UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

martedì 31 marzo 2015

ETHOS PUBBLICO E CORRUTTORI 
di Fulvio Papi

La corruzione è contagiosa,
non solo insozza chi la pratica,
ma ammorba tutto quanto le sta intorno
Angelo Gaccione  


Dopo molto tempo che non seguivo i dibattiti “politici” alla tv poiché avevo l'impressione che, quanto all'informazione e all'analisi, esse non potevano offrire niente di più che una goccia in un deserto, ho ascoltato uno di questi incontri dalla quale sono venute alla luce queste considerazioni. Uno: il tema stantio sulla corruzione relativa alla questione dell'avviso di garanzia. È o non è ratio sufficiens per le dimissioni di un politico? A mio avviso sì, poiché non indica un reato, ma l'appartenenza a un orizzonte di indagini in cui un personaggio pubblico non dovrebbe essere minimamente toccato. Il livello di moralità non è definito in termini di giustizia positiva.
Tuttavia una seconda opinione modera questa certezza: lo spazio della corruzione si avvale di una rete così complessa di correità che può accadere che un ministro (o chi per lui) firmi una delibera senza conoscere attraverso quali intrighi e complicità sia arrivata, appunto, alla firma. Anche qui si può discutere, ma la do come un caso possibile, specie se il ministro (o chi per lui), non ha una competenza specifica.
Terzo argomento: quello di Massimo Cacciari che -anche quando prende parte, molto spesso, a queste “tenzoni”- mostra a chi lo capisce una forma di intelligenza, un poco insofferente, che proviene da una prolungata e seria storia filosofica. Cacciari quindi sostiene che è inutile discutere caso per caso, ma è un sistema che, nel suo funzionamento, ingloba plurimi e diffusi casi di corruzione. Approfittando dell’aura filosofica che ho evocato, dirò molto semplicemente che la corruzione, come tutti gli aspetti sociali mafiosi, appartengono al modello italiano di riproduzione sociale. Credo che questa considerazione, nella sua generalità, colga una forma strutturale e dominante del sistema, e quindi sia l'oggetto di una conoscenza analitica che abbia un valore non solo teorico ma conoscitivo a livello nazionale. Qualcosa che assomiglia alla famosa inchiesta Pacini sulla agricoltura nazionale promessa nell'800. È un'impresa molto difficile ma, economicamente, socialmente e dal punto di vista della giustizia, non impossibile. Si tratta di sfilare quel gomitolo in cui sono comprese complicità che toccano tutti i settori della vita nazionale, senza che nessuno a priori possa dichiararsi estraneo. E tanto più meritorio se in un clima di corruzione vi saranno persone, gruppi, istituzioni che si mostreranno degne di una democrazia politica, come credo accada nel caso di milioni di persone che senza alcun privilegio (che sempre andrebbe analizzato nella sua genealogia) lavorano onestamente e proficuamente tenendo in piedi un paese “difficile”.
Ma ci sono due altri problemi che derivano da quello che possiamo chiamare “il sistema della corruzione diffusa”. Il primo risulta da una carenza: una conoscenza storica di questo processo sociale che non è né fatale né antropologico. Di questa storia non ne ho mai sentito parlare. Se si teme qualcosa di grave ci si sbaglia, poiché a questa vicenda possono essere connesse persone che hanno agito in buona fede, ma certamente il seme della corruzione ha avuto una sua velocità di diffusione, favorita da sistemi di governo che promuovevano la corruzione e l'immoralità. Perché gli storici -che mi sembrano molto competenti e capaci- non si cimentano su questa strada?
Secondo tema: sarebbe importante conoscere quale effetti a livello comportamentale, psicologico, educativo ha provocato questo sistema di riproduzione sociale. Sarebbe importante guardare in uno specchio pulito questi aspetti. La mia impressione è che oggi vi sia uno stacco generazionale. Almeno una parte dei più giovani (i più colpiti da questa situazione) hanno reazioni sociali buone e attive sulle quali è bene contare e aiutare a svilupparsi. Credo che questa sia una dimensione morale che non deriva da pregiudiziali posizioni ideologiche: cercare di fare bene quello che nella congiuntura della vita appare come il bene. So che in filosofia “bene” e “buono” sono state (o sono) ragioni di controversie molto sottili, ma nella vita comune ognuno sa la differenza tra rubare e lavorare, anche se bisogna vedere in quale equilibrio tra sentimento e ragione si verrà a trovare questa opposizione.
Non è vero, come in maniera catastrofica talora si dice, che siamo tutti colpevoli. Non è un peccato d'origine, è un comportamento sociale che certamente in anni ha formato la valutazione del mondo di moltissime persone con una trasmissione e una imitazione che, talora involontariamente, anche i mezzi di comunicazione hanno contribuito a diffondere. Certo mi sembra di essere una di quelle persone che, in tempi di assoluta “effettualità” consideravo con un sorriso, ma oltre che di una vera giustizia (quale oggi non è) è necessario un impegno radicale di educazione, di selezione di una identità di se stessi che sia positiva nel contesto sociale. So che molti saranno d'accordo, ma perché non si esamina a fondo il problema in tutti i luoghi che, più o meno, partecipano all’ethos pubblico? Ma le forme politiche attuali hanno la forza per assumere questo compito senza guardarsi sempre la coda?

