Venerdì 16 novembre 2018 presso
la Biblioteca Vigentina di Milano nell’ambito di Bookcity, ha avuto luogo
l’incontro dal titolo:
“Intimo di libro: anno
I” ideato
da Cesare Vergati.
Racconti
brevi inediti: che hanno come oggetto (soggetto) il libro.
I
racconti sono qui presentati insieme ai disegni dell’artista Chiara Moretto che
ha voluto rappresentare iconograficamente ogni racconto secondo il suo
suggestivo stile personale.
UN CENTENARIO
di
Cesare Vergati
Opera di Chiara Moretto |
Sicuramente viveva a giorno d’oggi sebbene molto stanco in
salute tra mobili pochi l’antica nobiltà così - a mistero d’indole - ancora a
tempo attuale andava già tarda ora certo serotina muro a muro chissà
primordiale timore sempre più ed incertezza nel mondo a suo intendimento
tuttora più ampiamente sconosciuto per
cui a vista donne e uomini a casa lo sapevano eccentrico il bimbo a gridare
persino appena appresa parola: stravagante - l’ambizioso a darsi quanta
importanza - e nondimeno il tanto anziano signore - il pensiero orgoglio e
benessere membri la famiglia i famigli tutti - in sorriso aperto su labbra
oramai grandemente a più screpoli lui s’affermava la qualità quercia (a ricordo
arborea famiglia fagacee a memoria ancora il rio quando rimembranza monello a
stare la testa in giù indubbiamente mani in terra le gambe indubbiamente
all’aria per poi i compagni di gioco l’assedio lucertole e formiche gli
infiniti complimenti chi ben fa la quercia e naturalmente l’eccitazione la
mostra lo scudo l’emblema in araldica le nozze durante) la materia legnosa e
robusta puranche l’olivo (la famiglia oleacee, a natura mediterranea, a pelle (la
sola meraviglia a sguardo d’umano già l’aurora) giallastra le scure venature,
soldato duro e compatto la roccia a credere, allora il centenario a dimora la
grande casa pregiati mobili il legno d’olivo giusti mobili il legno la quercia
del cerro i molti da vino recipienti guardava al momento fisso ed immobile -
colui che impressionato rimane della stanza a parete cocciutaggine del chiodo
inamovibile - propriamente e libro - la cosa lignea a diventare arte -
d’altronde e massimo piacere pensava l’antico intimo la corteccia di pianta
quella favolosa lamina e disseccata a materia già lo scrivere, così lui a vivere
tra libri (la breve libreria i soli a fiducia pochi ad essenza) improvvisamente
si rendeva conto un libro in ceramico suolo
(opulenza colori e forme) caduto probabilmente la
governante inavvertita se ovviamente malaccorta, a portare assieme cibarie e
libri chissà quale originale ordine le cose domestiche, ed allora come l’ansia
comunque le nottate prima quando il grande vecchiardo sospetta forse la morte
questo centenario adesso bene intendeva il prezioso oggetto su variegato
pavimento - perché la rovina a terra quindi stranamente aperto presumibilmente
ultima interna pagina nuda a luce quanto fioca la sera presente se - sebbene la
fatica alta un uomo da tanti tempi e lunghi vissuti - quel centenario usava (la
volontà il rocciatore indefesso a massima meta) quasi cupido - il desiderio a
smuovere l’ostilità se ottusa talvolta ottusa materia - a presente a piegamento
certamente lento ginocchia e malandato corpo inagile poiché l’età - una volta
svelto invece facile il ragazzo a movimenti liberi tra rami i diversi alberi -
andava la tesa mano le più macchie il libro verso. In questo tempo il vecchio -
all’incredulo ebbene vista senso il rapace - vedeva attentamente l’opera
distesa - l’attesa il saluto l’amante all’amante - se ancora poggiava
l’orecchio su piccolo volume rilegato a piacere d’occhi ed emozione d’animo a
manifesto intento ascoltare fantasticamente lette parole questo magnifico
scritto a lui noto quanto remoto tempo ed ora come a rapimento l’incantato
