UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

giovedì 31 dicembre 2015

BRANDO VI FA GLI AUGURI DI UN 2016 SERENO E PACIFICO
E VI ESORTA AD EVITARE L’USO BARBARO DEI BOTTI:
LUI NON LI GRADISCE,
NOI DI “ODISSEA” NEPPURE.

Brando con il papillon rosso

mercoledì 30 dicembre 2015

NON PIOVE: GOVERNO STRONZO!
di Angelo Gaccione

Romantica famigliola a passeggio fra smog e polveri sottili

Tranquilli, non cambierà nulla. Il parolaio di Firenze (Matteo Renzi) e il suo governo, hanno già da mesi autorizzato compagnie petrolifere e multinazionali di trivellare fondali marini, coste e terreni di ogni angolo d’Italia alla ricerca di petrolio e metano, e sui veleni dell’Ilva di Taranto avete visto com’è andata a finire. Tranquilli, non cambierà nulla. Sessantamila morti per inquinamento sono una cifra ridicola: il fumo da tabacco ne stende ogni anno venti volte di più. E poi i disoccupati sono milioni e i pensionati una caterva. Per raddrizzare la situazione dell’Inps dovremo far fuori almeno 5 milioni di anziani, e l’inquinamento al momento non permette questo miracolo. Dunque tranquilli.   Se proprio siete allarmati per la vostra salute, fate come il sindaco di Milano Pisapia: confidate nella meteorologia e sperate che piova. A proposito: mi meraviglio che nessuno dei suoi consulenti gli abbia suggerito finora di portare le reliquie di sant’Ambrogio in processione per invocare la grazia.   
                   
Romantico paesaggio urbano con smog, polveri sottili e ciclisti

Tranquilli, non succederà nulla. I soldi del Ministero della Difesa continueranno a sostenere le spese militari, le missioni armate all’estero ed il bilancio della Nato. I tetti delle vostre case e quelli degli edifici pubblici non subiranno traumi con pannelli solari e antiestetici impianti fotovoltaici. Del resto non possiamo dare un dispiacere ad Obama, si offenderebbe. Dunque tranquilli, mangiate il panettone in serenità, perché per i prossimi cinquant’anni potrete continuare a girare con le vostre macchine a gasolio e metano; scaldare a gasolio e metano le vostre case; bruciare i vostri rifiuti con inceneritori alimentati a gasolio; produrre e consumare a volontà. Incrementare i consumi non è l’imperativo categorico del nostro tempo? Ed il benessere della Nazione non si misura dalla quantità di rifiuti che produce, dal trionfo delle sue pattumiere? Tranquilli dunque, incrementate i consumi e consumate. Consumate e consumatevi! Presto la Libia sarà pacificata; più avanti anche la Siria, e ci saranno petrolio e gas in abbondanza da consumare e smaltire: i serbatoi delle vostre macchine e le pance delle vostre caldaie, saranno indispensabili. Tranquilli, potrà accadere che alcuni giorni all’anno, e per qualche ora, magari subito dopo le spese natalizie, se non pioverà per 90 giorni, vi si chiederà di rinunciare alle macchine. Pazienza, in fin dei conti qualche piccolo fastidio si potrà sopportare. E che sarà mai?
La provocazione dell’attualità
di Giovanni Bianchi

Il Quarto è stato
Schermaglie
Anche l'attualità è in grado di provocare. Figuriamoci il passato prossimo. Intorno alle nuove leadership si raduna una antropologia sempre più divisa e divisiva. Naufraghi dell'ideologia e del delirio narcisistico si aggrappano al ruolo come ad ultima tavola di salvezza. Nuove generazioni alla ricerca di un futuro non programmato e quindi introvabile.
Restano gli antichi giudizi sull'italica gente. Continuiamo a mancare di dimensione interiore e di classe dirigente. La corruzione è figlia della mancanza di dimensione interiore. Il ceto politico è figlio della mancanza di classe dirigente. La quale non può essere ridotta ai soli politici. Come non può essere riassunta in una leadership prestigiosa.
Se il problema centrale del Paese è per comune opinione il lavoro, perché non ci concentriamo sulla consistenza e la competenza degli imprenditori? Perché gli antichi padroni delle ferriere, i signori del fordismo, hanno deciso negli anni Ottanta di seppellirsi nel cimitero dorato dei finanzieri? Perché non mettiamo sotto la lente il sistema bancario -anche i banchieri sono classe dirigente-, le sue modalità di intervento in ordine allo sviluppo e al temperamento delle disuguaglianze?  Non sono una lobby di filantropi i banchieri tedeschi, ma il loro rapporto con le imprese sul territorio richiama molto da vicino la prassi che fu delle Casse Rurali ed Artigiane. Insomma le banche tedesche non si sono lasciate tutte risucchiare nell’universo finanziario e nella sua avidità, pur ovviamente avendo di mira, come tutte le banche del mondo, i profitti.
L’ultimo Raul Gardini aveva l’aria di ripetere: la chimica sono io. Se n’è andato tragicamente Gardini ed è sparita la chimica italiana, pur accreditata nelle previsioni di un ruolo preminente nella divisione del lavoro internazionale. C’è dunque un problema di rappresentanza che non riguarda soltanto le istituzioni democratiche. Una democrazia infatti cresce nelle sue rappresentanze civili prima di confrontarsi con la geometria delle istituzioni.  È questo il luogo dove è possibile discernere se ci si trova in presenza di un ceto politico, interessato a perpetuarsi, oppure di una classe dirigente decisa a mettersi in gioco.
Tanto più in uno Stato come il nostro dove, a far data dall’Ottantanove berlinese, è stato azzerato -unico Paese in Europa- tutto il precedente sistema dei partiti di massa.
In tal modo il cittadino italiano vive una condizione nella quale ad ogni tappa parlamentare si ricomincia tornando al punto di partenza, come nel gioco dell’oca. E nel tempo medio-lungo il gioco è destinato ad annoiare e ad allontanare l'elettore. Mentre i residui paretiani delle culture politiche aprono cantieri che si rivelano il Luna Park delle nuove rappresentazioni mediatiche.
Quel che si è confuso è una distinzione proposta negli anni Sessanta da Francesco Alberoni, in un suo dimenticato libro dal titolo L’élite senza potere.[1] Un saggio tuttora utilissimo perché opera una distinzione preziosa tra la leadership politica e il divismo.
Il leader è dotato di autorità, di carisma, deputato a governare. Il divo domina l’immaginario, affabula, non governa, è circondato di enorme simpatia e gli viene consentita la trasgressione.
Una distinzione evidentemente superata dai fatti. Gli idealtipi e i personaggi si sono mischiati, con nessun vantaggio per il leader politico, chiamato a confrontarsi con competitori anomali su terreni per lo più impolitici.


