente. Ciò tuttavia non significa che il tuo animo fosse duro e
insensibile: al contrario, dietro l’asprezza della forma vi era la capacità di
comprendere gli altri, vi era la virtù di accettare le loro debolezze. Questo
tuo atteggiamento a volte creava lievi contrasti tra noi due. Nel giudicare le
persone tu eri più indulgente, io meno accondiscendente. Tu più saggia vedevi
ed apprezzavi le persone nella loro globalità, ne valutavi pregi e difetti. Io
più impulsivo sostenevo che non bisognava essere eccessivamente indulgenti, e anzi
fosse nostro dovere censurare severamente ciò che si considerava sbagliato.
Durante una nostra conversazione su vari argomenti di
ordine religioso mi aveva colpito la tua bonaria simpatia per un pontefice che
io avevo sempre considerato di mentalità ristretta e chiusa, e che dalla
maggior parte dei nostri amici veniva poco stimato: parlo di Papa Ratzinger. Ancora
prima della sua sorprendente abdicazione Papa Ratzinger ti piaceva, ti
convinceva, ti rassicurava. E contro le critiche negative di tutti noi, per lo
più laici anche se non atei, tu opponevi un modo mite e comprensivo di giudicarlo.
L’atto della sua abdicazione, che tante persone consideravano una dimostrazione
di debolezza, tu invece lo vedevi come un atto di umiltà, e lo capivi e lo difendevi,
cercando di spiegarci quale sacrificio era costato quel gesto al Padre del
Cattolicesimo. Questo atteggiamento metteva in luce due aspetti nobili del tuo
carattere: la benevolenza ed il coraggio. Benevolenza nell’accettare e
comprendere anche chi ad un primo momento saresti portata a criticare. Coraggio
nel contrapporti al giudizio corrente, all’opinione condivisa da un gran numero
di persone; coraggio ancora più ammirevole per il fatto di metterti in contrasto
con amici appartenenti al tuo stesso mondo culturale.
Se passiamo dalla Religione alla Recitazione, dalla
Morale al Teatro, ricordo uno spettacolo visto con te e con altri amici e
recitato in un piccolo Teatrino alla periferia di Milano: uno spettacolo
scadente in cui una sola attrice, accovacciata per terra e senza vestiti, tiene
un lungo monologo sulle sue pene sentimentali. Alle critiche metà sarcastiche
metà indignate di tutti noi spettatori tu reagisci e dissenti facendoci notare
la fatica, l'audacia, lo sforzo sostenuto dall’attrice, forse anche le miserie
che la attendono e la accompagnano dietro al palcoscenico; e ci chiedi di
essere comprensivi e tolleranti prima di emettere con troppa fretta la nostra sentenza
di condanna.
Grande coraggio hai saputo dimostrare aderendo al
movimento femminista in un tuo modo tutto particolare e certamente poco condiviso.
Che sia giusto per una donna combattere nelle fila del femminismo è cosa
scontata; ma non altrettanto scontata è la decisione di competere con l’altro
sesso in termini equilibrati e leali, come sempre hai voluto fare tu. Ho
conosciuto molte femministe così aggressive, e intolleranti da danneggiare la
loro stessa causa ed ottenere risultati opposti a quelli desiderati. Invece di attrarre
simpatizzanti e raccogliere seguaci esse alimentano diffidenze ed ostilità; e fanno
apparire il femminismo come un movimento, poco affidabile, poco capace di mantenersi
sereno ed obbiettivo. Tu al contrario hai sempre concepito il femminismo come
un atteggiamento non come un combattimento; hai sempre aiutato la donna ad
emanciparsi non a ribellarsi. Pur essendo consapevole che per il solo fatto di
essere donna ci si trova in condizioni di maggiore fragilità, in posizioni più
vulnerabili, non hai mai auspicato un conflitto aperto contro il genere
maschile; non lo hai mai giudicato né lo hai mai condannato senza prima
sforzarti di individuarne tutte le possibili attenuanti. Assumevi sempre un
atteggiamento che era severo ma non privo di comprensione.
Sui tuoi sentimenti eri riservatissima. Ciò nonostante
questi si potevano intuire ed indovinare anche se espressi con grande
discrezione e con il massimo ritegno. Il sentimento che riservavi a tuo figlio
Gabriele non era solo di amore, era anche di ammirazione e quasi di adorazione;
ma era un sentimento non privo di senso critico e di lucidità. Vi è un tuo
racconto, intitolato "Il vento e la moto" in cui riesci a trasmettere
tutta la angoscia, la tensione, la paura che può soffrire una madre in attesa
di notizie del figlio partito da qualche giorno per un lungo viaggio in
motocicletta. Qualsiasi lettore, senza sapere che Gabriele è appassionato di
moto potenti e veloci, capirebbe che il protagonista del racconto è lui, tuo
figlio, e che la persona in ansia sei tu, sua madre. Il tuo modo di descrivere
la tensione e l'ansia della madre che aspetta la telefonata promessa dal figlio
e che vorrebbe da lui la conferma dell'arrivo sano e salvo alla meta lontana, è
un modo di raccontare asciutto e scarno: «Otto
ore di ritardo. Si trovò impulsivamente davanti al telefono. Staccò la cornetta
che fece "tuu tuu" incosciente, libera. La riagganciò. Risalì senza
speranza e aprì la finestra» (Il
vento e la moto, Garzanti, Milano, 2008, pag. 61). Dalla semplice
osservazione dei fatti, del nudo elenco delle azioni, senza accennare
apertamente né a moti di cuore né a stati d'animo, vengono vividi alla luce
emozioni, sentimenti, palpitazioni. La realtà esterna osservata con precisione
conduce al mondo interiore e fa conoscere al lettore gli affanni della
protagonista e le sue più intime ansie. Tutto ciò è reso con molta maggiore
efficacia di quanto non ne avrebbe una enfatica descrizione di drammi, di
tormenti, di ambasce psicologiche. La nuda cronaca di fatti semplici e di
azioni elementari è sufficiente a trasmettere al lettore lo stato d'animo di
una madre che vive ore di ansiosa attesa.
La tua scrittura è asciutta ma non povera; e soprattutto
mai affrettata, frettolosa, trascurata. Come tutti i bravi artigiani della
parola, anche tu non ti stanchi di elaborare, tornire, calibrare le frasi. Soppesi
i ritmi; studi le cadenze; scegli con cura gli aggettivi. Da genuina figlia di
Firenze il tuo eloquio non si compiace di fronzoli, di pleonasmi, di eccessive
aggettivazioni. Sa essere sintetico, misurato e nello stesso tempo intenso ed
eloquente. Con ciò tu ti avvicini ai migliori autori della nostra lingua che
nell'esercizio della loro scrittura si impongono di trattenere e dominare le loro
emozioni; ricercano una espressione sempre controllata, priva di retorica, esente
da esibizioni; disdegnano l'eloquio enfatico che spesso cessa di essere parlato
e diventa urlato. È istruttivo fare un confronto fra il tuo stile di scrittrice
e lo stile usato da una giornalista di grande successo, Oriana Fallaci. Come
appare nell'articolo di indignazione scritto da lei dopo gli attentati
terroristici alle Torri Gemelle di New York (un articolo chiassoso, violento,
punteggiato da improperi quasi isterici): si avverte subito la differenza non
tanto artistica quanto stilistica fra i due modi di scrivere: composto, e controllato,
il tuo; isterico, esagitato e scomposto il suo.
Chi cura con diligenza la bella forma lo fa non per
esibirla e farsene un vanto ma per servirsene come espressione di un contenuto.
Quale era la ricchezza dei contenuti che ti spingevano a cercare e ricercare la
perfezione della forma? Dei molti contenuti che arricchiscono le tue opere ne
voglio ricordare alcuni. Anzitutto la fatica che ancora oggi fa la donna nella
vita in generale, e la donna scrittrice nel suo lavoro in particolare. In
secondo luogo lo sforzo che la donna deve affrontare da sola per raggiungere la
sua emancipazione e affermare la sua maturità "il segreto dell'accrescimento è
solo in lei che risiede". In terzo luogo la volontà di sapersi
liberare dalla miriade di piccole incombenze domestiche e familiari che alla
donna vengono incessantemente richieste. Se esiste questa volontà: «la donna che si è sottratta alla
disponibilità e alla dispersione è diventata ciò che cercava di essere:
Scrittrice. Anni di disciplina hanno smussato il suo carattere -le durezze, le
insofferenze, i pregiudizi- creando in lei una mansuetudine. E la mansuetudine è
qualità creativa per eccellenza» (Da
una stanza all'altra, La Tartaruga edizioni, Milano, 1992, pag. 182) .
La qualità della "mansuetudine", che a prima
vista sorprende e non ci si aspetta da te, donna salda e ferma nelle tue
convinzioni, significa prudenza nel formulare giudizi; disponibilità a comprendere
ed accettare il prossimo. «La
mansuetudine», citando le tue stesse parole, «da un lato implica la capacità di accogliere maternamente, dall'altro la
volontà di sottomettersi ai significati» (opera citata, pag. 182). La
mansuetudine denota rispetto per il prossimo; propensione a guardarlo
maternamente con occhi benevoli; invito ad accettare consuetudini, tradizioni,
modi di vivere di una comunità consolidata da anni; predisposizione ad
accogliere e sottomettersi con modestia, seppur con occhi sempre vigili e
critici, ai significati che la gente comune attribuisce alla vita. È questa una
lezione di umanità e di comprensione che si trova raramente anche tra persone
brillanti ed intelligenti e tuttavia restie ad ascoltare gli altri quando gli
altri hanno idee diverse dalle loro.
In questo tuo concetto di mansuetudine affiora quell'imperativo
evangelico non sempre facile da interpretare che dice testualmente: "guai
a chi dà scandalo". Un imperativo da rivolgere ai tanti presuntuosi e
saccenti "maître à penser", ossia intellettuali, i quali per gusto di
apparire emancipati e superiori non si peritano di offendere i sentimenti della
gente comune, le credenze dei ceti modesti e popolari. “Mansuetudine” tuttavia in
te non significa “buonismo”, né debolezza di carattere, né generica tolleranza.
Anzi il tuo carattere è forte e ben determinato: sicuro di sé, severo,
intransigente. I tuoi giudizi senza mai essere cattivi sono sempre netti e
taglienti.
La fatica richiesta dal desiderio di raggiungere la
perfezione formale è proporzionale alla profondità del contenuto che si vuole
esprimere. Rammentando questa fatica, che è ancora maggiore se affrontata da
una donna scrittrice, ti confessi apertamente parlando del tuo lavoro in terza
persona: «Cancella, scrive, getta via,
ricomincia da capo. È solo lei che, interrogando le cose che via via si
affacciano alla pagina scritta, conferisce loro ricchezza» (opera citata, pag.
182). In quel ritrarre te stessa, che con pazienza scrivi e riscrivi più volte
una stessa pagina fino a quando non te ne senti soddisfatta, mi sono venuti in
mente alcuni grandi autori del passato: Bach diceva che la musica è pazienza;
Le Corbusier diceva che l'architettura è ricerca paziente; Goethe con grande
pazienza spostava e rispostava una virgola fino a quando non ne trovava la
posizione giusta. Come tutti gli autori seri anche tu sai che la buona
scrittura è pazienza. Nonostante l’insulso ritornello popolare che dice "il
genio è sregolatezza", tu sei ben consapevole che il genio non è affatto
sregolatezza, ma è lavoro meticoloso, impegno, prolungato, applicazione tenace.
Della fatica che sta dietro al tuo modo di scrivere non ci si accorge al primo
momento, ma presto la si intuisce. L’esattezza delle tue descrizioni e la
precisione delle tue immagini non sono casuali ed improvvisate; sono il risultato
di un lento lavoro di affinamento, sono la conseguenza di una selezione
esigente, di un continuo confronto, di una estenuante fatica. La creazione infatti
è fatica e la fatica esige pazienza.
Forse per il fatto che l'aspetto religioso della vita ti
ha sempre interessato ed appassionato, forse perché i problemi spirituali non
sono mai stati estranei alla tua natura, fatto sta che decidi di iniziare la
tua raccolta di saggi intitolata "Da
una stanza all'altra" con la citazione di un teologo protestante. Dagli
scritti del pastore Paul Tillich (1886-1965), hai scelto il seguente pensiero:
«Avendo il coraggio di essere noi stessi
diventiamo colpevoli e ci è richiesto di assumere questa colpa esistenziale».
Compare qui non tanto un tema religioso quanto il dramma della difficile
emancipazione a cui è chiamato l'artista in generale e la donna scrittrice in
particolare; compare lo sforzo di chi per seguire la sua vocazione e costretto
a sostenere la fatica della creazione. È un tema che ti appassiona ed angustia;
lo fai tuo; lo vivi in prima persona.
Il coraggio di essere se stessi, cioè di affermare la
proprie convinzioni implica la dolorosa conseguenza di essere considerati
colpevoli: colpevoli perché non ci si adegua alle convinzioni degli altri, perché
si è diversi da loro; perché si scelgono strade che la gente normale non solo stenta
a capire ma spesso disapprova e perciò stesso considera una colpa il volerle
percorrere. Ed è una colpa che ci segue per tutta la durata della nostra esistenza,
una colpa esistenziale, come dice appunto Tillich.
***
Numerose sono le citazioni tratte dai tuoi libri che
toccano questo angoscioso tema. Parlando della poetessa statunitense Emily
Dickinson (1830-1886) fai queste considerazioni: «Per le donne l'adeguamento» (cioè, aggiungo io, l'accettazione
delle convenzioni comuni) «è sempre stato
un valore molto alto. È, in effetti, l'unico valore che assicura l'appoggio
sociale, l'apparente soluzione dei conflitti interiori, il consenso delle due
figure granitiche poste come sfingi al fianco: la madre e il padre» (opera
citata, pag. 82). Sempre parlando della Dickinson e della sua estraneità al
mondo in cui viveva, osservi: «La
diversità è un peso arduo da sopportare. A volte ne è soverchiata: da un lato
ciò che venera e seguita a venerare -il padre, i famigliari, la casa-
dall'altro la percezione di un limite invalicabile, di una impossibilità di
fusione» (opera citata, pag. 84). Con questa citazione fai una acuta e
verace descrizione delle piccole ferite subite dalla Dickinson nella vita di
famiglia, delle frequenti incomprensioni
di cui era vittima per colpa di genitori non certo cattivi ma limitati e poco
sensibili.
***
In un'altra parte dello stesso libro auspichi per la
donna scrittrice un luogo dove possa ritirarsi, raccogliersi in se stessa,
creare in silenzio. E fai questa raccomandazione: «Essere vigile, assorta, silenziosa, riunita. Starsene in disparte per
osservare, per far germogliare il seme». (opera citata, pag. 15) «Accade a volte che una donna desideri
appartarsi. La mancanza di una stanza non è forse una caratteristica
connaturata all'esistenza femminile?» (opera citata, pag. 14) «Come rifiutarsi alla disponibilità? Con
quale giustificazione o pretesto?» «Ma
tutte quelle che restano -la maggioranza- scelgono di non scegliere. (...) Ecco il diritto che occorre affermare con
urgenza -diritto e
necessità- prima che il seme della creazione venga soffocato» (opera
citata, pag. 15).
Non tutte le donne hanno la forza di affrontare il senso
di colpa che viene riversato addosso a loro dalle gente comune, dal mondo delle
convenzioni. Alla fine cedono, si arrendono, scelgono di non scegliere. Poche
sono le donne che hanno la forza di difendere la loro scelta e di chiudersi in
una stanza tutta per sé. Lo spiega con chiarezza una tua concisa
considerazione: «Dunque la stanza, la
vera stanza, richiede coraggio. Il coraggio di uscire dalla nicchia della
propria vita minuta, all'ombra, al sicuro. Di prorompere in una singolarità che
può risultare poco gradita agli altri». Entriamo nella stanza. «Una donna assorta, dall'aspetto comune. Lavora.
Da tempo ha capito che là dove non esiste identità consolidata, affinata, non
esiste scrittura che valga. (...) Ma
prima ha dovuto sottrarsi alla disponibilità che è ascolto breve, scheggiato
(...) che è attenzione sempre distolta
(...) Si è sottratta alla superficie del
quotidiano (...) Si è sottratta alla
compagnia non scelta, alle parole occasionali» (opera citata, pag. 181).
Poi a conferma del tuo pensiero aggiungi questa citazione tratta da un acuto e
noto scrittore: «Altrimenti nel
chiacchiericcio delle cose interne ed esterne, come udire l'anima che parla?»
(James Hillman, Il mito dell'analisi,
Adelphi, Milano, 1975).
***
Gilberto Finzi e Grazia Livi |
Guardiamo la tua foto-ritratto. Sul bel volto luminoso si
intravedono contemporaneamente due espressioni contrastanti: un'ombra di
tristezza ed un lampo di ironia. "Tristezza" perché sei consapevole
dei dolori che ci circondano; non resti indifferente ed insensibile di fronte
ai mali del mondo. "Ironia" perché sai tenere un giusto distacco
dalla realtà; e sai che solo dal distacco nasce l'ironia, la capacità di
osservare senza essere trascinata; la forza di vedere senza immedesimarsi; la
abilità di lasciarsi coinvolgere ma non travolgere; e quindi il dono di
descrivere la realtà mantenendo la
necessaria obbiettività di giudizio. Con il prossimo eri sempre cordiale ma non
esageratamente confidenziale. Conservavi in ogni occasione un atteggiamento
calmo, autorevole, controllato. Avevi un modo elegante e posato di muoverti, di
comportarti, di agire. Avevi quello che si usa definire un
"portamento". È sufficiente vedere nella foto-ritratto la posa del
braccio; l'inclinazione della spalla; lo sguardo dritto e franco verso
l'osservatore. Ci si accorge di essere davanti ad una signora che ascolta con
attenzione gli altri ma che per se stessa non indulge a disattenzioni, a errori
di comportamento. Chi è aristocratico nell'animo e nei modi non prede la
consapevolezza del proprio stile e la coscienza della propria dignità.
***
Hai descritto te stessa con una frase asciutta e
lapidaria: «La mia vita è una storia di
parole pensate». Tutta la tua vita è stata dedicata alle parole, che fossero
scritte o parlate erano sempre parole "pensate". Che significa
pensate? Significa che non erano mai parole pronunciate a caso, di fretta, poco
ponderate: erano sempre parole meditate. Ciò vale tanto per le tue opere letterarie
quanto per le tue conversazioni. Così come non scrivevi con disattenzione nemmeno
parlavi con superficialità. Ogni parola aveva un peso, un significato, una
ragione. Nella sintetica frase autobiografica si ritrova il commento del
ritratto fotografico; le due immagini di te stessa sono complementari; si integrano
e chiariscono a vicenda.
***
Non sei solo una brava scrittrice; sei anche una profonda
pensatrice. I suoi testi contengono riflessioni acute e penetranti; e denotano
in te una solida visione etica. Pur possedendo e custodendo in te valori certi e
stabili ciò non ti impediva di essere aperta alle varie manifestazioni della
vita, anche alle più ostiche, e di guardare il mondo, anche il meno roseo,
senza astio né malevolenza; piuttosto con curiosità e forzo di comprensione. Eri
abbastanza sicura di te per poter simpatizzare con persone e con mentalità che
erano diverse dalle tue. Pur essendo donna moderna, libera, emancipata,
conservavi e lasciavi intuire la profonda impronta di una tradizione famigliare
sana ed onesta, mostrarvi il retaggio di un ambiente serio e colto. Frequentavi
artisti ed intellettuali, ma non ti sei mai atteggiata né ad artista né ad
intellettuale. Mai ha rinunciato alla tua immagine di signora ironica e nello
stesso tempo piena di dignità; austera e nello stesso tempo aperta al folclore del
mondo "bohèmien". Mai hai perso il tuo stile di persona corretta, il tuo
portamento di dama; la tua figura di signora non nelle apparenze ma nello
spirito.
***
In un moneto di grande confusione come quello che stiamo
passando non è esagerato dire che possiamo considerarti un “maestro”; una
figura di riferimento solida ed equilibrata; una persona capace di dare
indicazioni serene e pacate; una amica leale.
Come succede quando si ha la fortuna di frequentare
persone di statura non comune, persone speciali, al momento in cui esse ci
lasciano sorgono rimorsi, pentimenti, dispiaceri per quanto si è perso e non sarà
più possibile condividere insieme. Il valore di una persona è misurato dalla
intensità del dolore che si prova sapendo di non poterla più incontrare, di non
poter più ricevere da lei quella ricchezza di consigli, di suggerimenti, di
aiuti di cui ci faceva dono e per cui le saremo sempre grati.
Cara Grazia, questa lettera è un tentativo di sentirti
ancora vicina, di continuare ancora conversazioni con te. Jacopo
***CLAUDIA AZZOLA
Claudia Azzola |
SCALE
Nelle dicerie di
uomini scaltri,
ho letto le mene degli astuti,
non sono bastate a servire il mondo,
servire il muto, il senza parola,
lo scampato, su scale confuse,
abbagliato da un sole grosso:
eravamo gli antichi, stagliati
su terso campo visivo:
sopravvissuti, sogniamo di niente.
Eravamo qui a completare
il mondo, costruire natura e arte,
nel fulgido secolo c’erano i minerali,
carbone, uranio, salgemma,
con la materia si viene a patti;
siamo gli antichi, con parole gravi
velato pianto, scale musicali al canto;
sguardo d’intesa…
cara moglie vengo a casa
per fare niente, avevo chiesto di servire.
L’uomo vuole stare nel mondo non stare
come il bue nella stalla, pietire un cibo
o una mannaia. Se non ci fanno fare la storia.
***
Pier Paolo Pasolini non è (più) qui: 'viaggio' nei luoghi della sua gioventù
di Giorgio Quaglia
Per ricordare i
quarantanni della scomparsa del poeta
bolognese-friulano, “Odissea” ospita questo
ricco e prezioso viaggio
di Giorgio
Quaglia, sui luoghi Pasoliniani.
Non so bene per quali inconsce
ragioni abbia lasciato trascorrere mesi prima di scrivere le presenti
impressioni su quella che avevo da sempre considerato la visita più desiderata della mia vita, che mi ha portato soltanto
all’inizio del mese di agosto 2012 in territorio friulano, a Casarsa, paese
natale della madre di Pier Paolo Pasolini, dove trascorse parte della
giovinezza e dove è sepolto; per anni pensata, ventilata e sempre rinviata, con
un velo di sottile e angosciante amarezza, la stessa ogni volta provata nel
rapportarmi al ricordo lacerante della sua brutale uccisione, al “fascino
esistenziale” che mi coinvolse e accompagnò (e ancora accompagna) insieme a una
moltitudine di altri estimatori, nonché la crescente “lontananza” fisica dopo
che mi ero ripromesso di conoscerlo, senza però essere riuscito a mettere in
pratica tale proposito. Sì, dopo il ravvivarsi della vecchia “scintilla” attraverso il blog che nel 2009 prese il nome appunto
dell’omonima rivista edita in Val d’Ossola dal Circolo culturale intestato al
Poeta subito dopo la sua scomparsa, è
stata forse la necessità di una “conoscenza”
diretta, di un “contatto” -pur se post morte- a mantenere attiva la
volontà di “chiudere” in modo simbolico
un percorso iniziato quella tragica
notte fra l’uno e il due novembre del 1975; mentre tale volontà ha potuto
infine concretizzarsi grazie al sensibile impegno di una persona molto
speciale.