PER RIMANERE UMANI
La Casa Editrice “Puntoacapo”
è lieta di invitare gli amanti e i cultori della poesia,
alla presentazione dell’Almanacco n. 5

Venerdì 10 aprile 2015  -ore 17,30- 

Genova, Stanza della poesia (Palazzo Ducale)
Presentazione dell’Almanacco Punto della Poesia italiana (n. 5/2015)
http://almanacco.wix.com/punto

Copertina del n. 5 dell'Almanacco

Intervengono i direttori: Mauro Ferrari e Giancarlo Pontiggia,
assieme a Collaboratori e Autori.
Ingresso libero




lunedì 30 marzo 2015

DUE NOTE

La guerra è un affare. Aggiungiamo che la guerra, come condizione permanente – perenne inquietudine, costante paura di un nemico, ininterrotta emergenza che permette di violare ogni regola in nome dell’estrema sicurezza nazionale –, è lo stato ideale per estendere il domino politico ed economico sulle classi subalterne e aprire al capitale immensi spazi di rapina e profitto.
Inoltre la guerra, soprattutto nella modernità, è un’enorme macchina produttiva. Si nutre d’uomini a costo zero, produce cadaveri affidati al consolante sentimento della pietà e al pianto, ma, sopra ogni altra cosa, permette di realizzare profitti oltremisura.
Ricordiamo che l’industria e il traffico delle armi muovono affari per miliardi di dollari. Le ricostruzioni e i prestiti per realizzarle sono altrettanti affari per investitori e speculatori.
E qualcuno si batte per abolirla, la guerra!, l’ingenuo sprovveduto!
Ribadisco un concetto già espresso altrove. Se si vuole veramente disarmare il terrorismo dell’ISIS, non si bombardano città e paesi (non si è imparato niente dall’Irak e dall’Afganistan?) Si potrebbe, invece, cominciare con il far rispettare a Israele (e agli USA) le risoluzioni dell’ONU sui territori occupati della Palestina. Risoluzioni snobbate e inevase da più di sessant’anni.
A proposito della libertà si stampa. Puzza molto d’ipocrisia il volersi rappresentare da parte del cosiddetto Occidente quale disinteressato paladino delle libertà d’espressione.  Subito, mi viene in mente il bombardamento dell’edificio della Televisione di stato di Belgrado, nel corso della guerra in Jugoslavia, e, a Tripoli, quello della televisione libica per impedire la propaganda di Gheddafi, da parte di USA e NATO.
Il giornalista Julian Assange, che ha rivelato con WikiLeaks alcuni crimini di guerra degli USA in Irak, è tuttora rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, mentre la sua fonte Bradley Maning è in carcere. Gleen Greenwald, che ha scoperto la planetaria rete di spionaggio messa in opera dai servizi segreti USA, vive nel terrore mentre la sua fonte è riparata a Mosca.
Si potrebbe anche osservare che la maggior parte dei media è proprietà di gruppi finanziari e aziende dominati il mercato. La loro libertà consiste, nella maggior parte dei casi, a manipolarla questa sacra libertà; a tacere delle notizie scomode e a diffonderne delle altre, parziali nel migliore dei casi, false nel peggiore.
Claudio Zanini


Militari siciliani alla guerra nel poligono sardo di Capo Teulada
di Antonio Mazzeo


