UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

domenica 28 settembre 2014

Linguistica: anima del terzo millennio
di Paolo Maria Di Stefano


C’era un volta il diario scolastico. Era la maggior fonte di conoscenza, il massimo forziere di quelle pillole di saggezza le quali, checché se ne dica, tanta parte avevano nella formazione culturale delle giovani generazioni. E costituivano anche una riserva non trascurabile di “citazioni citabili” nelle conversazioni salottiere.
Talvolta costituivano spunti di ricerche ed approfondimenti; sempre, informavano.
Magari in modo indiretto, ma informavano.
E’certo che nessuno dei diari scolastici dell’anno appena iniziato ha riportato quel“da professoressa do sei meno all’inglese di Renzi” che il ministro della Pubblica Istruzione ha pensato bene di affermare e che La Repubblica ha diligentemente citato il 19 settembre a pagina 8, nel “breviario” di Gianluca Luzi: non hanno fatto in tempo. Per il 19 settembre, i diari dovevano essere stati non solo già stampati e distribuiti alle librerie, ma anche acquistati.
Peccato.
Gli studenti -e non solo- avrebbero potuto iniziare ad avere la prova provata che veramente la scuola è una delle priorità assolute del Governo e, ovviamente, del Ministro alla Pubblica Istruzione. E, con essa, la conferma che l’innovazione e la creatività -non disgiunte da una professionalità esemplare- sono vive e vitali in una Politica che, finalmente, si ammanta di modestia e discrezione.
La strategia del Ministro è esemplare. Questa:

I Sacri testi affermano che
1. è buona norma partire da una definizione chiara, condivisibile e possibilmente condivisa della materia di cui si tratta; che
2. ogni affermazione, soprattutto se innovativa, va esposta morbidamente, in modo quasi  casuale; che
3. è bene aver chiari i punti di forza e di debolezza di ciò che si vuole dire perché sia accettato e condiviso.

Sono le basi indispensabili perché il detto dei sacri testi si concreti in sacri principi di comunicazione che abbiano buone probabilità di raggiungere il destinatario, essere compresi, e dunque essere condivisi.
Chi meglio di un maestro della comunicazione può conoscere ed applicare le regole appena sintetizzate? Non solo, naturalmente, ma almeno queste.
Ed ecco, allora, il Ministro della Pubblica Istruzione lanciarsi in una sintesi estrema e apparentemente innocua di quella che resterà nella storia come espressione massima della creatività e della innovazione della Politica nel mondo della Cultura. (notate le maiuscole?)
“Da professoressa” esordisce il Ministro. E qui subito una serie di problemi, sorti anche per la confusione che pare regnare in Italia sulla qualifica di “professore”, che non è, come molti (troppi) sono portati a credere in automatico spettante a chi insegna per il solo fatto di insegnare. Sembra che da noi il titolo spetti di diritto soltanto ai docenti universitari e, se non vado errato, soltanto ai titolari di cattedra e agli associati.
Più o meno.
Ora, sia pure limitato ai docenti universitari titolari di cattedra (ordinari) e agli associati, di quale disciplina occorre essere cultori e insegnanti per potere esprimere giudizi sulla qualità in senso lato della conoscenza di una lingua e dell’eloquio che ne consegue?
Domanda di non poco conto, per rispondere alla quale bisogna forse ricordare che la Ministra è docente ordinaria di linguistica presso una Università piccola e ormai screditata quanto si vuole, ma pur sempre Università.
E se un docente di linguistica  sottolinea che “da professoressa” assegna un voto alla conoscenza di una lingua (nello specifico, dell’inglese) , si può immaginare che il riferimento sia la linguistica, appunto. Il che risponde almeno in parte alla domanda. Così: un docente di linguistica è in grado di valutare la conoscenza di una lingua da parte di chi ne fa uso.
Con un risvolto immediato, seppure di rilevanza non assoluta: di quale lingua e di quante?  Pare che nel mondo si parlino tra le seimila e la settemila lingue. Tra queste, in testa ad una possibile classifica dovrebbe essere il Cinese (un miliardo e duecentotredici milioni di persone) seguito a distanza dallo Spagnolo e dall’Inglese (circa trecento trenta milioni di persone per ciascuna), dall’Arabo con circa duecentotrentamilioni di persone), dall’Hindi e dal Portoghese con più o meno centoottanta milioni di persone, e via dicendo. Pare che l’italiano sia al diciannovesimo posto, con circa sessantadue milioni di utilizzatori. Non ho trovato cenni degni di nota per le lingue morte (latino e greco in testa, almeno per noi) e neppure alla presenza o meno tra le sei- settemila di quelle lingue che noi chiamiamo dialetti. Ma forse non è importante più che tanto.
Ma forse lo è il sapere di quali lingue e di quante di esse un linguista è in grado di valutare la conoscenza da parte di chi le parla. Voglio dire: se il Presidente del Consiglio si fosse espresso – magari a puro titolo di cortesia- in arabo o in Hindi, “da professoressa” il Ministro sarebbe stato in grado di esprimere una valutazione?
Non ho una risposta, ma un dubbio sì.
E me lo tengo.
Quidam de populo potrebbe forse ignorare cosa la linguistica sia. Ed è probabile che quel qualcuno si lanci come un sol uomo sul vocabolario della lingua italiana e legga: Linguistica: “ Lo studio delle lingue nella loro storia, nelle loro strutture e nei loro rapporti con la storia della cultura e le classi sociali” (Devoto – Oli, Dizionario della lingua italiana). Tanto per la cronaca: subito sopra c’è la definizione di Linguista quale “cultore di studi linguistici” e, subito sotto, di linguistico come “attinente al fenomeno della lingua, specialmente come oggetto di indagine o classificazione”.
Dal canto suo, il nuovo Zingarelli definisce la linguistica come “studio scientifico e sistematico del linguaggio e delle lingue naturali”.
Che è bello ed istruttivo.


Ma che, soprattutto, non giustifica più che tanto quel “da professoressa do sei meno all’inglese di Renzi”.
Allora, occorreva dare della linguistica una definizione diversa da quella canonica, chiaramente insufficiente, e dichiarare a voce spiegata che la linguistica è la disciplina che consente di parlare alla perfezione tutte le lingue e dunque anche di esprimere giudizi sul loro uso da parte dei “non nativi” sarebbe stato non soltanto non diplomatico, ma forse addirittura offensivo, e avrebbe certamente provocato reazioni. Ecco, allora, il percorrere una via sufficientemente morbida per stimolare la curiosità di coloro che in qualche modo hanno interesse all’approfondimento delle cose. E solo chi è spinto all’approfondimento può proiettare la propria mente al di là dei confini delle convenzioni, e quindi non giungere con approssimazione frettolosa alla conclusione che il Ministro, nell’altra vita, insegna inglese.  
E con la diplomatica cortesia e discrezione che le sono proprie, - anche in modo di poter negare di aver mai fatta affermazione simile, che è modo proprio della politica e dei politici -, la ministra lascia intendere che la linguistica è una disciplina che consente di conoscere a fondo qualsiasi lingua e dunque anche di valutarne il grado di conoscenza da parte di chi la usa. E senza parere, porta alla ribalta una nuova e più moderna definizione della linguistica come “strumento di conoscenza di tutte le lingue naturali e di giudizio della sintassi, della grammatica, della costruzione e della pronunzia e dunque dell’uso di ciascuna di esse”.