Siamo così a Casarsa della
Delizia e il pensiero eccitante dell’itinerario prospettato per telefono dalla
cortese Angela Felice, interpellata in precedenza come direttrice del locale
“Centro studi” intestato allo scrittore (edificio intravisto sulla via per
raggiungere il vicino albergo), impregna il tempo serale di questa calda
giornata friulana. L’incontro con lei è previsto prima di cena, quando dopo le presentazioni e non molte
parole (le sue di marcata dolcezza fonetica, in sintonia con l’insieme
dell’esile figura), l’imbarazzo iniziale
si scioglie nella famigliare
percezione di una chiara “sintonia” nel ricordare opere e vita di Pasolini, in
particolare per le anticipazioni su quanto ci avrebbe poi accompagnato a
vedere. “Domani mattina andate a visitare
il cimitero, entrando a sinistra ad una decina di metri contro il muro di
recinzione troverete subito la tomba di Pier Paolo con la mamma Susanna
Colussi; quasi di fronte vi è quella
della zia Giannina e poi quella del padre Carlo Alberto, mentre sul lato destro
è sepolto il fratello partigiano Guido. Dopo venite al Centro, io vi aspetto là”.
La casa materna. Casa Colussi |
La notte, le parole di Angela -con
quel “la tomba di Pier Paolo…”-, il
suono delle campane che battono le ore (immutate nelle epoche e nella
tradizione), insieme all’atmosfera del posto, impediscono al sonno richiesto
dalla stanchezza del lungo viaggio di cogliermi presto. Non ero, in un sogno,
così vicino alla ‘morte’
dell’intellettuale che tanto spazio aveva occupato e occupava nel mio cuore,
che aveva trasformato buona parte della mia esistenza in una continua,
ossessiva “lotta personale”, ma ero davvero là a poche centinaia di metri dalle
sue spoglie, a poche ore da quell’"appuntamento” tanto agognato e dagli
esiti intimi poco prevedibili. I film visti, i libri letti, gli innumerevoli
pensieri -passati e più recenti-, le discussioni infinite, gli articoli (anche
miei) che lo avevano riguardato, tutta l’amalgama dei sentimenti di “religioso
affetto” verso la sua persona e di totale adesione nei confronti delle sue
nette prese di posizioni, si stavano concentrando in quel poco lasso di tempo
che ci separava dall’alba, forse in un ‘bisogno’ profondo di placare la mia
rinnovata inquietudine, riscattando così -quasi in un reciproco ‘perdono’- una
mancata (e ora impossibile) diretta “conoscenza”.
Il cimitero è come altri, non tanto
grande e vi si accede attraverso un viale di cipressi da percorrere in auto;
poi, a lato dell’ingresso, una targa indica come raggiungere la tomba più
conosciuta e importante; sono pochi passi che fanno salire l’emozione quasi
fino alle lacrime però trattenute alla vista del boschetto che, adiacente il
muro di recinzione, sovrasta due
quadrati di marmo bianco -posati a terra
fra i ciottoli e bordati da un’aiuola di minuscole piantine- con le scritte:
“PIER PAOLO PASOLINI” e sotto fra parentesi le date “1922-75” (quella di
destra) e “SUSANNA COLUSSI, VED. PASOLINI, (1891-81)” a sinistra, mentre sassolini, rametti o fiori secchi e
bigliettini sono sparsi sulla lastra in particolare di Pier Paolo. Il tutto
infatti, oltre al senso di ‘umiltà’ e ‘semplicità’ voluto -come verremo a
sapere in seguito- dal progettista in sintonia con le personalità dei defunti e
l’amore sconfinato che legava madre e figlio, dà un’idea di trasandatezza e
quasi di “abbandono”, con gli arbusti di alloro e di gelsomino rampicante
dietro sul muro cresciuti a dismisura e
poco curati e svariato fogliame secco (tanto che l’impulso, poi soddisfatto, è
stato quello di fare un po’ di sommaria pulizia). Immaginando il lungo elenco
di personalità e di gente comune non solo italiane che hanno sostato in quel
luogo, in preghiera o in meditazione, nonostante la profonda delusione ‘visiva’ la commozione rimane forte
insieme al bisogno di un intimo “dialogo”.
Dobbiamo tornare in paese,
Angela ci aspetta al ‘Centro’, vi sono ancora tante cose da vedere e un po’ di foto ci sono già, unite al
proposito di rinnovare la visita, quando la tensione dell’impatto iniziale sarà
scemata nella consapevolezza in fondo gioiosa di aver soddisfatto un lungo e
sofferto desiderio, pur se in modo parziale. “Casa Colussi” (dove era nata
mamma Susanna) è parte integrante del “Centro culturale” e sono proprio quei
locali che credo facciano di più sentire e “vivere” -con meno asetticità percepita in altre sale- la storia e le
vicende umane dei ‘personaggi’ che le hanno abitate, compreso quel legame quasi
morboso di amore fra Pier Paolo e colei che segnerà in senso profondo (e
positivo) tutta la sua esistenza. Poter toccare quei mobili, una scrivania in
particolare, che facevano parte della quotidianità (e del lavoro-passione, più concentrato nell’ala dell’edificio
aggiunto apposta nel 1946 per ospitarvi “l’Academiuta
di Lenga Furlana”, una sorta di rustico ‘salotto letterario’ che riuniva
poeti e scrittori), supera poi la sensazione di vicinanza che pur danno le innumerevoli fotografie famigliari e
giovanili o quelle sul set di alcuni film (è in visione, per giunta, la mostra
di 70 memorabili scatti del fotografo Roberto Villa durante la lavorazione de “Il fiore delle Mille e una notte”), i
documenti e le lettere autografi, i dipinti, altri oggetti. Nella piccola
specifica biblioteca del “Centro”, gli innumerevoli testi critici o fotografici
e le tesi di laurea che riguardano lo scrittore, nonché le copie delle sue
opere letterarie e cinematografiche dimostrano anche a colpo d’occhio il ‘peso’
e la ‘forza’ intellettuali avute ed esercitate da Pasolini e la frenesia di
poter sfogliare numerosi libri sconosciuti o introvabili, fa il paio con la sensazione
crescente di sentire un po’ meno ‘esclusivo’ dentro di me lo “spirito” di Pier Paolo, come se quell’ufficialità così consistente, incisiva e
completa -accrescendo in modo esponenziale la grandezza “collettiva” della sua figura- rendesse insignificante la mia
personale passione per lui, una certa
presunta simbiosi, se non il mio
implicito e forte legame ideale con un modo critico originale ed esclusivo di
rapportarsi alla realtà che in
parte ero e sono convinto appartenesse
anche a me.
Sarà la visita alla vicina
chiesetta di Santa Croce, …arricchita
nella facciata -come recita il depliant illustrativo degli “itinerari pasoliniani”- dagli archetti a sesto acuto sotto gronda,
dalla porta rettangolare inquadrata in pietra con timpano interrotto e dall’occhio
circolare… e di cui Angela mi consegnerà le chiavi per una simbolica e
gradita ‘apertura’, sarà questa visita –dicevo- a restituirmi la solita
‘dimensione’ di Pier Paolo, anche nella sua (e nostra) solitudine; qui, infatti, si svolsero il 6 Novembre 1975 le sue
esequie “private”, alla presenza di famigliari, amici e cittadini del luogo; ad
accoglierlo ed a tenerne l’orazione funebre, un altro significativo poeta
friulano, padre David Maria Turoldo. Quel giorno Pasolini era tornato li, dove
tante volte aveva ammirato gli affreschi del presbiterio poligonale realizzati
da Pomponio Amalteo e al cospetto di
quella famosa lapide che a trent’anni dall’invasione dei turchi del 1499,
rendeva grazia alla salvezza di Casarsa risparmiata dalle loro devastazioni,
lapide che nel 1944 (con evidente trasposizione con l’occupazione nazista e la
Resistenza) avrebbe ispirato al suo illustre concittadino ora ritornato per sempre
il dramma teatrale in dialetto “I Turcs
tal Friuli”.
Giorgio Quaglia a Lecce |
Immagino la tua bara, vicino, e
penso a quanti, lontano da questo luogo ‘protettivo’ -nella Roma capitale, fra
quella “massa omologata”- ti hanno
odiato (forse anche fino al punto di massacrarti), deridendo la tua ‘diversità’ totale, cercando di
osteggiare il tuo lavoro, di isolare le tue chiare posizioni, di sminuire le
tue invettive profetiche, di smorzare il tuo amore per la verità e la vita. Nessuno, credo, avrebbe resistito e perseverato
come te al fango e all’avversione pubblica quotidiani, alle espressioni
vergognose di un Potere e di un Paese (il "Palazzo"), immagine
riflessa e complementare del suo Popolo (un
tempo da te amato), nessuno avrebbe assunto sulla sua persona il compito arduo
di rappresentare uno “strumento” di rivoluzione culturale e intellettuale così
esposto e bersagliato (anche fra la cerchia delle ‘amicizie’ letterarie). Mi
sono sempre chiesto e mi chiedo, come molti, quale sarebbe stata l’evoluzione
del tuo pensiero, che tipo di analisi negli anni avrebbe provocato in te (con
la solita lucidità?) la situazione degenerativa vissuta dall’Italia (e dal
mondo) e come, la stessa -nelle sue
varie rappresentanze istituzionali, politiche e artistiche- avrebbe continuato a reagire, senza la tua
morte, con la tua ‘presenza’, i tuoi interventi, le tue opere. Domanda di
retorica amarezza, lo so, ma le risposte -almeno per quanto mi riguarda- non
hanno mai lasciano spazio ad alcuna incertezza: implacabile e feroce sarebbe apparso
ancor di più il tuo “solitario e angosciante grido” contro ciò che già allora
stava producendo la televisione che, scrivevi: “…diventerà ancora più potente e la violenza del suo bombardamento
ideologico non avrà più limiti. La forma di vita -sotto culturale, qualunquista e volgare- descritta e imposta dalla televisione, non avrà più alternative”;
in quanto al potere della ‘nomenclatura’ di ogni grado e settore invece, è più
semplice dedurre che di pari passo con la sua terribile involuzione
etico-morale (criminale), ti avrebbe ritenuto col tempo del tutto
‘insopportabile’, cercando di negarti ogni spazio di espressione libera, fino
ad arrivare poi (è presumibile attraverso la Mafia) ad organizzare in grande e
non frainteso stile la tua eliminazione fisica. Quella reale, la morte in senso
storico, ti aveva portato qui, nella chiesetta di Santa Croce a Casarsa dove io
-dopo quarantasette anni e fra le più
contrastanti reazioni emotive- stavo cercando ancora di “sentirti” e
“parlarti”.
E’
diverso, ma lo stesso interessante ed evocativo, l’impatto con un altro piccolo
luogo di culto, Sant’Antonio Abate, dove alcuni notevoli affreschi del XIV
secolo, coperti da intonaco, furono
riportati alla luce proprio da Pasolini e dai suoi allievi; abbiamo
infatti raggiunto la località periferica Versutta dove lo scrittore era dovuto
sfollare nel 1944 con la madre in seguito al pericolo della distruttiva
ritirata tedesca e li, in un casolare, vengono organizzate- e dureranno peraltro fino al 1947 -lezioni
scolastiche per i ragazzini che non possono allontanarsi dal luogo (di sicuro
molto cambiato da allora…[”gelsi in
grande quantità, e vigne nei (…) dei campi. Il frumento, la segale e,
soprattutto, il granoturco, crescono abbondanti, nei piccoli campi, separati da
un gran numero di rogge, roggette, fossati. A Febbraio, quando nessuna foglia
fa ombra, la campagna pare infinita – come nelle notti di luna -; arriva presso
le montagne e, ai piedi di queste si vedono, come file di perline, i paesini
del Friuli…”], ma l’atmosfera contadina incontaminata di cui un giovane
maestro-poeta si inebriava e ne veniva ispirato, è percepibile lo stesso fra il
verde di prati e coltivazioni e la vetustà di alcuni edifici). Di tutto questo
e di quel particolare periodo di “costrizione” territoriale -peraltro non
improvvisa se Pasolini già nell’autunno del 1943 aveva affittato li una camera
presso la famiglia Bazzana-, non so se la minuta fontana a parallelepipedo
posta nella piazzetta a ridosso della chiesa, risistemata dall’architetto Paolo
De Rocco con i sassi del Tagliamento e vecchi mattoni, sia la
“rappresentazione” oppure se (come nelle intenzioni dichiarate) costituisca
solo il simbolo della poesia pasoliniana, portando incise nella parte superiore
e sui due fronti le scritte di due sue opere, ossia “gioventù -la meglio- la nuova”; una cosa è certa, lo zampillo
di acqua da cui voglio bere e bevo, questo si come gesto simbolico, è fresca e
buona come del resto tutte le ‘rogge’ di cui era ricca la campagna di Casarsa e
di cui lo stesso Pasolini ebbe a lamentarsi per la loro progressiva scomparsa.
Si è fatto tardi per il pranzo
previsto in un accogliente e particolare ristorante nell’incantevole piazzetta
di Valvasone (“…la gioia fu completa
davanti ai portici a sesto acuto dell’annosa piazza…”) a ridosso della sua torre suggestiva (“…chi mi assicura che io non abbia gridato
davanti al castello?...”), come tutto quel borgo dove il ‘silenzio’ ti
avvolge fino a “fermare”, insieme alla tipologia di numerose costruzioni (di
cui quella con la vecchia ruota per macinare mossa ancora dall’acqua ne rappresenta
un esempio prezioso), il trascorrere del tempo
(“…Con l’andar del tempo questo
paese divenne uno dei luoghi sacri del mio grande lucus friulano, e spesso
tornavo a visitarlo..."); tempo che invece di fatto è incalzante e sta
consumando in fretta la nostra visita; una nuova sosta al cimitero, riafferma
le sensazioni precedenti, senza aggiungere o togliere né domande né risposte al
mio “dialogo” (in realtà monologo)
attraverso cui a “contatto” con i resti di Pier Paolo avrei voluto e voglio
capire qualcosa di più e meglio su...
E’
tempo di salutare chi, in questi due giorni, ha svolto con diligenza il suo
compito professionale di “guida” alla scoperta dei luoghi che furono cari allo
scrittore e che ‘vivono’ anche con l’esposizione e la valorizzazione delle sue
opere, dei suoi oggetti, della sua ‘presenza’ giovanile (non basterebbe il vino
a rendere conosciuta al mondo Casarsa della Delizia!); da parecchio ormai c’è
il “Centro studi” (che sforna svariate iniziative all’anno) ed è alla medesima
responsabile, ad Angela che -nel commiato- mi piacerebbe confessare il vero
motivo della mia ‘visita’, l’intimo desiderio avuto di “incontrare” Pier Paolo,
in un certo senso di “recuperare” gli anni perduti nell’inerzia o nell’indifferenza,
di superare i rimorsi e riuscire a “riscattare” la sua morte; oppure che non so ancora bene cosa “riporterò” con me e in
me, di nuovo e di diverso, tornando a casa, nelle mie “sperdute e becere”
montagne ossolane, né se un po’ del senso di sconforto, di delusione, di
stanchezza (di fronte al calviniano “inferno
quotidiano del mondo e dei viventi”) sia rimasto qua dove appunto dovrebbe
sentirsi (e io avrei dovuto sentire) di più quella sua ‘presenza’ di passione e
di lotta; ma non riesco a spiegare più nulla ad Angela, posso soltanto
abbracciarla e dirle grazie.
Mi
sto chiedendo, uscendo dal “Centro”, se nonostante i reciproci “arrivederci” e buoni
propositi tornerò ancora in questi
luoghi, a Casarsa, a “cercare” qualcosa di Pasolini, a “parlare” ancora con lui, a “interrogarlo”;
le “risposte” (che in fondo mi sono dato) durante la ‘visita’ comunque positiva e intensa, non sono esaurienti, permane una delusione di fondo ma
ora non ne comprendo le ragioni che soltanto dopo giorni e giorni percepirò con
chiarezza, anche se una frase mi frulla subito nella testa mentre l’auto
percorre la strada che porta fuori dal paese, in direzione Udine. Ora ho capito
e credo che l’ufficialità (di
qualunque natura o aspetto) abbia un peso molto relativo nel cercare di rendere
“attuale” -dunque applicabile- il metodo analitico sociologico (marxista, per la sua visione) di Pier
Paolo nel giudicare la realtà e i
fenomeni e non soltanto perché la massa
(nonostante Internet) è quasi del tutto esclusa da qualsiasi proposito o
‘messaggio educativo’ estrapolato o dedotto dalle sue opere e dalle sue
posizioni; peraltro, va ribadito, a livello di élite letteraria e
giornalistica nessuno lo ha saputo e lo sa “imitare” in questo e non è proprio sufficiente
che si allarghi soltanto -appunto attraverso le iniziative e la conoscenza, a
meno ché non sia avviato un serio programma scolastico- la platea di coloro che
(da una parte pure in modo pretestuoso, per interesse, per ‘moda’ o
ambizione-vanto) lo seguono, lo studiano e lo “amano” (in modo paradossale
cresciuta proporzionalmente al
peggioramento generale del Paese e, in particolare -come conferma delle vecchie
“denunce corsare”-, della sua informazione in primis televisiva).
Pasolini sul set de "Il fiore delle mille e una notte" Foto di Roberto Villa |
Il
“messaggio” reale di Pasolini, il suo “spirito” libero, “vive” e “aleggia” dunque
soprattutto dove -in
ogni parte nel mondo- esistono esseri umani reietti e sfruttati, dove la
potenza distruttrice e avida del “capitale” tiene soggiogati interi popoli,
dove neppure il sentimento della “pietas” rende dignità sociale a milioni di
migranti, esuli o rifugiati privi di “cittadinanza”, dove la discriminazione
etnica, religiosa e sessuale è pretesto doloroso di dominio, dove la macchina
terribile e costosa delle guerre (preparate, volute, sostenute o attuate da
Paesi “civili”, compreso il nostro), mietono nell’indifferenza vittime e
devastazioni immani; in Italia invece, “vive” e “aleggia” dove il senso
religioso della vita non è stato ancora infangato dal potere temporale dei
vertici della Chiesa cattolica (immobile e arretrata nella Storia, insieme ai
suoi fedeli); dove l’etica e la morale politico-economica non hanno subito
l’influenza penosa e degradante della “classe dirigente” finanziaria,
amministrativa e istituzionale di questi decenni (in collusione o in complicità
con le varie Mafie); dove l’opinione e le idee non si formano attraverso la
struttura indecente e volgare dell’in-formazione soprattutto televisiva (di cui
purtroppo si avvale ormai anche la Rete informatica); dove le parole accettazione,
fratellanza, ascolto, solidarietà, verità non sono sostituite dalla paura, dai
privilegi, dall’indifferenza, dall’arroganza, dall’ipocrisia; infine dove la Poesia “come sottile amorosa traccia, /nella storia unisce/ i secoli del nostro mondo”.
Qui, soltanto qui, “vive” e occorre far “vivere” Pasolini, ed è questa
sua “immagine universale”, questo senso
del “legame” con lui che, attraverso il viaggio in Friuli, si sono rinnovati e
rafforzati in me.
Ecco
perché, lasciando Casarsa, mi arrovellavo con questa frase: “Pier Paolo non
è (più) qui”.
Nota redazionale
Nell'agosto
del 2014 l'autore, in occasione del 50esimo del film "Il Vangelo secondo Matteo" e
proseguendo nei suoi 'itinerari pasoliniani', è stato in Puglia e Basilicata.
Il 30.12.2014 sul blog "pqlascintilla"
è stato pubblicato il resoconto di quel viaggio dal titolo "A Matera il mio 'addio' a Pier Paolo
Pasolini (e alla 'consapevolezza' umana)", in cui fra l'altro è
annunciata la decisione di non scrivere mai più su di lui anche: "...per spegnere il dubbio ormai assillante
di essere trascinato --insieme al 'poeta delle Ceneri di Gramsci' e
in coincidenza con il quarantesimo anniversario della sua fine- nella tragica 'normalità' di uno status quo immutabile in cui l'uomo moderno, con la vana ricercata 'consapevolezza' di sé, di tutto e su tutto e anche
nella sua vantata individualità (pur di opposizione o contrasto che sia), ne
rappresenta in sostanza una conferma e una continuità (collettive)
essenziali".
CLAUDIO ZANINI
Cronache del limbo
Claudio Zanini |
Cronache del Limbo, dal ritmo melanconico e graziosamente
negativo, ti accompagna, ti avvolge con spin(t)e volutamente contrastanti.
Credo sia quasi esplicito il riferimento a Kafka, ai suoi (e tuoi) “desolati
ambiti d’attesa”, all’interrogazione senza risposta. Ma tutta tua
personale è questa fluttuazione nel vuoto, nel gelo e immobilità del tempo.
Anche lo scivolare della riduzione, dello svuotamento, della contrapposizione:
c’è il guardiano, ma è uno di noi, c’è il sole, la luce, il suono, la voce, la
stanza, ma abbassati, spenti, ridotti a fantasmi, a superflui filamenti
biancastri. Le sedie non hanno sedenti, gli angeli non hanno ali,
i corpi non hanno corporeità, il peso non ha peso, il bianco non
è colore. Anzi, a volte, è una minaccia, il camice di contenzione. Ad
ogni nominazione segue la sua negazione. Ma la nominazione è importante quanto
la sua negazione, il vuoto mantiene l’impronta di ciò che manca, rinnovando di
continuo il desiderio dell’immagine, anche lei in via di sparizione, il
pensiero, il soffio di quella mancanza. Lo stare è sempre un esilio, una
mancanza, anch’essa precaria, ma…. Un Limbo di macerie, ma anche
una perpetua nostalgia del mancante. (Giorgio
Colombo)
1
Ospitati, siamo, come in un immenso ospedale
da cui si potrebbe uscire solo
per una feria breve.
Ma di noi nessuno esce, poiché
sulla soglia
una strana nostalgia di stanze
vuote, d’echi
d’un silente deambulare, insinua
un torpore vago,
quasi un’incertezza che induce a
rimandare.
In realtà, è il timore dell’insopportabile
clamore
ed’un lucore lancinante e d’un
fracasso d’ossa
nella nostra testa, qui lontano,
attutite
e, sebbene tanto ci appartenga,
indolore (1).
1) (Si mettono in scena effimere
catastrofi
a simular dolore, qui, dove il
dolore
è scialbo, albuminoso, più una
sensazione
di vuoto che dolore veritiero. Nell’anima
lascia solamente rimarginabili
abrasioni ma,
pensate! indelebili tracce
collose sulle dita.)
2
Niente d’irreparabile, in questa quieta attesa;
è un luogo d'aria persa, di momentanea resa.
Ciondoliamo il capo nell'ombra della sera
perduto lo sguardo negli occhi del vicino.
L’un l'altro accanto ci stendiamo, tarda è l'ora,
la luce tersa si scolora in fuliggine sospesa.
una cosa inquieta, tuttavia: è l'elusione,
sempre presente, alla domanda informulata
ma fissa nella mente: perché siamo qui?
4
Eppure, questi desolati ambiti d’attesa
dove il sole disegna in pallidi riquadri
sul soffitto (1) scialbi riverberi di luce,
nel loro esangue stato di non-luogo
hanno qualcosa di toccante, di pietoso:
l’esitare commovente che rivela
agli sguardi di coloro in vana attesa,
la precaria condizione creaturale
- cioè l’attesa d’un ignoto inesplicabile -
e la domanda muta perché tutto accada,
senza requie e per sempre ripetuto.
1)(Qui, il
sole, privo in tutto di calore,
lo si
vede in basso, dagli ampi finestroni,
sporgendosi
nel vuoto con cautela timorosa:
incolore,
affiora sotto l’orizzonte)
6
S’è udito
un rumore di ferraglia, all’ora sesta (1),
come se
autocarri scaricassero rottami a tonnellate,
ma nulla s’era
visto oltre le tremule vetrate
sebbene
occhi stanchi scrutassero l’abisso.
Solo un
vibrare sommesso alle accostate labbra,
e un
batter di denti crudo, ma null’altro si sentiva,
laddove,
spegnendosi, rotolava il clamore sordo
nel baratro remoto d’impercepibili
silenzi.
1)(qui
c’è un quadrante, da tempo immemorabile
appeso in
alto, fissa la lancetta sull’ora sesta.
Oscilla
al soffio d’arcane bore, segna un’ora
sempre
quella, eppure dicono funzioni ancora.