Migliaia di bombe, ogive e missili sono stati esplosi durante le esercitazioni che da oltre mezzo secolo le forze armate italiane e straniere effettuano nel poligono di Capo Teulada, Sardegna sud-occidentale, uno dei più estesi di tutto il territorio nazionale, 7.200 ettari circa. Giochi di guerra che hanno disseminato in un territorio unico dal punto di vista paesaggistico e naturale sostanze cancerogene e veleni mortali. Nonostante le proteste delle popolazioni locali, le azioni dirette dei movimenti No war, decine di mozioni ed interrogazioni parlamentari e le recenti inchieste giudiziarie, a Capo Teulada, reparti provenienti da ogni parte d’Italia e dai paesi dell’Alleanza atlantica continuano a sparare e spareranno ancora sino alla prossima estate. Dal 1° al 26 aprile sarà la volta delle unità e dei mezzi della Brigata Meccanizzata “Aosta”, di stanza in Sicilia. Il 26 marzo, decine di blindati e cingolati hanno lasciato il porto di Messina per la Sardegna, a bordo della nave “Maior” di proprietà della compagnia di navigazione “Levantina Trasporti” di Bari, che il Ministero della Difesa affitta dal 1992 per trasportare armi ed esplosivi in Italia e all’estero.
Da quando è stata trasformata in uno dei reparti d’élite delle forze armate italiane per le operazioni di pronto intervento, la Brigata “Aosta” ha scelto Capo Teulada come il luogo dove testare sistemi d’arma e strategie d’attacco perlomeno due volte l’anno. La prima grande esercitazione a fuoco dei reparti siciliani risale al maggio-giugno 2005 (nome in codice Cardega 2005). Al tempo fu ancora la nave “Maior” a sbarcare nel porto di Sant’Antioco 180 mezzi ruotati, 24 cingolati, 13 autoblindo e 700 uomini e donne della Brigata “Aosta”. “Le attività a Capo Teulada sono state finalizzate all’affinamento delle procedure che, dal maggio 2006 e per sei mesi, l’Aosta dovrà attuare in Kosovo”, riferì il portavoce dell’Esercito. “Le tre settimane trascorse in Sardegna hanno consentito di mettere in atto un intenso programma addestrativo: tiri con armi portatili e di reparto diurni e notturni; tiri con mitragliatrice Browning; esercitazioni a fuoco di squadre e plotoni fucilieri meccanizzati e blindo; scuole tiro con mortai pesanti, artiglieria e sistemi d’arma Folgore; addestramento all’impiego di esplosivi, ecc.”. Stavolta i reparti dell’Aosta raggiungono la Sardegna con i blindati leggeri di nuova generazione Iveco VTLM “Lince”, i veicoli corazzati da combattimento Oto Melara VCC-1/2, gli autoblindo 8x8 “Centauro”.
Contro la prossima campagna di esplosioni e bombardamenti si sta mobilitando la rete No basi – né qui né altrove che annuncia azioni di disturbo, come quelle intraprese nell’aprile 2014, quando centinaia di attivisti riuscirono a bloccare per alcune ore il passaggio dei blindati diretti a Capo Teulada. “In questi giorni teniamo d’occhio i porti e le strade verso il poligono, pronti a ostacolare i movimenti e le manovre dei mezzi della brigata proveniente dalla Sicilia”, spiegano i portavoce del movimento. “Il 19 novembre 2014 abbiamo cercato d’impedire lo spostamento dei mezzi militari dal porto di Sant’Antioco al poligono di Teulada, mentre il 5 dicembre, durante una manifestazione lungo il perimetro della base, varie irruzioni attraverso varchi praticati nei
reticolati hanno provocato il blocco delle esercitazioni. Ancora il 20 dicembre,
un gruppo di manifestanti ha fatto irruzione all’interno del perimetro del
poligono militare di Teulada”.
I danni ambientali e alla salute delle popolazioni che risiedono nei pressi del poligono e gli effetti negativi sull’economia locale sono sotto gli occhi di tutti da tempi remoti, ciononostante il Ministero della difesa si ostina a non voler trovare soluzioni alternative all’uso di Capo Teulada o quanto meno a ridurre il numero e il peso delle esercitazioni nell’area. Durante una recente campagna di rilevamento di sostanze inquinanti all’interno dell’area del poligono, sono state riscontrate percentuali di Torio 232 (elemento radioattivo la cui esposizione a medio e lungo termine è cancerogena per