Il punto di svolta, o se si vuole la “frattura”, in Italia la produce Marco Pannella con la candidatura e l’elezione al Parlamento nel 1987 di Ilona Staller, in porno-arte Cicciolina. Anche in questo caso l’elezione della Staller farà tendenza e aprirà autostrade più impolitiche che politiche. Non a caso avremo da allora una sempre maggiore presenza degli uomini di spettacolo in politica, sia con teatri e trasmissioni dedicate alle vicende nazionali correnti, sia con la presenza sul terreno della rappresentanza di attori e soprattutto comici.
È anche utile dire che non si tratta di un fenomeno soltanto italiano. Una imitatrice di Cicciolina interessò qualche anno fa le cronache politiche spagnole, mentre il caso più clamoroso è quello del “pagliaccio Tiririca” in Brasile, approdato al Parlamento di Brasilia con 1 milione e 750 mila voti di preferenza e con un programma molto sintetico: “Non so cosa facciano in Parlamento, ma se mi eleggerete ve lo spiegherò giorno per giorno”.
È anche per questa ragione che è esplosa, in particolare nel nostro Paese, la discussione intorno al rapporto tra politica e antipolitica, spesso dimenticando che il confine tra politica e antipolitica è un confine estremamente poroso, ossia percorribile nei due sensi.
Non solo le culture politiche si sono progressivamente sfarinate, ma appaiono inutili i volenterosi tentativi di ricostituirle. E un bilancio oramai doveroso pare dire che le perdite sono superiori ai guadagni.
L’incontenibile chiacchiera sulle regole non riesce infatti ad occultare il problema dei soggetti politici, che fu seriamente e tragicamente centrale in tutta la Lotta di Liberazione. Basterebbe a convincerci una rilettura veloce delle lezioni moscovite di Togliatti ai quadri dirigenti del Pci sugli strumenti del consenso messi in campo dal regime mussoliniano.
Usciamo da due decenni di ingegnerie istituzionali sulle regole ed è venuto il tempo probabilmente di occuparci con più attenzione dei soggetti politici chiamati a scendere in campo per giocare la partita. Le nuove leadership si collocano indubbiamente alla fine delle culture politiche e si presentano come emergenti da questa fine, non essendo certamente la causa della fine. Vincono lungo strade inedite, perché rompono con "l'eccesso diagnostico" (l'espressione è ancora di papa Francesco) e con la democrazia discutidora proponendo agli elettori il decisionismo dell'esecutivo.
Questo è il "bene" in nome del quale anche i più avveduti hanno scelto di rinunciare alle discussioni circa il "meglio". Un’apertura di credito che tuttavia non può durare a lungo soltanto con questa motivazione e che assomiglia sempre più al tifo sportivo: da una parte con Pierluigi Bersani i fans del Grande Torino, e dall'altra con l'ex sindaco di Firenze i fans della Nuova Fiorentina. Il problema che si pone è il solito: quale sia il luogo dal quale guardare alla fase attuale, alle tensioni che l'attraversano e agli esiti possibili. Avviare a soluzione questo problema non è un quesito astratto, perché ne discende insieme la sensatezza e l'efficacia del prendere posizione.


Il dilemma delle forme del politico
Tutto il discorso sulla Resistenza, sulla sua ampiezza, sulla capacità di coinvolgimento e sui soggetti, ma anche sui numeri, sulle classi, sui territori, sui ceti sociali, sui mondi regionali italiani come sul mondo cattolico, non può prescindere da alcuni concetti perfino elementari che il dibattito della politica politicante ha abbondantemente dimenticato.
Si tratta di ripetere che anche nella turboglobalizzazione non si entra come cittadini del mondo, ma con diverse e storiche identità nazionali. Se dunque non ci può essere patria senza popolo, ci può essere politica senza popolo?
C'è una crisi nelle forme del politico italiano della quale sembra doveroso preoccuparsi. È per questo che non si critica, non si prende posizione, ma ci si schiera come tifosi. Si può ad esempio lanciare l'idea di un "partito della nazione" senza interrogarsi su a che punto siamo in quanto italiani del 2015 con l'idea di nazione. Si può fare una politica popolare a prescindere da un qualche idem sentire in quanto popolo?
Dovrebbe oramai essere a tutti chiaro, dopo tante prove e tanti scacchi, che non è possibile fare politica soltanto a partire dalle regole. Il problema infatti restano comunque i soggetti. E pare oramai dimostrato che le regole in quanto tali non sono maieutiche dei soggetti.
Si è puntato sempre a cambiare le regole del gioco; i soggetti restano latitanti e quindi impossibilitati a giocare. Non è stata breve la stagione nella quale ci si è affaticati con l'ingegneria delle leggi elettorali a strutturare quello che un tempo veniva chiamato il quadro costituzionale e in generale tutto il campo delle presenze politiche lungo un viale che conducesse al bipolarismo.
Ci fu poi il tempo del partito "a vocazione maggioritaria", figlio di una teologia politica che ho sempre faticato ad intendere. E adesso la prua della politica italiana sembra dirigersi verso una formazione politica a vocazione egemonica, pensata come partito dalla nazione.
Ma anche qui torna comunque la domanda: ci può essere una nazione e un partito della nazione senza popolo? Non è necessario avere letto tutti i libri di Asor Rosa per essere inseguiti da un simile dubbio.
Chi lavora al popolo? I partiti non erano per Mortati, Capograssi, e anche per Togliatti il civile che si fa Stato? Era completamente fuori strada il leader del Pci quando sosteneva che quella italiana era una Repubblica fondata sui partiti, chiamati a surrogare una endemica debolezza dello Stato? Non erano in molti ad essere preoccupati della scarsa solidità delle nostre istituzioni, con la conseguenza del nostro tardo e lento farci nazione? Dove condurrà questo scialo di discorso politico disinteressato al senso storico e improntato a una sorta di marinettismo pubblicitario?


L'anniversario del 25 Aprile
Ha seminato perplessità la "leggerezza" del messaggio del governo e del parlamento sul settantesimo anniversario del 25 Aprile. Tutt'altro discorso dal Quirinale, quello antico e quello nuovo. Sergio Mattarella è risultato presente, puntuale, perfino didattico ed esauriente. Si è lasciato alle spalle una laconicità che pareva fare da contrappeso alle esasperate eccedenze del dibattito politico. L'intervista al direttore di "la Repubblica" è un saggio di spessore insieme storico e politico, e può ben costituire una mappa di lavoro.
Altrettanto ha fatto Giorgio Napolitano sul "Corriere della Sera", anche in questo caso evitando inutili celebrazioni per andare al nocciolo politico della storia e del problema.
Non lo stesso si può dire dei politici di nuova generazione, ininfluenti o assenti, forse perché la Resistenza non entra facilmente in un tweet o perché gli importa il potere e il suo esercizio più delle ragioni che consentono e consigliano il governo.
Eppure è un grave errore dei populismi e della politica in generale senza fondamenti questo disinteresse per le radici e soprattutto per le soggettività storiche. Così si riduce il messaggio politico a una sorta di fiera del bianco programmata dal vicino centro commerciale, dando l'aria di affidarsi a una fragile visione delle cose e del nostro futuro di nazione chiamata a costruire Europa.
Senza soggettività c'è solo pubblicità vincente, ma gli annunci pubblicitari non durano a lungo e non supportano una politica resistente nel lungo periodo. Va detto che sui contenuti resistenziali imposti dall'anniversario si è invece impegnata la ministra della Difesa Roberta Pinotti, che è arrivata ad inventare la premiazione dei partigiani superstiti assistiti da compite crocerossine in divisa, in una commovente cerimonia svoltasi al Ministero.