Incolore,
lo si scorge in basso, il sole.
Sommerso
dalla marea d’onda smisurata
del
sottostante cielo, palpita ma non si muove.
In alto
oscilla ma non si muove la lancetta nera
fissa,
seppur tremante, sull’ora sesta)
56
Riflette, il sole, un pallore
albuminoso
nell’abisso remoto sotto
l’orizzonte.
Siamo ad altezze incomparabili,
qui regna un gelo boreale. Attenti,
ne vediamo la crosticina a pelo
d’acqua
spezzarsi in cristalli dal bordo
acuminato,
ma noi non ne soffriamo; ai visi
cerei,
a mani e nasi freddi siamo abituati
il nostro sangue è poco più che
tiepido,
le labbra hanno un marmoreo lor
pallore.
Del gelo non abbiamo alcun timore
nel suo nitore s’assopisce la
memoria,
rappresa in esangui nostalgie.
Il bianco è dominante
14
Il bianco è dominante. Bianchi
e larghi sono i mal stirati camici;
certuni, allacciati stretti ai polsi
s’abbottonan sulla schiena
e un orlo a giorno li decora,
con schiva discrezione, spesso ai
bordi.
Il bianco è dominante, questo è
certo.
Il rosso è proibito, stordisce; se
appare
ci si premono alle tempie i palmi.
Pallido, il giallo è appena
tollerato
sebbene porti sovente alla demenza;
il nero, poi, è innominabile e, a
nessuno,
mai, viene l’estro di evocarlo.
Il bianco sopra ogni cosa è
dominante.
Siamo nel Limbo, non altrove.
18
Il bianco non permette nascondigli,
minime suture d’ombra non concede
né impercettibile piega
d’orizzonte,
alle esangui palpebre socchiuse,
oh, infinite son le gradazioni
dal bianco al bianco, e così ci si
avventura,
senza lasciar tracce, senza
ricordare
l’ansia indicibile
nell’attraversamento.
Corpi
31
Ammetterlo
è spiacevole, ma i nostri corpi
qui, non sono
veri corpi. Del pallore esangue
e della
camminata inerte e lieve s’è già detto
e
parimenti dell’epidermide traslucida.
L’apparenza,
offuscata appena, è incerta,
umana si
direbbe, ma qualcosa non funziona.
La carne
è come un gessoso marzapane
non del tutto
assiderato; se si ferisce
emette
scaglie e inodore siero, lattescente.
Solo gli
albini sono, qui, a loro perfetto agio
creature
soavi, anemiche e abbagliate.
38
Screziate
venature di foglia ha la mano
la palma
è liscia, levigata morbidezza;
se si
volge, è come dorso di creatura antica:
sotto la
pelle tesa, affiorar d’ossute nocche.
Da un
lato custodisce lo sfiorare di carezze,
capovolta,
può serrarsi a pugno, e poi colpire,
oppure
divaricar due dita, indice e medio:
nell’unico
gioco qui tacitamente consentito.
42
L’occhio
è di color ceruleo chiaro.
La luce
qui, indiretta e mai vivace,
schiarisce
l’iride con glauche sfumature;
tuttavia
qualcuno può vantare
uno
sguardo di cilestrina trasparenza.
Ha quasi
sempre le palpebre socchiuse
in un
dormiveglia di penombre azzurre.
Cose che si pensano nel Limbo
46
L’illimitato
è enorme, curvo vuoto
su cui
tracciamo delle croci, barre,
segni
d’interpunzione, parentesi quadrate.
Sulla
pagina bianca, parole ansiose,
di
qualche vocale l’ondulazione,
leggeri
nastri, sillabe stridenti.
Poi,
silenzio. Rimane, tra le dita,
qualcosa
che, appena silente oscilla,
non
l’illimitato, ma una sua scheggia
luminescente,
che l’animo trafigge.
47
È forse
eterno, l’immenso, se alita
sulle
dita di noi che allineiamo bianchi
segnali
di tempo, e dell’immenso
ne
facciamo bande immacolate
come di
lino, e lasciarle vorremmo
così,
sventolare libere nell’aria?
ma ci
assale un timore, un’ansia,
un’esigenza
classificatoria, che
s’assopisce
numerando: uno, due, tre…
e
diviene, questo sventolio, un ronzare
sordo, che
l’orecchio appena sfiora.
53
È uno
spazio vasto, vitreo, il vuoto,
cavo
luogo di mirabile trasparenza,
curvata immensità
di luce che
ferisce all’improvviso,
e non soccorre
delle
palpebre la trepida penombra
né lo
sguardo schermato con la mano.
Qui, la
meridiana non vacilla, fissa
non
produce linea d’ombra alcuna
e, senza
crepitare, arde silenziosa.
64
Lo si deve ammettere a malincuore:
è partecipe, il Limbo, suo malgrado
d’una metafisica minore,
irrilevante.
Lo si direbbe oscillare incardinato
in un’intercapedine spaziotemporale
d’obliquità sottile e microscopica.
Apatico com’è, a nulla allude.
***
LUIGI BIANCO
La nuova effervescente, vibrante, indignata, tenera,
raccolta poetica di Luigi Bianco porta il titolo di "77".
Settantasette come la sua età. Dentro c'è tutto quanto ci riguarda
raccolta poetica di Luigi Bianco porta il titolo di "77".
Settantasette come la sua età. Dentro c'è tutto quanto ci riguarda
come uomini di
questo tempo disperato, e come esseri umani
dotati di sentimenti unici e irripetibili.
Il tutto espresso con la solita maestrìa e l'abilità da alchimista della parola.
dotati di sentimenti unici e irripetibili.
Il tutto espresso con la solita maestrìa e l'abilità da alchimista della parola.
non parlatemi più
del sangue terrorista
non parlatemi più
di guerre religiose
non parlatemi più
di paure ancestrali
non parlatemi più
dell'occidente
vittima indifesa
non parlatemi più
di civiltà in scontro
millenario
con chi non ha
niente
VOI
vili gendarmi
i un mondo disfatto
non potete
più
incidere
parole soltanto finte
sulla mia
pelle in cancrena
di poeta
IO SO
come sa I'occidente
cinico predatore
il libero
unico
assoluto
mercato del dio denaro
e delle armi
E' SEMPRE
libertà di uccidere
lo sanno
anche
quelle madri e quei padri
in eresia islamica
che mandano a morire
i loro vitelli innocenti
nessuno è innocente
I'innocenza
si è perduta per sempre
nell'osanna pop
del mondo globale
il terrorista
è anche figlio
del protagonismo
in luce di piacere
è anche figlio
del protagonismo
in luce di piacere
offerto
dalle tv
e dai facebook
di pronto utile uso
e dai facebook
di pronto utile uso
offerto
all'ego smisurato
di uomini snaturati
un'eredità
all'ego smisurato
di uomini snaturati
un'eredità
lasciata
in cinica profezia
dall'antico genio
dall'antico genio
miliardario
di zio andy
se non guarisce
di zio andy
se non guarisce
del virus del pop
l' umanità
è senza destino
e la strage terrorista
sarà la peste
di questi anni
con troppi
protagonisti
in esaltazione
mortale
quando la vita
vale una mela marcia
e quindici minuti
di gloria
in egoico furore
ne cantano
le accecanti storie
solo la poesia
e la cultura
possono aprire
gli occhi
dell' umile
perdono
del dono
che non chiede mai
un prezzo
e una vita di scambio
così vuole
il mio
sentire
anarchico
in flusso
migratorio
senza storia
e doveri
di oggi e di ieri
recipere
pere
di gusto carnale
e sollevare la carne
per un bagno di sole
soli
o con le rose rosse
della verginità
l’amicizia
non ha contorni
e mezze tinte
è chiara netta
disinteressata
o non è
forse
il vestito stretto
e mai largo
lascia al margine
margini di nomi
e preclusioni
chi si dona
ha la forza
dell'assoluto
in esclusione
la
tenerezza
è riserva
di
canarini
***
NECESSITÀ DEGLI AFORISTI
di Mauro
Ferrari
Mauro Ferrari |
Credo che per la natura stessa dell’aforisma la
quantità dei pezzi non dia combustibile alla comprensione di quella che si
potrebbe definire la visione del mondo dell’autore, o la sua filosofia.
L’aforisma è in fatti frammentario, icastico, sfuggente, ambiguo, esplosivo,
corrosivo, e quindi non rimanda a una qualche unità precedente da ricomporre,
ma anzi ci mostra la realtà diciamo attraverso occhiali quantistici: è il mondo
di Heisenberg e non quello di Laplace; quello di Planck e non quello di
Einstein – per non citare Newton.
È indubbio però che emerga alla lettura una
atmosfera, una maniera di affrontare le cose e soprattutto di verbalizzare
creativamente questa maniera, sicuramente una forma di coesione e forse una
coerenza non sistematica – anche se Walt
Whitman ha scritto:
“Mi contraddico? Ebbene sì. Mi contraddico. Sono vasto, contengo moltitudini” E
Wilde: “Non si è mai tanto sinceri come quando si è incoerenti.” L’aforista non
è un filosofo, costruttore di sistemi – sembra che sia necessario essere un po’
filosofo per scrivere aforismi intelligenti, ma credo che gli aforisti davvero
grandi siano il contrario dei filosofi, costruttori di muri a secco con tanti
spazi in mezzo: i muri saranno magari molto belli e solidi, ma il meglio è
vedere al di là.
L’abbondanza
(e chiaramente mi riferisco più al libro di Roberto Morpurgo, almeno come
oggetto edito e tralasciando la mole di aforismi che i due autori possano avere
nei cassetti) amplia il terreno di indagine, amplia la mappa ma non ne riduce
la scala, ci porta a considerare sempre territori diversi più che soffermarsi a
scandagliare con metodo e acribia un limitato territorio. È per questo che
abbiamo bisogno di aforisti.
Premesso
questo, la filosofia dell’autore, o la sua visione del mondo emergono già da un
carotaggio molto parziale: il mondo dell’aforisma è un mondo di frattali,
ciascuno dei quali contiene in nuce
il tutto, e non c’è fine all’indagine. Il che conduce al punto essenziale:
perché leggere un libro di aforismi, pochi per volta, con gusto e in stile da
gentleman. Per il piacere della sorpresa, del salto di isotopia, per l’inatteso
giro di pensiero che viene mostrato con nonchalance.
Poche
parole sul libro poderosissimo di Roberto Morpurgo, in realtà un dittico come
dice il titolo e parte di un lavoro più ampio se non sbaglio in quattro volumi.
La succitata abbondanza – che contrasta quasi con la necessaria concinnitas del genere – mi sembra
indicare un tentativo estremamente ambizioso di inclusività di molteplici
branche del sapere, quasi una sorta di tentativo enciclopedico che tiene conto
del complesso e ricco bagaglio dell’autore, che è poeta, narratore, aforista e
drammaturgo – oltre che tante altre cose. Una sorta di saggio sull’uomo,
azzarderei, dato per illuminazioni, carotaggi nei più diversi campi del sapere.
La
vena “lirica”, che troviamo non solo in poesia ma anche in buona parte dei
racconti di El Djablo (puntoacapo
2012), e che nei lavori teatrali lascia il posto ad atmosfere spesso surreali,
qui trova un ambiente ideale: poesia è dichtung,
condensazione, cioè la miglior qualità di un aforisma riuscito, anche se qui
molti pezzi si dilatano fin quasi a diventare brevi saggi, affondi più meditati
e filosoficamente agguerriti. Il teatro poi è inscindibile dall’esposizione –
messa in scena, appunto – spesso calcolatamente esibita dello scrittore e
dell’autore, e questi aforismi hanno anche una qualità che possiamo dire teatrale,
per la vena di distaccata osservazione dei mali umani, condotta in modo mai sprezzante
o cinico, mai misantropico ma comunque sempre severo anche nel divertissement
della scrittura, che è puntuale, anatomizzante, persino argomentativa e insomma
illuministica.
DUE NOTE DI ADAM VACCARO SU FONTANELLA
Domande all’Arco teso della Vita
di Adam Vaccaro
C’è in questo ultimo
libro di Luigi Fontanella un nervo teso al racconto, al bisogno di far
riemergere figure e squarci di vita, di Tempo. Nervo che comunque è presente in
ogni sua raccolta e in tutto il suo percorso di scrittura. Non si tratta di un
tempo astratto e generico, o storico, della Storia grande, ma più semplicemente
del tempo vissuto da chi scrive. E non è un tempo letterario, teso al tempo perduto, o fatto di roto-lamenti
intimistici. È un tempo fatto di carne e vita del Soggetto Storicoreale, che la scrittura fa sentire adiacente al
braccio del Soggetto Scrivente e che,
per questo, (ci) riguarda e coinvolge tutti.
Ci riguarda il Tempo e la battaglia
vitale che comporta, che opera qui e ora rispetto alla misura e al senso del
limite che impone e (ci) insegna. È
il nucleo centrale dei molteplici sensi di un libro limpido e complesso, anzi,
limpido perché complesso. Che critica implicitamente i fumosi esercizi verbali
di cui si adorna molta poesia contemporanea. La complessità non ha bisogno di
ornamenti superflui, ma di sensi disvelati.
La complessità opera a strati e salti di
sensi, quale è la forma di questo libro. Cosa disegna e designa, allora, qui,
il termine Adolescenza? E cosa si
contrappone all’adolescenza, con l’immagine altrettanto metonimica della Notte, altro polo di sensi indicati dal
titolo del libro? L’adolescenza è l’età dei primi cruciali bagliori della formazione
di un’identità, in cui cominciamo a riconoscerci grazie alle relazioni con
persone e luoghi, qui inscindibilmente congiunti al sole mediterraneo della
Salerno in cui l’autore è vissuto negli anni ‘40-50 e fino a tredici anni. L’adolescenza
è immagine fusa e stampata nella memoria dell’Autore sotto il sole di quelle
estati, entro le quali: “I pomeriggi assolati/ liquefanno il nostro cortile” (p.
25).
Così, l’adolescenza è la luce che
abbaglia in quel “piccolo e confuso…Centro del Mondo” (p.63), primogiardino (come lo chiama Claudio Magris)
in cui ci disegniamo il mondo (“Il nostro cortile è un campo di battaglia/
piccoli trionfi o cadute nella polvere”, p.37), o in cui scopriamo la
“primissima figurazione” del “centro vitale del mondo” (p.64), quale è il sesso
e un eros senza parole, che ci apre all’altro:
“Il bacio/ di Anna Pierro, il desiderio/ che esplode improvviso/ nell’afrore
estivo” (p.47). Eros e gioia, germinati “nel candore dei miei tredici anni”
(p.49), in attimi d’infinito (quali
intesi da Platone) che diventano il tabernacolo in cui custodire realtà,
immaginazione e memoria.
È un impasto che, tra interno ed esterno,
emozioni e relazioni, trasmette una immagine di Autentico, forse illusoria, ma il
testo ci dice che non è la Verità che conta, quanto quella in re, nell’incrocio fenomenologico
di esperienze e vite che
rimarranno centro vivificante in tutto il nostro percorso successivo. E dico
nostro, perché è quello che fa sentire il libro, e che distingue i testi di
lettere vive da quelli di lettere morte.
Rispondono a tale carattere diverse scelte
formali, come quelle di indicare con nomi e cognomi le persone citate, togliendole
così dall’indistinto, dal mondo di ombre in cui continuano a danzare come in
attesa del nostro richiamo, nel tempo che ci è dato, sempre presente e sempre
passato: “I miei alleati attendono nell’ombra./…ferma nel tempo” (p.32).
Il Tempo è ovviamente tra i termini
ricorrenti, nei vari modi in cui la nostra complessità percettiva e mentale lo
vive. Il suo scorrere non è né lineare o a ritmi regolari, né a senso unico,
come concepito dall’Io. Vedi a p.31: “In certe Domeniche lente e lunghe/…nel
mio percorso a ritroso”, dove la scelta della maiuscola indica l’oltre del
consueto, l’esperienza del roveto ardente
o del sacro. Il tempo è perciò enigma che non si scioglie, come a p.26, con un
richiamo Shakespeare: “Brucia il tempo la sua continua/ imminenza".
Dunque “Bisogna strappare le pagine”
(p.27), di un libro che pare nostro, ma non ci appartiene, in un groviglio
inesausto di illusioni e imposizioni: “Questo è un film che posso modificare/ a
mio piacimento” (p.40), ma se “Il pomeriggio se ne va”(p.42) lento e
lunghissimo, poi “un momento e già subito un ammasso di anni” (p.43): “film muto”
(p.26) e “circolare concerto” (p.44), che rimane imprendibile: “La musica è la
stessa/ e si ripete ossessiva come in un film./ Ricordi Vertigo? Ricordi quel/ passo verso l’ignoto/ innamorato di se
stesso?” (p.45).
È questo il film. Persiste però “quell’antica
luce/ dorata che un tempo illuminava/ il pane sulla tavola” (p.46), in cui il
tempo sa di miele e innerva anche il bisogno di scrivere. Sia per dare parole
al primo incontro con la nostra autenticità, sia per dire dell’età successiva
che, qui, più che maturità, dovrebbe (se consentito) essere chiamata adultità, con la stessa radice di
adulterazione e dei sapienti mascheramenti. È l’età della notte, titolo della
II parte del libro, immagine di molteplicità di sensi, quali accumulati da questa
figura archetipica. Alla luce dell’autenticità dell’adolescenza subentrano
oscurità e maschere delle convenzioni sociali. Ma non è solo simbologia in
negativo, come all’opposto l’adolescenza non è ingenua o nostalgica
idealizzazione positiva. La notte diventa inevitabile pedaggio all’acquisizione
di coscienza della complessità della vita: essa “assorbe tutto”, “custodisce/ o
rinnova il silenzio”, nasconde, falsifica con “i giochi della mente,/ il sangue
di qualche innocente”, le storie e la Storia, “perfetta nei suoi scismi…nei
suoi delitti.”. Per cui quel “concerto circolare” e “film muto”, sembrano
declinare verso un “sogno e realtà nell’unica sequenza,/ sempre la stessa,
sempre la stessa.” (pp. 56-57). Ma la prospettiva di un’ossessione di vertigine
tenebrosa, di un silenzio che ripete quanto già detto nei “miei libri
allineati”, che a tratti paiono patetici soldati dell’illusione della maturità
di controllare tutto, genera anche altro. Ne scaturisce un grande avviso ai
nostri limiti umani. Compresi quelli della scrittura e del proprio poièin.
Ne scaturiscono visionari “stati di
dormiveglia” (da una nota dell’Autore), con preghiere, memorie e domande che si
confrontano con gli eterni enigmi del nostro stare al mondo: “La notte stanotte
è una lieve ballerina/ un minuscolo pellicano che/…tra bianchi vapori/ porta
nel becco, come un lampo,/ la mia giovinezza…un filo d’erba –…un filo d’erba/
fu il primo regalo di Emma” (p.72). La Notte ci dice che siamo “Nati per ardere
e morire”, che siamo “palla da bigliardo/ che sbatte impazzita” (p.74), che “Ti
dirai che/ forse è davvero tutto governato dal Caso.// Ti dirai come si fa a
perdere gli altri/ come si fa a guadagnare se stessi” (p.77), domande senza
risposte “in questo fumo demente e dimentico”(p.78), in cui “Lotto/ con
l’oscurità del tempo” (p.79).
Dunque, lotta contro l’oblio, la fine che
ci attende e il tempo ci consegna: “una sfida di farfalla” (p.81), una sfida
che si impone anche se non la vinceremo. O forse è solo l’arte/la poesia che
alla fine la può vincere? È essa che consente di dare corpo alla paura “di
scomparire nel vuoto” (p.39), la paura non della morte in sé, ma del non
essere, della perdita di relazioni autentiche, quelle che ti aiutano a superare
“A occhi socchiusi…/ vilipendi e ferite” (p.28). È lei che se “Nulla/ più
riconoscibile” della “Salerno…cinque anni della mia adolescenza” (p.50),
“perché domani e ieri/ sono precipitati nel nulla/ e le sillabe impazzite/ si
confondono tra loro”; è lei che resiste al silenzio per dire che “La nostra
adolescenza resta incisa in un gesto che…c’è sempre stato”, in quel “rustico
campetto/ sotto casa” (p.52).
Ed è grazie a lei che troviamo la forza
della debolezza che fa riconoscere: “Non sono mai entrato nella vita./ Mai
appartenuto a qualcuno…Ma mi commuovo per un nonnulla, l’adolescenza/ è
assoluta ed eterna./ È l’unica cosa che resta” (p.24) – (auto)denuncia limpida,
forte, che non ha bisogno di arrotolamenti nebbiosi, maschere e suoni sinuosi,
ma poveri di possibilità di conoscenza in
re, che toccano l’osso delle cose. È questa la forza che nel percorso
accidentato della vita dà un comandamento vitale ed etico: “Dovrai sapere
riconoscere/ il punto in cui incontrerai/ l’altro te stesso”, quello autentico,
“Poche// le volte in cui questo avverrà” (p. 29).La notte fa dunque anche
regali preziosi: “È nella nostra debolezza/ che risiede la nostra immortale
umanità”, rovesciata poi nella domanda: “Chi/ vorrebbe davvero essere
immortale?”, regali di coscienza dei limiti del destino umano (e di tutto il
ciclo vitale), che può con serena accettazione e tenerezza voltarsi ed
esclamare: “O felice incoscienza dei ragazzi!” (pp. 82-83).
Per questo “La sacra notte invoca/ una
calma rivolta: una sirena/ che chiama a raccolta i seguaci del nulla/ i
secondini del nostro quadrato.” (p. 55), dove il nulla è sì la morte, ma
dell’autentico: è la falsificazione della vita che crea una prigione, in cui
siamo i carcerieri di noi stessi. Per cui, se “Siamo e restiamo solo iniziali”
(p.68), alla “Sorella Notte,/ Madre Notte” (p.71) vengono rivolte persino
preghiere, anche se “esercizi inutili”(p.70), di essere riconosciuto, salvato
liberato: “Riconoscimi, Notte”(p.69).
Una richiesta rivolta allo specchio buio
della notte, rotto da slarghi visionari da cui fuoriescono fili/figli della
propria trama vitale (con senso testuale e carnale) invitati a fare “girandola”
erotica e ri-creativa, insomma a continuare la vita, quasi irridendo “tra
nebbie e fumi diradanti”, “il Dissipatore” (ricordo del personaggio di Settimana di sole di T. Landolfi), “bianco
in viso…/ nero il suo cappello/ lieve il suo sorriso un po’ beffardo/…mentre/
dalla vicina montagna sgusciano/ combattenti rivoluzionari. Sono/ i miei
alleati. Ripartirò con loro/ senza voltarmi più indietro” (pp. 61-62).
Cosa rimane infine cui appigliarsi in
questo quadro che pare chiudersi in “un imbuto grandioso” (p. 38), quale è
disegnata la New York contemporanea, metafora e simbolo di una notte che
riguarda tutto l’Occidente. Centro del Mondo, dominato da fretta delirante e
“Quattro goffi e grotteschi/ in questa febbre di potere/ sul proprio
carrozzone/ i detentori della nostra pubblica res” (p.66).
Ben altro era quell’iniziale “piccolo e
confuso…Centro del Mondo” (p. 63), che non aveva altra fretta che quella di
crescere, entro un bisogno forte di autenticità. Bisogno ancora più acuto se le
tensioni della società globalizzata e i suoi poteri creano solitudine e disgregazione
di comunità e relazioni, per cui la coscienza (si) dice “Procedo in un sentiero
ambiguo/ …senza verità” (p. 67) mentre accumula domande su tutto ciò che nella
notte resiste della nostra misura umana.