l’uomo), superiori da 10 a 20 volte a quelle presenti normalmente nell’ambiente naturale. L’1 dicembre 2005, l’allora sen. Mario Bulgarelli dei Verdi, in un’interrogazione al Ministro della difesa, riferì che nel corso di una riunione del Comitato misto paritetico per le servitù militari della Sardegna, le autorità militari ammisero che “nelle 335 esercitazioni effettuate nel 2004 a Capo Teulada furono impiegati in particolare 140 missili anticarro Milan e 49 missili Tow, entrambi contenenti amianto e torina, sostanze altamente tossiche, in grado di provocare l’inquinamento del terreno, delle falde e delle piante”. Nella stessa riunione, fu pure riconosciuto “l’utilizzo, a fini addestrativi, di fosforo bianco, secondo le tecniche d’attacco messe in atto dagli Usa in occasione dell’assedio di Falluja, in Iraq”.
Numerosi poi gli incendi all’interno del poligono generati dalle esercitazioni a fuoco (l’ultimo è avvenuto nell’ottobre 2014, nel corso delle “operazioni di tiro con le armi di piccolo calibro - 7.62 mm - da bordo degli elicotteri”, come dichiarato dal Ministero della difesa) o gli “incidenti” che hanno coinvolto la popolazione civile e le imbarcazioni di pescatori delle marinerie dei comuni di Teulada e Sant’Anna Arresi.
“Il poligono militare di Capo Teulada viene considerato dalle Forze armate un’area unica in Italia, in quanto consente lo svolgimento di fondamentali attività addestrative delle Forze terrestri presenti in Sardegna e delle unità Alleate”, riporta l’Indagine conoscitiva sulle servitù militari della Commissione difesa della Camera dei deputati (2007). “Il poligono assicura ogni anno l’addestramento dei volontari per renderli idonei ad ogni tipologia di impiego operativo in patria e all’estero, supportando le Brigate in approntamento per operazioni internazionali”.
Il grande poligono sardo è suddiviso in quattro aree addestrative (Alfa, Bravo, Charlie e Delta) e in una zona d’installazioni permanenti che fa capo alla Caserma S. Pisano. L’area Alfa è percorribile da ruotati e cingolati e consente lo svolgimento di attività a livello di gruppo tattico, aereocooperazione, schieramento di artiglierie e aviolancio. L’area collinare Bravo contiene al suo interno il poligono di tiro per armi individuali e di reparto di Portu Tramatzu ed è utilizzata per lo svolgimento di attività con armi di reparto, mortai, mitragliatrici, nonché per lo schieramento di artiglierie. L’area Charlie, costituita da un costone collinoso e da una zona pianeggiante, permette lo svolgimento di attività a fuoco di complesso minore, lo schieramento di mortai, l’impiego di unità anfibie nonché attività concernenti la scuola di tiro per missili teleguidati. Infine l’area Delta, costituita da una penisola interdetta al transito dei mezzi e delle persone per la presenza di residuati esplosivi, utilizzata però come area d’arrivo per colpi di mortaio ed artiglierie, missili, sganci d’emergenza di aerei e per tiri navali contro costa e bombardamenti aerei. Nelle intenzioni delle forze armate, Capo Teulada potrebbe divenire presto pure un poligono interforze per la sperimentazione dei velivoli senza pilota di ultima generazione. Due anni fa sono stati avviati al suo interno lavori di sbancamento e realizzazione di una rampa per il decollo e l’atterraggio dei droni militari. Sui veleni disseminati dalle forze armate a Capo Teulada, nel settembre 2013 è stata avviata un’inchiesta da parte della Procura di Cagliari. La scorsa estate i magistrati hanno ordinato alle forze armate di avviare gli interventi di bonifica ambientale di un’area del poligono, con la rimozione degli ordigni inesplosi e degli innumerevoli residuati metallici dispersi. Per tale compito era stata predisposta una task force composta da personale specializzato del 5° reggimento genio dell’Esercito di Macomer (Nuoro) e del 7° reggimento di Difesa NBC (Nucleare, Batteriologica e Chimica) di Civitavecchia. Gli esiti sono del tutto ignoti; di contro le esercitazioni a fuoco di carri armati e cannoni sono proseguite da allora sino ad oggi, ininterrottamente, giorno e notte.