Data la definizione, se ne dovrebbero trarre conclusioni. Una delle quali sembrerebbe essere questa: la Ministra ha parlato “ in qualità di professoressa”. Lo ha detto in modo inequivocabile.
Ma certamente la Ministra non intendeva dire che l’essere “professore” abilita a parlare ogni idioma: farlo è appannaggio della linguistica, la materia che Ella insegna (o che dovrebbe insegnare) e che la pone nell’Empireo dei docenti. Dunque, io che sono abilitato all’insegnamento di materie giuridiche ed economiche (compresa la statistica) e che ho insegnato marketing in corsi aziendali, in corsi di perfezionamento e in più di una Università, non per questo sono in grado di valutare la conoscenza dell’inglese da parte di chicchessia. E infatti non lo sono.
Lo sarei solo se fossi linguista.
E forse, se disponessi anche della cadenza propria della periferia della Toscana, simpatica, bella e forse anche colta Regione, ammalata però di “toscanite acuta”, tara ereditaria che affligge troppi toscani e che appartiene alla numerosa famiglia dell’autoreferenzialità, patologia tipica dei docenti universitari e dei politici, non senza invasioni in settori diversi, segnatamente  nell’imprenditoria e nella managerialità italiche.
Dicevo: insegnante di linguistica e d’accento toscano, cose che appartengono alla Ministra e ad un ristrettissimo numero di eletti, e che, per quel poco che ne so, la Ministra conserva orgogliosamente anche quando si esibisce nell’inglese.
Che ovviamente intride della propria straripante personalità.
Naturalmente, la nuova definizione di linguistica consentirebbe conclusioni ulteriori, quelle dalle quali un qualsiasi politico italiano è solito astenersi, poiché il solo trarre conclusioni logiche  sarebbe negazione della politica. Un politico non può, non deve, servirsi della logica che, come ognun sa, alla Politica ed alle politiche è estranea. Almeno, fino alla formulazione di enunciazioni condivise e dunque accettate dalla maggioranza dei votanti alle consultazioni di riferimento. E non è detto che logica e accettazione e condivisione abbiano legami nella e con la Politica.
Se la linguistica è quella adombrata dalla Ministra, a che serve predisporre insegnamenti e cattedre dedicati ad ogni specifica lingua (con impegno non trascurabile di risorse finanziarie e umane)  quando basterebbe sostenere e superare  l’esame di linguistica per discettare su e con ciascuna e su e con tutte?
Laggiù, lontano lontano, ai bordi dell’orizzonte, si delinea la cancellazione degli insegnamenti di tutte le lingue, con un notevole risparmio di tempo e di danaro. E si noti bene: di tutte le lingue in assoluto, e dunque anche della lingua italiana.
Ma pensate al risparmio che si potrebbe realizzare?
In una futura università che formi insegnanti di lingua, basterebbero i corsi di linguistica per  essere in grado di insegnare lingue morte e lingue vive e di valutarne la conoscenza da parte di docenti e discenti; i corsi potrebbero essere di linguistica generale con le specializzazioni in tutte le lingue e i dialetti parlati al mondo a seconda della richiesta e delle opportunità. Con, in più, il vantaggio di una materia -la linguistica, appunto- che sarebbe approfondita costantemente nel corso di tutti gli anni di studio. E, volendo, oltre.
Con un vantaggio ulteriore: la linguistica diverrebbe il collante tra i diversi paesi e le diverse regioni del mondo.
E un mondo linguista non può che essere unito.
Una cosa, per la verità, con qualche altra di scarsa importanza, mi stupisce: che la Ministra, pronta come è sempre stata a cogliere ogni opportunità, nel corso della sua intensa azione di rinnovamento della scuola non abbia speso una sola parola in favore dell’insegnamento della linguistica fin dalle primarie. Ma forse lo ha ritenuto ovvio.
E ancora un vantaggio, al quale è bene fare un cenno: l’aver superato gli esami di linguistica ai diversi livelli renderebbe immediatamente abilitante il titolo conseguito alla fine degli studi universitari. E dunque, ancora un risparmio: quello derivante dalla abolizione di ogni e qualsiasi concorso a cattedra. Anche perché le valutazioni conseguite nel corso degli studi riuscirebbero a tracciare una graduatoria di merito assolutamente affidabile. 
Soprattutto se fosse correttamente valutata la cadenza toscana.

sabato 27 settembre 2014

MEDICI SENZA FRONTIERE

Medici Senza Frontiere è la più grande organizzazione medico-umanitaria indipendente al mondo. Nel 1999 è stata insignita del Premio Nobel per la Pace. Opera in oltre 60 paesi portando assistenza alle vittime di guerre, catastrofi ed epidemie.