J. L. Borges
Un inedito che fare
Era Borges che scriveva: "Se potessi vivere un'altra volta comincerei a camminare senza scarpe dall'inizio della primavera e continuerei così fino alla fine dell'autunno. Farei più giri in calesse, contemplerei più albe e giocherei con più bambini, se avessi un'altra vita davanti a me. Ma come vedete, ho già ottantacinque anni e so che sto morendo". Appunto questo è il problema: sì, la vita bisognerebbe viverla due volte... Ma intanto?
Intanto è importante rendersi conto dei termini e delle stagioni in disuso. Tenere nel contempo le distanze dall'apocalittica e dall'iperbole.
Bisogna piuttosto avere il coraggio di riflettere sull'ironia della storia: la storia è siffatta che arriva talvolta a dare ragione a chi mezzo secolo prima si trovava con i piedi nel torto.
A che punto siamo nella fase in cui tutti siamo congedati dal Novecento?
Tutte le politiche in campo prescindono dal "progetto", come figura montiniana del pensare politica. Queste politiche muovono infatti da due cesure.
Si è già osservato che dopo l'Ottantanove l'Italia è l'unico paese al mondo ed in Europa ad avere azzerato tutti i partiti di massa. In secondo luogo l'ingresso del Partito Democratico italiano nella famiglia socialdemocratica europea chiarisce due cose: le culture politiche non organizzate svaniscono e si suicidano (Toynbee); non ci sono nodi gordiani da tagliare, si tratta piuttosto di prendere nota che i nodi non esistono più.
Tutto si muove all'interno di una polarità rappresentata dalla governabilità da una parte e dalla democrazia dall'altra. La tensione tra i due poli continua ad essere forte e i populismi ed i decisionismi stanno piegando il bastone tutto dalla parte della governabilità.
Orbene è chiaro che una democrazia senza governabilità fa deperire se stessa e si autodistrugge. Ma è anche vero che può darsi governabilità senza democrazia.
Il fatto curioso della fase è che una comunicazione onnivora riesce tuttavia a mantenere al proprio interno e nei rapporti con la pubblica opinione gli arcana imperii, con accordi e patti tra gli attori il cui contenuto viene tenuto segreto ai cittadini, chiamati a constatarne gli effetti e a schierarsi secondo la propria opinione. Ha ragione Christian Salmo: "Governare oggi vuol dire controllare la percezione dei governati".
La sindrome di Pasolini colpisce la democrazia: "Hanno considerato "coraggio" quello che era solo un codardo cedimento allo spirito del tempo". È bene collocarsi oltre l'eccesso diagnostico, ma è anche bene chiedersi quanto può durare la scelta ogni volta del bene invece del meglio.


Il compito preliminare
Costruire un punto di vista (condiviso) è sempre il compito preliminare. C'è chi auspica la redazione di un nuovo Codice di Camaldoli, non solo tra i cattolici democratici. Un problema di progetto e di programma che ovunque l'esperienza suggerirebbe di affrontare prima e oltre le alleanze, perché gli interlocutori non possono essere prefabbricati sul piano teorico. Ma allora, dove siamo? E soprattutto, chi siamo?
In mezzo c'è tutta la fase politica; quella "transizione infinita" che Gabriele De Rosa evocò negli anni Novanta e che stiamo tuttora attraversando. In mezzo c'è l'Ottantanove, la caduta del Muro e l'azzeramento in Italia dei partiti di massa.
Tornano i fondamentali della nostra storia nazionale: Togliatti che ripeteva che la nostra era una Repubblica fondata sui partiti; l'avvertenza che non esiste cultura politica se non organizzata. E adesso che si sono consumate tutte le culture politiche del Novecento?
Insomma, tocca ancora una volta constatare che resta in giro qualche richiamo della foresta, ma non ci sono più le foreste: per nessuno. Tutte le politiche che abbiamo di fronte sono "senza fondamenti", anzi lo dichiarano apertamente. Non hanno e non cercano un progetto, ma presentano una leadership decisionista e vincente. Le puoi giudicare solo a posteriori, dagli effetti, e non per rapporto a un disegno preventivamente esaminato.
Tutto si muove all'interno della polarità governabilità/democrazia. Senza governabilità -vale la pena ribadirlo- la democrazia deperisce e muore. Ma inquieta la circostanza che ci può essere governabilità senza democrazia. E se in questo quadro si fa ineludibile il confronto con il lascito, reale e costituzionale, della Lotta di Liberazione, la prima cosa da fare è misurare le distanze in questa fase dal sentimento del tempo di allora. La storia e le sue fasi non ritornano, ma le epoche -questo il suggerimento del solito Le Goff- sono destinate a dialogare tra loro.

Note
¹Francesco Alberoni, L'élite senza potere. Ricerca sociologica sul divismo, Vita e Pensiero, Milano 1963.  

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martedì 29 dicembre 2015

Riceviamo da Parallelopalestina
ROMA. QUANDO LA LIBERTÀ FA PAURA

Davide e Golia
È appena accaduto a Roma un grave atto di censura e di boicottaggio a proposito della presentazione del libro: «Sionismo, il vero nemico degli ebrei» di Alan Hart

Coinvolti:
ANPI Milano
ANPI Roma
Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell'ANPI
Comunità ebraica romana
Diego Siragusa, studioso del Medio Oriente, autore della traduzione del libro
Giorgio Gomel, gruppo Martin Buber, ebrei per la pace
Marco Cavallarin, AnpiLibri di Milano
Marco Ramazzotti, della rete ECO, Ebrei Contro l’Occupazione
Nando Tagliacozzo, studioso della Shoà
Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Roberto Cenati, Presidente dell’ANPI Provinciale di Milano
Roberto Jarach, Vice Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Sezione dell'ANPI di Roma “don Pietro Pappagallo”
Susanna Sinigaglia, intellettuale ebrea, della rete ECO, Ebrei Contro l’Occupazione

I fatti:
https://invictapalestina.wordpress.com/2015/12/04/anpi-partecipa-allattentato-contro-la-liberta-3-atti-per-scrivere-una-pagina-vergognosa/

APPELLO
https://invictapalestina.wordpress.com/2015/12/26/osservazioni-e-appello-allanpi-nazionale/

Bambini contro carri armati
OSSERVAZIONI CRITICHE SUL DOCUMENTO PROGRAMMATICO PER IL 16° CONGRESSO NAZIONALE DELL’ ANPI, prendendo spunto dal recente episodio di censura e boicottaggio in tema di sionismo a Roma.

Nel documento programmatico l’ANPI rivendica la propria autonomia, di cui si dichiara orgogliosa. Siamo certi di questa autonomia? Nei confronti delle Comunità ebraiche sembra di potere rispondere di no; l’ANPI è apparsa sempre subalterna, sino al recente caso di Roma in cui ha fatto propria l’accusa di antisemitismo mossa nei confronti di un libro senza neppure verificarne la fondatezza. E’ talmente rituale e scontata l’accusa di antisemitismo nei confronti di qualsiasi critica allo Stato di Israele che si dovrebbe essere più cauti nella adesione alla accusa.
Un breve riassunto di quanto accaduto a Roma.
La sezione ANPI di Roma “Don P. Pappagallo” organizza nella propria sede per il 7 Dicembre la presentazione del libro di Alan Hart “ Sionismo, il vero nemico degli ebrei”. Trattasi del primo dei tre volumi che costituiscono l’opera completa di Hart sul tema. E’ prevista la partecipazione del traduttore e autore della prefazione, Diego Siragusa, e di tre ebrei: Giorgio Gomel, del gruppo Martin Buber ed Ebrei per la pace; Marco Ramazzotti Stockel, della rete ECO (Ebrei contro l’occupazione) e Nando Tagliacozzo. La Comunità ebraica accusa subito il libro di antisemitismo. Prima della iniziativa si ritirano Gomel e Tagliacozzo, che pure avevano dato la loro disponibilità, tanto da essere indicati nelle locandine (è lecito il sospetto di pressioni nei loro confronti, in assenza di loro giustificazioni). Conferma la presenza Ramazzotti Stockel.
Interviene nella vicenda Roberto Cenati, Presidente dell’ANPI provinciale di Milano, scrivendo a Roberto Jarach, vice Presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, ed esprimendo solidarietà alle Comunità ebraiche e critiche all’ANPI Provinciale di Roma.
Interviene a sostegno di Cenati anche il curatore di ANPIlibri, Cavallarin, che manifesta la propria solidarietà al Presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche Gattegna. L’accusa rivolta al libro è, come detto, quella di antisemitismo ma Cavallarin ricorda anche un intervento di Smuraglia su ANPINews in cui questi afferma che “l’ANPI è contrario anche a manifestazioni di antisionismo”.
Interviene, infine, il Presidente Smuraglia a sancire definitivamente la presa di posizione dell’ANPI.
A questo punto l’ANPI Provinciale di Roma, in accordo con la sezione Pappagallo, cancella l’iniziativa. La presentazione avviene ugualmente in altra sede, il salone della Comunità di base di S. Paolo, presenti Siragusa e Ramazzotti. Per ulteriori dettagli e per formarsi una opinione propria si può consultare il sito di Invicta Palestina che riporta per esteso tutti gli interventi e una interessante recensione del libro di Susanna Sinigaglia, sostanzialmente favorevole al libro, immune da ombre di antisemitismo. Il giorno successivo il libro è presentato alla Fiera del libro di Roma; gli organizzatori della Fiera ricevono pressioni perché la presentazione sia annullata ma non cedono, anzi, inviano propri osservatori che, al termine, riferiscono che non vi è stata traccia di antisemitismo né nelle relazioni né nel corso del dibattito.