IL PENSIERO CRITICO E LA SINISTRA OGGI
di Franco Toscani
Marx
Per dire qualcosa sulle prospettive della sinistra oggi occorre a mio avviso ripartire dalle rinnovate ragioni di un pensiero critico, il quale è costretto a riproporre le proprie esigenze tenendo comunque conto di due aspetti essenziali, assolutamente ineludibili, sui quali non abbiamo qui la possibilità di soffermarci a lungo e con la dovuta attenzione.
Da un lato non si può prescindere dalla crisi irreversibile, definitiva, anzi dal tragico fallimento del comunismo staliniano novecentesco, del "socialismo reale", della ideologia "marxista-leninista" intesa come ideologia ufficiale dei regimi comunisti dell'Est, che ha palesemente stravolto e rinnegato le preziose e forti istanze di liberazione umana e sociale contenute nel pensiero di Marx. Tale esito fallimentare pesa naturalmente tuttora, non poco, sulle prospettive di alternativa al sistema capitalistico dato.
D'altro lato, com'è a tutti evidente, la riproposizione di un pensiero critico diventa assai ardua nell'attuale mondo della mercificazione totale e della globalizzazione neo-liberista che, per le sue caratteristiche strutturali, impedisce, vanifica, ammorbidisce, comprime, isterilisce e soffoca in vari modi il pieno dispiegamento di quelle istanze critiche e di liberazione che pure continuano a sorgere al suo interno.
Riprendendo le analisi di Marx, sarebbe oggi importante (come ha ottimamente mostrato nei suoi scritti Diego Fusaro) tornare ad approfondire la critica del feticismo delle merci nella società sirenico-spettacolare e tutte le odierne, nuove forme di alienazione e di barbarie. Ritorna di grande attualità la critica mossa da Karl Marx nel XIX secolo all'economia politica borghese di Smith e Ricardo, i grandi economisti borghesi che pretendevano di considerare come leggi naturali ed eterne quelle proprie del modo di produzione capitalistico - un modo di produzione, invece, transeunte come tutti gli altri.
Anche oggi, date quelle che sono le caratteristiche strutturali della cosiddetta globalizzazione - in primo luogo, il fatto che il modello di sviluppo economico capitalistico si è ormai esteso all'intero pianeta, trasformato in un unico e gigantesco mercato mondiale -, l'ideologia neo-liberista dominante - come ideologia della classe dominante responsabile sia della gravissima crisi economica mondiale in cui ci dibattiamo sia della mistificazione e dell'occultamento menzognero che la ricoprono - ritiene intrascendibili le condizioni socio-economiche in cui viviamo e condanna all'utopia astratta tutto ciò che non rientra in quanto essa ha stabilito.
Va invece ribadito con forza che una nuova globalizzazione sarebbe possibile - non più sotto il segno del trionfo del capitale e delle merci, del denaro e del mercato -, capace di salvaguardare l'ambiente e l'umanità dell'uomo, di conservare il meglio della nostra eredità culturale, di restituire spessore alla svuotata parola democrazia, nella direzione di una nuova civiltà dell'uomo planetario, indicata con forza soprattutto - nei suoi scritti profetici, oggi piuttosto sottovalutati o dimenticati - da Ernesto Balducci.
Simmel
Ora, non solo la lotta per questa nuova globalizzazione e civiltà planetaria si presenta molto difficile e ardua, ma tutto congiura a far sì che le stesse frequenti e gravi crisi economico-sociali e politiche riguardanti il mondo capitalistico siano rivolte a far pagare i loro costi soprattutto alle classi subalterne, cioè a coloro che non ne sono responsabili e che, anzi, ne subiscono le peggiori conseguenze. La crisi in atto - ha scritto recentemente Paul Krugman - è una "guerra sociale scatenata dai super-ricchi che pretendono di essere esentati dal contratto sociale".
Di mondo rovesciato (verkehrte Welt), capovolto, a testa in giù parlava già Marx nel XIX secolo a proposito dell'economia e del mondo capitalistico del suo tempo. Noi ci ritroviamo ancora nelle stesse condizioni. L'aspetto più grave consiste nel fatto che stanno crollando e scomparendo la fiducia nell'uomo, la speranza collettivamente condivisa in un mondo più giusto, conviviale e solidale, i progetti etico-politici rivolti alla trasformazione del mondo. Come ha rilevato Luciano Gallino, la classe dei vincitori sta conducendo una tenace e spietata lotta di classe contro la classe dei perdenti.
Nella situazione caotica e depressiva del mondo attuale, servirebbe oggi, come il pane, una nuova antropologia della contemporaneità che, nel "villaggio globale" che è ormai diventato il nostro pianeta, comprendesse e favorisse il movimento nella direzione di una nuova civiltà planetaria, dell'avvento dell' "uomo planetario", come appunto amava dire Ernesto Balducci.
Avviene invece che all'indubbio aumento di potere, tecnologia e sapere proprio del nostro mondo corrisponda paradossalmente una diminuzione della saggezza e l'accentuazione di nuove forme di alienazione e barbarie.
Occorre dunque sì ancora cambiare il mondo (come voleva la undicesima Tesi su Feuerbach di Marx, che suona: "Die Philosophen haben die Welt nur verschieden interpretiert, es kömmt drauf an, sie zu verändern", "I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo"), ma il cambiamento veramente necessario passa oggi attraverso la ineludibile coscienza ecologica, così che, come mirabilmente scrive  Günther Anders in Die Antiquiertheit des Menschen (1956-1980): "Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche d'interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi".
Il nostro mondo ha urgentemente bisogno di un nuovo sapere antropologico e, soprattutto, di buone pratiche della convivenza tra i popoli e le culture della Terra. Nel suo linguaggio, Feuerbach parlava dell'esigenza di una Philosophie der Zukunft (filosofia dell'avvenire) e il problema si ripropone in forma nuova anche nella nostra epoca.
Si tratta per noi oggi, ancora una volta, di ritrovare il senso di un'universalità culturale concreta capace di oltrepassare gli orizzonti angusti di ogni cultura etnocentrica e nazionalistica, di recuperare il senso della nostra umanità perduta, di tutta l'umanità - non solo di una sua parte, magari privilegiata - e, insieme, il senso del nostro rapporto con le cose, il mondo intero, la verità.
All'inizio del XX secolo, nella sua Philosophie des Geldes (Filosofia del denaro, 1900), Georg Simmel osserva che il linguaggio sta diventando sempre più scorretto e banale, sempre meno dignitoso e tutto si sta trasformando nella nostra civiltà in qualcosa di più piatto, di meno interessante e serio. Egli nota pure che si assiste a un netto predominio di quella che chiama la "cultura oggettiva" sulla "cultura soggettiva", sulla vita interiore e soggettiva.
All'enorme accrescimento della "cultura delle cose" e delle tecniche corrisponde un'arretratezza della cultura delle persone, dello sviluppo spirituale degli individui. Simmel è ancora convinto, all'inizio del XX secolo, che la "cultura oggettiva" (o "delle cose") sia essenzialmente la cultura degli uomini che, forgiando e coltivando le cose, plasmano e coltivano sé stessi in un processo di "elevazione dei valori", ma si interroga inquieto sulla enigmaticità e sulla crescente discrepanza esistente fra "cultura oggettiva" e "cultura soggettiva", fra i prodotti della civiltà e l'esistenza frammentaria e squilibrata degli individui. Simmel avverte che i cosiddetti fini ultimi divengono illusori nel momento stesso in cui si assiste ai progressi e alla valorizzazione della tecnica, al trionfo della ratio strumentale-calcolante, al predominio dei mezzi sui fini, dei prodotti e degli apparati sugli individui.
A proposito del dominio della tecnica, egli scrive nel capitolo "Der Stil des Lebens"  ("Lo stile della vita") della sua Filosofia del denaro: "Questo predominio dei mezzi sui fini si riassume e culmina nel fatto che la periferia della vita, le cose che si trovano al di fuori della sua spiritualità, si sono impadronite del suo centro, di noi stessi".