Ebola: la forza di Mary
Il triangolo della morte, così mi viene da descrivere questa parte di mondo dove l’equipe MSF sta lottando giorno e notte per fermare l’epidemia di Ebola. Mi trovo a Guéckédou, una cittadina nella foresta della Guinea, non lontana dal confine con la Sierra Leone e la Liberia. Il virus Ebola sembra non voler arrestare la sua avanzata. Nel nostro ospedale da campo a fatica riusciamo a trovare i letti e lo spazio per ammettere tutti i casi d’ebola. Qui i morti si contano giornalmente: è un’ecatombe. Il numero più basso di morti che abbiamo avuto in una giornata è stato quattro ed il numero maggiore sette.
Il giorno del mio arrivo abbiamo ammesso una famiglia intera, padre, madre e  Ie loro tre figlie di 7, 10 e 13 anni. Il padre è deceduto dopo qualche ora dall’arrivo, lasciando sole la moglie Geneva e le 3 figlie. Geneva era terrorizzata dall’idea di morire e di dover lasciare le sue tre bellissime bambine orfane. Ma le sue condizioni sono subito apparse gravi. Ha iniziato a perdere sangue dal naso e poi dalla bocca fino a che non è spirata, tra i pianti e le urla delle sue tre bambine che l’hanno vista morire in questo modo orribile. Il padre era stato ad un funerale di un fratello (successivamente si è capito che era affetto da ebola), e durante la cerimonia della preparazione del corpo, eseguita senza protezione, era venuto a contatto con il virus. Una persona infetta con l’ebola ha il virus in tutte le secrezioni del corpo: sudore, lacrime, saliva, sangue, feci, vomito e perfino nel latte materno. Ed il luogo dove il virus si propaga maggiormente è proprio durante i funerali, dove il corpo del morto viene toccato da tutte le persone che partecipano al funerale. Una volta rientrato a casa, il padre ha trasmesso il virus a tutta la famiglia.
Mary, la più grande delle tre, mi ha subito colpito per il suo sguardo maturo, per quell’aria da ‘dura’ con la quale mi guardava. Sola ad accudire le sue due sorelline, passava ore a darle da bere e da mangiare, le spronava a sforzarsi, ma per loro era un calvario anche solo aprire la bocca. La diarrea ha iniziato a manifestarsi nella sorellina piu piccola che dopo una notte di agonia se n’è andata. 
Mary e Jetta, le due superstiti si sono allora chiuse in un silenzio totale. Non mi guardavano neppure quando entravo nella tenda. Si rifiutavano di mangiare nonostante Mary avesse ancora la forza per farlo. Entravamo a turno nell’unità di isolamento, per non lasciarle troppo tempo da sole. Faceva caldissimo e con la tuta di protezione che indossiamo e non riuscivamo a stare all’interno per molto tempo. Mary e Jetta non parlavano l’inglese e quando chiedevo loro come si sentissero o se avessero mangiato non mi guardavano neppure. 
Jetta si è addormentata, di un sonno profondo, dal quale non si è più svegliata. Che tristezza nei nostri cuori, quanta rabbia abbiamo provato. Il senso di impotenza in questi casi prende il sopravento, e la rabbia la senti salire e vorresti urlare.
Mary era lì, apparentemente indifferente alla morte della sorella, non guardava il suo corpo, non piangeva. Avrei voluto abbracciarla e per questo mi sono avvicinato ma Mary con uno movimento brusco si è girata dall’altra parte. Mentre l’équipe si preparava a portare via il corpo della sorellina, Mary, fissava con lo sguardo la parete della tenda. Non si è mossa da quella posizione per ore, e così l’ho ritrovata quando alle sette di sera sono rientrato per portarle la cena. Le ho messo il piatto davanti e le ho chiesto di fare uno sforzo, spiegandole che mangiare e bere aiuta l’organismo a combattere l’ebola. Non ha mosso la testa di un millimetro.
Il giorno seguente quando sono entrato nella sua tenda l’ho trovata sdraiata per terra, che dormiva. L’ho chiamata, ha riconosciuto la mia voce perché mi ha fissato come se aspettasse una delle mie domande. Le ho preso la mano destra e mentre la stringevo le ho detto che non mi sarei arreso, e che sarei rimasto lì accanto a lei fino a che non avesse assaggiato il cibo che le avevo portato. Poi mi sono detto «perché non parlarle in italiano?», la nostra bella lingua così musicale da incantare anche chi non la conosce. Sono rimasto al suo fianco raccontandole un po’ di cose: da dove venivo e cosa facevo nel suo Paese. Sono poi passato a raccontarle della mia famiglia e di mio nipote Matteo, e di quanto bene gli volessi. Mary mi guardava, la sua mano nella mia, immobile come rapita da un testo stupendo di una canzone ascoltata per la prima volta. Mi sono fatto coraggio e le ho avvicinato il piatto e subito si è girata dall’altra parte. Le ho fatto capire che il caldo mi stava torturando e che la tuta era tutta bagnata di sudore all’interno, gli occhialini erano quasi tutti appannati. Faticavo a respirare, eppure mi sforzavo a starle accanto perché volevo vedesse che m’importava davvero di lei. Poi non ce l’ho fatta più e mentre mi allontanavo ho sentito la sua mano afferrate il mio braccio. Mi sono girato e ho visto le sue labbra muoversi, ma non capivo. Un’altra paziente ha tradotto per me: Mary mi chiedeva di farle il bagno. Mi sono sentito subito pieno di energie e pronto per fare questo ultimo sforzo prima di uscire dall’unità di isolamento. 
Era debole, a stento riusciva a stare in piedi, « io ho fatto un grande sforzo per farti il bagno ed ora ti chiedo di fare lo stesso per mangiare » . Le ho avvicinato il piatto e sono rimasto altri minuti ad aspettare che lei aprisse la bocca e finalmente mangiasse qualche boccone di riso.  
Non so descrivere il senso di vittoria che ho provato in quel momento, una grande gioia e contentezza. Certo non era il segno della guarigione, ma comunque un grandissimo passo in avanti, una meta che non avrei mai creduto di raggiungere. All’uscita dall’unità di isolamento ho urlato a tutta l’équipe la grande novità, erano increduli. Allora li ho fatti avvicinare alla tenda da dove si intravedeva Mary masticare piccolissimi bocconi di riso.
Il giorno dopo sono tornato, Mary sembrava non volesse mangiare ma dopo il bagno, si è seduta sul letto ed ha iniziato a mangiare il pane inzuppandolo nel tè. Non stava proprio bene, era molto debole, ma vedevo che si sforzava ed ero sicuro che sarebbe migliorata.  Nel pomeriggio mi è arrivata la notizia che il giorno dopo sarei dovuto partire per una missione esplorativa in Liberia, dove l’ebola continua la sua avanzata. Che rabbia! Proprio ora che Mary reagiva volevo seguire i suoi progressi e starle accanto. Prima di partire sono andato a salutarla. Mi ha guardato, ha preso il piatto ed ha iniziato a mangiare, mentre ero seduto al suo fianco. Prima di uscire dalla tenda le ho fatto ciao con la mano dicendole che sarei partito ma che ogni giorno avrei chiesto sue notizie.
È davvero strano come ci si possa legare ad una persona che si è conosciuta da poco, con la quale non puoi neanche comunicare. Eppure quella bambina mi emozionava tutte le volte che la guardavo, non me la tolgo dalla mente.
Sono stato costantemente informato, ed oggi la grande notizia : « Mary è uscita, ce l’ha fatta ». Non avevo parole per esprimere la gioia che provavo e così mi sono coperto il volto con le mani e come un bambino ho pianto. Non ho la presunzione di pensare di aver salvato la vita a quella ragazzina che non rivedrò mai più, ma sono certo che l’incoraggiamento, la vicinanza e la mia testardaggine le siano state da spinta. Mary poi ha fatto il resto e forse il fato , finalmente, ha dato il suo contributo.
Non vedo l’ora che sia domani per iniziare una nuova sfida al fianco di chi soffre e stimolare il cambiamento che voglio vedere nel mondo.
Massimo Galeotti, Infermiere MSF in Guinea


Mohamed, Yatta, Isatta... Bambini positivi al virus Ebola
Mohamed, Yatta, Isatta, Fatimata, Tamba, Charles, Salomon, Suma, Jusu, Bendu, Ngebeh...Sono i nomi di alcuni dei bambini positivi al virus dell'ebola nel nostro centro di trattamento a Kailahun in Sierra Leone. Molti arrivano con le loro famiglie e poi pian piano ne assistono al decesso o si spengono prima dei loro familiari. La mortalità tra i bambini è più elevata che per gli adulti (80 90% contro il 70%). Chi è riuscito a sopravvivere ci ha dato lezione di coraggio e generosità.
Sono stati i bambini, prima degli adulti, a prendersi cura degli altri bambini positivi rimasti orfani vincendo la paura di toccare un altro paziente. Hanno iniziato a rompere il silenzio e con il rumore dei loro giochi e risate hanno dato speranza a tutti noi.
Abbiamo assistito alla dimissione di Yatta e Salomon, primi bambini guariti nel centro, li abbiamo visti salutare gli altri pazienti, ne abbiamo ascoltato la storia di come l'ebola sia entrata nelle loro vite. Chi per primo nella loro famiglia si è ammalato e come sono arrivati da noi. Ancora confusi hanno scelto il loro vestito e i loro giochi prima di rientrare a casa, ci hanno chiesto chi si sarebbe occupato degli altri bambini ora che loro sarebbero partiti. Hanno dato una dimensione umana ad un'epidemia che di umano ha poco. A Kailahun, non ci sono solo bambini, ci sono donne, anziani,  intere famiglie, infermieri, che si sono infettati cercando di aiutare i loro amici, familiari o pazienti.
L‘ebola uccide, questo è noto. Quello che non è così noto è che uccide i legami e la fiducia nei villaggi. Uccide creando la paura di toccare chi si ammala o salutare chi muore. Nelle settimane trascorse sul campo, ho visto la paura diffondersi come l‘infezione, ma ho anche visto il serio e dedicato lavoro di MSF, villaggi e pazienti ringraziarci per il lavoro che facciamo per fermare ciò che è più grande noi, paura compresa.
Grazia, Epidemiologa MSF in Sierra Leone