Pietre contro proiettili
Sono molti gli ebrei intervenuti in questa vicenda e l’ANPI dovrebbe innanzitutto chiedere conto a loro: non tanto ai due che hanno subito le pressioni, quanto all’editore Zambon, ebreo; a Sinigaglia, ebrea; a Ramazzotti, ebreo. Forse qualcosa avrebbe da chiedere anche all’ebreo Gomel: come mai non è considerato “fratello”, insieme a Moni Ovadia, dalla Comunità ebraica (vedi striscione pubblicato su Invicta Palestina)? Il documento programmatico accenna alla Palestina in un rapido passaggio: “…la situazione della Palestina, di cui si parla meno, è lì ancora grave come un macigno“. Nulla oltre questa constatazione. In altro punto il documento ammette che in tema di diritti umani “l’azione dell’ANPI è più contenuta”. Sorge un dubbio: se fosse meno contenuta che cosa avrebbe da dire l’ANPI sulla quotidiana violazione dei diritti umani (e del diritto internazionale in genere) da parte di Israele? Come potrebbe farlo senza correre il rischio di essere tacciata di antisemitismo?

Eroe israeliano armato contro ragazzino palestinese a mani nude
La sinistra legge i libri e, se del caso, li critica. Erano i fascisti e i nazisti a bruciarli. Saremmo curiosi di sapere chi tra gli intervenuti nella vicenda romana ha letto il libro o quantomeno le 13 pagine di prefazione (è stato affermato addirittura che l’antisemitismo emerge già dal titolo !!).
La vicenda del libro di Hart ripropone, all’evidenza, l’annosa questione della autonomia dell’ANPI, in particolare dalla Comunità ebraica. Ma anche dal PD. Che c’entra il PD? c’entra. Si pensi solo al vergognoso discorso di Renzi alla Knesset nel quale non ha fatto alcun riferimento, neppure con frasi di circostanza, al popolo palestinese. Per non dire dell’abbraccio affettuoso con Netanyahu che guida il governo più di destra della storia di Israele (non bastava una stretta di mano?).
Nel Giugno 2014, inoltre, si è verificato a Milano un caso analogo a quello di Roma. A chiedere inutilmente l’annullamento della presentazione del libro di Livia Rokach (sempre con l’accusa di antisemitismo) è questa volta un esponente della Comunità ebraica milanese che è anche consigliere comunale del PD, Ruggero Gabbai. Così come consiglieri comunali del Pd di Livorno sono i signori Caruso, Martelli e Ciampini i quali, già firmatari di una mozione (approvata) per realizzare un gemellaggio tra Livorno e Gaza city finalizzato alla solidarietà umanitaria con un popolo allo stremo, hanno poi presentato, su sollecitazione della locale Comunità ebraica, una nuova mozione per bloccare l’avvio del gemellaggio in questione. Se fosse una pièce teatrale si potrebbe sorridere, invece è quanto accade in seguito a pressioni sempre più diffuse che fanno leva sulla pretestuosa quanto infamante accusa di antisemitismo. La stessa che è stata usata anche a Trieste e che ha indotto il sindaco a ritirare il patrocinio comunale da un importante convegno su richiesta dell’ambasciatore israeliano (ritiro avvenuto a cinque giorni dall’evento, programmato ed organizzato da mesi con la stessa Amministrazione comunale). Altre situazioni simili si sono verificate in diversi casi analoghi e questo è inquietante perché rende chiaro che le pressioni esercitate inducono a bavagli o, peggio, ad autocensure, che certamente non possono convivere con la cultura, la finalità e lo spirito dell’Anpi.
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Carri armati contro mani nude di bambino
Prendendo spunto da queste vicende ci chiediamo: la politica della dirigenza ANPI è veramente espressione dell’opinione degli iscritti? In quanti vi si riconoscono? Parliamo usando il termine generale “politica” perché facciamo riferimento non solo al tema del sionismo ma anche ad altri temi su cui l’ANPI è male schierato o bene schierato ma solo a parole. Un popolo lotta da quasi 70 anni contro una continua espropriazione e una brutale occupazione militare e l’ANPI sta con l’occupante? Assimilare l’antisionismo all’antisemitismo e fingere di credere alla soluzione “due popoli due Stati” vuol dire schierarsi con l’occupante. Il popolo della Valsusa lotta da oltre 20 anni contro un’opera costosa, inutile e dannosa e l’ANPI nazionale sta con i costruttori e i repressori ? Il documento dice che l’ANPI non può partecipare a tutte le battaglie. Certo, ma può prendere posizione sulle lotte più importanti, esprimere solidarietà ed appoggiare quelle sezioni che, più direttamente coinvolte per ragioni territoriali, partecipano attivamente alla lotta.
Il documento riconosce che l’ideologia nazista torna a farsi strada in modo prepotente (è di questi giorni la notizia che in Ungheria il governo sta per dedicare un monumento a un ministro filonazista, responsabile della deportazione degli ebrei ungheresi!).
 Fascisti e nazisti scendono sempre più frequentemente in strada anche qui da noi (vedi il recente convegno degli Hammerskin a Rogoredo) e tutto quello che sa fare l’ANPI è chiedere alle “Autorità” che vietino le manifestazioni, invece di mobilitare i propri iscritti.