Adorno
Al centro non vi sono più, infatti, la qualità della vita e delle esperienze, il valore dei rapporti e della comunicazione non effimera tra gli uomini, la spiritualità. Non vi è anzi più nulla di definitivo nel centro dell'anima, tutto è liquido e fluisce senza alcun reale raccoglimento e consistenza. Il denaro, in questo sistema di vita, diventa "il mezzo dei mezzi", la tecnica più generale, la potenza comprensiva e totalizzante che ci allontana dagli scopi essenziali e autentici della vita, nel momento stesso in cui ci consente l'accesso alle cose e il loro possesso.
Che cosa direbbe oggi Simmel? Credo che oggi inorridirebbe. Gli è stato risparmiato uno spettacolo deprimente, benché in apparenza luccicante e variegato: lo spettacolo senz'anima proprio della società sirenico-spettacolare.
Come ha già notato Martin Heidegger nei Bremer Vorträge (1949), "das Entsetzliche schon geschehen ist" ("il terrificante è già accaduto"). Il terrificante consiste nel venir meno e nell'oblio sempre più marcato del senso dell'umanità dell'uomo, del coseggiare della cosa e del mondeggiare del mondo. Il terrificante è già accaduto e sta ancora accadendo sotto i nostri occhi senza che si profili davvero all'orizzonte un'inversione di rotta e un'alternativa praticabile allo stato attuale delle cose.
Nel trionfo odierno dell' "individualismo senza individuo" (come lo ha ben definito Tito Perlini), l'essenza dell'uomo è svilita, degradata e si affaccia sulla scena del mondo una nuova ideologia (intesa come manipolazione e falsa coscienza, nel senso critico-negativo privilegiato da Marx) che pretende - falsamente e surrettiziamente - di non aver nulla a che fare con qualsivoglia ideologia.
Troppo pieno di sé, colmo della sua vanità e volontà di potenza, l'io è di fatto svuotato di senso, preda dei meccanismi del sistema dello spreco e del consumo, della produzione e mercificazione totali. Ridotto alla mera logica dell'avere, della produzione e del consumo illimitati, l'uomo diventa essenzialmente un consumatore e produttore che non conosce più sé stesso, il senso della propria vita, la misura, il proprio destino, la verità.
L'uomo oggi è sempre meno in grado di soppesare, valutare e distinguere ciò che è essenziale e ciò che è inessenziale.
La "dittatura del tempo sprecato" (secondo un'azzeccata espressione di Claudio Magris), il primato assoluto del profitto economico, il dominio del bla bla, del chiacchiericcio massmediatico e non, della società sirenico-spettacolare, delle incombenze tecnico-burocratiche, delle pratiche esteriori, di ciò che i grandi esponenti della Scuola di Francoforte come Adorno, Horkheimer e Marcuse chiamarono nella seconda metà del XX secolo l' "amministrazione totale del mondo" conducono all'inaridimento e all'impoverimento dell'umano, all'eclissi della politica e della qualità della convivenza. Dell'umano resta sempre di più solo la scorza superficiale.
L'accelerazione sistematica di tutto ciò che concerne la produzione  e il consumo, l'efficienza e la funzionalità del sistema, il lavoro e la comunicazione massmediatica, il denaro e le merci, la tecnica e lo spettacolo, il capitale  e il mercato rende un inferno quotidiano la vita degli individui delle società cosiddette avanzate, sottratta a ogni effettiva possibilità di vivere le dimensioni essenziali della meditazione e della contemplazione, del linguaggio e della comunicazione tra persone, della preghiera, dell'ascolto, dell'attenzione e del dialogo autentici.
In queste condizioni si pretende di vivere al massimo, ma in realtà "la vita non vive" (secondo il celebre aforisma di Theodor Wiesengrund Adorno) o vive prevalentemente sul piano dell'apparenza, della menzogna, dell'effimero, dell'illusione.
Così può scrivere un grande filosofo come Karel Kosík, nel saggio La morale al tempo della globalizzazione (1999): "l'uomo persiste nella sua presunzione di essere signore e padrone, cosa che tanto nettamente contrasta con la sua posizione servile. La dialettica del padrone e del servo si svolge come burlesca ironia della storia. (...) Al posto della differenza tra bene e male è di scena una distinzione sostitutiva, surrogatoria: non bene e male, bensì priorità del rendimento, del successo, del profitto, della redditività, dell'ascesa rapida e dell'arricchimento. (...) L'umanità è murata in un ingannevole gioco di specchi. Gli uomini, imprigionati nello specchio falso, ma incantatore dei mass media, levano lo sguardo sulle celebrità planetarie e le venerano come modelli irraggiungibili. Alla stregua di incatenati prigionieri di uno scatenato soggettivismo imperiale, caratteristico dell'età della globalizzazione, proiettano la propria smisurata bramosia nello spazio e nel tempo: considerano questa realtà deformata l'ultima parola della storia" ( K. Kosík, La morale al tempo della globalizzazione, 1999, in Id., Un filosofo in tempi di farsa e di tragedia. Saggi di pensiero critico 1964-2000, a cura di G. Fusi e F. Tava, Mimesis, Milano 2013, pp. 258-259).