Ebola. Come assistiamo i nostri pazienti
Questa è la prima epidemia di Ebola che mi trovo ad affrontare. Ho trascorso le ultime tre settimane in Guinea, e appena due giorni fa sono arrivato in Sierra Leone per lavorare nel Centro MSF per il Trattamento dell’Ebola da 65 posti letto. Sono responsabile della cura del paziente: vado con i medici a fare il giro dei reparti, somministro flebo se necessario e mi occupo della formazione del personale locale sulle procedure che bisogna conoscere per trattare questa malattia.
 In Guinea abbiamo trattato una giovane donna risultata positiva all’ebola, incinta del suo primo figlio. La maggior parte delle volte, quando una donna incinta si ammala di ebola, lei e il suo bambino muoiono. Questa donna, invece, ha perso suo figlio ma è riuscita a sopravvivere. Era visibile come l’esperienza l’avesse cambiata quando, una volta guarita, è uscita dal Centro per il trattamento dell’ebola. Era straordinaria.
 Il trattamento per l’ebola è molto semplice e l’assistenza infermieristica è forse uno degli aspetti più importanti di esso. Inizia con l’igiene: è necessario lavare i pazienti nel letto e tenerli puliti. Somministriamo loro cibo e liquidi, a volte sono così deboli che non riescono neanche a mangiare e bere da soli. È difficile: in Italia, le unità di cura intensiva sono di alta tecnologia, con monitor e attrezzature di tutti i tipi, mentre qui devi fare tutto da solo. 
Non lavoro più in Italia da quando, 11 anni fa, ho iniziato a lavorare con MSF. MSF è il mio lavoro a tempo pieno. Sono stato in Liberia, Angola, tre volte in Sud Sudan, Bangladesh e Myanmar. Quello che mi piace di questo lavoro è la vicinanza con le persone, il fatto che sto facendo del mio meglio per migliorare la loro salute, come se stessi davvero “facendo la differenza” in questo mondo. Anche qui in Sierra Leone contro l’Ebola. 
 Massimo, infermiere MSF, in Sierra Leone



Tute di protezione, forza e tanta esperienza contro l’Ebola
La piccola Mary mi guarda con i suoi occhioni grandi, spesso gonfi di lacrime, a volte assenti come se fissasse il vuoto. Forse non mi ha riconosciuto, del resto credo sia quasi impossibile riconoscere chi si nasconde dietro una tuta di protezione, l’uniforme che dobbiamo indossare quando entriamo nel Centro per il Trattamento del Ebola.
Si tratta di una tuta di materiale plastico impermeabile, stivali di gomma, due paia di guanti, una maschera che copre bocca e naso (molto spessa), un copricapo di materiale plastico che ti deve coprire dalla testa fino sotto le scapole e che lascia solo gli occhi senza copertura. Poi ovviamente per riparare gli occhi usiamo occhiali che sembrano maschere da sub e per finire indossiamo un grembiule di plastica spessa che dal collo ti copre fino ai piedi.
È difficile descrivere come si lavora quando si indossano tutte le protezioni, ma credetemi è  molto faticoso. All’ interno delle tende fa caldo e con tutta la plastica che ti porti dietro potete immaginare quanto si sudi all’ interno della tuta.
Dopo 5 minuti senti le goccioline di sudore che scendono dappertutto. Tutti i movimenti devono essere lenti, per evitare sforzi ma anche per evitare cadute accidentali che potrebbero esporti a un possibile contatto con il virus.
Tutte le procedure invasive (mettere un catetere venoso per esempio) vengono fatte solo da personale molto esperto e selezionato perché il rischio di contrarre il virus durante la manipolazione di aghi e sangue è elevatissimo.
La prima volta che ho fatto un prelievo non nascondo di aver avuto tantissima paura; l’ importante è  sempre spiegare bene al paziente quello che si intende fare e come il paziente si deve comportare (nessun movimento brusco, restare immobile etc.), avere sempre vicino un raccoglitore per gli aghi usati, avere un collega che ti passa il materiale, avere la mano ferma e sentire di avere la situazione sotto controllo.
Quando siamo dentro, cerchiamo sempre di avere tutto il materiale con noi (medicinali, antibiotici già diluiti) per risparmiare tempo. Anche respirare è faticoso, non devi mai cercare di farlo in modo veloce.
Proprio come succede al mare, le nostre maschere dopo un po’ si annebbiano e non si riesce più a vedere correttamente. Se a questo aggiungi gli sforzi eccessivi (come chinarsi più volte per aiutare un paziente a bere o aiutare qualcuno ad alzarsi) che aumentano la frequenza respiratoria diminuendo l’ossigeno che entra nei polmoni (ricordatevi che indossiamo una maschera che ci copre la bocca) capite bene che il senso di soffocamento può avere il sopravvento e gettarti nel panico.
Bisogna conoscere i propri limiti, sapere quanto possiamo chiedere al nostro corpo e quando arriva il momento di fermarsi. Mai prolungare la permanenza nel reparto d’isolamento oltre i propri limiti.
Alzare la testa per guardare l’orologio affisso alla parete della tenda, ripetere a un collega una frase due volte, chinarsi a raccogliere una tazza vuota per dare da bere a un paziente, aiutare un malato a mangiare sono esempi di azioni quotidiane semplici ma che se vengono effettuate con la tuta di protezione ti stancano, ti sfiniscono fino a che non senti il bisogno di uscire.
Quello è un momento bellissimo… ovviamente c’è una procedura speciale per togliersi la tuta: tutte le diverse protezioni vengono rimosse una per volta in un ordine specifico, la maschera è la penultima cosa che togliamo, alla fine l’ultimo paio di guanti.
È duro e faticosissimo lavorare con questa tuta, ma non c’è alternativa: la protezione prima di tutto!
Lavorare nell’emergenza Ebola ti fa imparare tantissime cose, e sorprendentemente mi sono accorto di avere più energie e forze di quanto credessi.
Purtroppo la mortalità è  altissima (fino al 90%), solo il 10% dei pazienti infettati con l’Ebola sopravvive ma senza il nostro intervento non ci sarebbero neppure quelli… e il virus si propagherebbe causando una catastrofe. Sono loro che ci danno la forza per continuare, quelli che riescono a sopravvivere al terribile virus.
Quanta gioia nei loro occhi quando gli viene detto che sono guariti  e quante lacrime…. Il momento della dimissione è il più bello: tutto lo staff di turno all’ospedale si ritrova di fronte all’uscita dell’isolamento, e quando il paziente esce tutti iniziano ad applaudire, cantare e ballare ! È una gioia per tutti. È lì che ti dimentichi di quanto hai sofferto all’interno dell’isolamento.
Massimo Galeotti, Infermiere MSF in Guinea


“Non ti faremo del male, siamo qui per curarti”
Mi chiamo Ernestina Repetto, sono un medico infettivologo, ho 33 anni e sono partita con Medici Senza Frontiere in Guinea a Gueckedou su un progetto Ebola.
La cosa più difficile per un medico che parte su una Missione Ebola è dover stravolgere completamente il normale rapporto che si ha tra medico e paziente. Perché ti devi proteggere, tu in prima persona, e quindi utilizzi dispositivi di protezione individuale (la tuta, la maschera, gli occhiali, il copri capelli, etc). Quindi i pazienti che visiti non hanno la possibilità di vederti, vedono solo i tuoi occhi e ascoltano la tua voce. È molto importante ogni volta che entri ripetere il tuo nome, il tuo cognome, dire chi sei, se sei un medico o se sei un infermiere, che sei lì per lui e che gli farai delle domande per sapere come va e se ha dei sintomi particolari e così via. Devi affidarti al tono della tua voce e basta.
Quando si entra in un Centro di Trattamento Ebola, la cosa che colpisce di più rispetto a un ospedale convenzionale è la presenza di barriere. Ogni settore è diviso dall’altro da doppie barriere con una distanza minima di due metri. Questo permette agli operatori sanitari e ai visitatori e parenti dei pazienti di avere una certa sicurezza, una distanza minima per evitare il contagio con i malati, anche in assenza di protezioni individuali. Chi non è ancora entrato nella zona ad alto rischio può stare al di fuori e vedere i propri cari e i propri parenti senza utilizzare la protezione.
Per un paziente che non ha alcuna nozione di protezione individuale, non sa come siano i guanti o le mascherine, vedere tre o quattro persone che si avvicinano come degli astronauti, fa molta paura quindi è molto importante prima di fare qualsiasi cosa con la protezione individuale spiegare a tutti il perché si utilizzano tali strumenti, che non siamo degli alieni ma siamo delle persone normali… e farsi vedere sia prima sia dopo. Da fuori dici: “Io entrerò, sono il tuo medico, mi vestirò con la tuta per proteggermi e non ti preoccupare non ti faremo niente di male, anzi siamo qui per te e per curarti”.
Ernestina Repetto, infettivologa MSF