poeta il vasto inconcepibile mare incompreso immaginava musica e suoni profondi
rari frammenti quel bene d’essere quando l’inchiostro scorrevole e fluido nel
dire, così al momento accostava quanto timido tuttavia - la parte più intima
gli odori cose ed umani - il volto a sapere il profumo - già fanciullo passava
minuti infiniti il naso su libri - il sensuale annusamento le materie tutte a
fare il libro così infatti voleva audacemente indulgere alla passione suprema
come a restare il tempo nei tempi eppure non dimentico altro bisogno la mani
due tremule incontestabilmente - d’altronde tutta fiamma termina a necessità -
quindi a tutto contento non osava carezze strofinamenti melliflui - il sensale
a guadagnare il pane le smancerie tramite - capiva anzi il semplice coprire le
mani entrambe la cara cosa preziosa - il gesto quasi a custodire ineffabile la
suggestione invero un bene indispensabile - così al contempo portava tutto il
fisico avanti l’idea per sé conservare l’opera evidente quando non dimentico in
estremo ardimento - accade all’artista che degusta e bevanda e cortissimo pasto
il coraggio incorrere in errore ovvero in estasi - una sola volta a ruvida
violacea molle lingua passava l’angoscia crescente su aperto libro propriamente
la bianca ultima pagina sua pagina non scritta il fine assaporare finalmente l’indole
questa venerata materia - se antichi e moderni a dispetto i secoli correr via
adorano la luce a giorno a notte le tenebre - così pago il tutto pazientemente
il libro prendeva in abbraccio quindi sedeva pazientemente su variopinto
ceramico suolo la stanza sua per cui rileggeva l’opera a trascorrere e tempi e
tempi fin dentro alba quando a confine la pagina ultima compreso infine (di)
ineluttabile stupore quella a vedere capiva - la forza d’intuizione, l’attimo
sublime - a ricordo capiva a memoria capiva capiva il sicuro rammento il sovvenimento
certo la bianca pagina - la narrazione dopo lo stile dopo dopo le parole quel
breve intenso scritto allora mancava d’epilogo l’ignorare invero il termine il
succedere questo racconto canto volutamente orfano a compimento quella
inconsueta vicenda - laddove l’ispirato viandante pone punti a sospensione -
nel mentre che il centenario quanto esausto le forze per infimo talento sfinito
la incredibile impresa abbandonava il corpo tutto se aperto libro nuovamente la
bianca pagina ultima l’opera a poche pagine disteso a fare la coperta - altrimenti
il freddo glaciale a dare febbre - in pensiero naturale voglia: l’addormentamento
ad effimero riposo se caduco vecchiardo le flosce membra consapevole sua vita
d’epilogo priva in epilogo sua morte.
***
***
DA UN ANTICO LIBRO DI CACCIA
di Gabriella Galzio
Opera di Chiara Moretto |
Rapido,
silenzioso, perfettamente marino, il kajak a pelo d’acqua sfila non visto,
avvicinandosi alla preda. Sosta immobile. Fine ed elegante. Imbarcazione, le
cui origini dimorano da sempre sconosciute, da oltre quattromila anni, giunta a
noi inalterata, archetipo vivente. Concependola per il mare e la caccia in
mare, chi l’ha inventata, ha dovuto costantemente battersi per sopravvivere,
nelle condizioni le più inospitali: un lungo inverno in una notte pressoché
totale…
«Per
cacciare la balena», è scritto in un antico libro di caccia, «gli eschimesi
utilizzavano delle imbarcazioni a fondo piatto, non a punta, di dieci metri
circa di lunghezza e due metri di larghezza, propulse da donne, da cui il loro
nome di “Oumiak” o “battello di donna”.
La
caccia alla renna del Canada o caribou consisteva nell’ incalzare i branchi,
nel corso della loro migrazione, forzandoli ad attraversare i fiumi in certi
luoghi di passaggio ben determinati. Stava alle donne far loro perdere il
controllo, inseguendoli».