Luigi
Fontanella
L’adolescenza
e la notte
Passigli Editori, Firenze 2015
***
L’azzurro e il rosso
di Adam Vaccaro
Questo libro di Luigi Fontanella “L’azzurra memoria” va riletto e ripercorso, come si fa con le
esperienze che ci coinvolgono di più, per scoprirne e riprenderne le varie
faglie. Livelli tutti innervati nell’esperienza, che resta per me la sfida più
potente che la vita propone alla scrittura e al suo tentativo di tradurla nei
suoi segni. Se facciamo di un rapporto, un fatto, un libro, un testo,
esperienza, vuol dire che siamo riusciti a compiere quel viaggio che va dalla siepe che ci è data (il nostro corpo, in
primo luogo) all’infinito, e ritorno. Vuol dire che quel momento si è incarnato
in noi e non saremo mai più come prima.
Il terreno dell’esperienza
(personale o storica) è il più difficile e rischioso per la scrittura. Può far
scivolare nel minimalismo, cioè nella presunzione o ingenuità di poter dire
tutto senza uscire dalla superficie, scivolandovi sopra senza aggiungere niente
alla conoscenza e coscienza della complessità della realtà (interna ed
esterna). Ma il rifiuto di tale terreno, nel timore di tali derive, può
spingere al polo opposto, in illusori piani alti, tutti svolti in ambito
letterario, pensando che alla nostra fame di complessità basti quest’ultimo. Si
scivola in tal modo facilmente in una complessità che ha più a che fare con la
complicazione, beata di sé e degli scambi autoreferenziali tra pochi addetti ed
eletti.
I problemi della poesia
contemporanea (ma forse di sempre) stanno nella difficoltà di evitare entrambe
tali de-rive. Da tempo parlo di una Terza
riva, capace di coniugare complessità e transitività, costruendo adiacenza tra sé e l’altro. Non vuol
dire sognare una impensabile poesia per tutti, ma una poesia che sappia andare
almeno al di là dell’attuale affollato, appartato e ininfluente laghetto degli
scriventi. Sono alternative e sbocchi che si fanno concreti quando capita un
libro come questo di Luigi Fontanella.
Va specificato che si tratta di
un libro autoantologico, che diventa una sorta di diario di viaggio (guarda
caso il primo lampo di poesia è collegato al diario di una compagna di liceo),
del viaggio-metafora della vita ma anche di appunti dei tanti viaggi che
l’autore ha fatto e continua a fare nelle migrazione oscillante di tanti di noi,
tra luoghi di origine e luoghi dell’esistenza. Nel caso di Luigi Fontanella,
tra Italia e America.
La selezione antologica è
corredata da una conversazione dell’autore con Giancarlo Pontiggia, intensa
eppure piana, priva di gigionismi e supponenze, utilissima per la lettura delle
poesie. Il merito di questa sorta di interfaccia che conferma ragioni di
scrittura, stile e visione del mondo, man mano incarnati nei testi, va
certamente assegnato a entrambi. Autenticità e passione alimentano la fatica
felice dell’intreccio costante tra vita e scrittura, ma il prius è la prima: “Credo che…il linguaggio sia…un mezzo per
rivelarsi al mondo, e non un fine…alla base dello scrivere poesia ci deve
essere un’autentica passione, una vera necessità”, dice rispondendo a una
domanda di Pontiggia sul “rapporto tra poesia e mondo, parola e realtà”.
Basta la prima poesia, intitolata
appunto Voyage, a darci da subito un
esempio di come una palpabile esperienza diretta possa diventare terreno
condiviso, metafora del nostro tentativo di viaggio nella complessità. Che ha
necessità di coinvolgere un immaginario capace di farsi visione e non evasione
dalla realtà, per cercare di coniugare la (im)possibile relazione col Tempo e
con le ferite del “poeta che sia sensibile ai guasti della sua civiltà’, e
reagisca…con il suo onesto dire…Che sappia, insomma, baudelairianamente,
esprimere l’utopia nella carne del linguaggio”.
Termini e premesse che tendono a
una esperienza di poesia che vuole farsi corpo condiviso e non frutto cerebrale
di un “esasperato avanguardismo metalinguistico, fine a se stesso”. La “forte
tensione pedagogica e civile”, rilevata da Pontiggia, trova conferme nel
rifiuto di “scrivere una poesia ‘astratta’ o avulsa dalla realtà”. Sono parole
che fanno ricordare i richiami di Leopardi ai romantici milanesi e sono il
segno di una tensione a ricercare un incrocio di rinnovato senso civile, che
esca da chiusure iperletterarie o egotismi vari, ma esente da sovraccarichi
ideologici “di impegno civile”, come concepito negli anni ’60-70.
È una tensione che può portare,
come ho detto altrove, a un incrocio salutare tra poesia della stanza e poesia della
strada, esaltando gli apporti migliori della poesia europea (e italiana in
particolare) e della poesia americana. Per chi come Fontanella (ma anche altri
come Alfredo De Palchi o Alessandro Carrera) si muove in entrambi i territori
(geografici e culturali), tende forse a incorporare più facilmente tale
incrocio, acquisendo un punto di vista più libero rispetto agli esempi più
tipici dell’una e dell’altra area. Il colloquio con Pontiggia è illuminante
anche su questo.
Questa tensione passa, nel caso
di Fontanella, da una oscillazione meno condizionante e provinciale, e credo
che sia stata favorita da luoghi originari multipli che vanno dalla costiera
amalfitana, a Roma, alla Toscana; un ventre mediterraneo via via ampliato, che
si misura con le durezze e insensatezze, le ignominie e le distanze, i misteri
e le perdite della vita, ma non rinuncia mai ad appuntare quei lampi di gioia
per i quali viviamo e con i quali proviamo a cucire lembi della nostra
salvezza: così, “corre il treno su rotaie di latte turchino/ mani giganti lo
spingono nel tunnel/ di nebbia e carne/ dove non c’è posto per le aurore/…/
corre corre il treno/ il viale d’inverno la nebbia gelida lama tagliente/ la
carne di cosce scuoiate/ tanti anonimi volti/ di gente di niente/…/ In questo
viaggio senza ritorno/ il segnale d’allarme è bloccato”, eppure “ebbro d’immenso/ cerco un paese innocente” (echi, incessanti, di infinito), in cui (come nella poesia di
p.124 dedicata a Milo De Angelis) sciogliere le corazze e trovare in comunione
con l’altro possibili, labili momenti di paradiso: “prendimi, prendimi adesso,/
fa che questo momento/ si faccia tuttotempo,/ cielo, voragine,/ ebrezza.”
I ritmi sono nervosi, anch’essi
liberamente oscillanti tra respiri lunghi e brevi, per aderire il più possibile
a ciò che preme ne L’azzurra memoria
o nell’attimo metropolitano. Conta la necessità profonda della cosa da dire, ma il moto complessivo è
sempre ad U, in cerca di uscite gioiose nel rosso salvifico da una qualche selva oscura: “da qui, in una bicocca
ribattezzata/ a propria misura e nostalgia, quattro/ abruzzesi emigrati
quarant’anni fa, giocano/ a tressette, come fossero ancora/ in un baretto di
Pratola o Ripabottoni/…/ È tardi ormai./ Vento e pioggia hanno spazzato via
tutti e tutto./…avvolgiti, anima mia/, in quella sciarpa rossa/ vola fino a un
altro Sole,/ questo/ che oggi scioglie i nostri corpi le nostre dita/ i nostri
pensieri le nostre ore” (La sciarpa rossa,
dedicata a Irene, pp. 143-144).
Luigi Fontanella
L’azzurra memoria
Moretti & Vitale, Milano
2007,
pp. 174, € 11
***
***
Labirintando
EMIGRANTI TOSCANI
Erano
emigranti, venivano dalla toscana per sfuggire la povertà e cercare fortuna a
Milano. Il padre aprì una trattoria toscana in una zona popolare della città
dove lavorava il figliolo come cuoco. Aveva anche una figlia, una ragazza che
faceva l'impiegata, di indole
intraprendente.
Un giovanotto milanese la vide in una
sala da ballo, o lei puntò lui, fatto sta che i due si innamorarono. Erano gli
anni polverosi della Milano povera che lavorava (eccetto i ricchi). Scoppiò la
guerra, il ragazzo fu richiamato sotto le armi. Alla
fine del conflitto, tornato a casa, il giovane sposa la sua innamorata e vanno
a vivere in una vecchia casa. Lui era disoccupato e un quarto di vino lo
vedevano solo la domenica sulla tavola. Fallisce per
una bega tra parenti la trattoria del padre, che si riduce a fare il ciabattino
in casa.
I due sposi vogliono
sistemarsi e trovare lavoro sicuro prima di mettere al mondo dei figli. Ciò
avviene dopo alcuni anni di matrimonio. La moglie
dando alla luce un figlio muore. Mamma, mamma, perché mi hai
lasciato solo in questo mondo dove anche l'odore delle mele mi ferisce
l'olfatto.
Tiziano Rovelli
di Laura Margherita
Volante
Laura Margherita Volante |
*Andare per labirinti fa venire la labirintite...
*Tatto doupleface.
Dipende da come lo si usa: a parole o con i fatti...
*Più si conosce più si ama starsene da soli...
*Meglio la solitudine piena a vuote compagnie.
*Juventus-Barcellona. C'è poco da stare Allegri...
*Mafia capitale. Ostia...! Antica
*A Roma i fedeli prendono l'ostia per salvare l'anima. A
Ostia i mafiosi la vendono al dio denaro.
*Un bastardo si può anche perdonare, ma tale rimane!
*Chi ascolta i silenzi penetra l'anima.
*Il tempo non esiste. E chi non ha mai tempo è come
cercare un quadrifoglio fra le ortiche.
Usi e costumi:
*Ieri si viveva la vita che si trovava. Oggi si cercano più
vite perdendo di vista la propria.
*Ieri si diceva che la Cina era vicina. Oggi i Cinesi sono
miei vicini.
*Ieri c'era chi aveva un sogno da realizzare. Oggi c'è chi
glieli distrugge...
*Ieri l'onestà commuoveva. Oggi fa piangere!
*Ieri la disonestà veniva additata. Oggi viene emulata...
*Ieri e oggi. Oggi nel mio cuore restano solo le cose
migliori.
*A Roma i fedeli prendono l'ostia per salvare l'anima.
*Ieri si lottava per la libertà. Oggi si ruba liberamente…
Iena ridens
*La verità riconcilia gli onesti.
*Le disuguaglianze producono infamia senza causa diretta...
*Corruzione. L'Italia è il paese di Pulcinella: tutti lo
sanno, nessuno lo dice e poi ci si stupisce..
*2x1.000 ai partiti? Ci vuole un bel becco per un popolo di
beccaccini!
*Paura e curiosità. La prima s'impunta. La seconda accende
il motore.
*La paura sta ai passi da gambero come la curiosità sta al
passo dell'evoluzione.
*La natura ha la virtù della varietà. La normalità contiene
il difetto del limite...
*Della vita si sa dove comincia non come finisce.
*La gentilezza è una sana abitudine. Il problema è
costituito da chi possiede l'insano vizio di non rispondere.
*Memento mori.
Meglio dar sfogo all'umorismo che alla inutile disperazione...
*Voglio guardare la morte in faccia con una sonante risata.
Visto mai che ridendo ci sia un premio di due vite al prezzo di una. Ah ahahahahahahah!!!
*Non si ha più tempo... Ma il tempo non esiste. Infatti è
come cercare un quadrifoglio fra le ortiche.
*La passione eccita la creatività.
*Dar da mangiare trasmette sicurezza a chi lo dà e a chi lo
riceve.
*Quando non c'è più relazione l'arte muore.
Usi e costumi
*Ieri si mungeva la mucca per sostentamento. Oggi è munta
dai porci. Porca vacca! Ora capisco...
*Ieri c'era chi aveva un sogno nel cassetto. Oggi resta solo
il cassetto della memoria.
*Ieri c'era chi lottava per i diritti. Oggi si sta diritti
per scommessa.
*Ieri chi zoppicava era un disabile. Oggi c'è chi cammina
storto perché è un dritto...
*Ieri c'era chi faceva il proprio dovere per un diritto.
Oggi tutto va talmente storto che si è perso il senso del diritto...
*Ieri si amava dire che chi dorme non piglia pesci. Oggi c'è
chi sta sveglio per insonnia mentre c'è chi gli porta via la pastasciutta
l'aria l'acqua e i diritti...
***
Laura Volante incontra il fotografo Roberto
Recanatesi
Volante: Nella
tua produzione fotografica, la cui poetica rivela segni evidenti di lirismo e
nostalgia, c'è una svolta molto decisiva dal cromatismo al bianco/nero intenso
e coinvolgente, soprattutto per i ritratti avvolti da atmosfere rarefatte.
Quale ispirazione ti ha portato verso tale mutamento espressivo e perché?
Recanatesi: Le mie
origini sono nel colore, che sto riprendendo con successo e con rinnovata
attenzione, non più colori fulgidi e magari con il rischio del cartolinesco
come agli inizi, ma con una ispirazione più vespertina, intima, crepuscolare,
impostata su toni cupi, rosso-bluastro marronati. La scelta del bianco/nero
intenso e coinvolgente, come dici tu, temo non sarà unica e decisiva nella mia
attività fotografica, dando preminenza come ripeto anche al colore, tuttavia si
ispira alla filosofia, alle origini, alla nota dolente e insopprimibilmente
riflessiva e penetrante che sta a capo della nostra vita e del nostro destino.
Volante: Nella
tua pittura fotografica spesso si avvertono richiami religiosi. Fotografia
dunque come religio vitae o religione
come forte sentimento di fede a cui non puoi sfuggire?
Recanatesi: Ha
detto giustamente Sgarbi che è pronto a scommettere (o giù di lì) se io sia poi
così autenticamente convinto della mia religiosità. Sono un credente anche se
poco praticante, la domenica mattina preferisco il footing o le foto, ma amo la
preghiera solitaria, ho dei fortissimi richiami personali in merito alle figure
di alcuni santi, ecc. e posso dirti che le due espressioni che mi proponi
(fotografia come religio vitae e
l’altra) sicuramente, per quanto mi riguarda, stanno in piedi tutte e due.
Volante: Marche
di leopardiana memoria, ma anche di insigni musicisti viventi e non, terra
natale di geni e di personalità eccellenti in ogni campo umano artistico
scientifico e religioso (M. Montessori, Carlo Urbani, G. Allevi, V. Vezzali,
Matteo Ricci, Padre Mandolini, ecc) l'elenco è lungo… Tu, figlio di questa
terra, quale impegno senti intimamente per risvegliare nei giovani il desiderio
di raccogliere tale eredità per sognare un mondo migliore?
Recanatesi: Quello
di risvegliare nei giovani la profondità di sentimenti e il credo profondo
verso qualcuno o qualcosa (arte, musica, fotografia, letteratura, sport, ecc.).
Ammirare i grandi della nostra terra certamente, ma, indipendentemente da
questo, leggere fortemente dentro sé stessi e idearsi una strada, fondare un
credo personale, ecc. Ad esempio, io ammiro moltissimo Mario Giacomelli (Leone
come me, tra l’altro, con tre giorni di differenza, ma 33 anni di vita, quelli
di Cristo), ma non lo considero un modello assolutamente da imitare anche se ci
ho provato un po’ agli inizi, lo omaggiavo a mio modo nelle prime mostre, ma so
che lui stesso sicuramente se ne sarebbe scocciato e semmai lo considero una
sorta di aire, da cui trarre una intensa forza interiore (che comunque,
modestamente, non mi manca) per un cammino autonomo e svincolato dagli schemi.
Quasi nessuno fa le foto che faccio io, almeno nelle Marche, Sgarbi stesso lo
ha sottolineato (c’è pure il discorso inaugurale in rete) e per me è un vanto e
continuerò sempre su questa strada, che potrà far sorridere qualche coglione
(tanti ce ne sono in fotografia e nelle arti in genere, specie tra quelli
indecisi, criticoni e sempre “alla ricerca”, di che cosa non lo sapranno mai
nemmeno loro) ma anche tale eventuale sarcasmo sarebbe motivo di ulteriore
sprone per me. Mi farebbero solo un favore. E chi mi conosce bene non perde
molto tempo a chiacchierare con me, sa già che la conversazione verrebbe
inesorabilmente troncata, ed è già accaduto.
Volante: Hai esposto le tue opere in diversi luoghi con
critiche autorevoli; ora anche Vittorio Sgarbi ha scritto la presentazione del
catalogo dal titolo Bellezza sulla
tua mostra nella Chiesa di S. Niccolò di Jesi. Perché questo titolo ad una
produzione così eterogenea con alcuni passaggi nodali? Vuoi spiegarci quale è
stato il motivo di tale scelta?
Recanatesi:
Bisogna pur scegliere, ovvero essenzializzare almeno i titoli e i contenuti.
Ormai il mio interesse precipuo è la figura umana in rapporto con la natura,
sto anche studiando (da solo ovviamente) il nudo artistico (“alla come dico io”…
ammiro molto le spilungone a tacchi a spillo di Newton, ovviamente c’è una
bella differenza tra me e lui in tutti i sensi, ma non sono e non sarebbero per
me motivo di invidia o di imitazione). Pertanto Bellezza racchiude tutto, noi stessi, le nostre passioni, i nostri
amori, le nostre speranze, le nostre illusioni e disillusioni, il nostro credo,
i nostri sguardi, ma il discorso è
troppo lungo e mi rifaccio anche alla sensibilità di chi legge ed interpreta.
Volante: Tu, sei
un funzionario regionale. Nel nostro paese molti artisti per guadagnarsi da vivere
devono avere un mestiere -ben lo sapeva anche l'Ariosto al servizio degli
Estensi- per cui molti se non lavorano e non entrano in un circuito di mercato
sono alla fame. Tu cosa ne pensi?
Recantesi: Non so
di preciso, non vivo la cosa professionalmente e, grazie a Dio, sono il Dr.
Recanatesi del Servizio Industria e Artigianato della Giunta Regionale, stanza
n. 149, ecc. con due soldi di stipendio e di speranza a fine mese, immagino comunque
che sia una vita un po’ grama (qualche amico artista di professione me l’ha
confidato) e non la invidio troppo, ma nemmeno io stesso sto facendo chissà
cosa per lanciarmi sul mercato, anzi un bel nulla. So di non essere quotato, ma
non darei certo a due lire le mie opere, non mi fido dei galleristi, ho saputo
di storie fin troppo strane e spiacevoli: beh, per adesso, lasciamo perdere. Chissà
che sotto sotto non mi faccia piacere così? L’outsider è sempre stato il mio
forte. Se vorranno mi cercheranno e ne parleremo.
Volante: Illusione
e realtà; surrealismo e visioni; sogni apparenze sembianze. Quale il filo
conduttore di questi termini, che secondo la critica focalizzano il senso sia
concreto sia simbolico della tua pittura fotografica?
Recanatesi: Io
credo nel bello e basta, anche se ciò che ho di fronte facesse schifo di per sé.
Ovviamente la mia è una chiave ben diversa, lirica, sognante e idealistica per non
dire idealizzante, mi piace sognare e trasfigurare come ho sempre fatto, la
donna stessa la vedo come una bella giovane dama rinascimentale (che ammiravo
nei film da bambino), non mi occupo di brutture anche se so benissimo che ci
sono, non corro dietro ai migranti, ai lavavetri, ecc. per sperare poi nel
premietto dell’Amnesty, dell’Arcivescovo o dell’Associazione a favore della
SLA, la scelta dei miei modelli e modelle è impostata su soggetti giovani e di
bell’aspetto, ma qui c’è tutta la mia infanzia, la mia vita trascorsa, la mia
ammirazione per una certa grande letteratura che puoi immaginare (anche Goethe,
perché no?) e ne sono un po’ geloso, scusami.
Laura Volante conversa con Alessandro Marcucci Pinoli “Nani"
Volante:
L'Alexander Museum coniuga arte eleganza convivialità dove gli artisti con il
loro personale linguaggio espressivo hanno la possibilità di esprimersi e di
esporsi in una società che spesso li mortifica e li emargina per una insulsa
politica di mercato. Nani il tuo impegno in tal senso da dove comincia e
perché?
Marcucci Pinoli: Essendo
nato e cresciuto in una famiglia che ha sempre amato l’arte, ho continuato a
vivere con questa passione. Poi, avendo sei alberghi, ho pensato di unire
l’utile al dilettevole.
V: L’Alexander
Museum è frutto di una ricerca esistenziale o è un ideale maturato nel
tempo come un impulso
incontenibile di amore per la bellezza l’eleganza l’educazione, valori di una cultura
che sta scomparendo?
M. P: Entrambi.
V: I giochi, gli
scritti sia in poesia sia in prosa, i dipinti, i famosi manichini, espressione
di una natura eclettica quale tu sei, in quale terra o inferno ci vogliono
condurre? Per una speranza di risveglio o solo dialogo intimo da produrre e
quindi condividere?
M.P: Per una speranza di miglioramento.
V: Surrealismo e ironia; sensibilità e concretezza; magia e senso
di realtà; solidarietà e senso di giustizia sono alcune qualità che ti
contraddistinguono, mi chiedo per quale alchimia tu riesca così bene ad
amalgamarle. Vuoi spiegarci il segreto di tale combinazione?
M.P: Sinceramente non so neanche io, ma penso che tu stia
esagerando.
V: Come vedi non percorro temi già
trattati in altre interviste, recensioni e riconoscimenti a tutti i livelli,
fra cui anche una tua opera esposta al Louvre. Ciò come ti fa sentire?
M.P: Come la mia
opera esposta al Louvre, tutte le altre esposte nei vari musei e luoghi
prestigiosi (come Biennali di Venezia e Firenze, Palazzo delle Esposizioni di
Roma, Palazzo Reale di Napoli, Museo della Scienza e della Tecnica di Milano,
ecc.), così anche le tue domande mi spingono ad impegnarmi per cercare di fare
sempre meglio.
V: Il “Si può avere
solo ciò che si dà” è sempre vero oppure sovente è il contrario?
M.P: Èquasi
sempre vero.
V: La tua è una grande famiglia,
con avi illustri in vari campi, pensi che ciò sia stato di stimolo e abbia
motivato figli e nipoti ad impegnarsi per esserne all’altezza oppure in alcuni
casi ha procurato ansia di prestazione se non frustrazione? Questo è un rischio
di molte famiglie con genitori “ingombranti”, come siete riusciti voi come
coppia e come genitori a gestire tali dinamiche familiari?
M.P: Sia per me che per i miei figli, i miei antenati sono stati
una fortuna e uno stimolo a cercare di fare sempre meglio.
V: Questa società non guarda in
faccia a nessuno se non per loschi affari al servizio del “dio denaro” in ogni
settore della vita civile. Ma questa società siamo noi, i mille parlamentari
circa, che ci rappresentano costituiscono un campione da sondaggi, secondo te
quali le cause di tale degrado morale?
M.P: Ritengo che
in mancanza di una cultura vera e dei grandi valori, inevitabilmente si cada
nella palude del “dio danaro”.
V: L’Alexander
Museum, quindi, è un’oasi di arte e di bellezza dove ogni stanza è frutto di creatività
e di ingegno artistico. Come è stata operata la scelta e con quali criteri?
M.P: Prima di iniziare i lavori ho preso una pagina su “Arte
Mondadori” nella quale ho spiegato il mio progetto e richiesto ai lettori se ci
fossero stati tra loro artisti interessati a realizzare totalmente le camere
dell’Alexander Museum e di mandarmi i loro cataloghi. Hanno risposto in 288.
Tra questi ne ho scelti cinquanta e a costoro ho chiesto di inviarmi tre loro
progetti, tra i quali ne ho scelto uno. Poi, essendo le camere 63, per 13 di
queste ho chiesto ai miei amici
Critici (Sgarbi, Bonito Oliva, Daverio,
ecc.) di consigliarmi, ciascuno, un’artista, al quale poi ho fatto realizzare
una stanza.
V: Nani, non mi
addentro in questioni di tipo politico e ambientale, perché creano solo disagio,
disappunto, indignazione, di fronte al caos generale, perciò concludo questa intervista,
domandandoti quali sono i tuoi progetti
e quali prospettive intravvedi, nonostante tutto .