In Sierra Leone tra i bambini di Gondama e l’emergenza Ebola
Con Barbara, Kathleen e altri parlo francese. Con Alejandra e Miguel spagnolo. Con Yuma ed Esther qualche parola di swhaili. Inglese tutto il giorno. La babele di lingue e la tastiera inglese non mi aiutano certo a scrivere qualcosa di buono in italiano. Mi chiamo Luca e da quasi due mesi mi trovo nel calore della Sierra Leone. Lavoro come esperto di potabilizzazione dell’acqua (watsan manager) tra l’ospedale pediatrico di Gondama, l’ufficio di Bo e la coordinazione di Freetown. Sono arrivato qui dopo quasi quattro anni tra Congo, Rwanda, Uganda e Perù. Ma ogni missione è unica e speciale. 
L’ospedale pediatrico a Gondama
L’ospedale pediatrico è un progetto di lunga data. Essendo nato come campo profughi non si trova a Bo, la seconda città del Paese, ma a Gondama, un piccolo villaggio a poche miglia dalla città. L’ospedale è a pochi passi dal centro, il mercato.
All’ingresso dei bassi reparti la vita ha la stessa intensità di sempre. Donne che lavano i vestiti dei bambini chiacchierando tra loro a voce alta, uomini seduti in cerchio discutono mangiando da un solo piatto, ragazze giovani con il viso invecchiato si scambiano favori pettinandosi a vicenda. Nonostante i rumori, le grida e i profumi si sente che qualcosa manca. Bambini.
I nostri 200 letti spesso non bastano. Tra i reparti abbiamo rubato spazio per le tende bianche. All’interno le voci restano basse. I pochi bambini che riescono a camminare non hanno ancora la forza per giocare. Restano vicini ai letti, spesso una mano ancorata al ferro bianco per non cadere. 
L’ospedale è l’ultima scelta. Prima c’è la vecchia del villaggio, nel caso abbiano qualche risparmio la curatrice, qualche erba, piccole incisioni sulla pelle per far uscire il male. Sono quasi dieci anni che siamo qui.
In dieci anni una goccia d’acqua può scavare una grotta. Forse le idee sono più dure ma il fatto non cambia. I bambini continuano ad arrivare tardi, spesso troppo tardi. Per fortuna anche la gente che lavora con noi è dura come le idee. Ogni giorno una lotta silenziosa, spesso lunga, a volte contro qualcosa che nemmeno riusciamo a definire. I risultati però arrivano. Li vediamo rincorrere una vecchia ruota tra i muri bianchi dei reparti, li sentiamo ridere e gridare con la voce cristallina che solo i bambini hanno. Momenti che riescono a ripagare tutti gli sforzi fatti, le frustrazioni e i capelli bianchi. 
Emergenza Ebola
Stavo quasi per trovare il mio equilibrio quando è arrivata la notizia. Un caso di Ebola confermato a Koindu. Un piccolo villaggio vicino al confine con la Guinea. Mi viene chiesto di partire con un logista e una dottoressa per valutare la situazione.
La voglia di dimostrare a me stesso di essere un professionista nella giusta organizzazione, la responsabilità che pesa su chi ha gli strumenti per intervenire, un tocco di curiosità e una buona dose d’incoscienza, come direbbe mia nonna, mi convincono ad accettare. Nel giro di poche ore la “filovirus haemorrhagic fever guideline” diventa la mia lettura preferita. Tutta l’esperienza di MSF, dei migliori esperti al mondo, racchiusa in 150 pagine e due soffici copertine rosse.
La stessa sera carichiamo tre macchine per il viaggio. Tutti in ufficio si muovono decisi, efficienti, pronti per sostenerci. Le macchine quasi scompaiono sotto il peso delle tende da campo, centinaia di scatole di medicinali, secchi di cloro e strumenti vari. Non sono ancora passate 12 ore dalla conferma del primo caso e noi siamo pronti. Un team per valutare la situazione e centinaia di articoli per sostenere i piccoli centri di salute coinvolti. 
Dopo quattro giorni di missione tutti quanti concordiamo che la situazione non potrà che peggiorare. I villaggi sono vicino al confine con la Guinea dove da marzo è in corso l’epidemia di Ebola. 
Scopriamo che la presenza del virus in Sierra Leone è dovuta a un funerale. Cosa abbastanza comune in questo genere di epidemie. Alla morte di una famosa guaritrice tradizionale molte donne hanno partecipato al funerale. Qui la tradizione vuole che il defunto venga lavato dai conoscenti dello stesso sesso e che venga commemorato con pianti, abbracciando il corpo. La famosa guaritrice era morta giusto dopo un viaggio in Guinea per assistere una paziente affetta da Ebola. Dagli abitanti dei villaggi veniamo a conoscenza dei nomi delle donne che hanno partecipato al funerale. E qui è iniziata la lotta per fermare l’epidemia. 
Luca, esperto MSF di potabilizzazione dell'acqua in Sierra Leone


giovedì 25 settembre 2014

RAFFAELE TALARICO. UNA TARGA RICORDO PER UN AMICO POETA


Raffaele Talarico


Oggi, in occasione del settimo anniversario della scomparsa del poeta Raffaele Talarico, avvenuta il 25 settembre 2007, sarà apposta una targa ricordo sulla casa di Isca sullo Jonio, in provincia di Catanzaro, dove il poeta calabrese visse gli ultimi anni della sua vita e dove riposano le sue spoglie nel cimitero cittadino.  Alla presenza delle autorità locali (civili e religiose), di amici letterati ed estimatori, l’Amministrazione Comunale darà il via alla cerimonia e ad un ricordo pubblico con testimonianze sulla sua poliedrica personalità. Raffaele è stato amico e collaboratore di “Odissea” e il direttore di questo giornale, un anno dopo la sua scomparsa, (era il 2008), di concerto con la figlia Gio e il genero Gianni Tirelli, anche lui artista multiforme e musicista, aveva promosso (sostenuto da personalità della cultura di Milano, della Calabria, di Genova e di altre città), una iniziativa pubblica perché Raffaele fosse ricordato con una targa sui muri della sua casa. Oggi quel desiderio si compie e noi non possiamo che esserne contenti e dare merito all’Amministrazione Comunale di quella cittadina, per questo prezioso atto di sensibilità.
Riproduciamo qui sulla prima pagina di “Odissea”, la foto della targa e quella del nostro amico poeta.
Angelo Gaccione



martedì 23 settembre 2014

L’Addio all’intellettuale inquieto: Tiziano Salari


Tiziano Salari


Si è spento a Verbania il poeta, critico e saggista Tiziano Salari.
Amico personale e collaboratore di “Odissea”, molti nostri lettori
ricorderanno i suoi incontri a Milano organizzati da noi di “Odissea”
allo Spazio Lattuada in Porta Romana e in altri luoghi della città.
L’amico Franco Esposito, poeta e direttore della Rivista “Microprovincia”,
che di Salari è stato amico Fraterno, ha scritto per noi e per lui, questo ricordo.