Certamente quel libro austero riposava ora tra la polvere
del suo scaffale, ma aveva preso ad animarsi nella mia mente giano che, rivolta
al passato, guardava al futuro, mirava al viaggio, tendeva all’apertura. La
caccia non può svolgersi inelegante, pensavo, non può ridursi a una zuffa. E in
kajak provavo davvero un grande senso di eleganza - perché l’eleganza non è
elemento formale, ma un sentimento interiore di equilibrio in un campo di
tensioni. Niente sembra essere così invisibile nel kajak come il suo
baricentro: un punto di gravitazione nello spazio acquatico, concentrandosi sul
quale, il mare si lascia governare. È l’estrema leggerezza - senza contrastare
le correnti libere, la forte turbolenza - ad avvincermi, prima ancora di
abbattermi sulla preda. Il kajak al massimo della velocità, vibra silenzioso, immobile,
come un attimo di zen... Poi il colpo vibrato, secco, lo schiaffo nell’acqua.
Un breve silenzio, seguìto da un gorgoglìo. La caccia è un colpo sicuro, uno
sguardo affilato, dopo lunghi momenti di appostamento - di identificazione con
la preda.
Partiamo. Björn in testa. Stavolta è lui che ci porta fuori,
e ci porta fuori davvero. Neanche vent’anni, è già un kajakista fuoriclasse.
Capelli biondi , giubbotto giallo, un sorriso solare. Agile, vigoroso, si
propaga con il corpo su tutto lo scafo, quasi lo solleva sull’onda. Pochi colpi
di pagaia ed è già a largo. Lo seguiamo, in ordine sparso. La corrente comincia
ad increspare il mare, la costa si apre alle acque della Manica, il kajak
incontra resistenza, pagaiare controvento, faccio fatica. Björn, intanto, è già
sfilato via, cormorano, alla volta dell’isola di Tatihou.
Scomparso oltre la prospicenza rocciosa, non mi resta che
seguirlo, guadagno anch’io lo svincolo del faro e mi ritrovo insieme agli altri
in mezzo a un banco di scogli frastagliati, l’acqua è sempre increspata, fa
piccoli gorghi come fiori blu viola, occorre prestare attenzione. Mi accorgo
che ho attivato un’altra messa a fuoco, che pagaio lenta, ho rallentato, con
circospezione fra immaginarie creature affioranti dal fondo, cerco di evitare
gli spuntoni emergenti dall’acqua, intrighi d’alghe, mi sento afferrare la
pagaia. Ma non mollo, niente male come esordio. Björn è di nuovo già lontano,
lo vedo imboccare una rada più tranquilla, dove l’acqua pare essersi placata,
lì ci aspetta all’entrata del porto, il braccio appoggiato alla pagaia,
pensoso, il viso rivolto verso l’acqua. Superiamo anche noi la stretta
frantumata degli scogli, sento che comincio a scivolare sull’acqua oleosa della
rada, all’imbocco del porto dov’è Björn, così vicino che lo tocco. Bersaglio
mobile, gabbiano.
Finalmente entriamo nel porto, in ordine compatto, silenziosi,
radenti un’acqua immobile, sfiliamo fra le varie imbarcazioni, superati
soltanto dal volo a bassa quota di un goëlan... Sfilano in alto le facciate
delle case, da secoli in granito, sobrie, fiere, che si affacciano sul porto di
Barfleur: la Normandia, guardata attraverso gli occhi di un normanno. Björn ha
occhi che pare mandino fiammate e non si lascino distogliere, se te li pianta
addosso. Si accosta al mio scafo, discreto mi scivola vicino, prova per un
attimo il mio sguardo, poi sorride e sfila via. Forse non lo rivedrò, ma è già
parte del mio sguardo, una nuova angolazione, dal mare verso il porto, aperta
al cielo, e a quella luce grigia abbacinante... essere parte del mare, del
porto, parte d’acqua, in movimento, alga, vento... Entrando nel porto ho
gridato, nessuno mi ha intimato di tacere, siamo scivolati via, costeggiando
l’intero semicerchio dell’insenatura, fino all’ultimo avamposto popolato di
questo porto naturale. Appollaiati su un tavolato di pietra irto di spuntoni,
qua e là, enormi goëlan silenziosi. Ho affondato un paio di colpi morbidi di
pagaia per non spaventarli, una leggera spinta, e lo scafo ha cominciato il suo
rallentatore verso la roccia e l’ingrandimento progressivo dell’immagine. Una
ripresa da così vicino da farmi trattenere il fiato. I goëlan fermi,
indisturbati - l’oggetto osservato ero io. Scivolavo silenziosa, esaurivo la
spinta, la scia... Ero paga. Potevo rientrare. Ho ripreso a pagaiare, sempre
lentamente, stavolta all’indietro invertendo la direzione, poi virando leggermente,
ho puntato verso il largo e ho riguadagnato il mare.