Eroe israeliano contro bambino palestinese

L’ANPI ha molte tessere ma pochi militanti. Questo è un tema ricorrente nei congressi ma non si vedono cambi di rotta perché manca una autocritica profonda che restituisca autonomia di pensiero e di azione all’ Associazione. A questo aspetto è collegato anche il problema dei giovani, nota dolente toccata nel documento. Si dice che occorre rafforzare il rapporto coi giovani. Ma i giovani politicamente sensibili ed attivi a sinistra si muovono sulla Palestina (con quel che ne consegue in tema di diritti umani e diritto internazionale violati); su No Tav (con quel che ne consegue in tema di democrazia dal basso e crisi di rappresentanza); su antifascismo militante, che non vuol dire contrapposizione violenta ma neppure mera richiesta a questori e prefetti, spesso silenti quando non conniventi. Senza un chiaro impegno dell’ANPI su questi temi come si può pensare di raggiungere i giovani e di coinvolgerli sui temi storicamente propri dell’ANPI?
Non si tratta di “ farsi tirare la giacchetta” ma, al contrario, di tirare la giacchetta a chi si muove ma fuori dall’ANPI. Auspichiamo un franco dibattito congressuale su questi temi.
Nota.
Per agevolare il dibattito in sede congressuale si suggeriscono le seguenti letture strettamente in tema.
1) Gli scritti e gli interventi delle organizzazioni ebraiche antisioniste (la galassia di "Not in my name"; coloro che chiedono la cancellazione del nome dei loro congiunti dallo Yad Vashem...) o di singole persone di religione ebraica (particolarmente severe le parole di Nurit Peled).
2) La lettera del 10/8/2002 di Marek Edelmann in occasione del processo contro il comandante Marwan Barghouti, lettera in cui lui, ebreo, già membro del Bund, già vicecomandante nella insurrezione del Ghetto di Varsavia, scrive ai combattenti palestinesi riconoscendone la qualifica di partigiani.
3) Il libro "Indignatevi" di Stephane Hessel, di padre ebreo, uno degli autori della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo; su 25 pagine di libro, ben 4 sono dedicate alla Palestina, con questa conclusione . "...quando i mezzi militari di chi ti occupa sono infinitamente superiori ai tuoi, la reazione popolare non può essere soltanto non violenta."
A proposito del punto 2 è bene ricordare che l'art. 2 dello Statuto ANPI prevede tra gli impegni quello di mantenere vincoli di fratellanza coi partigiani di ogni dove. In specifico per l'ANPI di Como è il caso di ricordare che in occasione del funerale di Vittorio Arrigoni è intervenuto un rappresentante dell'ANPI di Como che ha comunicato, tra gli applausi, la decisione di dedicare quel 25 Aprile a Vittorio e al suo impegno per la causa palestinese. Gli smemorati vadano a rileggersi il libro di Vittorio. Concludiamo con Ben Gurion, uno dei padri fondatori di Israele: "Ci sono stati l'antisemitismo, i nazisti, Hitler, Hauschwitz, ma loro in questo cosa c'entravano? Essi vedono una sola cosa: siamo venuti ed abbiamo rubato loro il Paese ; perché dovrebbero accettarlo?".
È il caso infine di ricordare che anche in tema di "NoTav" circolano molti appelli all'ANPI nazionale di molte sezioni, prevalentemente piemontesi, a sostegno della lotta del popolo della Valle (per inciso: è caduta pochi giorni fa definitivamente la ridicola accusa di terrorismo).
Per adesioni mandare una mail a: segreteria@invictapalestina.org
con oggetto: aggiungi la mia firma all’appello ANPI

Eroe israeliano contro mamma e bambini palestinesi
Primi Firmatari:
Ugo Giannangeli, tessera Anpiseprio 78920
Beppe Orlandi, tessera Anpi sez. Varese 53715
Filippo Bianchetti, Anpi Varese, tessera 52064
Fiorella Gazzetta Tessera ANPI 52063 Varese
Claudio Luigi Castiglioni, Anpi Saronno, tessera 102234
Rosario Citriniti, Anpi Catanzaro, tessera 85311
Giuseppe De Luca, Presidente Anpi Seprio
Giuseppe Orlandi, Anpi Varese, tessera 53715
Ivo Batà, direttivo provinciale Anpi Lodi, tessera 66258
Susanna Casali, Anpi Lodi, tessera ...
Pina Fioretti - Venezia
Shaden Gazal
Gabriella Grasso - Milano
Patrizia Cecconi - Roma
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PRIMO VOLO PER IL DRONE NATO DI SIGONELLA
di Antonio Mazzeo

Drone
Primo test di volo di uno dei cinque droni previsti dal nuovo programma AGS - Alliance Ground Surveillance della NATO che avrà come centro di comando e controllo la base aerea di Sigonella in Sicilia. I manager del colosso statunitense Northrop Grumman hanno annunciato che il velivolo senza pilota, modello “Global Hawk” ammodernato, è decollato il 19 dicembre scorso dalla base californiana di Palmdale; dopo aver raggiunto i 40.000 piedi d’altezza, il drone è atterrato due ore e mezzo dopo nella grande base dell’US Air Force di Edwards, anch’essa in California.
“Si tratta di un passo significativo perché la NATO possa conseguire le sue piene capacità operative nel campo dell’intelligence, della sorveglianza e del riconoscimento”, ha dichiarato Dietmar Thelen, responsabile della NATO Alliance Ground Surveillance Management Agency (NAGSMA), l’agenzia che sovrintende al programma AGS. “Il nuovo sistema consentirà all’Alleanza di acquisire e analizzare dati e informazioni, assicurando la sorveglianza in tempo reale su ampie zone, da una grande altezza e in ogni condizione ambientale e meteorologica. L’AGS fornirà un quadro completo delle condizioni del campo di battaglia”.
“Il successo del volo ha confermato la validità e il perfetto funzionamento dei sistemi di controllo e di volo del sistema AGS della NATO, sei medi dopo che il velivolo senza pilota è stato presentato al pubblico”, ha dichiarato Rob Sheehan, manager di Northrop Grumman. “Il Global Hawk, in funzione con l’aeronautica e la marina militare degli Stati Uniti d’America, ha già dimostrato di essere capace di adempiere alle sue funzioni d’intelligence, sorveglianza e riconoscimento in Iraq e durante i recenti attacchi aerei in Siria contro lo Stato islamico. L’AGS - Alliance Ground Surveillance supporterà un ampio ventaglio di missioni NATO come la protezione delle forze terrestri e delle popolazioni civili, il controllo delle frontiere, la sicurezza navale e l’assistenza umanitaria”.

Portaerei
Il prossimo impegno per l’azienda produttrice dei Global Hawk versione AGS sarà quello d’integrare e mettere in rete i diversi apparati radar e sensori assegnati ai velivoli senza pilota, come ad esempio il nuovo sistema avanzato Multi-Platform Radar Technology Insertion Program (MP-RTIP), che consentirà di individuare e tracciare in ogni momento tutti gli oggetti in movimento e di fornire ai comandi NATO le immagini dei campi di battaglia e delle potenziali aree di crisi. “L’integrazione dei sensori e i test a terra saranno realizzati nei prossimi due mesi”, ha aggiunto Rob Sheehan. L’azienda statunitense prevede di trasferire i primi droni nella main operating base di Sigonella entro la fine del 2016, mentre per l’avvio delle operazioni del sistema AGS NATO si dovrà attendere il 2017. “La principale stazione operativa del sistema di sorveglianza terrestre – ha concluso il manager di Northrop Grumman - sarà supportata a Sigonella da due stazioni terrestri mobili e trasportabili che assicureranno la connessione dei data link, il processamento delle informazioni e lo sfruttamento delle funzioni del sistema da parte di molteplici usuari”.
I cinque “Global Hawk” AGS che opereranno dalla base siciliana saranno i primi velivoli acquistati direttamente dalla NATO dopo gli aeri radar AWACS entrati in funzione con la NATO Airborne Early Warning & Control Force ai primi anni ‘80. Al programma AGS NATO, il più costoso nella storia dell’Alleanza (1,7 miliardi dollari secondo le previsioni del 2008), hanno contribuito finanziariamente però solo 15 paesi alleati: Bulgaria, Danimarca, Estonia, Germania, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia e Stati Uniti.
Drone o bombardiere?
Tra le aziende contrattate dalla statunitense Northrop Grumman per la realizzazione delle componenti aeree e terrestri dell’AGS compaiono, tra le altre, Airbus Defence & Space, EADS Deutschland GmbH (Cassidian), Kongsberg e l’italiana Selex Es (Finmeccanica). Nelle scorse settimane le industrie partner hanno consegnato le apparecchiature e le attrezzature destinate al segmento terrestre del nuovo sistema di “sorveglianza” dell’Alleanza. Il 5 novembre, Airbus Defence & Space ha testato l’operatività del Mobile General Ground System (MGGS) a Immenstaad (Germania). Il 3 dicembre, Selex ES ha invece verificato nel proprio stabilimento di Torino Caselle le modalità di funzionamento delle stazioni terrestri trasportabili (Transportable General Ground System - TGSS). L’azienda del gruppo Finmeccanica è stata contrattata inoltre per la progettazione e la realizzazione della centrale operativa di Sigonella e degli apparati di comunicazione e trasmissione dati e immagini, per un valore complessivo di 140 milioni di euro.