M.P: Di certo posso dire solo che continuerò ad impegnarmi per “migliorare,
migliorare, migliorare” e a cercare di comunicare a tutti questo mio motto.
LA BIBLIOTECA DI ADAMO
CALABRESE
OMAGGIO A RUZANTE
GOCCE DI LUNA
Laura M. Volante |
Ho trovato l'amore
in compagnia del dolore
che non lascia il passo.
Ho conosciuto fra le stelle
una luna agognante di sole
sparire in gocce di rugiada.
Un'ape sugge gocce di luna
per farne ambrosia prima
d'involarsi dietro un raggio.
Laura Volante
Lo sguardo visivo-sensitivo di Franco Cingolani
La paura di amare in
ricordo di Gianni Azzola
di Laura Margherita Volante
Franco Cingolani "Nuca" |
Ho conosciuto Franco Cingolani in
occasione di alcuni incontri con amici comuni del mondo dell'arte figurativa e
non solo. Nascono amicizia e collaborazioni in campo artistico e culturale, fra
cui la realizzazione di un paio di Mostre “Visioni e Vedute” (fotografia) e
“Visioni e Voci” (poesia) presso l’Alexander Museum di Pesaro e a S. Paolo di
Jesi (AN). Franco Cingolani è un fotografo che ha fatto della macchina
fotografica uno strumento pratico e funzionale per mantenere viva un'attività
mentale, che non sia solo lo scovare visivamente ciò che tende a restare
nascosto, ma anche per dare ordine e senso al suo mondo interiore. I soggetti
della sua ricerca fotografica sono multiformi: da un paesaggio naturale a
quello urbano, segnato dagli interventi architettonici dell'uomo contemporaneo;
da semplici scene di vita cittadina a Close-up su scorci di corpo umano o su
aspetti minimali del quotidiano incedere sociale. Spazio e tempo sono prelevati
dal suo sguardo indagatore nel cercare di cogliere quei dettagli e/o frammenti
di una realtà camaleontica a seconda del luogo, del momento unico e
irripetibile nel fuggevole divenire.
“Le vedute naturali e artificiali di Cingolani, che scivolano in voluti
e ponderati ritagli architettonici, oscillano tra descrizione e
trasfigurazione, tra narrativa e poesia. Le vedute si trasformano in visioni”. (Vincenzo
Marzocchini, critico e storico della fotografia).
Per il Nostro autore fotografare
con occhio contemplativo è una terapia non solo per rendere la vita migliore,
ma anche per trovare sollievo emozionale in momenti di cercata solitudine, da
condividere poi con altri in un ritrovato linguaggio animico fra immagini,
sequenze sensitive entrando in contatto relazionale. La foto diventa così un
tramite fra il sé e l'altro per evitare dolore sofferenze e quell'umana ferocia
che conducono alla spettacolarizzazione fino alla triste assuefazione, alla disumana
indifferenza, se non anche alla esasperata rassegnazione.
F. C. "La paura di amare" |
A questo proposito ben si presta
la sua opera “La paura di amare”,
saggio della bravura e originalità di Cingolani, che mi offre altresì occasione
di ricordare un caro amico, amato e stimato dai naviganti di “Odissea”, Gianni
Azzola, autore del libro “La paura di
amare”, che ebbi l’onore di presentare presso lo Spazio Lattuada di Porta
Romana (Milano), e da cui Cingolani ha preso spunto per produrre attraverso il
suo linguaggio espressivo un tema trattato egregiamente dal noto e autorevole
psicologo Gianni Azzola.
Blatterando
di Laura Margherita
Volante
In quest'aria
di vaghezza quanto m'è dolce il divagare!
La vaghezza
disperde ogni bellezza.
Chi accumula
non possiede.
Blatter o
blatte? Il primo s'aggira fra gli scandali. Le seconde scappano fra i veleni...
Il perdono è
un dono per se stessi. Un bastardo si può perdonare, ma tale rimane.
Loculo
cercasi... Meglio vivere dilapidando che morire con una lapide sopra il culo
senza goderne la vista...
senza goderne la vista...
I “montati” si
nutrono di adulazioni.
I “grandi”
sono come le carrozzerie d'epoca: non si rottamano, ma col tempo acquistano
sempre più valore.
sempre più valore.
Notare un
mazzo di fiori e non il buco sulla tovaglia aiuta le relazioni...
L'invidia è
incapacità di misura fra sé e gli altri...
La solitudine
amica rende migliori.
Usi e costumi
Ieri sculture
di alto profilo. Oggi figure di basso profilo.
Ieri si doveva
lottare con i pidocchi. Oggi con i pidocchi rifatti...
La pistola sta
all'assassino come l'indifferenza ad un colpo fatale al cuore...
Cancrena da
decubito sociale: corruzione da denaro demerito deculturizzazione
Amorosi sensi.
La sessualità sta alla pelle come l'amore alle viscere.
Conversare è
un volo di farfalla, che si posa di sussurro in sussurro.
Sfida
cerebrale. Quando impegno e studio formano un buon cervello.
E con Salvini?
Si salvi chi può...
AFORISMANDO
di Laura
Margherita Volante
23 maggio
Festa della Legalità. Quando ti fanno la festa... è finita!
Le feste
datano il tempo vuoto di essenza.
I giudizi
lapidari sono martelli pneumatici sulla tomba della memoria.
Quando si va
all'essenza resta una parola sola.
Gratitudine
cercasi. Alcune persone trattate male diventano migliori se no soffrono
di sindrome del rancore del beneficiato...
di sindrome del rancore del beneficiato...
Le parole
ingiuriose sono marchi incisi a fuoco.
Quesito. Ieri il
problema era: “Essere o non essere?”. Oggi è “Simpatico o non simpatico?”
Questo è il sistema...
Questo è il sistema...
L'avarizia
dell'anima è senza ritorno.
Si ha paura
della morte perché si teme l'ignoto.
La fede è un
sostegno, non una certezza.
Chi crede in
Dio non può misurare i termini della questione se non i propri limiti umani.
Emergenza:
patologia sociale da anestesia emotiva...
L'anestesia
fisica sta alla sala operatoria come quella emotiva sta alla sala d'aspetto.
Identità cercasi.
Ieri si era ciò che si era senza apprendimento; oggi non si è apprendendo
altro da sé.
altro da sé.
Degrado
ambientale. Lo spirito di cui sono impregnate le opere trema in ogni nervatura
di scalpello.
di scalpello.
Aforismare:
possedere una biblioteca in testa e un giardino nell'anima.
Lettura amica.
Aspiro a lasciare questo mondo con spirito elevato...per far prima ad arrivare.
È una Babele? Ieri mi
spaventava il silenzio, oggi chi non sa parlare...
di Gabriele
Scaramuzza
La recente
segnalazione di Gianfranco Plenizio, Quando Verdi componeva con la mano
sinistra (apparsa su “Il Venerdì” di Repubblica il 1 maggio 2015) mi ha
sollecitato a leggere il libro di Massimo Mila Le opere “brutte” di Giuseppe
Verdi (edito da Manni, Lecce 2015). Un libro benvenuto, di grande attualità a
mio avviso; e scritto da uno dei più insigni studiosi di Verdi. Vale la pena
parlarne.
Innanzitutto: è indubbiamente parte insopprimibile nel
vissuto estetico-artistico l’attenzione al valore - che si esprime
tradizionalmente, nelle sue polarità estreme, nei termini di bello e brutto,
con tutte le gradazioni intermedie, che vanno dal grazioso al sublime, dal
comico al grottesco al tragico (le cosiddette modificazioni del bello, o
categorie estetiche). L’esperienza viva di un’opera d’arte non si esaurisce
affatto in un modo di essere neutrale quanto ai valori, in un atteggiamento che
sia cioè attento solo alle strutture, ai dati tecnici e formali, alla
contestualizzazione storica. La fruizione dell’arte non si muove su un terreno
piatto, in cui le cose si possano disporre tutte in modo uniforme sullo stesso
piano.
È solo un’astrazione quella che mette tra parentesi i
valori; a un certo livello di analisi può anche essere metodicamente proficua
(come hanno mostrato Roman Ingarden, lo strutturalismo....), ma non va
dogmatizzata. Il vissuto estetico incespica piuttosto, si muove su un tessuto
screziato, increspato, tutt’altro che lineare; si distende e si arresta, si
rapprende in picchi di massima intensità e si perde in pause d’attesa quando
non di apatia. La sua densità su un terreno così accidentato è variabile, tra
immedesimazioni e scostamenti, brividi di piacere e insofferenze, entusiasmi e
noia.
Ai valori e alle differenze tra essi Mila è fortemente
sensibile – e ci mancherebbe che non lo fosse. Dedica una giusta attenzione a
una parabola della ricezione di Verdi che passa da forme di sottovalutazione o
di vero e proprio disprezzo, a forme di valorizzazione scarsamente equilibrate,
quando non decisamente fuori luogo. Nella sua introduzione giustamente scrive
di “assurde pretese di rivalutazione delle opere più scadenti di Verdi”; magari
in nome di un primitivismo e di un’incultura inesistenti e del tutto
fuorvianti. Non sono tutti capolavori le opere verdiane, talune giovanili sono
decisamente mediocri anzi; costituiscono “un cimitero di procedimenti
abbandonati” per fortuna in seguito. Anche nel ricorso a forme scontate e
tradizionalistiche bisogna inoltre distinguere ad es. tra cabaletta e
cabaletta, accompagnamenti melensi e accompagnamenti comunque accettabili; non
tutti sono banali, non tutti hanno la stessa funzione drammaturgica, né
un’identica tensione espressiva.
Giustamente Mila denuncia “l’inquinamento del giudizio
critico” in chi pone sullo stesso piano opere diseguali, disattento alla loro
qualità. Reagisce a che, “nell’ottusione del gusto” incombente, sfugga “che il
valore non consiste” in un “verdismo” non meglio identificato; bensì nella
differenza che distingue l’una dall’altra opere che sono di fatto tutte
“verdiane” e si riconoscono come tali, ma hanno un ben diverso rilievo
assiologico.
Mila riscatta giustamente la produzione verdiana in
generale - malgrado ogni evidente caduta di gusto, nonostante ogni carenza,
spesso sventolata, di compiutezza artistica - come “un fatto d’arte, un fatto
di cultura, tal quale come una Passione di Bach, un’opera di Mozart o una
sinfonia di Beethoven”.
Sostiene d’altronde Mila che la situazione della
ricezione di Verdi è “ora” (ai suoi tempi cioè, mezzo secolo fa) “profondamente
mutata” e che dei “vecchi nemici di Verdi non c’è più traccia”. Le opere
“brutte” di Giuseppe Verdi (come testimonia Postfazione e ricordi di Tito M. Tonietti,
utilissimo per contestualizzare il libro) è tratto dalle dispense del corso
dell’anno accademico 1963-64, un anno davvero lontano. Purtroppo è solo
un’incauta illusione e una effimera speranza ritenere che sia oggi tramontato
quell’antiverdismo (talvolta ahimè viscerale) che Mila riteneva sconfitto.
Amare Wagner vorrà dire amarlo tutto, senza cogliere la
banalità o la noia di alcuni suoi momenti ? Davvero è necessario disprezzare
Verdi per cogliere la grandezza di Wagner, o sottovalutare Wagner per amare
Verdi? Si deve amare tutto Verdi, anche i suoi tratti più deprimenti, se
davvero si ama Verdi? Non direi proprio. Ove si ignorino le differenze
qualitative non esiterei a parlare con Mila (fatto comunque salvo il rispetto
per le preferenze personali) di ottundimento del gusto, di desensibilizzazione
estetica.
Non sarebbe poi il caso di lasciarsi una buona volta alle
spalle la stucchevole, tuttora irrefrenabile moda di contrapporre Verdi a
Wagner, di non parlarne senza prender posizione a favore dell’uno o dell’altro,
di ascoltarli in modo comparativo? Non ho mai pensato, ascoltando le prime
opere di Wagner che mi hanno catturato, di dimenticare la mia passione,
radicata, per Verdi. Né mi hanno allontanato da Verdi la fruizione
sublime-perturbante di Tristan und Isolde alla fine degli anni Cinquanta, o poi
dei Maistesinger con Sawallisch alla Scala, o l’ascolto da un disco del Tristan
con la direzione di Furtwängler con Kirsten Flagstad, o ancora del Tristan con
Waltraud Meier e la regia di Heiner Müller a Bayreuth. Per tacere dell’emozione
viva, ancora a Bayreuth, del preludio di Parsifal nell’incerto chiarore del
preludio, e poi dell’incanto non solo del Venerdì Santo ma anche del castello
magico di Klingsor e delle Fanciulle-Fiore.... Il mio accesso alla Tetralogia è
purtroppo stata La cavalcata delle Walchirie (sigla di una nota trasmissione
Rai; un brano wagneriano che nella mia ottica rinviava alla celebre battuta di
Woody Allen...), ma non mi ha certo impedito di amare in seguito l’intero Ring;
anche qui, come in Verdi, non mancano punte d’una bellezza struggente,
vertiginosa. Così l’amore per la Messa in si minore, per la Sinfonia in sol
minore, per L’histoire du soldat o per Webern non mi ha mai fatto disprezzare
Verdi.
Tornando a Mila, egli riformula a modo suo motivi
crociani, la cui estetica è sostanzialmente volta a determinare un’essenza
estetica, che è anche il valore sulla cui base giudicare le opere d’arte.
Costringere l’estetica in un ambito valutativo è certo una semplificazione
improduttiva; un atteggiamento privo di quell’ampio respiro “fenomenologico”,
che è indispensabile per comprendere adeguatamente la vita varia e complessa,
la ricchezza delle opere d’arte. Ma quanto superficiale e riduttivo è anche
mettere tra parentesi, per malintesa scientificità, la sostanza dei vissuti,
le insopprimibili tensioni valutative
che li percorrono.
Mila affronta qui le opere meno belle di Verdi, “brutte”
appunto (e dovremo tornare su questo termine): Giovanna d’Arco, Alzira, Attila,
I masnadieri, Il Corsaro e La battaglia di Legnano. Le meno felici tra le opere
di Verdi indubbiamente, per libretti e resa musicale. Opere per lo più
francamente imbarazzanti all’ascolto; eppure degne di considerazione. Artisti
anche grandi non mancano del resto di tratti malriusciti o tediosi. Anche le
peggiori opere giovanili di Verdi rivelano aspetti interessanti
drammaturgicamente, non si riducono ai loro aspetti “brutti”. Così d’altronde
persino le opere maggiori possono non mancare di momenti drammaturgicamente, o
musicalmente, deboli.
Per chi ha sempre avuto interesse alla indubbia presenza
del brutto in Verdi (è il mio caso) queste ricerche di Mila sono oltremodo
stimolanti. Certo, Mila assume il termine “brutto” nel suo senso più scontato,
quello per cui indica un disvalore. Ma sappiamo che ha assunto sensi
molteplici, irriducibili a questo (si veda per questo, di Piero Giordanetti,
Maddalena Mazzocut-Mis, Gabriele Scaramuzza, Itinerari estetici del brutto,
Milano, Cortina 2011). Senza dubbio in Verdi il brutto è vistosamente presente,
ma in suoi aspetti estremamente variegati. Non solo nel senso di una negatività
irrecuperabile, ma anche in quello di un negativo che si riscatta, e
contribuisce potentemente alla produzione di qualità intense, di valori
esteticamente e artisticamente positivi. È quello che ho tentato di mostrare
nel mio Il brutto all’opera. L’emancipazione del negativo nel teatro di
Giuseppe Verdi (Mimesis, Milano 2013).
Mila pone tra virgolette il termine brutto. Come mai?
Proviamo a sintetizzare: le brutte opere di cui parla non sono riducibili in
toto ai loro aspetti non riusciti, alle loro componenti “brutte”; e recano in
sé germi che Verdi svilupperà da par suo in seguito. Per questo restano degne
dell’attenzione che appunto Mila, ma non solo lui, riserva loro. Un’attenzione
puntuale, analitica, fruttuosa comunque. Soprattutto perché non manca di quella
quarta, decisiva, dimensione dell’esperienza propriamente estetica, che “con
animo perturbato e commosso” ne sa avvertire lo spessore qualitativo.
***
UNA POESIA DI GIOVANNI BIANCHI
SUI NOSTRI TEMPI ATROCI
Risposta a Erri De Luca
… e invece il
mare è anche in cielo,
un cielo pieno
di nubi e di Dio
e Dio è più
scuro e piovorno
delle nubi.
È vecchio,
senza memoria
apparente,
e forse anche
stavolta s'è ubriacato
per distrarsi
dalla storia,
stanco d'essere
un Dio di dolore.
È vecchio e
secolare
e ne ha viste
troppe
di innocenze
frantumate
senza nome
e senza gioia.
Che gli dirà
alla risurrezione?
I corpi si
ricomporranno
(i corpi, non
gli avatar)
e Lui, il Grande
Vecchio,
dovrà dare a
ciascuno
una spiegazione,
senza più fretta,
anche per i casi
in cui
s'era distratto.
È triste e
contento,
non saprebbe,
perplesso sul
Mediterraneo
(ma che Med!)
che confonde con
il lago di Tiberiade.
È duro il
mestiere di Dio.
E poi quando ti
ammazzano un figlio
e poi a quel
modo.
"Anche a me
fatico
a dare
spiegazioni".
Non sono un Dio
di circostanza.
Sto provando a
lavorare
sui tempi
lunghi.
E io stesso non
ho pace.
Dubito se farmi
vedere.
(Giosafat non è
Woodstock.)
Ho dimenticato
l'arte dei miracoli
perché non si
esagera
con i colpi di
scena
e il mondo –
così com’è –
va o non va. Lo
vedono tutti.
Un tempo atleta
del mistero.
Figliuoli, anzi
ragazzi,
io vi ho
perdonati.
Adesso voi
vedete di perdonare me.
***
TIZIANA
ALTEA
Tiziana Altea |
Poesie
Garissa
Dall'armadio non usciva
per voler restare viva
La ragazza che è scampata
dalla strage sì affilata
Ma non c'è da cercar rima
su una storia d'odio e grida:
Dove per vivere bisogna farsi
morti
Tingersi del sangue dei morti
e berne, ché ancora sa di vita -
Di giorni di studio
acceso di domani -
quello da liberare da un armadio:
Ed esce sole rosso, di giovani
in canto di cuore
sfidando e sebbene
i tempi di terrore
[Milano, 7 aprile 2015]
Di
resche in gola
[scritta pensando a Expo 2015]
Il pianto in bocca e
i denti morsicando vuoto,
volendo spicchi delle
vostre pance e acqua piena:
come di pesci a fiume
incontro agli orsi
Così di voi noi siamo resche in gola.
E di fame pungiamo aghi,
anche svanendo. Aghi
di rosmarino, secco fiore
[Milano, 16 febbraio 2015]
***
Spazio
(A Grà)
Fare spazio
cancellando tutto
di sé:
piedi ginocchia
cosce bacino
petto volto
e interiore -
E poi la gomma,
le dita -
Vuoto -
Silenzio - Ti
respirano ora:
all'alba d'arancio
che torna e rinnova
Con l'azzurro
in germoglio
negli occhi
[Milano, 27 marzo 2015]
***
8
marzo [studio 2015]
La pianta cresce dentro -
nel tronco -
lì l'erba e le foglie
le nuvole che danno acqua
i raggi che fan colore
e fiori d'api e d'ali
Cava e piena:
Tu sei, donna
Anche quando attorno -
anche quando, tanto più,
accanto...
Sia in estate che in inverno
sei la pianta che ti cresce
e che ti cambia, dal di dentro
Sei corteccia e tutta un frutto.
Un riparo. E la forza del vento
[Milano, 7 marzo 2015]
***
10
anni, bambine
(Ansa - Nigeria: orrore senza fine. Bambine kamikaze...)
Un due tre, la vita cos'è? IO
che salto -
io
bambina che salto di miccia -
io che salto: e il mondo con me -
[Milano, 12 gennaio 2015]
***
Istante
Seduta sulla roccia beveva tutto
il cielo. Fino all'ultimo scroscio,
ai più limpidi raggi. Fino al vuoto -
A dove ride bacio in bocca quiete
[Milano, 6 ottobre 2014]
***
Bacio
di luna
C'è una luna sfumata nel mattino
incolore -
Pare un bacio accennato, di quelli
che spengon le parole e piegano
ginocchia e venti
Di quelli che ti placano, accendendoti
fiducia
[Milano, 11 settembre 2014]
Svegliarsi
una canzone
Svegliarsi una canzone,
cantando
nel mondo che è più mio
anche quando mi lascio
tra le pietre
dei pensieri
Cantare
il cappello rovesciato
non per chiedere briciole
ma per spargere riso
Così è vendemmia per me
il tempo tuo, speso
e segnato,
che mi gioca
e mi vince
e che scarto, il più atteso
dei regali
Cantare, insistendo di cuore
che scrivo e cancello
svegliandomi canzone
nel mio disarmato
disordine
Pizzicando le corde
dei bassi e dei fiati,
sussurrando i tamburi,
come una voglia
da succhiare
Succhiando le note come
cruda forza d’acqua che
fende le rocce
allagando la scorza tua
di raso
Perciò tu quante volte
così chiedimi
e così ascoltami:
ovunque canzone
[Milano,
3 novembre 2013]
***
DON
BURNESS
Poem
Four months
ago
You died
Magic flew
away
I remember
you every moment
Fifty years
now seem like fifty days
It came it
went
Like a
passing cloud
Or April
daffodils
Or a dream.
[Usa- May- 5- 2015]
Poesia
Quattro mesi fa
Sei morta
La magia volò via
Ti ricordo in ogni momento
Cinquant'anni sembrano ora cinquanta giorni
Arrivati e andati
Come una nuvola passeggera
O come i narcisi d'aprile
O come un sogno.
[5 maggio 2015]
(Traduzione it. Max
Luciani)
INTENTA
Intenta
a sopportare il mio dolore,
sentivo
e non lenivo quello altrui.
Anni
di gioventù, infelici e bui,
vissuti senza sesso e senza amore.
Un
malinteso senso del dovere
t’inchioda
a recitare la tua parte.
Mescoli
e rimescoli le carte
ma pur le albe ti sembrano sere.
Qualche barlume rischiara per poco,
ma intime risorse sconosciute
affiorano improvvise, non volute,
e prepotenti accendono il lor fuoco.
Emerge dal profondo un nuovo mondo,
ti lascia stupefatta e divertita.
Bastava un po’ di carta, una matita,
ti fan le Muse intorno un girotondo.
Erato, Calliope pazzerelle
ti esortano e ti prendono per mano.
C’era dentro di te un tesoro arcano,
ridon le rime, sian pur brutte o belle.
Lorenza Franco
[Rapallo, 5 maggio 2015]
Giovanni Faccioli "Il gioco" |
Aforismi
di Laura Margherita Volante
Alla ricerca del tempo bastonato...
La sragionevolezza
della politica serve a manipolare le emozioni del popolo non più sovrano.
L'età anagrafica
disse a quella biologica: “ Mi fai una rabbia, per te il tempo non passa mai!”
al che l'età biologica rispose: “Tu come un ragioniere segni il tempo che non c'è, io di contro vivo
senza tempo...”
al che l'età biologica rispose: “Tu come un ragioniere segni il tempo che non c'è, io di contro vivo
senza tempo...”
Meglio una fetta
di torta per il compleanno o essere intortati? La prima se non te la tirano
in faccia si condivide. Nel secondo caso la vecchiaia è ancora molto lontana...
in faccia si condivide. Nel secondo caso la vecchiaia è ancora molto lontana...
Ieri si
scrivevano epitaffi sui monumenti per ricordare la storia...Oggi si cancellano
precipitando nella preistoria.
precipitando nella preistoria.
La speranza è il
motore dell'agire umano.
Usi e costumi.
Ieri si cantava
insieme pedalando nel vento...oggi l'aria tira in una girandola di identità
perse nell'indifferenza.
perse nell'indifferenza.