Così l'uomo si arrende all'inessenziale e rinuncia al sostanziale, cede alla presunta fatalità di un mondo in cui non sono più in primo piano la bontà, la giustizia, la virtù, l'etica, ma vincono la perdita di senso, il vuoto della morale, la corruzione e la mafiosità, l'opportunismo e il cinismo, la legge dei più forti e dei più ricchi, la storpiatura, la burla, la perdita del gusto, la decadenza della lingua, il degrado dello stile di vita e dei comportamenti, la farsa, il grottesco, l'assenza di pensiero e di spirito critico.
Horkheimer
Ancora Kosík rileva nel saggio Lumpenborghesia e superiore verità spirituale (1997): "Il capitalismo odierno non è solamente un motore potente che vomita una varietà indescrivibile di merci, di artefatti, di informazioni, di attrazioni, produce inoltre, e in un certo senso soprattutto, vuotezza e sterilità. Da una parte profitti e comfort, dall'altra povertà di spirito e d'animo: il dritto e il rovescio della stessa moneta. Lo svuotamento, la noia, la droga, il porno, la trivialità sono fenomeni connessi, scaturiscono dalla stessa fonte" (K. Kosík, Lumpenborghesia e superiore verità spirituale, 1997, in Id., Un filosofo in tempi di farsa e di tragedia, cit., p. 250. Su Kosík si veda fra l'altro L. Cesana- C. Preve, Filosofia della verità e della giustizia. Il pensiero di Karel Kosík, Petite Plaisance, Pistoia 2012 e F. Toscani, L'epoca del Gestell. La tecnica, l'uomo e il sistema, in AA. VV., Sulla via della polis infranta. Assedio ai diritti e manipolazione globale, a cura di S. Piazza, Cleup, Padova 2004, pp. 103-133).
Molti segni, ancor oggi, vanno nella direzione dello stravolgimento dell'intero senso dell'esistenza umana, del declino e forse della scomparsa dello spirito. Non proponiamo ricette prefabbricate  e infallibili, ma innanzitutto la coscienza di ciò che è inaccettabile e che va trasformato.
Il XX secolo è stato per Kosík il "secolo di Grete Samsa", la sorella di Gregor Samsa, il personaggio che, nel racconto di Kafka Die Verwandlung (La metamorfosi, 1911), nel giro di una notte si ritrova trasformato in un insetto. Grete non riconosce più suo fratello, lascia che la domestica rimuova i resti di Gregor come se fosse un animale schifoso ed è il simbolo della disumanizzazione, del trionfo di un'umanità mediocre e meschina, irretita nei meccanismi del mondo alienato della pseudoconcretezza e nella banalità della vita quotidiana.
Ricerchiamo spiragli di luce per quell' "animale non stabilizzato" (Nietzsche), imprevedibile e aperto al senso della possibilità che è l'uomo. Non è facile intravederli.
Nella lunga storia della cultura occidentale ragione e sentimento, pensiero e cuore, sfera intellettuale e sfera affettiva sono stati troppo a lungo separati e concepiti in termini dualistici. Anche qui registriamo uno dei dualismi metafisici tipici della cultura occidentale e pure a causa di ciò il mondo è rimasto a lungo un mondo senza cuore o - come sostengono Ezechiele e Geremia (cfr. Ez 11, 19-20; Ez 36, 26-27; Ger 31, 31-34) - con un "cuore di pietra". Sono più che mai necessari, invece, un "cuore nuovo", una μετάνοια (conversione) dei cuori e delle menti, l'esercizio dell'Einfühlung (empatia), ossia della capacità di immedesimazione, di sentire l'altro, di metterci, in qualche modo e per quanto possibile, nel suo punto di vista.
Ora, una ragione non caratterizzata dalla παρρησία - ossia dal parlare libero e schietto, fresco e franco, caro alla grecità antica - e non finalizzata all'amore, alla condivisione, alla fraternità, alla giustizia, alla pace, alla solidarietà tra i popoli e le culture rimane certamente arida e - nella nostra epoca così fortemente condizionata dall'illimitata volontà di calcolo, potenza e dominio - rischia di condurre, come mera ratio strumentale-calcolante, alla desertificazione dell'uomo e della Terra.