***
TARTARE AU GAUCHE CAVIAR AU LION
di Fabrizio Sebastian
Caleffi
Opera di Chiara Moretto |
“Mai
mangiata carne di leone prima. Sapeva di tartare senza capperi ”
Mary Hemingway
“Tu
ed io siamo siamo due vecchi coglioni. Però buoni”
Ernest
Hemingway a Charles Scribner, editore
Tutto d' un tratto sentì
necessità di carne: carne di leone. Non facile da trovare, se non sei
Hemingway. Lui scriveva anche lui. Ma non era Hemingway. Eppoi i tempi sono
cambiati. Da tempo. Da tempo, non c'è più
neppure il leone in gabbia allo zoo di via Palestro. Né il leone né
l'elefante che suonava l'organetto con la proboscide. Non c'è più lo zoo a
Milano. Anche lui, anche se non era Hemingway, scriveva. Si rivolse al suo
editore.
-
Devo assaggiare il leone - disse al suo editore.
Si
prese la testa tra le mani inanellate il piccolo editore. Quel vieux del suo
scrittore non era Hemingway, ma i suoi vecchi successi rendevano ancora
qualcosa in versione e-book. E il nuovo libro prometteva (da anni) di diventare
un caso tipo il Lampedusa o almeno il Morselli.
Ma bisognava metter quel che voleva sotto i denti dello sdentato per
fargli finire l'opera. Sennò niente capolavoro postumo. Completato il quale
poteva anche spararsi come Papa e Guido, se voleva, il capriccioso. Tosto il
piccolo editore convocò la sua stagista e le ordinò di procurare all'autore di
punta della Casa una bella fiorentina leonina.
-
E dove la trovo, dal Pinchiorri? - si disse la stagista Carina, di nome e di
fatto. Ma non disse niente ad alta voce e ricorse al consiglio di Gato La
Volpe, vecchia volpe dell'editing.
- ... Non è mica Hemingway, ma adesso si è messo in capo di banchettare a felix Leo e sai che Piccolo Boss gliele dà quasi tutte vinte - disse a Gato la Carina.
- ... Non è mica Hemingway, ma adesso si è messo in capo di banchettare a felix Leo e sai che Piccolo Boss gliele dà quasi tutte vinte - disse a Gato la Carina.
E
l'editor, libidinoso, propose a Carina la carina di scortarla a Venezia, dove
aveva un contatto che avrebbe potuto trovare la soluzione.
-
Un altro Bellini per la bellina e un paio di Martini sbagliati per me e
per la Volpe - tuonò in pieno Harry's
bar Marco Leoni, uno dei Do Leoni fratelli veneziani, scuotendo la criniera
leonina.