Ieri si moriva
vivendo da eroi. Oggi si vive morendo da vili...
Ieri era costume
esercitare il controllo di sé. Oggi è in uso il potere di esercitare il
controllo.
Meno di un cane?
Il cane ha bisogno di carezze e le accetta anche da uno scemo...
perché non lo sa.
perché non lo sa.
Quando si va
all'essenza resta l'assenza dell'ultima parola...
Il silenzio
quando non è la più alta forma di disprezzo è la più bassa forma di livore...
Tra Verdi e Wagner
di Gabriele Scaramuzza
La copertina del libro |
Sono benvenuti volumi
come Un duplice anniversario: Giuseppe
Verdi e Richard Wagner (a cura di Ilaria Bonomi, Franca Cella, Luciano
Martini, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Milano 2014). Non ultimo
perché sfatano lo stantio luogo comune della contrapposizione tra Verdi e
Wagner. Non è affatto detto che il mondo dell’arte debba essere vissuto come un
campo di comparazioni oppositive, dove non si possa fruire un’opera senza
immediatamente porla in competizione con altre.
La conflittualità tra questi due artisti ha
certo lontane radici nella nostra cultura; Emilio Sala (che peraltro è
del tutto alieno a ogni accentuazione del contrasto) le ha indagate da par suo
nel contributo che da dedicato alla ricezione del Lohengrin alla Scala. In questo ambito è da leggere anche “Verdi e
il wagnerismo nel movimento germanico
italiano” di Antonio Rostagno.
Risvolti da tener presenti, che toccano i
rapporti tra verdismo e wagnerismo, si trovano anche in “Congedo musicale” di
Luciano Martini (riguarda Toscanini, che sapeva amare e capire Verdi non meno
di Wagner); e in contributi quali quelli di Stefano Baia Curioni e Laura Forti;
e di Franca Cella sul rapporto di Verdi col salotto di Clara Maffei, in cui la
cultura tedesca era presente quanto meno tramite Andrea Maffei.
Un posto a sé va riservato a Ilaria Bonomi, che
ha scritto un saggio davvero magistrale su “Lingua e drammaturgia nei libretti
verdiani”, tema da sempre avvincente per me. Bonomi, con E. Buroni già aveva
curato Il magnifico parassita.
Librettisti, libretti e lingua poetica nella storia dell’opera italiana
(con contributi di Valeria Marina Gaffuri e Stefano Saino), Franco Angeli,
Milano 2010. Il saggio che penetra più a
fondo e diffusamente nel tessuto drammatico-musicale verdiano è tuttavia quello
che Fabrizio Della Seta dedica al Trovatore. Egli sottolinea la
eccentricità di quest’opera nel mondo verdiano, e la “difficoltà di coglierne
un messaggio, un significato”, che invece è più agevole cogliere in altre opere
quali Rigoletto e Traviata. E ricorre (come Berio
suggerisce) a temi psicanalitici, in effetti molto utili per interpretare
personaggi e situazioni. Leggiamo: “l’apparente illogicità del libretto […] è
tale rispetto alla logica aristotelica”, discorsiva, diurna; “la vita emotiva
ne segue una propria totalmente diversa”, imprevedibile. Riprendendo Francesco
Orlando, Della Seta dichiara che non siamo di fronte a un “banale psicologismo
dell’autore o del personaggio”, bensì a una concezione del drammatico-musicale
“come sistema simbolico strutturato secondo principi formali analoghi a quelli
che governano le manifestazioni dell’inconscio”. Talché Manrico può ben essere vuoi figlio di
Azucena, vuoi fratello del Conte; senza rispettare il principio di non
contraddizione. La conclamata oscurità del testo (comunque tale fino alla prima
scena del secondo atto inclusa, secondo Della Seta) è da lasciar valere in
quanto tale, così come si manifesta; senza angosciarsi a scioglierla come se
fosse un difetto cui rimediare, senza farla valere come giudizio negativo.
Motivi
psicanalitici sono dunque presenti nel testo: “La mia tesi è che nel Trovatore Verdi abbia dato espressione
al conflitto basilare tra pulsione di vita e pulsione di morte”[1].
Amore e morte sono indissolubilmente legati in pressoché tutti i personaggi, ma
emblematicamente in Leonora. Certo, a
tutta prima non è dramma di ambivalenze psicologiche Il Trovatore; sembra anzi piuttosto elementare nel suo susseguirsi
di melodie felici, agevolmente godibili, e di caratteri univoci, tutt’altro che
privi qualità (l’esatto contrario dell’uomo di Musil). Ma va anche letto in
controluce; e qui la psicanalisi può fornire utili strumenti e rivelare un
angosciante sottofondo non detto. Concludendo, sarebbe un sollievo oggi veder
finalmente archiviati modi ingiustificatamente conflittuale di porsi di fronte
a opere d’arte comunque degne del massimo rispetto, e di fronte a Verdi in
particolare. Purtroppo di fatto non è così.
Ci sono poche cose che vivo con tanto disagio
quanto il sordo disprezzo verso Verdi; un dispregio di cui mai manca qualcuno a
tutt’oggi che se faccia carico. Wagner ne è un antesignano, mai mancava di
manifestare il suo disprezzo verso Verdi; non altrettanto si può dire di Verdi
verso di lui.
E aggiungo che un simile modo di essere verso
Verdi ha sfondi che non sono solo di gusto estetico-artistico o generalmente
culturale, tanto meno di valutazioni formali. Affondano piuttosto le loro
radici nell’ambito del sentire. In un mondo che esprime un’intera visione del
mondo, a livello anche esistenziale, etico, e sociale.
Note
1.Idem
***
LA
BIBLIOTECA FANTASTICA DI ADAMO CALABRESE
Ogni giorno che
vivo è un giorno di gioventù.
L'indifferenza è
la coltre della stupidità.
La sicurezza è
talmente vulnerabile che passare sotto una scala porta fortuna.
In tutto questo
caos il caso è già “sfigato” di suo...
Il caso è il
frutto di condotte ossessivo-compulsive della follia.
Per ridurre il
rischio che un cornicione cada in testa è bene camminare a zig zag...
Una bella testa
riflette. Una testa vuota si riempie solo di sciocchezze.
Gli appuntamenti
mancati conducono verso abissi infiniti.
Laura M. Volante
VALERIA DENTAMARO E LA SUA CONFESSIONE
POETICA
di Laura Margherita Volante
Valeria Dentamaro |
“Quando si scopre un ‘Anima’ s’avverte il
silenzio del Tutto. C’è qualcosa che sale dall’Io’ e che freme fra solitudini,
angosce, amori, afrori di natura e vertigini interiori. E’ la rivolta di un essere
pensante e sofferente dinanzi ad un mondo lacerato dal dolore, dalle delusioni,
dalle illusioni. Nella poetica di Valeria Dentamaro, vissuta con intensità
emotiva, c’è una sorta di incontro quotidiano con se stessi e con quanto ci
circonda. In altri termini, una confessione a cielo aperto.” (Cesare Baldoni).
Ho avuto
la fortuna di conoscere Valeria in occasione di un importante evento culturale
a Osimo. Da questo incontro un’amicizia al femminile, un sentirsi solidali e in
sintonia. Una persona di grandi qualità umane e di spiccate doti artistiche,
che mi ha coinvolto in altri incontri culturali e conviviali nel bellissimo
centro osimano.
Metafore
visioni ansia di assoluto per lenire le stanchezze del tempo e di una
quotidianità mai risparmiata con generosità nell’impegno sociale e culturale,
che ben si evince dalla sua breve biografia.
“La corsa di Valeria Dentamaro, della sua gioventù, si
è conclusa sotto il nido appollaiato ad una grande quercia, ma tace il vento
nel verde canneto”.(Cesare Baldoni).
Così lo
scrittore Cesare Baldoni ritrae la poetica di Valeria Dentamaro nella
prefazione del libro “La ghiaia del mio
giardino”, fra le quali emerge la poesia, che desidero condividere con i
lettori.
La mela a metà
Il ramo mi veste d’una verde
sottana
ma l’occhio ammicca sull’orlo
d’una foglia
e il sole mi spoglia e m’indora
e la bocca ride nel morso
d’una mela.
Vieni, e l’ombra s’allunga
a prendermi dolcemente
come il salice curvo
s’abbraccia
pigramente alla siepe spinosa.
E il silenzio sulla ghiaia,
nell’aria:
solo un lieto frusciare
(o forse le nostre parole quiete
e impossibili volano dietro
le brune api?).
Poi il ramo si spezza, e il sole brucia,
la mela è in terra, morsa a metà
perché ad un tratto ho perduto
nel respiro il tuo lieve contatto.
Seconda
classificata al Premio “Voci Nostre” del
Concorso Internazionale di Ancona
con la poesia “La mela a metà”, l’autrice attraverso i suoi versi si immerge in
una atmosfera idilliaca e malinconica nel grembo della madre terra fra suoni
colori e silenzi che dicono quanto siano fragili i contatti. Imprevedibilità
umana? Casualità? Quale la fine se tutto è possibile in un inizio di speranze e
illusioni poi cadute così nel vento? Questa scena campestre ci riporta ai
luoghi dannunziani in una intimità però tutta pascoliana. Eh sì, Valeria
Dentamaro ama perdersi nella Natura benigna a consolazione della stanchezza di
vivere fra delusioni disillusioni perché la mela a metà è Lei, morsa dalla vita
spesso ingrata e… forse anche noi. Il libro “La Ghiaia del mio giardino” è accompagnato da suggestive immagini,
opere d’autore, perché Valeria ama l’Arte, la Bellezza, l’Amore per aprirci
varchi di speranza fra sogno e realtà dove il sogno in punta di piedi,
sublimandola, si fa realtà.
La copertina del libro |
MILANO: IL CIELO, I NAVIGLI, LA DARSENA
Testo e foto di Paolo Maria Di Stefano
“Guarda
il colore del cielo: è trasparente; è come se raccogliesse le ultime luci del
giorno per fabbricare una notte particolare, una notte di cristallo azzurro”.
Ale mi
indica il cielo sopra la Scala
senza guardarmi, perduta nello spettacolo raro così tanto da diventare unico. I
suoi occhi vivono del colore stesso di quel fondale animato dalla luce della
luna e di Venere, e da quella appena accennata delle ancor rade stelle.
Una
sera così a me ricorda Alessandra bambina, in quella età meravigliosa che si
svolge attorno ai cinque anni e che è fatta di chiari sorrisi luminosi e veri,
di felicità di vivere, di affetti assoluti, di ricordi e speranze in dialogo di
sogno.
E’ una
delle sere che Milano regala a chi la ama. Tra breve, sarà buio, per quanto può
esserlo il cielo di una città.
E la
notte svolgerà la sua vita.
“E’ la
trasparenza dell’infinito” -prosegue Alessandra- “il colore che in Cantiere
raccomandiamo per i progetti delle idee più creative. Ed è anche il luogo del
mio ponte.”
La
pausa di silenzio trasmette le vibrazioni dell’anima della giovane architetto,
innamorata della sua città e ansiosa di contribuire a costruirne il
futuro.
“E
pensare che esiste chi crede che Milano viva sotto un cielo lattiginoso fin
quasi a diventare anonimo…” soggiunge, quasi mormorando.
“Beh!
Non mi pare che il nostro cielo sia prevalentemente azzurro e sereno. Il più
delle volte è proprio bianchiccio, quasi pesante e non certo allegro”.
Alessandra
mi guarda come fossi appena giunto da qualche strano pianeta, tanto da
obbligarmi a nascondermi dietro la citazione del più grande tra gli scrittori
milanesi, quel Manzoni che ebbe a dire:“Quel
cielo di Lombardia, così bello quand'è bello, così splendido, così in pace”.
E
commento: “Se il cielo di Milano fosse stato prevalentemente bello, Manzoni non
avrebbe sentito il bisogno di descriverlo come ha fatto, e soprattutto di
sottolinearne la bellezza “quando è bello”, che vuol dire che raramente lo è,
bello. Non ti pare? Tra le altre cose, quel Manzoni lì non ne ha imbroccata
una: che una cosa sia bella quando è bella è assolutamente scontato. Magari,
bisognerebbe ricordare che non è facile trovare un bello oggettivo ed accettato
da tutti, ma, trattandosi del cielo…; che il cielo di Milano sia così
splendido, è un’opinione personale ed anche non vera, mi pare. Che sia così in
pace, invece, vero lo sembra: è talmente bianchiccio e immobile che è possibile
che sia in pace. Anche eterna, forse”.
Alessandra
reagisce prontamente, come ogni volta che qualcuno esprime giudizi non
entusiasti su Milano. E come sempre con me, assunta una vaga espressione
didascalica mista ad un sorriso
paziente, “A parte il fatto che nessuno sa che cosa esattamente il cielo
sia” -esordisce- “ la funzione del cielo non è quella di essere bello, sempre
ammesso e non concesso che un cielo bigio o bianco sia brutto! Il cielo è il
mondo nel quale i colori si rivelano e in forza del quale riescono a vivere.
E non
esiste sfondo migliore, per rivelare i colori, della via di mezzo tra il bianco
e il grigio. Ogni colore si rivela per quello
che è, ed ogni colore ha la possibilità di affermarsi e competere con qualsiasi
altro. E di costruire atmosfere insieme agli altri.
Il
cielo è fondale essenziale perché la città possa, quando e come vuole, vestirsi
di colore, e per questo si fa d’un lattiginoso uniforme: perché i colori
possano disegnare quella personalità che rende Milano qualcosa di diverso, di
unico. Si può immaginare che il cielo di Milano sia come una grande tela in
attesa che un pittore la animi di pensieri e di sentimenti, di forme e di
colori.
Una
pausa breve. Poi, guardandomi ridente: “Ti ricordi di averla fotografata,
quella tela?”
Non mi
sarei mai aspettato che una fotografia che avevo giudicato sbagliata e comunque
senza significato potesse restare così viva nel ricordo di Alessandra, fino al
punto di essere in grado di mostrarmela.
Foto 1 |
“La
porto sempre con me” -mi spiega sorridendo- “perché mi ricorda che il mio
lavoro è proprio progettare idee cui dare colore e forma e vita… E in un cielo
bianco, tutto risalta meglio. E poi, un
cielo bianco è lo strumento migliore per stimolare la creatività. Perché
collabora preparando gli ambienti meglio adatti a valorizzare i pensieri e
concretare i sogni. Se mi accompagni, te lo dimostrerò.”, conclude, prendendomi
per mano.
E’ decisamente bianco, il cielo, sul Naviglio Grande, ai confini della Darsena. Vuoto e
lattiginoso, eppure quasi custode di un’ombra di promessa riflessa dall’acqua.
Eccolo,
quel cielo, nel pieno del suo infinito. Ed eccola, quella promessa, forse un
suggerimento a pensare prima di esprimere giudizi: può, un cielo bianco,
riflettersi vivo di colori?
“Ma tu”
-chiede improvvisamente Alessandra- “lo sai che l’idea, il progetto di questo
Naviglio nascono dal bianco? Tutte le idee e le fantasie e i desideri che
compongono la creatività il Cantiere le affida al bianco e all’indefinito
formale.”
Le
domande dell’architetto sono, per me, … domande d’architetto, appunto:
raramente collegate con la pratica di ogni giorno, più spesso dense di pretese
d’arte e di convincimento di una natura geniale della quale molto raramente gli
architetti fanno parte. Un mondo, quello
degli architetti, più sognato che reale, nei meandri del quale non mi
avventuro. Per pura prudenza. E dunque da parte mia senza risposta.
Del
resto, Alessandra mi precede mostrandomi l’originale del progetto di ideazione
elaborato dal cantiere:
Non mi
è chiaro del tutto, ma Alessandra è ormai inarrestabile.
“Guarda
cosa può diventare, in pratica, quel suggerimento.”.
“Vedi?
Quel cielo bianco è divenuto d’un azzurro intenso, e si riflette assieme alle
case ed al ponte, e il Naviglio si colora perché vivo. E guarda ancora, quando
cerchiamo di annullare il buio della notte…”
Foto 5 |
“E
soprattutto -prosegue- ti pare ancora che il cielo di Milano sia una massa
informe bianchiccia e anonima?”
Cerco di
glissare in qualche modo. Non posso non ammettere che pochi spettacoli sono
così emozionanti come il Naviglio Grande illuminato la sera, ma non mi pare
sufficiente per decidere che il cielo di Milano non sia il più delle volte
lattiginoso e quasi senza personalità.
E lo
dico ad Ale, che subito decide: “vieni a vedere” dice, trasportandomi in
un mondo per me non consueto, almeno non
nel modo di guardarlo. E mi prepara: “il cielo si esprime sempre in modo
adeguato alle circostanze e alla sua gente. Senza eccezioni.
Prima, però, guarda e saluta la Darsena , il suo cielo e i
suoi riflessi. Capirai perché il Naviglio Grande ha lasciato il Ticino e
racconta a Milano la storia di quei cinquanta chilometri fin dal 1250” .
“Ma se allora la Darsena non esisteva!
Quattrocento anni dopo, forse…”
“Il tempo” -sentenzia Alessandra-
“non è che una opinione. Non esisteva la Darsena , ma il Naviglio arrivava al Duomo, si può
dire che lo abbia costruito. E lì ha vissuto sogni e desideri e realtà e
sofferenze e gioie…La vita. E la
Darsena ha raccolto i ricordi portati dall’acqua e li ha
conservati e li colora a nuovo per il Naviglio.
“Sogni che cambiano la città, la
nobilitano, la forgiano in funzione dei desideri di ciascuno. Vedi? La nuova
Darsena che sta nascendo si prepara ad accogliere la semplicità dei sogni della
gente comune. Uno spicchio di mare personale, a casa, senza simboli di stato,
senza eccessi. Vedrai: tra non molto, sarà pieno di bambini felici e di mamme
serene e del parlare proprio della gioia.”.
“E di speranze. Non è forse vero
che quella barca è pronta a navigare verso l’infinito?”
“E’ vero. La Darsena è insieme origine
e fine. E non solo dei Navigli. La
Darsena è la sintesi della storia della città. A Milano vive
il presente e nasce il futuro, da Milano idee e speranze e creatività si
spargono per il mondo. La
Darsena rende concreti l’alfa e l’omega di ogni giorno. Da
sempre.
E l’acqua fabbrica e conserva
anche i ricordi.”
Si annunzia la sera. Ale guarda
le barche già al riposo.
Una sembra aggrapparsi all’ultima
luce: il riflesso annunzio del tramonto le fa compagnia e la rassicura.
Le altre due sembrano essersi
defilate. Sognano di essere ancora sulla Vecchia Darsena, protette dalle tracce
d’un tempo trascorso appena. E sono tranquille.
Foto 11 |
La sera avanza.
Risponde il cielo, sintesi dei
colori di un’altra giornata nata dal bianco.
Foto 12 |
di Grabriele
Scaramuzza
La copertina del libro |
La recente
pubblicazione presso Olschki di Piegare la nota. Contrappunto
e dramma in Verdi, mi offre l’occasione non solo di segnalare un importante
contributo agli studi verdiani, ma anche di dedicare al suo autore, Marcello Conati,
qualche nota che da tempo avevo in animo.
Il libro di Conati
cade nel contesto della celebrazione dei duecento anni dalla nascita di Verdi.
Se si vuole avere un quadro più completo della bibliografia verdiana di questi
ultimi tempi, è necessario tener presente quanto meno lo studio esauriente di
Raffaele Mellace, Con moltissima
Passione. Ritratto di Giuseppe Verdi (2013); e anche, dello stesso autore, Eredità
di un centenario: Verdi e il suo mondo in due ambiziosi lavori di sintesi,
apparso in “Studi Verdiani”, 24/2014,
pp. 270-280; in questo caso di un vero e proprio saggio si tratta, anche
se prende l’avvio da una - pur ricca e ragionata comunque - recensione critica
di Verdi Handbuch e di The Cambridge Verdi Encyclopedia (entrambi
del 2013).
Tornando a Conati, la mia innata simpatia per Verdi mi ha
indotto un grande interesse verso le sue molteplici ricerche verdiane. Soprattutto
perché mi hanno offerto, oltre a conoscenze indispensabili, un riconoscimento
qualificato, e atteso, della mia esperienza di mero spettatore. Appassionata,
certo, ma imparagonabile con quella di Conati, infinitamente più esperta sullo
specifico piano drammaturgico-musicale e culturale.
Di persona ho incontrato Conati una sola volta, a Parma, a
quanto ricordo. Ma ho sempre letto con partecipazione i suoi lavori. Devo
avergli inviato qualche mio scritto, ricevendone pareri comunque per me giovevoli,
soprattutto quando critici. Della sua vita e del suo lungo impegno si trova un
esauriente, sia pur succinto, profilo nei risvolti di copertina di Piegare la nota.
Conati è milanese, e a Milano si è formato; ma ha svolto la
maggior parte della sua molteplice attività altrove: è stato maestro sostituto
all’Opernhaus di Zurigo, musicologo riconosciuto, docente al Conservatorio di
Parma - città in cui ha collaborato anche con l’Istituto Nazionale di Studi
Verdiani. A Milano, al liceo Carducci è stato compagno di banco di Fulvio Papi,
che di “Odissea” è un po’ l’anima; di Marcello Conati mi ha sempre parlato con
ammirazione e affetto; mi ha confessato di dovere a lui anzi qualcosa del suo
amore, sia pur da mero ascoltatore, verso il mondo musicale; ricorda con
nostalgia che gli suonava al piano musica classica, una volta la Morte di
Isotta. Certo non Verdi.
Nell’introduzione a Piegare
la nota scrive Conati: “allevato da mio padre, cantante, al culto di
Wagner”, a “capire Verdi ci sono arrivato
piuttosto tardi”, e “non certo per folgorazione”, bensì “per gradi”, attraverso
una conoscenza pratica e un sistematico approfondimento dei problemi del suo
teatro. Ma anche aggiunge che a Verdi è giunto per il fascino che ha esercitato
su di lui l’uomo Verdi (è anche il titolo
del noto libro di Frank Walker).
Nella lunga esperienza di musica e di vita di Conati Verdi è
stato una conquista raggiunta con grande dedizione, un traguardo direi. Questo
è tanto più rimarchevole se si considera che proprio da Wagner è partito; non è
approdato alle rarefatte atmosfere wagneriane lasciandosi alle spalle scontate (considerate
persino riprovevoli poi) inclinazioni giovanili, emancipandosi da iniziali e
troppo “facili” simpatie verdiane. Tanto meno ha fatto agire Wagner come metro
di giudizio cui tutto commisurare, né il suo teatro come modello insuperabile
in base a cui considerare, giustiziare anzi, tutto il teatro musicale. Se gli è
ovviamente estraneo ogni verdismo corrivo, non di rado davvero imbarazzante, è
ben lontano - e questo resta per me decisivo - “da tutti coloro che, assumendo
un atteggiamento di aristocraticità estetizzante, prendono partito in favore di
Wagner e disprezzano il teatro verdiano” (mutuo queste parole dall’articolo di Augusto Mazzoni : Da
Gramsci a Parinetto. Il melodramma italiano: popolo e rivoluzione, apparso
di recente su BresciaMusica)
Il mio personale cammino dentro Verdi è stato l’opposto di
quello di Conati, assai diverso è stato il mio approccio: da mero per quanto attento ascoltatore; non
da musicista né da musicologo. Posso rintracciare le date del nascere della mia
passione per Bach, Mozart, Beethoven, Mahler, Stravinskij o Webern. Ma non
quelle del nascere del mio amore per Verdi, che mi è dentro da sempre, come una
sorta di dato di natura strettamente intrecciato al mio vissuto. Non sarò mai
abbastanza grato a musicologi e uomini di cultura, non numerosissimi in verità,
dotati di sensibilità in grado di apprezzare Verdi, e di cogliere da competenti
la sostanza della sua opera. Vorrei citare qui innanzitutto, insieme a Conati, Fabrizio Della Seta , Gilles De Van, Emilio Sala , e poi via via
Pierluigi Petrobelli, Massimo Mila, Julian Budden...