Si dovrebbe non credere alla morte
come l’estrema forma di esistere…”

Stresa.  In un momento di profonda tristezza, è impossibile scrivere di una lunga amicizia, ma soprattutto scrivere del grande saggista, del poeta, del grande intellettuale verbanese, della vita da romanzo di Tiziano Salari. Verbania, ma soprattutto tutto il nostro Lago Maggiore, ne sono sicuro, da domani verrà ancor più emarginato a livello nazionale non solo culturalmente, ma spinto verso un “provincialismo” non solo pubblico ma anche privato che da anni ci sta soffocando a poco a poco. Spero mi auguro che niente di Tiziano vada perso, vada trascurato, dimenticato. Tutte le sue inquietudini, i suoi sentimenti, i suoi pensieri, i suoi gesti, le sue parole sempre poco inclini alla disciplina ingombrante di questi ultimi tempi di cenere, vengano tramandati a “futura memoria” perché facciano parte di un deposito a cui attingere tutti noi domani  a piene mani.
Penso che è impossibile conoscere a fondo un uomo, un autore se non si è avuta la possibilità e la pazienza di studiarlo, di potergli parlare spesso e a lungo, di litigare ferocemente anche e soprattutto sulla scelta di autori degni da potergli  dedicare un fascicolo monografico della nostra amata ed alcune volte odiata rivista di cultura: “Microprovincia”, e dopo il bonario sorriso  di assenso leggere nel suo sguardo le malinconie, i segreti dell’amico Tiziano e capire  quello che andava scrivendo in prosa o in poesia. Era questo lo spirito che guidava la sua mente e la sua mano.
Come poeta è stato molto bravo, basta ricordare Alle sorgenti della Manque; forse nella scrittura era estremamente ambizioso e problematico ma in privato era perfettamente conscio della grande differenza, aggiungerei lampante, che correva tra la sua poesia e la magia della sua saggistica.
E Tiziano nel fondo del suo cuore sapeva di essere un grande saggista nato saggista con intuizioni originali su autori universali come Leopardi o Rebora o Giovanni Ramella e altri grandi a cui aveva dedicato uno dei libri più importanti: Sotto il vulcano. Studi su Leopardi e altro.
Tiziano Salari poteva permettersi di essere ambizioso in più campi perché era uno dei pochi in Italia a competere in ogni campo della letteratura, ma non voglio e non posso dimenticare la sua altra grande passione e preparazione per la filosofia, per il suo Spinoza, perché sapeva di essere bravo, di saper usare le parole con grande efficacia anche se più volte lo rimproveravo di essere più semplice nell’esporre i suoi concetti, come se dovesse farsi capire da un lettore comune, da una persona comune. Negli ultimi anni ci ero quasi riuscito. Che fatica!
Mi ricordo che nei nostri lunghi e ultimi colloqui mi voleva quasi convincere che era riuscito a costruire una sua religione personale, quasi pasoliniana, un culto quasi pagano il cui fine era quello di raccogliere e regalare in ogni suo intervento un piccolo dettaglio della sua vita.
A questo punto dovrei raccontare anche della nostra bella e mitica frequentazione lavorativa alla Banca Popolare di Intra e anche qui mi ricordo che nelle infuocate riunioni degli anni Settanta in ogni suo intervento ha cercato sempre di rompere il muro di cartapesta che incontrava non solo con la direzione ma anche con gli stessi colleghi. Come al solito il suo linguaggio era talmente  forbito e profetico che la platea non riusciva a capire il suo sottilissimo fine e allora polemiche e malintesi. Quanti ricordi, caro Tiziano.
Potrei continuare quasi all’infinito, ma vorrei chiudere con un modesto appello, forse meglio con una preghiera alle istituzioni di Verbania, a tutti i verbanesi che amano la cultura che possano scoprire e innamorarsi della sua opera perché possano trovare nei suoi libri tutte le vite e tutte le storie del mondo ma che sono anche le nostre piccole storie di questo nostro angolo di lago.
I gentiluomini fanno parlare di sé soltanto quando muoiono, era solito affermare un mio amico, spero che nel caso di Tiziano Salari venga capovolta questa pessimistica frase.
Addio Tiziano un altro dolore un altro amico carissimo che ci lascia.         
Franco Esposito

      

TRIVELLE  




Roma. La ricerca di greggio nel mare italiano secondo il presidente del consiglio Matteo Renzi è un elemento determinante per giocare un ruolo decisivo nel dibattito energetico internazionale. Opposto il parere di Legambiente che la ritiene, invece, una scelta energetica assurda e scellerata, un ennesimo regalo alle compagnie petrolifere.
A sostegno del proprio punto di vista l’associazione ambientalista cita i dati che il ministero dello Sviluppo economico pubblica annualmente sulle riserve certe di petrolio. Le quantità stimate sotto il mare italiano sono, infatti, di appena 10 milioni di tonnellate, e visto che il nostro consumo annuo è pari a 61 milioni, si esaurirebbero in soli due mesi. Considerando anche quelle presenti nel sottosuolo, si arriverebbe a 82 milioni di tonnellate di riserve certe, anche in questo caso però durerebbero per poco meno di 17 mesi. Numeri che, per Legambiente, sono più che sufficienti a dimostrare l’insensatezza della strategia che il governo si ostina a portare avanti. Senza contare che a richiedere permessi di ricerca e di estrazione sono per lo più compagnie straniere, e che le aree già interessate dalle attività petrolifere occupano una superficie marina di circa 24mila kmq.
Anche sul fronte dell’occupazione, secondo Legambiente il confronto non tiene: investire oggi in efficienza energetica e fonti rinnovabili porterebbe nei prossimi anni i nuovi occupati a 250 mila unità, cioè 6 volte di più di quello che si otterrebbe con le nuove trivellazioni.
“Invece di ragionare su come aumentare la produzione di petrolio nazionale, avremmo potuto mettere in campo adeguate politiche di riduzione di combustibili fossili -dice il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza-  
Ad esempio utilizzando i 4 miliardi euro circa che ogni anno regaliamo al settore dell'autotrasporto, come avvenuto nell’ultimo decennio, per una mobilità nuova e più sostenibile. Di certo avremmo avuto riduzioni della bolletta petrolifera e delle importazioni di greggio ben maggiori e durature rispetto al contributo che possono dare le poche quantità presenti nei mari e nel sottosuolo italiano. Continuare a rilanciare l’estrazione di idrocarburi non ci garantisce nessun futuro energetico.
Se veramente si vuole rompere con il passato -prosegue Cogliati Dezza- e giocare un ruolo strategico nel dibattito energetico internazionale, il premier deve portare ben altri dati nel dibattito internazionale. Partendo, ad esempio, dai dati sulle fonti rinnovabili che con oltre 700 mila impianti hanno garantito un terzo dei consumi elettrici del Paese”.

Alice Scialoja (Legambiente)

Legambiente insiste sulla necessità di restituire voce e possibilità di scelta ai territori e alle popolazioni interessate dalle richieste di estrazioni avanzate dalle compagnie petrolifere. Tra le aree maggiormente colpite dalle trivelle ci sono il mare Adriatico (con 11.944 kmq interessati dalle attività delle compagnie petrolifere, tra cui 2 istanze di concessione, 17 di ricerca e 7 permessi già rilasciati per l’esplorazione dei fondali marini), il canale di Sicilia (dove da 5 piattaforme attive sono estratte 301.471 tonnellate di greggio, il 42% della produzione nazionale a mare, e vi sono 3 richieste di concessione e altre 10 istanze di ricerca), lo Ionio dove oggi non si estrae petrolio ma vi sono 16 richieste per la ricerca di greggio (per un’area complessiva di 10.311 kmq) nel Golfo di Taranto, un’area marina vietata alle attività di ricerca di petrolio fino al luglio 2011. Sono da aggiungere poi i 76419 kmq richiesti dalle società per avviare attività di prospezione, la prima fase di indagine per individuare le aree su cui poi eseguire ricerche più approfondite. Sette le richieste: 3 riguardano l’Adriatico, una lo Ionio, due il canale di  Sicilia e una il mar di Sardegna.
Non a caso la sicurezza delle estrazioni petrolifere off-shore è al centro dell’attenzione dell’Unione europea già dal 2010, dopo il disastro ambientale della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico. La moltiplicazione di queste attività nel Mediterraneo aumenterebbe il rischio di inquinamento da idrocarburi; senza considerare l’impatto che le estrazioni possono avere sulla pesca. Intorno a una sorgente sonora che utilizza airgun, la tecnica geofisica di rilevazione di giacimenti nel sottofondo marino, la diminuzione del pescato può arrivare al 50%.
Ecco perché Legambiente ritiene che l’Italia debba giocare la sua capacità competitiva internazionale promuovendo politiche internazionali di tutela di tutto il mare Mediterraneo invece di seguire le scelte petrolifere di altri Paesi. E, per garantire l’indipendenza energetica al nostro Paese, debba spostare attenzione e risorse su rinnovabili, efficienza e risparmio.