Missile
“Il programma AGS non è soltanto militare, ma consente la sorveglianza anche per scopi umanitari: basti pensare al problema del trasporto illegale dei migranti”, ha dichiarato Fabrizio Giulianini, amministratore delegato di Selex Es. “Si potranno assistere le popolazioni civili, migliorando la gestione delle crisi e degli aiuti in situazioni di emergenza. Ma Selex Es guarda già avanti, in particolare a tutti i programmi di supporto logistico che saranno indispensabili quando Sigonella sarà interamente operativa. Ovviamente è ancora prematuro valutare le ricadute economiche per l’azienda di Finmeccanica, poiché devono essere definiti i limiti e le particolarità della nuova fase. Ma, in ogni caso, essa sarà estremamente positiva per lo stabilimento di Torino Caselle dove operano 350 persone che hanno rappresentato il cuore del programma NATO AGS per la parte italiana. Sostenuti anche dagli oltre 16 mila lavoratori dell’azienda nelle altre sedi e dalle aziende coinvolte in Bulgaria e Romania”.
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lunedì 28 dicembre 2015

IL DESTINO DI 1 MILIONE DI MQ
DECISO NEL SILENZIO PIÙ TOTALE
Milano. Bovisa in pericolo. Il solito tentativo di colpo di mano,
per divorarsi un’altra fetta di città.

Opificio alla Bovisa
Care e cari,  
oltre alle aree degli ex scali ferroviari, molti spazi della nostra città sono oggetto di progetti urbanistici che segneranno il futuro della qualità della vita dei/delle Milanesi. È utile conoscerli per non lasciare ai così detti 'tecnici' decisioni che hanno a che fare soprattutto con la politica. Molti Auguri per il Nuovo Anno che si prospetta cruciale sia per il paese che per la nostra città.
Anita Sonego

Un preliminare di progetto urbanistico secretato, di cui gli organi collegiali del Politecnico prendono atto senza conoscerlo. Una completa confusione o commistione di ruoli tra proprietari delle aree e responsabili della pianificazione, e anzi un potenziale conflitto di interesse nella persona dell’assessore all’urbanistica, professore e già pro-rettore vicario del Politecnico.
Una fretta indiavolata: progetto urbanistico entro due mesi, si direbbe per condizionare la nuova Amministrazione comunale che uscirà dalle urne.
Una densità edilizia ipotizzata (circa 8 mc reali, vuoto per pieno, per ogni mq di superficie territoriale) incredibile, come non succedeva neppure nei più lontani anni ‘50, tanto meno su aree di questa estensione; e insostenibile in una città afflitta da una qualità dell’aria largamente fuori dalle norme europee. E sullo sfondo una bonifica avviata violando, o se si preferisce disapplicando disinvoltamente la legge, giusto quanto serve per avere la possibilità di segare uno splendido bosco urbano di alto fusto. Non sono gli ingredienti di una fiction, ma le modalità con cui, al crepuscolo del mandato di questa giunta milanese, si sta realmente consumando la vicenda della progettazione dell’Ambito di trasformazione urbana (ATU) Bovisa, nel silenzio generale dei media e nell’ignoranza non solo dei cittadini ma persino degli addetti ai lavori.

Archeologia industriale alla Bovisa
L’area di Bovisa nota come "la Goccia", cioè quella occupata dai gasometri e dalle altre attrezzature industriali dismesse per la produzione del gas di città è una enclave pressoché sconosciuta perché chiusa all’accesso del pubblico, e tuttavia carica di interesse e di valori ambientali e paesaggistici: decine di affascinanti edifici di archeologia industriale sparsi in un’area popolata da più di duemila alberi di alto fusto tra i quali si è ormai insediata anche una variegata presenza faunistica.
In qualunque città civile un’area siffatta sarebbe stata da tempo oggetto di un attento rilevamento, da pubblicizzare al massimo in modo da promuovere il più largo confronto di idee sul modo di utilizzare questo gioiello, unico dentro un contesto per il resto totalmente cementificato.
Da noi sta avvenendo esattamente il contrario.
Mentre si tengono serrati i cancelli dell’area con la scusa della sua contaminazione, in modo che i cittadini siano generalmente inconsapevoli di quale tesoro si nasconda dietro i muri di recinzione, mentre si segano gli alberi con il pretesto di una bonifica che riteniamo in violazione di legge, costosa per l’erario e non necessaria, e dopo un lungo e inconcludente workshop “di partecipazione”, relativo solo a una porzione minore dell’area, un piccolissimo gruppo di addetti disegna invece, segretamente, il futuro di tutto l’ambito di trasformazione urbana, curando di conciliare a priori gli interessi degli stakeholder, in modo da fare poi fronte compatto contro le possibili reazioni dei cittadini.
Così almeno sembrerebbe di capire, a giudicare dalle modalità “carbonare” con le quali la progettazione è stata avviata e viene mantenuta riservata. Il Comitato la Goccia ha fatto la sua parte, ricorrendo al Presidente della Repubblica contro la bonifica fuori legge e chiedendone la sospensione. L’assessore in carica, come di solito non succede, ha preferito accelerare piuttosto che attendere almeno il giudizio sulla sospensiva. Ha così fatto iniziare i lavori del lotto 1A, a partire dal taglio del bosco, che è già stato realizzato.
Verrebbe da dire, nell’evidente tentativo di porre il Consiglio di Stato, che giudicherà il ricorso, di fronte al fatto compiuto e irreversibile. È dunque guerra aperta, e come in tutte le guerre agli attacchi conseguono e conseguiranno inevitabilmente i contrattacchi. Il Comitato la Goccia chiede perciò al Consiglio comunale di Milano di intervenire per fermare le ostilità, e per richiamare tutti a considerare prioritariamente l’interesse generale della città, piuttosto che quelli degli operatori, privati o para pubblici che siano.
Antonella Adamo, Giuseppe Boatti, Luciana Bordin, Filippo Davide Cucinella, Andrea Debosio, Cinzia Del Manso, Francesca Grazzini, Maria Grazia Manzoni, Maurilio Pogliani, Francesco Radino, Edi Sanna, Marina Susana, Patrizia Trevisan, Alessandro Vimercati (Comitato La Goccia)

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LA VERITÀ SULLA DIASPORA ITALIANA
di Lodo Meneghetti     

Quando alla fine del 1974 apparve il fascicolo monografico (nn. 11-12) del mensile Il Ponte dal titolo “Emigrazione cento anni 26 milioni”, non tutti sembrarono credere alle cifre pubblicate. L'incipit nell'introduzione del direttore Enzo Enriques Agnoletti anticipava seccamente le verità che i numerosi saggi del volume avrebbero dimostrato e che i politici al governo e i ceti dominanti avrebbero preferito tener nascosta o fingere fosse normale vicenda riguardante l'economia mondiale e tutti i popoli: “dall'unità d'Italia non meno di ventisei milioni d'Italiani hanno abbandonato definitivamente il nostro paese. È un fenomeno che per vastità, costanza e caratteristiche non trova riscontro nella storia moderna di nessun altro popolo”. Non meno impressionanti i dati presentati nel saggio di Paolo Cinanni, presidente della Filef (Federazione italiana lavoratori emigrati e famiglie).