-
Se no g'ho capjo mal, 'sto canibale voraria 'sagiarme ai feri -
-
Veramente non intendeva carne umana, signor Leoni -
-
Ciamame Marco, daughter. Ghe pensi mì, come dite voi. Tra un mese esatto,
portatemi il soggetto a Venegono Inferiore, dalle parti vostre, che passa un
circo dove tengono per carità un Re Leone disoccupato da quando son proibiti i
numeri con le fiere e in cambio di un po' di sbobba gli fanno pulire la gabbia
dei porcellini d'India. Cognosso el domator passato a fare il clown. Siamo in
affari e avrete il vostro filetto della savana. Lo faso par ti, Gato randagio,
ma soprattutto per te, Carina -
Che
si coprì gli occhi con le mani affusolate. Ma il mese successivo si presentò,
puntuale, in compagnia del romanziere nella località del Varesotto dove faceva
tappa il Circo Massimo (di Massimo Gruber and bros). Triste più che modesto il
circo, avvilito il leone, vile il domatore, demotivato ormai lo scrittore.
Però, anche se non era Hemingway, voleva fare il gradasso, il ganassa, l'uomo
da safari. Il clown gli mise in mano un fucilino di latta e gli disse:
-
Procurati la cena, amico - indicandogli un inserviente in salopette. Questi
ruggì catarro, poi chiese di restare solo con l'autore di “Per chi stona la campana” (working title del work in progress).
-
Non riusciresti mai a spararmi e comunque sono una porzione esagerata per te,
ma capisco la tua curiosità che è anche la mia. Facciamo un patto - disse il
vecchio leone al vecchio coglione.
-
Che patto? - e gli tremava la voce e lo
schioppo.
-
Tu assaggi me, io assaggio te -
Detto
fatto. Cacciato un temperino, il leone s' incise un pezzetto di petto delle
dimensioni di un petto di pollo. Poi porse il coltellino all'altro. Che se lo
affondò nella coscetta da pollo per strappare poco meno di una libbra di carne
dalla parte del femore.
-
Ora che so di che sa la carne d'uomo bianco, posso morir leone - disse il
leone.
-
Adesso mi sento il re della foresta, anche se non sono Hemingway. Grazie, amico
-
E
campò felice e contento all'Harry's bar con l'aneddoto della tartare di leone
assaggiata nella banlieu parigina continuando a corregger le bozze della sua
opera maggiore. Alla quale il Piccolo Editore rinunciò quando scalò le
classifiche pubblicando il Manuale della Bitcoin Generation tradotto da Carina
coniugata La Volpe.
[Mercoledì da Leoni del
mese di luglio dell'anno 2018]
LA
PROMESSA
di
Angelo Gaccione
Opera di Chiara Moretto |
Gli
Sparvieri non erano di qui, arrivarono a Roccabruna nel 1960 da una
città marinara del Nord Italia; lui un bell’uomo sulla cinquantina
dalle carni delicate, curato nella persona e con due biondi baffetti
borghesi, la moglie pallida e riservata, più giovane di una decina
d’anni, maniere aristocratiche, come confermano quanti fra i
pochissimi, ebbero la fortuna di essere ammessi nelle stanze della
sua casa settecentesca, che apriva i vasti balconi di fronte alla
sobria ed austera facciata della Cattedrale. Lo Sparvieri dentro
quelle volte in penombra, gli occhi fissi alla fiamma dei ceri, ogni
mattina prima di recarsi in Prefettura, consumava il rito antico del
raccoglimento: dieci minuti o poco meno, quanto basta ad un uomo
devoto per rinfrescare una linda coscienza.
Aveva
scelto di farsi trasferire a Roccabruna in qualità di Prefetto,
perché sede tranquilla, in anni in cui altrove si annunciava la
tempesta dei sequestri di persona e degli attentati politici, e
perché il clima salubre di questa città presilana, avrebbe giovato
al pallore della moglie che tanto amava.
I
roccabrunesi com’è noto sono amanti dei forestieri, cosicché Sua
Eccellenza il Prefetto fu subito riverito dai popolani, perché qui
le insegne del potere hanno ancora corpo mistico e sacro, come
insegna Santa Madre Chiesa, e temuto dai potenti che ne cercarono
subito l’alleanza.
Poiché
è nella natura delle cose che i pezzenti si accoppino ai pezzenti,
gli storpi agli storpi, i furfanti ai furfanti e i potenti fra
potenti, Sua Eccellenza entrò nelle grazie dell’Alta Società.