Alice Scialoja - Legambiente

domenica 21 settembre 2014


VERGOGNE ITALIANE


Un condannato per mafia che guadagna più di 4mila euro al mese dallo Stato. Per tutta la vita. Sembra uno scherzo ma è quello che succede davvero nel nostro Paese. Basta una semplice modifica dei Regolamenti del Senato e della Camera per cancellare una vergogna: il pagamento dei vitalizi a senatori e deputati condannati in via definitiva per gravi reati come mafia, corruzione, truffe con fondi pubblici e frodi fiscali.
Più di mezzo milione di cittadini chiedono da tempo a gran voce, attraverso la campagna Riparte il futuro, promossa da Libera e Gruppo Abele, che tutti i dipendenti pubblici e i rappresentanti politici rispettino codici etici più efficaci e concretamente applicati. Chiediamo insieme al Parlamento di votare per la cessazione immediata di qualsiasi erogazione di denaro pubblico nei confronti di chi si è reso responsabile di questa vera e propria violazione dell’articolo 54 della Costituzione, secondo il quale il mandato istituzionale va assolto “con disciplina e onore”.
LIBERA - contro le mafie
Gruppo Abele
Altri sostenitori


Celentano o Carl Schmitt?
di Giovanni Bianchi



Dilemmi
Celentano o Carl Schmitt? La Merkel o Soros? Questo è il problema…
Adriano Celentano, uno dei migliori cantanti del nostro dopoguerra ed anche di maggior successo popolare, non smentisce l'abitudine a intervenire "da vate" delle vicende della politica italiana. L'ultimo titolo apparso su "il Fatto Quotidiano" di martedì 9 settembre è come al solito da subito eloquente: Io, Renzi, Grillo e la "dittatura democratica".
L'intento è quello di rispondere a una domanda non certo riposante: "Cosa ha prodotto la sovranità popolare negli ultimi 50 anni"? Con la specificazione necessaria del gossip istituzionale messo in bocca al premier Matteo Renzi: "Ciò che davvero serve è una "DITTATURA democratica", dove l'approvazione di una legge non dovrà più sottostare all'eterno ping-pong senza uscita fra le due Camere".
Ovviamente ce n'è per tutti, dopo una premessa di furbizia semplice e trasparente, dove quello che un tempo veniva definito "il molleggiato" fa esercizio insieme di umiltà e di rappresentanza illimitata: "Io che sono il re degli ignoranti"... E infatti quel che non manca a Celentano è una vasta informazione dei fatti correnti e "normali", e uno spirito critico insieme vigile e non spocchiosamente specialistico:
"Viviamo in un mondo in cui, come giustamente dice il Papa, è in atto (sia pure a piccoli sprazzi) la terza guerra mondiale. Dove, oltre alle bombe, non mancano i cretini che, per paura di essere dimenticati, sganciano frasi non meno pericolose. Dove i nemici come la Rai, e altrettanto dicasi di Mediaset, bombardano di spot pubblicitari la mente dell'uomo con una frequenza devastante, dove l'INSERTO non è più quello dello spot pubblicitario che interrompe il film, ma al contrario è il film che interrompe la pubblicità con tanti piccoli frammenti di "Ben Hur" distribuiti nella intera serata pubblicitaria. E qui capisci che la guerra è molto più sottile e penetrante. Perché lacera i sentimenti".
È possibile non sottoscrivere?
Celentano tiene insieme con disarmante coerenza la quotidianità della proverbiale casalinga di Voghera con la critica superstite necessaria alla sopravvivenza di queste democrazie a rischio. Ti dice che il pensiero unico è certamente unico ma non-pensiero. E che quindi la democrazia deve essere difesa come uno dei principali se non il principale bene comune.
E neppure manca alla fine – come si addice più al vate che al leader – una accattivante esortazione etico-politica: "E per farlo è necessario che la società popolare  sia investita da un senso nazionale di crisi, non per addentrarsi nei meandri di un incubo, ma al contrario per accomunarci tutti insieme lungo il sentiero della trasparenza e dell'onestà. E questa è una pulizia che deve partire dal popolo".
Perfetto? Perfetto! Perfetto perché non vi troviamo le facili promesse di chi ha dimenticato che il De Gasperi ricostruttore amava ripetere che il politico deve promettere ogni volta un po' meno di quel che è sicuro di mantenere. Perché invita al realismo di chi è in grado di fare una diagnosi di "decadenza" senza indulgere alla depressione, ma anzi invitando alla riscossa e individuando nel popolo il solo soggetto capace. E infatti i fautori delle democrazie con aggettivi non sempre appropriati sembrano talvolta dimenticare che se esistono popoli senza democrazia, non esistono tuttavia democrazie senza popolo. Infine, Celentano ha il buon gusto di non raccontare barzellette al funerale.
Ma perché Celentano?
Perché è l'ultima incursione, fino a questa sera, di un non addetto ai lavori nella vicenda politica italiana. Non si tratta storicamente di una novità, se si ricorda come nel dopoguerra e durante tutto il tempo della Prima Repubblica personaggi non istituzionali siano intervenuti, vigorosamente e non di rado polemicamente, a interrogarsi sulla via e ad indicare il traguardo. Ricordate Pasolini? I suoi saggi corsari sono uno strumento paragonabile a quelli usati in Francia da Zola e Victor Hugo. Ricordate Italo Calvino? Stesso discorso. Insomma anche lui ha l'autorità del outsider autorevolissimo e da sempre legittimato a dire la sua.
La differenza però tra queste nostre giornate politiche e quelle di un tempo è che chi interviene lo fa in una terra oramai di nessuno, dove la segnaletica istituzionale e i recinti organizzativi sono da tempo azzerati senza che nessuno abbia finora posto mano a ricostruirne dei nuovi.
Ho più volte scritto che considero il cardinale Carlo Maria Martini l'ultimo luogo minerario del cattolicesimo democratico italiano. È per questo ruolo che gli ho attribuito che ritorno sovente ai suoi interventi. In uno di essi diceva senza tanti giri di parole: "La politica sembra essere l'unica disciplina che non abbia bisogno di un sapere specialistico. I risultati sono di conseguenza". Ed è su queste conseguenze più che sulle incursioni dei non addetti ai lavori che è necessario riflettere con urgenza.