Emigranti italiani in America
Nel 1971 i nostri concittadini residenti fuori della patria erano oltre 5.200.000, distribuiti in tutti i continenti con fortissima prevalenza di Europa e Americhe. Aggiungendo gli italiani con cittadinanza straniera acquistata dal dopoguerra, 1.200.000, ne consegue che a quella data fuori del nostro paese esistevano circa sei milioni e mezzo di connazionali. Milioni di vite in gioco, miriade di casi angosciosi nella ricerca di lavoro e di casa, impatto frustrante con lingue sconosciute, inenarrabili sfortune personali e famigliari. Per un risultato appena coerente con la speranza, cento tradimenti del sogno e accettazione di ogni tipo di sfruttamento pur di lavorare e di abitare, tant'era pura sopravvivenza la vita in patria, e infine tanta volontà di costruire nuova famiglia. Dovremmo definirli, questi emigrati, adottando l'inammissibile invenzione idiomatica attuale, 'economici'? Il pugliese Ferdinando Nicola Sacco e il piemontese Bartolomeo Vanzetti, l'uno operaio l'altro pescivendolo, onesti 'economici' anarchici approdati negli Stati Uniti vi trovarono la morte sulla sedia elettrica. Oggi, invece, immigrati in Italia e in altri paesi europei, fuggiaschi o 'economici' che siano, incontrano la morte in mare o nel carrello di un aereo o nel cassone di un TIR. Come non commuoversi dinanzi a tante tragedie e non ragionare sulle loro cause? D'altra parte, come dimenticare che una nuova popolazione è riuscita a insediarsi qui, a lavorare, a produrre reddito, a contribuire al bilancio attivo nazionale e a ripianare il preoccupante deficit demografico italiano? 

Emigranti meridionali
Quattro milioni e mezzo di persone. Non abbiamo fatto nulla per sostenerne la vitalità, in primo luogo nella ricerca di abitazioni dignitose. Così accettiamo, esempio noto e crudele, il “modo di abitare” senza casa e persino senza baracca dei raccoglitori di frutta nelle regioni meridionali… Poi sopportiamo i Salvini, i Borghezio, i Maroni… e consistenti gruppi di concittadini organizzati in formazioni fascistoidi, xenofobe e razziste che, oltre a manifestare sentimenti di puro odio, falsificano la realtà sociale per ricavarne consenso; sanno infatti che fuori dei loro movimenti una parte dell'opinione pubblica, incolta e perciò propensa a tener per veri luoghi comuni fritti e rifritti sugli stranieri, si presenta come un campo fertile per seminarvi i loro criminosi principi e le loro eversive proposte politiche. Eppure, al tempo delle grandi migrazioni interne, mai cessate dal dopoguerra ma di portata eccezionale negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, provenienza prevalente -a parte i vicinati regionali- dal meridione e, all'inizio, anche dal Veneto, destinazione il triangolo industriale, certi comportamenti di istituzioni e di italiani verso italiani potremmo considerarli batteri di una malattia sorta lì, in seguito rimasta latente e riesplosa ai nostri giorni. La realtà e il mito di Piemonte, Lombardia e Liguria, di Torino, Milano e Genova furono richiamo talmente potente da permettere illimitata libertà di sfruttamento in ogni senso del bisogno di lavoro e di abitazione che masse di povera gente sradicata dalle loro terre esprimevano con umiltà e sottomissione. A questo riguardo assumiamo la città di Torino degli undici anni dal 1951 al 1961 (studiata nei corsi di urbanistica insieme ad altri contesti nei primi anni Settanta) come maggiormente rappresentativa, simbolo di un'epoca che per alcuni aspetti e per tutt'altre cause sembra riprodursi oggi in diverse aree del paese, come fosse una contorsione della nostra storia sociale. Torino simbolo dal momento che ne fu raffigurazione la Fiat, industria-richiamo come nessun'altra per tanti connazionali, anche se non era l'azienda a dare lavoro a tutti: 'l'importante era essere vicino al benessere, nella città delle prospettive mirabolanti, lontani dalla fame e dalla miseria' (C. Canteri, Immigrati a Torino, Ed. Avanti, 1964).

Emigranti italiani
Il lavoro si trovava per lo più nelle fabbriche che vivevano grazie a essa o nei cantieri edili o in una falsa 'cooperativa' di facchinaggio, oppure attraverso diffusi racket delle braccia. Intanto gli immigrati che non fossero piemontesi provenienti dalla campagne o dalle valli (aiutati dai parenti torinesi) dovevano scontrarsi con una legge fascista del '39 avversa all'urbanesimo che sarà abolita solo nel 1960: per avere un lavoro occorreva possedere una residenza, per ottenere la residenza bisognava avere un lavoro; allora si registravano come lavoratori in proprio, ossia come 'soci' di quelle pseudo-cooperative che li avviavano ai posti di una qualsiasi occupazione teoricamente stabile taglieggiandoli pesantemente sul salario. Oggi in Italia, se raggiungere la residenza avendo un recapito non è troppo difficile, purché non la si richieda in comuni amministrati da sindaci leghisti, razzisti, neofascisti e similari, è di fatto impossibile conquistare la cittadinanza. Non diversa era la condizione degli operai utilizzati all'interno degli stabilimenti di Fiat ma non da questa dipendenti. Erano le organizzazioni a cui il lavoratore “si affiliava”, dette “enti di offerta di lavoro”, ad appaltare ogni genere di opere che la fabbrica, ormai avviata a una produzione di massa, aveva convenienza a non esercitare in proprio. L'azienda pagava all'ente per ogni operaio cifre inferiori anche del 50% agli oneri complessivi sopportati per il dipendente regolare. Cosa fanno oggi le poche fabbriche sopravvissute alla deindustrializzazione del paese se non accettare al loro interno operai estranei all'azienda e ricadenti nel “lavoro somministrato”? Così la Fiat mentre da un lato propagandava una prospettiva di benessere per tutti da un altro accompagnava minimi spunti riformisti con politiche duramente discriminatorie. A queste apparteneva anche la piaga della raccomandazione al padrone attraverso i parroci, che potevano avviare a un posto fisso gli iscritti ai loro elenchi di partecipanti in qualche modo alla vita della parrocchia. 
Emigranti meridionali
Uno sguardo all'intera città all'inizio degli anni Sessanta rivelava che la condizione professionale degli immigrati era comunque ai livelli più bassi: circa due terzi manovali comuni, 30% ambulanti e artigiani, pochissimi operai specializzati. Eppure molti di loro dopo anni e anni di esperienza non erano più impreparata forza lavoro idonea solo alle prestazioni più mortificanti e magari pericolose. Discriminati e sfruttati sul lavoro, discriminati sfruttati e ricattati per la casa. Vent'anni di cronache quotidiane mostrarono che Torino non ebbe eguali nella speculazione sulle spalle degli immigrati, nuova popolazione giovane di cui la città aveva pur bisogno per produrre e riprodursi. La classe dirigente torinese le offrì una gamma di possibilità abitative vergognosa: stalle dismesse ai confini del comune con la campagna, soffitte degradate prive di ogni dotazione igienica nel vecchio centro o nei trascurati quartieri operai, cosiddette “case alloggio” invece sudici dormitori in cui si affittava il posto branda, talvolta a rotazione secondo il susseguirsi dei turni lavorativi di otto ore; infine le bidonville da cui le famiglie furono sgombrate con la forza al momento delle celebrazioni del primo centenario dell'unità, per essere cacciate nelle cosiddette 'casermette' prima adibite a ricovero dei sinistrati. Nel caso dell'alloggio decente e di un salario sicuro l'affitto ne sottraeva un quarto se proveniente dall'impiego in Fiat ma fino a metà se guadagnato in aziende piccole o comunque subalterne alla grande madre. L'aspirazione dell'immigrato di poter accedere a un alloggio popolare pubblico fu delusa dalla scarsità delle iniziative. 