Intorno
al perimetro del Duomo e spesso nello stesso palazzo, abitavano le
più alte Autorità: il Sindaco, il Senatore, Sua Eccellenza il
Prefetto, il Notaio, i Magistrati, i Giudici, il Maresciallo, un
Colonnello in pensione, gli uomini e le famiglie più abbienti, i
Cavalieri del Lavoro.
Alle
spalle del Duomo sorgeva l’Arcivescovado nelle cui stanze
dimoravano gli unti del Signore.
Ogni
nuovo venuto lascia il posto alla speranza, soprattutto se potente:
“Se
cambia il maestro può cambiare anche la musica” dicevano quelli
che nutrivano più speranze.
“Una
scopa nuova scopa molto meglio di una vecchia” aggiungevano.
Ma
i pareri del popolo, com’è noto, non sono mai
unanimi.
“Dipende
da chi tiene il manico” dicevano quanti si ritenevano realisti.
“È
vino nuovo in otri vecchi”.
“Del
resto è giusto, ognuno tira la brace ai propri piedi. Il fabbro si
fa le tenaglie per non bruciarsi le mani: vorresti forse dargli
torto?”
“Non
lo sapete il proverbio? Corvi con corvi non si cavano gli occhi”.
Scettici
e fiduciosi disputavano, ma le posizioni rimanevano distanti; i
neutrali dicevano:
“Ha
ragione il detto antico: Ama l’uomo col suo vizio”.
Allora
fu interrogato il saggio perché secondo i poveri la sapienza antica
non fallisce mai, e disse:
“Dduvi
u judici penni a giustizia mori”*.
Così
gli scettici ebbero ancora una volta ragione:
“Chi
comanda fa legge”.
Fu
tutto come ai vecchi tempi. Come ai tempi del Sindaco Baffi. Come ai
tempi degli Sprovieri. Allora Sprovieri ed i suoi alleati, si erano
divorati Roccabruna; se l’erano divisa come fosse una scrofa,
squartata a brani: la contrada Guglielmo andò alla famiglia Feraudo,
la contrada Scuva agli Spezzano, il fondo Cuta ai Milizia, la
Montagna di Muccone alle famiglie Conforti e Vaglica, la contrada
Cocozzello ai Mazzei, la contrada Pidocchio ai Molinari… Ora capite
perché il popolo è così povero? Ora sapete perché voi non
possedete una zolla?
Sprovieri
incamerò per sé la tenuta della Crista, l’ex convento di san
Domenico… Chi comanda fa legge.
Allora
come ora, nessuno provvedeva; così quando iniziarono a sventrare la
Caccia, i rassegnati dicevano:
“Tutto
come una volta, sotto Sprovieri sventrarono Pietra Morella tagliando
più di quarantamila alberi”.
Man
mano che ovunque gli alberi facevano spazio alle case, i rassegnati
ricordavano i tempi andati:
“Niente
di nuovo, cento anni fa dissodavano come oggi Foresta Farnarossa”.
La
conoscenza del passato abitua la memoria come il corpo ai farmaci,
così quando rubarono Càlamo nessuno osò interferire. Neppure
quando sparirono le strade, si restrinsero le piazze, si nascose la
Torre, si soffocò l’aria, si violò ogni regola. Nella città
dell’abuso il diritto si impicca in piazza. Perciò quando per la
prima volta fu dato ordine di abbattere lo scheletro della casa di un
vicesindaco, il cicaleccio riempi solo le bettole.
“È
fuoco di paglia” dicevano.
“Il
vicepretore non si faceva neppure trovare è della stessa stoffa…
che aspetta quel tisico a lasciar la Pretura?”.
Ecco
perché quando Sua Eccellenza il Prefetto si insediò in Prefettura,
proveniente da una città lontana, i rispettosi della Legge nutrivano
un barlume di speranza.
A
detta dei roccabrunesi i potenti non si amano si temono. Un potente
può più facilmente dimenticare un’offesa ricevuta da un villano,
che uno sgarbo ricevuto da un altro potente.