Il verbo di uno spregiudicato finanziere
È per questo che ritorno ad un saggio del finanziere George Soros sui rischi di frantumazione dell'Europa, pubblicato con il titolo Ultimatum a Berlino. La Germania deve decidere: o guida l'Unione o la lascia, pubblicato nel supplemento "La Lettura" del "Corriere della Sera" di domenica 9 settembre 2012.
Soros, il grande finanziere di origini magiare che ha fatto fortuna negli Stati Uniti d'America, è uomo dal cuore non particolarmente tenero, se tutti possiamo ricordare come una sua manovra speculativa – spietata e per lui vantaggiosissima – fece finire la lira fuori dal cosiddetto "serpentone", costringendo l'allora primo ministro Giuliano Amato alla più pesante finanziaria di tutto il dopoguerra italiano.
Il suo ragionamento tuttavia non manca di acutezza, e non è neppure privo di quel realismo che ha caratterizzato l'intervento del cantante Celentano su "il Fatto Quotidiano".
Osserva anzitutto Soros: "Gli Stati membri sono divisi in due categorie – creditori e debitori – e i creditori sono al comando, con la Germania in testa. Come risultato delle politiche attuali, i Paesi debitori pagano un cospicuo premio di rischio per finanziare i propri deficit di bilancio e questo si riflette nel costo dei finanziamenti in generale. Una situazione, questa, che ha trascinato in recessione i Paesi debitori esponendoli a un notevole svantaggio competitivo, che minaccia di diventare permanente".
Fotografia puntuale, anzi, una perfetta radiografia. Da qui il discorso sulla leadership assente e su una responsabilità da assumere. " La Germania, il maggior Paese creditore, si è trovata ai comandi, ma si è rivelata riluttante ad accollarsi ulteriori perdite e svantaggi: così ogni opportunità per risolvere la crisi è andata perduta. Dalla Grecia, la crisi ha contagiato altri Paesi in difficoltà e ben presto è stata rimessa in questione la sopravvivenza stessa della moneta unica".
Né fa difetto una previsione realistica: "Le misure di politica economica portate avanti sotto la leadership tedesca riusciranno probabilmente a mantenere in piedi l'euro per un periodo indefinito, ma non per sempre. La divisione permanente instauratasi in seno all'Unione Europea tra Paesi creditori e debitori – con i creditori che dettano le loro condizioni – appare politicamente inaccettabile". Qui stiamo ancora, e due anni sembrano essere passati invano.
Le ipotesi e la ricetta di Soros viaggiano di conseguenza: la Merkel dovrebbe offrire condizioni operative paritarie tra Paesi creditori e debitori e puntare a una crescita nominale del 5%. Ma la Bundesbank non accetta troppa inflazione, e quindi la situazione è destinata a languire e corrompersi.


Uno sguardo al passato
Uno sguardo al passato può aiutare rammentando come il processo di integrazione sia stato promosso con forza da un piccolo gruppo di statisti lungimiranti che praticavano un processo di ingegneria sociale "a tassello": così definito da Karl Popper. E Soros annota di suo: "In quel periodo, gli statisti tedeschi affermavano che la Germania non aveva una politica estera indipendente, al di fuori di una politica europea. E questo ha prodotto un'enorme accelerazione del processo di integrazione, culminato con la firma del trattato di Maastricht nel 1992 e con l'introduzione dell'euro". Va anche ricordato che Helmut Kohl ripeteva che in quella condizione la Germania intendeva difendersi da se stessa…
Non lo stesso però aveva nel frattempo fatto la Grecia – corriva al vizio “mediterraneo” del taroccamento dei bilanci – il cui governo fu costretto a dichiarare nel dicembre del 2009 che il suo predecessore aveva truccato i conti e che il deficit dello Stato superava il 15% del Pil. Intervengono a questo punto del ragionamento di Soros sul "Corriere" tutta una serie di considerazioni pertinenti, etiche e linguistiche, e tuttavia attinenti al disastro finanziario dell'antica patria della democrazia.
Soros ricorda, come molti altri, che nella lingua tedesca la parola debito significa anche colpa: Schuld. Un modo abituale di sentire ed una diffusa base culturale che spinge l'opinione pubblica tedesca ad accusare i Paesi periferici più indebitati di essere colpevoli oltreché disattenti e spreconi, e quindi causa morale dei propri mali.
Tuttavia, anche in presenza di questa visione, il "centro" dell'Europa, sempre secondo il finanziere magiaro-americano, non può venir meno ai doveri della leadership e sottrarsi alle proprie responsabilità. Conclusione provvisoria: "Le autorità non hanno capito la complessità della crisi, figuriamoci trovare una soluzione. Pertanto hanno cercato di prendere tempo". Come a dire che l'italo-andreottiano "tirare a campare" non è soltanto italiano e neppure andreottiano.
Ad aggravare la situazione, la Bundesbank è rimasta aggrappata a una dottrina monetaria superata, tuttavia radicata nella storia tedesca per la memoria della spaventosa inflazione seguita alla prima guerra mondiale. Del pari i tedeschi ignorano e sottovalutano la deflazione, che oggi rappresenta il vero spauracchio dell'Europa. Il rigore fiscale germanico ha questa radice, mentre l'avanzare della crisi ha fatto sì che il sistema finanziario in generale si sia progressivamente riorientato su base nazionale.
Non mancano tuttavia segnali positivi, come il sostegno accordato da Angela Merkel a Draghi, che in quella occasione lasciò la Bundesbank isolata nella sua contrarietà. E tuttavia il rigore fiscale continua a spingere l'Unione nella trappola deflazionistica del debito, e se i governi indebitati vogliono ridurre il deficit di bilancio, l'economia si contrae, facendo lievitare il deficit come percentuale del Pil.
Come uscire allora dalla crisi? Secondo Soros l'alternativa è davvero secca: la Germania deve cioè decidere se diventare un egemone solidale o lasciare l'euro! Neppure funziona il discorso delle “due velocità”, perché un'area euro a due livelli finirebbe per distruggere l'Unione Europea, perché i Paesi privati di diritti presto o tardi si ritirerebbero.
Ed inoltre il mercato comune e l'Unione Europea avrebbero potuto gestire il default di un piccolo Paese come la Grecia, ma non potrebbero sopravvivere al distacco della Spagna o dell'Italia…  e ovviamente anche della Francia.
Lo spettro è ancora quello dello sbriciolamento come accadde allo Sme nel 1992 (e detto da Soros mette concretamente i brividi).
Si può dunque biasimare la Germania per le politiche imposte all'Europa, mentre i cittadini tedeschi si sentono ingiustamente incolpati dagli altri popoli europei: ancora una volta i vecchi malintesi regnano sovrani. E forse si tratta di cogliere fino in fondo, scavando addirittura nell'inconscio di una grande nazione, le ragioni della riluttanza alla leadership tedesca.
In presenza dei capolavori tattici di Angela Merkel: che non è soltanto un formidabile leader, ma anche un politico abilissimo che sa come mantenere divisi i suoi avversari.
Secondo Soros, l'Italia  "sembra aver bisogno di un'autorità esterna che le imponga una più attenta gestione dell'economia, e questo spiega come mai gli italiani sono sempre stati talmente entusiasti dell'Unione Europea"...
“In breve –secondo Soros– la situazione attuale è come un incubo da cui si può sfuggire soltanto svegliando la Germania e rendendola consapevole degli equivoci e delle incomprensioni che stanno guidando le sue scelte. Ci auguriamo che la Germania, davanti alla scelta, opterà di esercitare una leadership solidale. In caso contrario, dovrà fare i conti con le perdite che inevitabilmente ne deriveranno".  Come a dire, anche dal punto di osservazione e dall'astuta competenza di un grande finanziere, che il discorso imprescindibile è quello della politica e delle sue visioni.
Ne erano capaci padri fondatori. Ne sembrano molto meno avvertiti gli attuali parlamentari di Strasburgo, che anzi fanno figura, all'indomani di una campagna elettorale condotta anche in Italia con gli stilemi dello strapaese, come la parte elettiva di una appesantita burocrazia europea.


                                                                                             
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