Conati non ha mai recluso Verdi nell’immagine, pur giustificata,
ma di per sé inadeguata, dell’uomo di
teatro; “poco a poco, analisi dopo analisi” ha saputo coglier la grandezza
di Verdi anche come musicista. Cosa
che si vede in modo esemplare nel suo Rigoletto.
Un’analisi drammatico-musicale (Marsilio 1992; con dedica a suo padre,
significativa nel nostro contesto), dove quest’opera è affrontata con un ampio
respiro culturale, oltre che con specifica consapevolezza
drammaturgico-musicale. Non dimenticherei inoltre le laboriose e dettagliate
ricerche che lo hanno condotto a La
bottega della musica, Verdi e La Fenice (Il Saggiatore 1983), e soprattutto
al bellissimo Verdi. Interviste e incontri
(seconda ediz. EDT 2000). Costante è la sua acribia, la sua cura del
particolare, il suo rifiuto di disperdersi in considerazioni generiche o, per
altro verso, in una erudizione fine a sé. Non a caso, nel suo a tuttora
insostituibile Giuseppe Verdi. Guida alla
vita e alle opere (ETS 2003), Conati ci offre percorsi che attraversano
insieme i contesti teatrale, musicale ed esistenziale di Verdi; e il tutto è
accompagnato da una documentazione adeguata, che non trascura le immagini, le
dichiarazioni di poetica, i contesti storici e culturali.
Tanto meno tacerei le sue ricerche su quella che considero
tra le migliori in assoluto delle opere verdiane: Simon Boccanegra (Ricordi 1993). Una “ricognizione”, la sesta di Piegare la nota, è specificamente
dedicata a questo dramma.
Nel complesso il libro consiste in una raccolta di saggi
apparsi tra il 1969 e il 2007, dedicati a creazioni verdiane diverse: da Oberto Conte di San Bonifacio, Macbeth, Stiffelio, Luisa Miller, I Vespri siciliani, Aida, fino all’Ave Maria.
Tutti i saggi sono tuttavia riuniti sotto un indice comune: il contrappunto nei
drammi verdiani, come indica anche il titolo.
Scrive Conati nell’Introduzione:
“Fatti i conti con quanto da me pubblicato in cinquant’anni di ricerche sulla
vita e sull’opera di Verdi, la scelta definitiva degli argomenti è stata
ispirata dal proposito di dare ampio spazio all’arte di Verdi e alla sua
poetica di architetto in musica,
ponendo in luce i suoi processi compositivi in funzione drammaturgica,
esaminando i criteri di alcuni suoi rifacimenti, trattando di fonti
drammatiche, di messinscena, di ballabili, di musica popolare, di problemi
storiografici, di contrappunto...”. Nella consapevolezza che “è nel suo
magistero musicale, costruito pietra su pietra
alla scuola ‘napoletana’ di Vincenzo Lavigna, che affonda le radici, a
parer mio, il suo straordinario senso del teatro”; sottolinea “l’importanza
decisiva esercitata sulla formazione musicale” di Verdi “dall’apprendimento
tenace, quasi ossessivo, del contrappunto e dello stile fugato”. Opportunamente
cita nel Preambolo al suo libro noti
passi verdiani, ne cito uno per tutti: “per fare un’opera bisogna aver in corpo
primieramente della musica”; e Conati aggiunge a chiarimento: “l’interesse che
in Verdi suscita un soggetto d’opera prende sempre le mosse dalla possibilità
di rinvenirvi le occasioni atte a tradurre gli effetti drammatici in strutture
musicali in movimento, compiute e autosufficienti”. Verdi è attratto insomma
innanzitutto, più che dai contenuti, dalla musicabilità di un testo.
Questo musicista ama presentarsi come un artista istintivo e
spontaneo, ma ha alle spalle una solida formazione musicale. Dichiara (in un
passo che Conati cita) di essere “il meno erudito di tutti” i musicisti passati
e presenti. Ma aggiunge: “dico erudizione
e non sapere musicale. Mentirei se
dicessi che nella mia gioventù non abbia fatto lunghi e severi studi. Egli è
per questo, che mi trovo aver la mano abbastanza forte a piegare la nota come
desidero. Ed abbastanza sicura per ottenere, ordinariamente, gli effetti ch’io
immagino”. Non a caso Conati dà rilievo
al “coraggioso sperimentalismo” di Verdi, che porta fino alle soglie del
Novecento.
Tra le intuizioni di Conati che più incoraggiano le mie
impressioni di ascolto c’è quella della funzione drammaturgica e non esornativa
dei ballabili: “i ritmi di danza sono spesso sfruttati da Verdi in funzione
drammatica: essi vengono inseriti nel corso dell’azione scenica per definire
musicalmente una situazione” (leggiamo nella quinta “ricognizione”, dedicata ai
ballabili dei Vespri siciliani). Così
gli esotismi di Aida, in relazione ai
quali Conati riprende osservazioni assai penetranti di Della Seta (per cui
l’aspetto esotico non è “un fatto di gusto e di colore”, ma un “elemento
stilistico” rilevante drammaturgicamente). Qualcosa di analogo, direi (è una
mia aggiunta), si può dire dei brindisi, diffusi nell’universo operistico
verdiano (basti pensare anche solo a quello del Macbeth). Ma anche, in particolare, della “musica cupa e lugubre” che
“annuncia l’arrivo di Fenena e degli Ebrei condannati a morte” nel quarto atto
di Nabucco, e della “musica
villereccia” che prepara l’arrivo di Re Duncano nel primo atto di Macbeth (su quest’ultima non
dimenticherei le osservazioni di Francesco Degrada nel programma di sala della
Scala del 1997-1998), entrambe con un andamento vagamente bandistico ma intensamente
espressivo.
A testimonianza del respiro ampio, accurato ma mai erudito
fine a sé, degli scritti di Conati, sono rimasto colpito da talune sue
notazioni sulla Messa da Requiem ,
che danno rilievo al sapore profondamente esistenziale che la intride. In un’ottica
personale si associano a pagine che le ha dedicato Alice Cappagli (che ha
contribuito più volte a “Odissea”). Nel suo saggio Variazione eidetica dell’opera musicale. Il Requiem di Verdi (in “Materiali di Estetica”,
nuova serie, 1, 2010, pp. 71-79) scrive:
la Messa da Requiem, al “carattere mistico del rito”
aggiunge “il senso ultimo e comune all’umanità dell’incontro con la morte e
quindi col mistero, con il nulla e con un’eternità negativa non ancora esperita e tuttavia inevitabile”. Non
solo “tocca con drammaticità il senso della morte ma, cosa propria del misticismo,
tocca quello proprio della ‘morte eterna’, del nulla che si sovrappone alla
notte, che si contrappone a quello di una ‘vita eterna’ oggetto esclusivo della
fede. Tutto il testo, dall’inizio alla fine è pervaso da timore, attesa,
speranza, tanto che il Dies irae
torna a irrompere alla fine nel Libera me
Domine con il suo non a caso ‘allegro agitato’, che spezza l’implorazione
dopo una sospensione di silenzio generale in cui si spegne un ‘pianissimo,
allargando e morendo’ ”.
Conati della Messa mette in luce il “sapore
terrestre” che promana dalla “materialità stessa dell’esistenza umana espressa
attraverso il canto”. Tutto il teatro verdiano, “popolato di infelici, di
perseguitati,di ‘diversi’, di vittime sacrificali, sembra rianimarsi attraverso
le inquiete pagine della Messa. Il
gesto teatrale viene interamente assorbito dalla rappresentazione musicale del
terrore dell’uomo serrato in un inesorabile confronto con la propria natura,
della sua ribellione di fronte alla morte, del suo sgomento alla soglia
dell’eterno ignoto, attraverso un percorso in cui l’accento epico s’alterna a
quello elegiaco, il terrore allo sconforto, la preghiera allo scatto iracondo,
il grido della disperazione a quell’anelito alla vita, che è il Libera me Domine”.
L’AFORISMA
“Credono in Dio per poterlo bestemmiare”
Lorenza Franco
***
L’ARTISTA DELLE LACERAZIONI
Laura Margherita
Volante conversa con l’artista Leonardo Nobili
Leonardo Nobili nel suo atelier |
Volante: Quando nasce questa tua passione per l'Arte
e la tua più alta espressività e quale significato assume nella tua esistenza
come persona e uomo dei nostri tempi?
Nobili: La
vocazione per l’arte nasce da una certa predisposizione che vive nella propria
interiorità, nel proprio D.N.A. Sin dai primi anni della giovinezza ho sentito
subito una necessità istintiva di comunicare. Le mie
tematiche approfondiscono contenuti esistenziali, segni di vita vissuta che
restano dentro di noi come ombre; Io cerco di esternare quelle problematiche,
quelle angosce della vita e di superarle attraverso uno spazio di luce, che
trovo soltanto nell’arte.
V: Talento passione
fede i cardini per realizzare il sé come artista. Cosa ne pensi?
N: Cosa ne penso? E’ una cosa
naturale il talento, la passione, la fede, rientra in un contesto di
trasformazione nel mio lavoro, sia nella pittura, sia nella scultura, ma anche
nei video e nelle performances. Inconsciamente ho sentito l’esigenza di
recuperare nelle mie opere le immagini che nel tempo hanno caratterizzato la
mia personalità artistica.
Sono
passato da una figurazione iperrealistica ad una astrazione della forma fino a
concettualizzare il mio linguaggio e renderlo più universale. Mi disse un
giorno Frances Whitney, nel suo atelier di New York, guardando il mio lavoro:
“Vedo che inserisci spesso vetri frantumati… Che cosa ti spinge ad usare
continuamente questo materiale?”
Gli dissi
semplicemente: “Non faccio altro che guardarmi attorno e catturare il riflesso
nello specchio della nostra vita quotidiana. E’ la stessa cosa come guardare un
paesaggio, con la sua forma, la sua luce, i suoi colori, è una sorpresa
continua: dipende sempre da quale angolazione lo guardi.
V: Perché uno Spazio
Nobili a Montelabbate di Pesaro? Quali finalità sono legate alla realizzazione
di tale Spazio per te che hai esposto in varie parti del modo come ad es, Germania,
Stati Uniti, ecc...?
N: Lo “Spazio Nobili”, nasce nel 2009 prende
il nome dallo storico Palazzo del Comune, restaurato e riportato
ai massimi splendori. Il sottoscritto ha donato al Comune di Montelabbate, una
parte della produzione artistica del periodo 1980 - 2009 e cosi l’amministrazione
Comunale mi ha dedicato questo spazio permanente dal nome “Spazio-Nobili”.
La
creazione di questo spazio museale polivalente sarà il punto di partenza per
altre iniziative culturali, come, mostre d’arte, (pittura, scultura, fotografia,
video proiezioni, workshops, readings di poesie, conferenze, incontri con le
scuole, ecc.
V: Di fronte a
scenari apocalittici di oggi quale il messaggio di un artista contemporaneo e
attraverso quale linguaggio espressivo può meglio raggiungere la sensibilità
umana in un'ottica universalista?
Dal video "Oltre la soglia" (2014) |
V: Quali materiali
usi per creare e rappresentare il linguaggio della tua anima e perché?
N: Lavoro con diversi materiali,
ferro, vetro, plastiche, terre ecc. Mi piace sperimentare, temi sempre nuovi,
sono sempre in movimento, in tensione continua. E questo mi dà energia e forza
per ritrovare un mio equilibrio… Mi ispiro sempre a delle situazioni che
coinvolgono la nostra vita quotidiana.
V: A quali maestri ti
sei ispirato spiegando il tuo punto di vista e le motivazioni?
Potrei
citare alcuni nomi o movimenti più vicini al mio lavoro; Gli espressionisti
astratti americani, e il nostro Burri per quanto riguarda la materia. Si tratta
di un progetto proiettato nel futuro e di farlo conoscere possibilmente a
livello nazionale ed internazionale. Poi, la mia attenzione si è spostata
maggiormente sul colore, specialmente quando tratto temi dello spazio, allora
potrei citare i blu di Yves Klein, ma tutte queste esperienze in trenta,
quarant’anni di lavora hanno caratterizzato la mia personalità artistica.
Infatti mi chiamano l’artista delle frantumazioni e delle lacerazioni.
Anche nei
lavori più recenti con le inserzioni della fotografia, il corpo umano diventa
oggetto, le grandi pennellate gestuali nere, nel corpo, diventano delle
motivazioni concettuali che rappresenta il nostro tempo e la nostra vita
quotidiana.
V: Spazio Nobili: quali prospettive?
N: Si tratta
di un progetto proiettato nel futuro e di farlo conoscere possibilmente a
livello nazionale ed internazionale.
Con le parole e con le immagini
Vigne dalle mille
diversità, luoghi del cuore e della mente, fantastica unicità. Strade che si
inerpicano tra cascine e grappoli d’uva. Langa che ha due facce meravigliose,
quella alta letteraria scaldata dal vento del mare e quella bassa dove le botti
si fanno uniche e speciali, dove oggi il mondo riconosce la sua bellezza e la
sua interezza, fata di profumi e di colori, dove il sole si fa più a picco che
in altri luoghi. Langa il canto antico di un gallo che sembra arrivare come un
presagio a ricordare la voce dei nostri padri, padroni di queste fatiche che
oggi ripagano i loro figli. Terra fatta di orti e di foglie; ad ogni collina
corrisponde un tempo e un modo, ad ogni uomo una forma. Langa dove il paesaggio non assomiglia poi
troppo alla sua gente, un po’ gentile e
un po’ sbruffona, infantile come una favola nel grande mare, dove navigano
vigne e vigne e vigne fino all’infinito.
Oggi questo riconoscimento dato al passaggio, dovrà far crescere quella
coscienza e quella cultura che gli uomini non hanno voluto ascoltare.
Racconto di Dago il Trifolao.
Cercatore di tartufi in terra di langa
Dago come tutte le sere si dirige verso il casolare dove
Tina e Brigitta lo attendono. Tina e Brigitta sono i due cani da tartufo
(Tabui) che Dago ha addestrato per la ricerca dei tuberi famosi come l’oro, ma
molto più profumati, grandi come
diamanti, ma molto più grezzi. Dago vive a Neviglie, in un cascinale
insieme a Teresa, la sua compagna della vita. Teresa in paese la chiamano la
“Monaca” per la pazienza che ha ad attendere Dago che ogni mattina rientra
stanco dal bosco e non sempre di buon umore; il bosco è generoso con lui ma sono
tante le notti che di profumo a casa ne
porta in quantità esigua, porta soltanto
la fatica e la fame dopo una notte a
scorrazzare su e giù per rive e guadi.
Non vivono soltanto di tartufi, hanno vigne di Barbera e un meraviglioso orto,
qualche animale, pecore, galline, un vitello da coscia e tanti cani addestrati
come militari dal fiuto fine.
Il bosco lo oltrepassa soltanto di notte per
il rito, la magia è fatta di silenzio rotto soltanto dal rumore della boscaglia
e dal linguaggio dei rami mossi dal vento, dai tanti animali notturni che
incrociano vagando tra le rocche e la selva. Quando c’è la luna piena a
illuminare i sentieri, tutto diventa più facile e meno tortuosa la strada da
seguire, fatta di dune e di stretti viottoli che salgono e scendono tra la
sterpaglia. La magia si compie quando il cane fiuta il tartufo ed ecco che il
viso del trifolao si illumina e la stanchezza svanisce; con la zappa e le mani
scava fino a quando il buon Dio non svela la dimensione del tubero e
regala la certezza di non aver passato una notte invano.
Dago non
deve dimenticare mai il premio ai suoi cani, il premio consiste
nella zolletta di zucchero che i cani si guadagnano a lavoro finito, guai se
non fosse così, addio ricerca e addio tartufi. Dago oltre ad essere un bravo trifolao
è anche un poeta, un amante del silenzio, un adulatore della natura, amico del
sole e della luna, un messaggero di valori affezionato degli animali e della serenità
fatta un po’ a modo suo. Se si vuole trovare un difetto, il trifolao ce l’ha,
ed è quello che hanno i cercatori d’oro di texana memoria, vendere al miglior
prezzo possibile il ricavato senza guardare in faccia nessuno.
Al mercato del
tartufo di ottobre, durante la grande Fiera, si ritrovano alla buon ora con i
loro fazzoletti gonfi di tartufi pronti a competere e mettere in mostra gli
esemplari migliori, dopo averli puliti e lisciati come fossero ballerine a un
concorso. È il momento della felicità e degli scherzi agli amici e perché no?
di cene e bevute che durano fino a tarda ora. Dago e Teresa ci sono sempre,
sono diventati famosi come due attori di Hollywood, conosciuti in America e
Germania. Adesso sono pronti per
competere con un enorme esemplare che non hanno ancora fatto vedere a nessuno,
lo sveleranno soltanto per l’Asta del tartufo di novembre e sarà una sorpresa
per tutti.
IL NUOVO LIBRO DI GILBERTO ISELLA
di Rosa Pierno
La copertina del libro |
Con Mobilune,
il poeta Gilberto Isella e l’artista Loredana Müller registrano le loro
osservazioni, tentando di definire una mobilissima e metamorfica luna. Il libro
realizzato a quattro mani equivale a un’intelaiatura di concetti e immagini,
formante una rete che è necessariamente istituita da percorrenze e scandita da
soste, ma si tenga presente che vi é un’indipendenza di tutte le possibili
definizioni e immagini. Tale studio si
risolve al fine con un rilancio, un approfondimento, un accostarsi, non volendo
mai risolvere in maniera definitiva la questione “rappresentazione”, sia
verbalmente sia graficamente. In conseguenza di questo approccio, il modo di
formalizzare un oggetto acquisisce un rilievo di esclusiva importanza ed è esso
che seguiremo per scoprire con quali strumenti e modalità Isella e Müller abbiano
attuato la macchina rappresentativa.
Per Isella, luna è chiave simbolica che
apre un mondo immaginifico, nient’affatto scientifico. Vi si affastellano sogni
e visioni, in cui persino il futuro delle favole è soggetto a chiromantica
visione. Per Isella non è la luna in quanto oggetto concreto ad avviare i
motori, ma l’osservazione delle litografie di Loredana Müller, la quale, a sua
volta, ha inteso rappresentare il satellite terrestre non nei suoi aspetti
volatili, distanti, refrattari all’indagine dell’occhio, abbacinati dallo
splendore, ma da materie presso di sé: la seta cangiante, la porosità o
scabrosità delle superfici, le pagine scritte. In questa prossimità tutta
giocata su un piano a cui è legato il proprio corpo, la luna s’individua solo
per proiezione, tramite un escamotage,
una trappola.
Loredana Müller riconfigura l’oggetto
luna secondo piani proiettivi in cui si gioca esclusivamente la partita della
rappresentazione più che dell’oggetto rappresentato. Non sarà allora la luna a
essere visibile solo parzialmente poiché sorpresa durante le sue fasi: sarà la
limitatezza del foglio a determinare la presenza di sue porzioni e spesso in
contraddizione con la forma a falce: il foglio, infatti, segherà porzioni della
calotta in maniera da risicarne la visibilità. La luna non entra nel foglio e
solo per questo motivo non sarà pienamente visibile. Echi, prodotti graduando il
colore, poi, toglieranno precisione all’immagine, per cui la falce sarà solo un
gradiente di luminosità. Gli attributi della luna acquisiscono concretezza
rispetto all’essenza: essa resta indefinita, ma non le sue caratteristiche. In
questo senso si potrebbe azzardare che l’ipotesi della Müller sia più vicina a
quella cartesiana e galileiana: cioè a un costeggiare la scienza nei suoi
tentativi di esplorare la possibilità di definire l’oggetto in esame. Si
ricorda, qui, per inciso, che Galilei è stato colui che ha inteso per primo
definire il satellite legato all’orbita terrestre circoscrivendone le sole
caratteristiche osservabili, non pretendendo di restituirne l’essenza.
I segni della matita sembrano
ripristinare l’ombra proiettata dai rilievi lunari, ma l’artista ricorre anche all’introduzione
della carta da musica, per un omaggio agli
elementi che hanno fatto della luna un oggetto privilegiato di espressione non
solo romantica. La Müller utilizza “una o più lastre di zinco, incise a
puntasecca o ad acquaforte, unendole poi durante la fase di stampa, a testi
incisi in linoleografia”. Note musicali e lettere dell’alfabeto istoriano i
disegni creando il sostrato tutto concreto e materiale della luna fra noi.
La superficie lunare è resa con un
lavorio delicatissimo, vero e proprio filo scritturale, formante un traforo, un merletto, per ribadire,
a un diverso livello, che la luna non è un corpo, non ha materia. La sfera
satellitare non si distingue per trattamento dal cielo che la contiene. Il
contenuto dell’insieme non si distingue dal campo che contiene l’elemento. Qui,
paradosso e complessità allignano. Quest’ultima è resa in maniera astratta per
mezzo di un cielo porzionato dal colore (e ci vengono in mente le tavole
quattrocentesche con la rappresentazione delle diverse sfoglie del cielo:
quella sublunare o quella in cui risiedono i santi e gli angeli). Non peritando
di legare referenzialità al colore: i verdi pastello, gli ocra spolverati di
proteine seriche, gli ori stemperati e i viola profumati: è tutta una sinfonia
coloristica che trancia la luna così come presente nell’immaginario collettivo,
per riconsegnarci un satellite sconosciuto.
Luna è ottenuta persino con asole di
vuoto: ha forma d’occhio. In qualche modo la metafora per eccellenza, definita
da Müller e riflessa da Isella. Il poeta preleva da un contenitore in cui
l’elaborazione scientifica non è separata dall’alchimia né dagli errori. Ivi,
egli pesca lemmi e porzioni di racconto, spesso abortiti, schegge che, eppure,
si sono conficcate nel nostro linguaggio quotidiano (ancora una volta, quindi
prossimità del piano linguistico alla quotidianità esistenziale). Ma Isella
gioca anche sui vocaboli, spostando, ad esempio, la posizione del termine
all’interno del contesto. Se il significato cambia, ciò avviene sempre per
rinforzare la cifra del libro: la mutevolezza della luna ne è, di fatto, l’aspetto
sostanziale:
tarme
a spirale invadono rughe
dietro
cui la falce del silenzio
tortura
una faccia invisibile
Gilberto Isella, totalmente concentrato
sulla superficie stampata, cerca in questa ogni ragguaglio, asperità, aggancio
per costruire la sua pagina, tanto limata quanto lucidata, perfetta nel suo
reclamare i punti della rete pressoché infinita delle sollecitazioni poetiche.
Sollecitazioni che luna dovrebbe procurare, mentre è arte che s’incarica di
veicolare e creare.
Nessun freno, paletto, confine nelle
aree semantiche e culturali è presente:
e
quieta discenda nella marea
che
avanza e si ritrae
dentro
un acquario di gingilli
accerchiato
da grondaie
A pescare nella rete simbolica,
analogie tramano, alfine, un tessuto che stringe insieme immagini e testo
poetico, storia e scienza, senza soluzione di continuità, ma solo per stenderli
insieme sul piano bidimensionale della cultura, non certo perché ci sia
assimilazione delle forme artistiche specifiche. La straordinaria simbiosi
raggiunta dalla coppia Isella-Müller vede un epilogo folgorante con una
litografia rugginosa e pulverulenta e il
seguente trittico di splendidi versi:
talvolta
la posiamo sull’altare
e
lei diventa l’ostia
da
cui sanguina il nostro pulsare
in un rilancio siderale operato dal
poeta, ove, questa volta, è l’immagine a rincorrere la parola.
Gilberto
Isella “Mobilune” incisioni di Loredana Müller,
SalvioniEdizioni, Bellinzona, 2015FRANCESCO PISCITELLO
Penelope |
PENELOPE
Penelope si chiama
ma per gli amici
è solamente Penny.