Finché
lo sgarbo non sarà ripagato, egli non pensa che a vendicarsi; finché
la vendetta non sarà compiuta non avrà pace; il rancore sigillato,
si distilla come un veleno nei meandri più oscuri della sua mente.
Lo ossessiona, lo divora come una febbre, una malattia inguaribile. I
Palmieri ed i Morra continuavano a riverire Sua Eccellenza in
pubblico, ma ne progettavano la morte in privato.
“Eccellenza
riverisco, stamani pare che quest’aria profumi di cedro”.
“Eccellenza
aspettiamo sempre la Sua onorata visita. Sua Eccellenza la Signora è
così riservata… mi creda le farebbe bene un po’ di jodo, la
nostra villa di Cetraro è tanto grande e tanto vuota…”
Se
come disse un uomo dotto, la parola è fatta per nascondere il
pensiero, quelle parole così amabili nascondevano il veleno.
Sua
Eccellenza che ignorava certi codici era del tutto inconsapevole; a
Morra aveva sì fatto una blanda promessa, ma in fondo tutto
dipendeva da sua figlia. Se infine la ragazza aveva scelto il figlio
del Sindaco, era questa evidentemente la sua volontà. Che il
Senatore Morra si ritenesse offeso e considerasse la decisione della
giovane come uno sgarbo alla sua persona, Sua Eccellenza non sapeva
che farci. Quanto poi a Palmieri Sua Eccellenza aveva battezzato
l’ultimo nascituro, ma tenere a battesimo un bimbo obbliga a
contrattare un matrimonio? Le ragioni degli altri non sono mai le
nostre ragioni. Morra e Palmieri si coalizzarono:
“Serena
Sparvieri in casa del Sindaco ci deve entrare cadavere; se non
l’hanno avuta i nostri figli, non deve poterla avere neppure il
suo. Le nostre casate non sono inferiori, e quanto a beni e a
ricchezza, i Morra e i Palmieri valgono dieci volte il Sindaco. E poi
come dice il proverbio è meglio fesso che sindaco”.
Giacché
non è lecito che i potenti si macchino le mani, il lavoretto fu
affidato ad un pregiudicato dietro modesto compenso.
L’abboccamento
avvenne a Cosenza lontano da occhi indiscreti, per preparare il tutto
come si conviene. Una cosa pulita, come usa dire, senza compromettere
nessuno e con le dovute precauzioni.
I
morti sulle strade non fanno notizia, al più vanno a irrobustire il
conteggio asettico delle statistiche. E poi si sa, l’asfalto è
infido.
Ci
vollero due giorni perché l’auto della ragazza fosse rinvenuta in
fondo a una scarpata nel comune di Corigliano. Forse un sorpasso
azzardato, forse un colpo di sonno…
Il
caso venne archiviato come uno dei tanti quotidiani incidenti. Sulle
prime si era pensato a un sequestro di persona, benché a Roccabruna
non se ne sentiva parlare dai tempi dei briganti. Poi per fortuna il
ritrovamento del corpo aveva fatto tirare a tutti un sospiro di
sollievo, anche se non aveva attenuato lo strazio per quella vita
spezzata nel fiore degli anni. D’altra parte Sua Eccellenza il
Prefetto, come ciascuno poteva testimoniare, era stimato e riverito,
e a Roccabruna non aveva nemici. Come estremo gesto di pietà, al
povero corpo fu risparmiato lo strazio dell’autopsia. Il funerale
fu celebrato con cerimonia solenne come meritava, dentro le severe
navate della Cattedrale. L’arcivescovo officiò davanti a una folla
straripante e attonita che debordava oltre il sagrato e si accalcava
persino lungo i bracci a croce della piazza, tanto ch’era stato
necessario installare degli altoparlanti perché a tutti fosse
consentito cibarsi di quel pane, e soprattutto farne tesoro. La
commozione era stata profonda, composta e senza stonature. C’erano
stati il silenzio e la pietà, per permettere al mistero della morte
di toccare tutti i cuori. Le cronache annotano che i più costernati
apparivano proprio Morra e Palmieri, che seguivano il feretro tenendo
il braccio a Sua Eccellenza e Signora.