Emigranti del Sud
Per parte sua la Fiat mancò colpevolmente al dovere di accompagnare con una coerente politica della casa la scelta di forzare vantaggiosamente per sé l'immigrazione. La necessità, oggi nel paese, di un'estesa attività di edilizia popolare rivolta anche alla domanda dei 'nuovi' immigrati è ignorata dalle aziende che hanno sostituito i vecchi istituti pubblici autonomi. In Lombardia, specialmente a Milano, per gran parte del secolo scorso agiva il più qualificato Istituto autonomo per le case popolari (Iacp) che realizzò quartieri spesso di notevole qualità. Il cambio del nome da Iacp ad Aler (Azienda lombarda per l'edilizia residenziale) avvenuto grazie al dominio politico nella Regione di Forza Italia e della Lega mostra lo stravolgimento dei contenuti: non più istituto pubblico ben identificabile ma azienda come altre, non più autonomia ma dipendenza dal potere politico, non più case popolari e precisa destinazione sociale ma pura edilizia residenziale generica dotata di sola identità economica. Torino nel 1951 contava 700.000 residenti. Bastarono dieci-undici anni per diventare una grande città di oltre un milione di abitanti. Arrivò una nuova popolazione di mezzo milione di persone, mentre l'esodo fu di sole 160.000. Uno sconvolgimento epocale, un sovvertimento del precedente stato demografico. Nonostante le mille difficoltà di accoglimento, di lavoro, di insediamento, insomma di vita urbana lontanissima dal genere di vita dei luoghi di provenienza, fu merito degli immigrati, nuovi torinesi estranei alle tradizioni degli autoctoni, se una città chiusa in sé stessa, sorda e sospettosa per consuetudine di una vecchia borghesia, col ceto operaio tradizionale talvolta anch'esso reticente verso le novità, si rifondò, evolvette - lentamente - verso l'accettazione dei compiti che la stessa nuova composizione sociale richiedeva. Ne fu un primo attestato il successo delle celebrazioni per il centenario dell'unità. Tuttavia la Fiat, sempre più estesa, pretendeva ancora la reductio ad unum, cioè a se stessa, della rappresentazione di Torino, che infatti tardò a superare il dannoso statuto di città dipendente da una sola imponente monocoltura industriale. Gli operai immigrati raggiunsero rapidamente la coscienza di classe nel vivo dei rapporti di lavoro e delle relazioni con gli altri lavoratori. 

Emigranti italiani ad Ellis Island
Quando nel 1969 il grande sciopero generale non per aumenti salariali, non per diverse condizioni di lavoro ma, prima volta nella storia sindacale e delle lotte, per il diritto alla casa ('casa uguale a servizio sociale' lo slogan sbandierato), imponenti manifestazioni conquistarono le strade e le piazze delle città italiane. Gli operai di Torino, immigrati e torinesi uniti in una comune rivendicazione vitale, mentre partecipavano alla giornata di lotta nazionale potevano vantare di averla preceduta con un'altra giornata di sciopero nella loro città, quando avevano manifestato in massa contro il potere del padronato, al comando il principe della Fiat, vassalli e valvassini obbedienti. Fu vera lotta perché si comandò ai poliziotti, per lo più poveri meridionali grati alle autorità per aver ottenuto un'occupazione, di attaccare duramente i cortei operai: infatti, la ricordiamo ancora oggi con la denominazione impiegata dai quotidiani di allora, “la battaglia di corso Traiano a Torino”.




PARENTELA ED EMIGRAZIONE
Mutamenti e continuità in una comunità Calabrese
di Antonio Cugliari

Contadini in Calabria
Quando venne fondata l’Università calabrese di Arcavacata (Rende - Cosenza) gli obiettivi erano alquanto ambiziosi. La nuova Università doveva uscire dal chiuso della ricerca accademica per calarsi nello studio del tessuto della regione, onde contribuire al suo risveglio e farla uscire dal secolare sottosviluppo. Sollecitato dal Centro Studi “La Comune”, molto attivo in Acri in quegli anni, il Dipartimento di Sociologia, diretto dal professore Giovanni Arrighi, diede incarico alla sociologa Fortunata Piselli di svolgere un’accurata indagine in un paese della Calabria; venne scelto Acri in provincia di Cosenza considerato come uno spaccato dell’intero Meridione ed indicato con lo pseudonimo di Altopiano. Lo studio dura circa tre anni -dall’autunno del 1975 all’estate del 1978  - nasce così “Parentela ed emigrazione” pubblicato dall’Einaudi nel 1981. La ricerca analizza i “flussi migratori” dal 1950 in poi, ed usando tecniche antropologiche nuove, mette a nudo come questi processi determinano trasformazioni e sconvolgimenti nel tessuto sociale di una comunità come Acri. Fino agli anni Cinquanta “Altopiano” è ancora una società isolata fuori dal contesto nazionale dell’economia e della cultura. Prevalgono rapporti precapitalistici di sfruttamento e di condizionamento; per mantenersi in piedi una comunità siffatta, i rapporti familiari devono essere per forza rigidamente gerarchici con una netta differenziazione tra figli legittimi e proietti. Negli anni Cinquanta nelle famiglie dei possidenti, essendo la proprietà della terra l’unica forma di reddito e di ricchezza, la terra non poteva essere frazionata tra i figli, pena l’indebolimento economico della famiglia. Vigeva, quindi, il maggiorascato, cioè ereditava e si sposava solo il primogenito, da qui la piaga dei proietti nati dalle relazioni degli esclusi con le donne dei ceti subalterni. 

Contadini nel Salento
Contrariamente ai possidenti, nelle famiglie contadine la proprietà, quando esisteva, veniva frazionata in parti uguali fra tutti i discendenti. Si comprende facilmente come in una società così strutturata, l’emigrazione agisca come fattore di riequilibrio dei contrasti sociali nascenti. Negli anni Cinquanta, come alla fine dell’Ottocento, l’emigrazione avviene nelle Americhe, e per gli alti costi del viaggio via mare, ad emigrare sono i figli delle famiglie benestanti sostenuti dal parentato. Emigrano gli esclusi dal patrimonio o chi ha ambizioni da realizzare. Negli anni Sessanta si assiste ad una nuova forma di emigrazione: il Nord d’Italia e d’Europa in pieno boom economico necessitano di nuova forza-lavoro per il funzionamento dell’industria. L’emigrazione in questa fase coinvolge gli strati che negli anni Cinquanta erano stati esclusi: emigrano in massa i figli dei contadini, dei fittavoli, dei braccianti. Il latifondo, privato dalle braccia che lo manteneva in vita, entra in crisi ed al suo posto prende corpo la piccola proprietà contadina, acquistata con le rimesse degli emigranti. Pertanto, se negli anni Cinquanta resistevano ancora strutture arcaiche precapitalistiche, con l’emigrazione degli anni Sessanta “Altopiano” entra a pieno titolo nel mercato italiano ed europeo. 

Contadino calabrese con asino
Negli anni Settanta entra in crisi anche la piccola proprietà contadina, vuoi per il continuo frazionamento della terra, vuoi perché le rimesse degli operai si orientano verso nuove forme più redditizie d’investimento, come la conquista di un posto di lavoro negli Enti Forestali, nell’impiego pubblico e soprattutto nella speculazione edilizia. Cambia, quindi, la vecchia struttura produttiva legata alla terra e crescono le classi medie del lavoro burocratico e le forme assistenziali esercitate dai partiti politici alla ricerca del voto clientelare. Scomparsi quasi tutti i vecchi mestieri e i lavori artigianali, la parentela subisce una profonda trasformazione: da struttura condizionante diventa oggetto di manipolazione politica. Scrive la Piselli: “Le famiglie che vogliono mantenere il potere inseriscono i propri rappresentanti nei partiti politici, in modo di condizionarne le scelte ed orientarle verso gli interessi del nucleo di appartenenza”. L’indagine di Fortunata Piselli si ferma a questo stadio, ma l’acuta sociologa aveva compreso che “Altopiano” (Acri) stava per entrare in una crisi grave per la mancanza di investimenti produttivi capaci di produrre ricchezza e non solo di consumarla.


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