Non appena mi vede da lontano
uggiola, non abbaia
e quando me ne vado
non abbaia, guaisce.
La lingua non le serve per parlare
(ed per questo che non può mentire)
ma solo per rispondermi
con i suoi voluttuosi, umidi baci,
alle carezze che chiede avidamente.
Penny
non ringhia mai,
perché non è capace
di far qualunque cosa
che non sia amare.
IL PICCOLO VILLAGGIO ALPINO
Cercando
nella memoria vi trovo un paesino, cui ho lasciato il cuore, di trecento anime
sulle montagne del trentino. Quivi vi era un negozio di alimentari ed un
piccolo supermercato che si facevano concorrenza, un tabaccaio che vendeva
anche i giornali quando arrivavano e all'ingresso del paese il ‘Bar Scoiattolo’
il cui oste piccolo e dai modi ambigui era provvisto di entrambi i sessi (gli
antichi romani ritenevano doni divini gli ermafroditi). In una frazione
arroccata sul pendio del monte distante due chilometri dal villaggio ci si poteva ristorare altresì, in una locanda
di nome Cima Verde di proprietà di un anziano signore dai folti baffi
austro-ungarici. Il luogo di vocazione turistica per l'aria particolarmente
salubre vantava due modesti alberghi. La proprietaria di uno dei due, donna
ancora piacente, offriva la propria ospitalità aggiungendo prestazioni
personali osè.
Si poteva trovare in quel
posto chi per motivi professionali aveva contratto malattie polmonari ed era lì
con il sussidio della mutua inviato in sito climatico salubre. Tre cime
sovrastavano la località: il Cornetto, Cima Verde e il Dos d'Abramo nome di
sapore biblico.
La pieve tranquilla e
timorata di dio vedeva gli uomini il sabato sera prendersi la bala (la
sbronza).
Uno degli ospiti vacanzieri
alloggiati in una casa privata sosteneva di aver conosciuto il piccolo borgo
per essere stato ivi paracadutato durante la guerra in una missione (ciò non è
mai stato approfondito sufficientemente).
Arrivò un giorno da quelle
parti tale Antonio Quattro, napoletano che per le sue previsioni sul futuro
della gente gli fu messa a disposizione la piccola scuola del paese, chiusa nel
periodo estivo, per tenervi conferenze di arte occulta.
In realtà si scoprì che era
un imbroglione. Anche questo paese è tutta un'illusione; un'illusione d'estate.
Tiziano Rovelli
***
***
IL CUORE NON DIMENTICA
LETTERA A MIA MAMMA
di Tiziano Rovelli
Scultura di Adolfo Wildt |
Ciao
mio dolce amore. Il tuo trapasso è stato doloroso. Tu sai che sei stata il mio
più grande amore. Voglio dirti grazie per avermi messo al mondo, ma non avrei
mai voluto che tu pagassi un prezzo cosi alto; era molto meglio che tu
continuassi a vivere ed ero io a sacrificarmi se proprio questo era il volere
di Dio. Voglio parlarti tanto tanto ed il mio più grande dispiacere è di non
poterti abbracciare come vorrei, come la mia anima anela e si strugge.
Io non mi allontano da te,
mai!
Ti abbraccio
Tuo Tiziano
***
Ho sentito in lontananza come
un soffio di vento, una brezza marina che infrange le onde spumeggianti contro
gli scogli e una voce pareva sussurrare:
io sono fiera di te e ti
sono sempre stata vicino.***
IL CUORE NON DIMENTICA
Sensazione di primavera, gli uccellini cinguettano, le foglie
sbocciano color smeraldo.
Io con te sto bene, ti amo da
morire. L'amore ha raggiunto il suo culmine, si stempera in mille giorni tutti
uguali. Devo andare. Per la mia strada la pioggia lieve mi bagna come un pianto
con infinito struggente rimpianto. Non rivide più quella ragazza. Passarono
quarant'anni. Giuseppe era in coda all'accettazione dell'ospedale di Niguarda
per prenotare una visita, quando la vide.
“Io ti conosco”.
“Infatti ci conosciamo ma è
passato tanto tempo”.
“Sei cambiata ma non al punto
da non riconoscerti”.
“Anche tu”.
“Non ricordo il tuo nome”.
“Giovanna”.
“Qui c'è molto da aspettare,
ti potrei invitare a prendere un caffè, così parliamo del passato”.
“Volentieri”.
Si avviarono fuori dall'ospedale
alla ricerca di un bar tranquillo e di un posto appartato dove poter parlare.
Seduti in un tavolino in fondo ordinarono, dato che si avvicinava mezzogiorno,
due aperitivi.
“Ti trovo bene – disse
Giuseppe – sembra che il tempo non sia trascorso per te”.
Giovanna: “Al contrario qualche segno lo
vedo sulla tua persona”.
“Pazienza ce ne faremo una
ragione.
“Sono stato felice; se fossi
stato un uomo... Acqua passata”.
“Stavo bene, avrei dovuto
stare per sempre con te”.
“Ho sofferto molto quando te
ne sei andato e per un certo periodo mi sono buttata via”.
“Facciamo finta che non sia
passato il tempo, ora siamo qui noi due, cancelliamo tutto e riprendiamoci la
nostra giovinezza”.
Si era avvicinato a lei e le
stringeva la mano. Sentiva il suo calore passare dalla mano nel corpo e
nell'animo. Anche lei si era avvicinata a lui e nel trasporto del momento si
accostarono i volti e le labbra. Lui fece per baciarla ma lei non volle.
“Non si possono cancellare
questi anni. Tu mi hai tradita per il tuo animo vagabondo e irrequieto. Mi hai
fatto soffrire, la mia vita da allora ha preso una svolta diversa e decisiva.
Ora l'amore con te non più.”
“Perché Giovanna non possiamo
ritrovare l'amore dei vent'anni, in fondo potrebbe appartenerci.”
“L'amore è un piccolo gracile
fiore che ha bisogno di assidua e regolare cura. I troppi anni trascorsi ci
hanno definitivamente separati, hanno diversificato le nostre strade. Cancellare
molti anni della nostra vita sarebbe come concederci un oblio che non c'è
dovuto.”
Si alzò, lo salutò e uscì dal
bar.
Tiziano Rovelli
***
Il sole d'autunno
Sono in un piccolo parco vicino a casa mia.
Ricordo quando ci portavo il mio cane. Ora lui non c’è più. Io mi sdoppio, sono
qua ora ed altrettanto vero attuale e presente sono qui con il mio cane. I
ricordi ti trasportano immediatamente nel punto del tempo da dove provengono e
li vivi come realtà attuale. Ma lui ora non c’è più. Questo ti trasmette un
senso del trascorrere del tempo che pur non esiste nell'alternarsi della notte
e del di’ e avverti un vuoto. Nella mia vita ho dato le cose che dovevo dare
alla società e alla famiglia. Non mi resta che perdermi nel nulla di un giorno
assolato d'autunno nel piccolo parco odoroso, ora come allora, di terra umida
di rugiada.
Tiziano Rovelli
INCOMUNICABILITÀ E VIOLENZA
Non capisco. Non capisco e basta. Le mie parole rimbalzano inutili
come in una immensa eco. Nulla. Il mio dire è nulla. Niente viene recepito. Il
contenuto intellettivo del mio cranio. La testa come una palla rimbalza contro
un muro di gomma. Anche la volontà? La volontà di farsi capire.
E' curioso come due persone si
parlino ribadendo costantemente il proprio punto di vista. Non c’è possibilità
di dialogo. L'una accusa l'altra. L'altra o tace o accusa a sua volta. Siamo di
fronte a esseri diversi per natura. L'uno mite, l'altro arrogante. Credo di
essere stato sempre mite e sottoposto alla verbale violenza altrui. Magari
anch'io devo annettermi la mia parte di arroganza, se non nelle parole almeno
nei fatti, nel comportamento; chi lo sa, non mi è chiaro abbastanza.
Le accuse degenerano in tono di
voce alterata che potrebbe sfociare in botte. Ti voglio punire, ti punisco, ti
ho punito. Sono confuso, in me sentimenti di paura, di rabbia, di ira si
miscelano. Dall'impotenza comunicativa scaturisce la prepotenza. Poi tutto
comunque fila liscio in un comportamento civile che nasconde odio per gli altri
e la pietà riservata a se stesso.
Non ci si deve meravigliare che
in questo mondo vi siano massacri e guerre.
La pace non esiste neanche in una
stretta di mano quando le persone non sanno dialogare serenamente mettendo al
di sopra non le verità personali ma un qualche tipo di verità oggettiva. In
questo caso occorre la comprensione reciproca ed un punto di vista super
partes.
Tipico è il caso dei divorziandi
quando si pensi che fra loro vi era un sentimento più elevato. Gli amanti si
innalzano al di sopra del fango ma finiscono a volte per ritornarvici in
strepitose cadute. Non solo caduta di tono.
Ciò che rimane è l'immane
specchio, riflesso dei tuoi tic nervosi.
Si trasformano su grande scala
nel crepitio dei fucili automatici.
Tiziano Rovelli
IN MEMORIA DI GRAZIA LIVI
di Angelo Gaccione
Nella foto Gilberto Finzi e Grazia Livi -Milano -6 giugno 2011 in occasione del compleanno del poeta. (Un grazie a Loredana Cilione, compagna di Gilberto per questo regalo) |
Può capitare, in una città
indaffarata, affannata, nevrotica e alquanto distratta come Milano, di venire a
sapere della morte di una cara amica e di una scrittrice di valore, a distanza
di mesi. Se capita durante la desolazione estiva, o durante le feste natalizie,
potete starne certi: nessuna morte farà rumore. Neppure un’eco. E se qualcuno
lo viene a sapere, si guarderà bene di farvene partecipi.
Così sono concepite le relazioni in questa città, nel
mondo delle lettere.
Da un certo punto di vista, può essere anche vantaggioso
andarsene nel più assoluto anonimato. I funerali odierni, soprattutto quelli
che riguardano persone in vista o che hanno avuto una qualche presenza nello
spazio pubblico, si sono trasformati in un vero e proprio spettacolo da cui la
morte, e i suoi significati, sono scomparsi. Spesso uno spettacolo indecoroso
fatto di applausi, dichiarazioni fuori luogo e retoriche, letture, come se si
fosse a una festa e non ad una cerimonia di lutto. È un fastidio che tutte le
volte mi prende e che non riesco a rimuovere.
Forse è stato per sfuggire a questa pessima pratica che
un drammaturgo come Samuel Beckett, ha voluto che la notizia della sua morte fosse
data alcuni giorni dopo gli avvenuti funerali; e altrettanto ha fatto l’amico e
poeta bolognese Roberto Roversi.
La scrittrice
fiorentina Grazia Livi è morta a Milano il 18 gennaio di quest’anno. Meno di un
mese prima, e precisamente il giorno di Natale, era morto, anche lui a Milano,
il poeta mantovano Gilberto Finzi. Entrambi erano amici: avevano collaborato ad
un libro a quattro mani (“Mi hanno detto
no”) uscito per la Leonardo nel 1992, in cui davano conto di una serie di clamorosi
rifiuti editoriali di importanti autori; Finzi le aveva anche pubblicato nel 2010,
nella Collana che allora dirigeva per Lampi di Stampa “L’approdo invisibile”, firmando anche l’introduzione al volume.
Di entrambi sono stato amico anch’io: nel 1995 Finzi
scrisse l’introduzione al mio libro di racconti “La striscia di cuoio” e collaborò a “Odissea”; Grazia Livi mi
voleva bene: fu la persona che mi telefonò di più durante la lunga
convalescenza seguita al brutto intervento chirurgico che avevo subìto nel
2012. Apprezzava “Odissea” a cui era abbonata, e di cui parlava entusiasta ai suoi
tanti amici. Era stata lei a favorire
il contatto con l’urbanista Jacopo Gardella e a chiedermi di invitarlo a
scrivere sul giornale. Quando poteva, non mancava agli incontri da me
organizzati allo “Spazio Lattuada” e negli altri luoghi della città. Si era
commossa alla lettura del mio libretto “Lettere
ad Azzurra” e mi lasciò un messaggio bellissimo sulla segreteria
telefonica. Diceva che era “magico”
con la g pronunciata con il suono
dolce della sua lingua toscana.
Foto: In terza
fila Grazia Livi con i suoi bei capelli bianchi
alla sala del Grechetto della Biblioteca Sormani di
Milano
il 27 Settembre 2013 per il decennale di “Odissea”.
In prima fila i filosofi F. Papi e R. De Monticelli.
Nando Dalla Chiesa sfoglia “Odissea”.
Prima dello scorso Natale le avevo lasciato in portineria
il librino di poesia di Piscitello di cui apprezzava gli scritti su “Odissea”.
Non mi aveva chiamato come faceva di solito; pensai fosse andata a Roma dalla
sorella per le feste. Invece la salute l’aveva tradita e da lì a poco è morta.
In quel periodo anch’io ero ammalato e mi dibattevo in varie angustie. Non ho
fatto in tempo a rivederla e ho saputo della sua morte a distanza di tempo.
Dalla signora che l’ha accudita fino alla morte, ho saputo che la salma è stata
portata a Fubine, in provincia di Alessandria, dove da anni passava le estati e
dove aveva avuto una casa. A Fubine è sepolto l’uomo che aveva sposato,
l’omeopata Mario Garlasco. Grazia era nata a Firenze nel 1930, ma viveva a
Milano, in via Galeazzo Alessi, fra Porta Ticinese e Porta Genova: a due passi
dalle Colonne di San Lorenzo. Quella via e quella zona gliela avevo fatta
raccontare per il ponderoso volume da me curato e pubblicato dalla Viennepierre
(“La città narrata”), di cui facemmo
ben 3 edizioni. Per il libro di racconti dedicati agli oggetti e pubblicato nel
2008 dalle Edizioni Nuove Scritture, mi diede invece un delicato raccontino dal
titolo “Il salvadanaio”.
Era mite e dolce e ammirava la devozione con cui Mirella
mi curava, soprattutto dopo la mia malattia. La lettura del racconto “Sonata in
due movimenti” che le avevo mandato in anteprima subito dopo averlo scritto e
in cui raccontavo l’allucinante esperienza ospedaliera che mi era capitata, la
turbò molto e le sue telefonate mi erano di conforto.
È stata una magnifica scrittrice, Grazia Livi, e una
donna rigorosa. Lontana dal vaniloquio e dalle mode: le volevo bene anche per
questo.
"Odissea"
ha chiesto ad alcuni amici della scrittrice di scriverne un ricordo per
ricordarla nel modo più degno e come meritava. Questi di Giulia Contri e di
Roberto Caracci sono i primi, altri seguiranno.
NON DONNA DI DOVERI MA DI “POTERE”
di Giulia Contri
Anche l’uomo nasce
oppresso
da poteri e doveri
il più delle volte
fare il padrone
gli costa la fatica
di Sisifo
Edith Bruck¹
Parlavo spesso
con Grazia Livi, mia amica da anni, del problema che le donne hanno di “potere”
(verbo) soddisfare la propria autonomia di pensiero senza dipendenze e
sottomissioni a chiunque (agli uomini? ai modelli familiari, sociali,
culturali?) ritenuto (obtorto collo?)
onnipotente a fronte della propria insignificanza e inconsistenza.
Avevo compreso che di tale questione, consapevolmente
elaborata da lei, e scandagliata con singolare acume nei testi delle poetesse e
delle narratrici cui aveva dedicato la propria instancabile opera, ella
desiderava parlare con una persona reale, hic
et nunc. Con me, psicoanalista, nel caso, che faceva di tale problema di
“potere” un nodo da sciogliere non solo dalle donne ma anche dagli uomini, in
stretta relazione sì con la differenza sessuale, ma anche a con tutte le altre
differenze.
In secondo piano, negli ultimi anni, era passata per lei
la conclusione, tratta ai tempi della propria analisi, di non aver superato lo
scoglio della presupposta impossibilità che “uomini e donne lavorino insieme
alla medesima causa”, “due soggetti uno accanto all’altro in un equilibrio
difficile e in una complementarità ardua, tutta da reinventare”(2).
L’aver ella scelto come analista un uomo, inevitabilmente legato, a suo dire,
ad una “concezione del mondo androcentrica”(3), non le avrebbe facilitato quel
superamento.
Suo desiderio era, nell’attuale, di frequentare persone
in carne ed ossa -per quanto mi riguarda, ovviamente, la sottoscritta- con cui
confrontarsi sul punto dei rapporti, che le faceva problema. “Volevo amare di
più…volevo essere capita meglio”(4):
dare spunto, dunque, lei a possibili interlocutori a colloquiare con lei;
trovare lei materia negli altri per conversazioni soddisfacenti, al fine di
“recidere il filo di dipendenza e di possesso che lega agli altri”(5).
Era chiaro che il nodo dell’“obbedienza” all’ipse dixit ella si proponeva di
scioglierlo come donna, storicamente pensata nella cultura, e pensantesi poi
ella stessa individualmente, pur senza adattarvisi, “smarrita nella propria
nullità”, per usare le parole della poetessa Neera, per la quale l’uomo è “la
sovranità incarnata”(6); o ancora presa, come Emily Dikinson, da
“timore spaurito e adorante” nei confronti dell’uomo in quanto, come donna,
ella è “colei che sta al margine e da quel margine tenue, dubitoso, incerto,
leva lo sguardo per incontrare la vetta”(7); o teorizzante “l’insignificanza della
donna…e la sua assenza dalla storia” come la Virginia Woolf de Le tre ghinee (8); o “anelante a perdersi nell’onniscienza
dell’altro, nei suoi imprevisti domini, ad arrendervisi” in una dedizione
sacrificale, come la sposa di Tolstoj de Lo
sposo impaziente (9).
Nodo irrisolto, seppur contraddittoriamente vissuto,
restava per Grazia Livi quello di una certa concezione deterministica delle
donne, vittime, designate storicamente, dell’idea della loro inferiorità a
fronte del posto di protagonista attribuito all’uomo.
Era proprio questa contraddizione che lasciava aperto per
Grazia, nelle conversazioni con me, lo spazio per ripensare l’inferiorità come
concepibile e assumibile allo stesso modo da soggetti di ambedue i sessi:
quando parlammo, infatti, della protagonista di un suo racconto, La finestra illuminata (10),
che fantastica dell’uomo come possibile partner senza riuscire a pensarlo tale,
ella mostrò di aver desiderio di mettere in causa con me quel ‘duello’ o
‘colluttazione’ -in cui diceva ne Lo
sposo impaziente consistere i rapporti ‘matrimoniali’- come per correità
dei due partners, laddove presupposto ne potrebbe essere la disponibilità
reciproca a farsi apportatori di conciliazione e di intesa.
Ricordo che al proposito le avevo ricordato che anche
Sonia e Lev de Lo sposo impaziente
duellavano, alternando continuamente affetto e guerra, incapaci l’uno di uscire
da una posizione di comando, l’altra da quella di soggezione. Questa equa
attribuzione di ruoli a uomo e donna nel far fallire la pace nei rapporti la
interessava incuriosendola intellettualmente.
Quando poi rammentai, sempre in quella conversazione, a
Grazia che ella stessa in Narrare è un
destino diceva: “Ci deve essere
qualche collaborazione nella mente tra la donna e l’uomo…ci deve essere un
matrimonio dei contrari” (11),
annuiva al mio dire che, se tale collaborazione, tale matrimonio -o incontro-
tra dissimmetrie non si dà, è perché ambedue i partners affondano a pari merito
il ‘coniugio’ non fondandolo sullo scambio proficuo che sulla dissimmetria si
può basare.
Accettava dunque di buon grado da me, facendone motivo di
riflessione e di rappacificazione del proprio pensiero, che dominio e
sottomissione, timore e sopraffazione, dedizione e imposizione non possono che
esser posti da donna e uomo insieme come ostacoli complementari al buon
funzionamento tra sessi: così come essi ostacoli vanno ad impedire la
soddisfazione in genere nel rapporto tra diversi se la diversità si fa motivo
di scontro e inimicizia piuttosto che occasione di profitto e di beneficio.
Sottolineo, a conclusione di questo mio ricordo, che con
me -e penso anche con altri interlocutori- nei suoi colloqui degli ultimi tempi
della sua vita Grazia Livi non sentiva neppur più la necessità di far
riferimento ai temi della sua produzione letteraria, che dava per scontati: le
stavano a cuore i buoni rapporti che riusciva a stabilire con chi invogliava a
corrisponderle e con chi le esprimeva piacere ad incontrarla, al di là che
fosse uomo o donna, scrittore o psicoanalista, filosofo o giurista.
Note
1.Narrare è un destino, La Tartaruga Edizioni, Milano 2002, p. 157.
2.Ivi, p. 155.
3.Ivi, p. 162.
4.Ivi, p. 19.
5.Ivi, p. 166.
6.Ivi, p. 160.
7.Ivi, p. 149.
8.Da una stanza all’altra, La tartaruga Edizioni, Milano, 2012, p.
41.
9.Lo sposo impaziente, Garzanti, Milano, 2006, p. 55.
10.La finestra illuminata, La Tartaruga Edizioni, Milano, 2000.
11.Narrare è un destino, cit., p. 79.
VIAGGIO IN CARROZZA VERSO IL DESTINO
di Roberto Caracci
Il migliore
modo di cui dispongo per ricordare quella grande narratrice, saggista e
soprattutto ‘donna’ che è stata Grazia Livi, è riportare qui quanto ebbi modo
di scrivere sul suo ultimo romanzo, imperniato sull’amato Toltsoj e la sua
consorte, e mirabilmente condotto e documentato, in occasione della
presentazione della Livi al ‘Salotto Caracci’ di Milano, di cui era affezionata
amica. Essendo ancora frastornato da questa scomparsa, non posso che farle
giungere -se da qualche parte ancora si trova- questo piccolo omaggio, già da
lei letto in vita, con l’augurio che il suo ‘vaggio in carrozza verso il
destino’ sia stato e magari continui ad essere meno triste di quella di Sofia
Tolstaja, la sua ultima eroina.
Appunti su Lo sposo impaziente
UNO SPECIALE
VIAGGIO DI NOZZE IN CARROZZA
Tutto in un viaggio in carrozza. Tutto il destino futuro
di una coppia celebre come il 34 enne Tolstoj e la 18 enne Sofia concentrato
nel viaggio di nozze e di trasbordo da una casa all’altra: dalla casa di lei
ancora quasi fanciulla e ignara della vita, alla casa di campagna del conte
Tolstoj, dove rimarranno l’intera esistenza e metteranno al mondo tredici
figli. Un racconto con un retroterra storico, densamente documentato,
raffinato, leggero, di sottilissima perizia psicologica, che ricostruisce con
maestria di stampo quasi ottocentesco l’incontro-scontro fra due grandi
personalità, l’una nascente e ancora nel guscio (quella di lei), l’altra ormai
forte e consolidata.
Il TEMPO INTERIORE
DEL DOPPIO DIALOGO E DEL DOPPIO MONOLOGO
Il tempo narrativo -il tempo di questo trasbordo in
carrozza tra pozzanghere e scossoni- è un tempo quasi reale, lento e fluido, in
presa diretta. Ma non è tanto il tempo delle azioni, dei gesti, dei due
personaggi (poco accade durante il percorso di una scomoda carrozza a due
cavalli su un sentiero accidentato delle campagne russe) a scorrere, ma quello
interiore delle emozioni, degli stati d’animo e dei pensieri. Vi è un doppio
tipo di dialogo e un doppio tipo di monologo: da un parte, il dialogo ad alta
voce fra Lev e Sofia, fatto di frasi brevi, di schermaglie a volte dolci a
volte taglienti, e poi il dialogo muto fra di loro, con pensieri e riflessioni
pronunciate solo nella mente e non detti. Dall’altra, un continuo monologo che
divide abissalmente i due universi interiori e li fa scorrere su binari
divergenti o per lo meno su rette parallele destinate in fondo a non
incontrarsi all’infinito; ma ad un secondo livello, anche qui il mon