Quando
a gennaio di quest’anno un mittente anonimo, fece giungere al mio
indirizzo di Milano, un plico contenente una serie di documenti sul
delitto di Serena Sparvieri, sui moventi, gli esecutori ed i
mandanti, rimasi sconcertato. Ci pensavo continuamente e mi facevo e
rifacevo sempre le stesse domande; perché proprio a me questo plico?
Perché ad uno scrittore e non alla polizia? Il mio indirizzo lo
conoscevano in molti, e chiunque se lo poteva procurare; bastava
domandarlo ad uno dei parenti che vivono ancora a Roccabruna. Ma
perché a distanza di vent’anni? Chi aveva interesse a riaprire il
caso? Che cosa si aspettavano facendo arrivare a me quei documenti?
Non
riuscivo a venirne a capo. Cercai nei miei scritti una risposta, o
almeno un briciolo di risposta da cui partire; io non mi ero mai
occupato di cronaca nera, né di delitti. Ripercorrendo il mio lavoro
non trovai nessun sentiero su cui incamminarmi, neppure il più
angusto e disagiato. C’erano scritti coraggiosi questo sì, scritti
che non guardavano in faccia a nessuno, denunce dettagliate di cose e
persone in periodi in cui molti altri tacevano, un amore per la
verità mai venuto meno, il coraggio civile, sì… forse il
coraggio, il coraggio di dire le cose, di schierarsi, questo era la
costante dei miei scritti, dei miei libri, era evidente! Chi mi aveva
fatto avere il plico sapeva benissimo che non avrei taciuto.
Qualche
giorno dopo, depositai il plico in una cassetta della mia banca, e
presi un aereo per Roccabruna da cui mancavo da molti anni. Feci le
ricerche necessarie, mi informai per ricomporre tutte le tessere del
mosaico che stavo costruendo, poi ripartii. A Milano misi ordine alle
mie idee; intanto dalle ricerche avevo appurato che le parti
interessate erano morte: perché dunque ora, quando ormai mandanti ed
esecutori non erano più perseguibili?
Chi
cercava attraverso me una vendetta, perché aveva atteso tanto?
Perché aveva lasciato che i responsabili del delitto scomparissero?
Mi
lambiccai il cervello: come uomo mi sfuggivano tutte le ragioni ed
ero tentato di lasciar perdere; ma ormai non riuscivo più a farne a
meno e continuavo a ruotare senza sosta attorno agli stessi
interrogativi. Scartai l’idea di passare il materiale alla polizia:
se non l’aveva fatto il mio anonimo mittente, perché farlo io?
Tentai
un approccio diverso. Mi avvicinai al caso non più come uomo: ossia
come l’uomo che ero stato fino a quel momento; rovesciai
completamente impostazione e sfruttando il mio intuito di scrittore,
questa volta analizzai a fondo ogni minimo dettaglio, ogni più
ambiguo sottinteso, e lo sottoposi al vaglio di quell’intuito.
Fu
come avere attivato un terzo occhio in grado di trascendere le
ragioni comuni e di arrivare a illuminare il cuore ultimo delle cose,
la notte cupa della verità.
“Ci
sono!” esclamai infine con una gioia così totale, che pareva
stordirmi. Era diabolico ma perfetto; chi mi aveva fatto avere i
documenti sperava che io me ne occupassi letterariamente, come
scrittore. Una vendetta ancora più grande e definitiva, perché
attraverso un mio libro gli assassini, i mandanti, le famiglie
compromesse, fossero additate ai posteri e marchiate di infamia per
sempre. Diabolico!
Il
mio sconosciuto corrispondente aveva visto giusto, ed era riuscito a
servirsi di me, sfruttando il mio bisogno di decifrare, seppur
letterariamente.
Può
essere colpevole la letteratura?
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Note
[*Se il giudice non è imparziale, la giustizia viene assassinata.]