Rispetto a tutto ciò la cultura politica della sinistra oggi mi sembra, nel suo complesso, del tutto inadeguata e non all’altezza. A destra e a sinistra dilaga una retorica rabbrividente del riformismo: quasi tutti, a destra e a sinistra, si riempiono la bocca di parole come “riforme” e “riformismo”, che risuonano però come mere parole vuote, seduttive, appunto retoriche. E’ questa la politica-spettacolo perfettamente inserita nei meccanismi e nelle modalità tipiche della società sirenico-spettacolare di cui è parte ed espressione. E’ questo ciò che oggi prevale, ma, se non torneremo a riscoprire le ragioni autentiche di un pensiero critico e di una cultura politica della sinistra al servizio dell’umanità planetaria – e non delle oligarchie economico-finanziarie oggi dominanti e profondamente influenti sulla politica odierna –, non solo non faremo passi avanti, ma  la stessa sinistra perderà pure il suo peculiare senso d’essere.

venerdì 27 marzo 2015


Pericolo droni per lo scalo aereo di Trapani Birgi
di Antonio Mazzeo


Come trasformare uno degli scali aerei low cost più trafficati d’Italia in un poligono sperimentale per i droni killer. Da quasi due anni l’aeroporto di Trapani Birgi è utilizzato da un’azienda privata straniera per testare nuovi velivoli senza pilota da esportare nei principali teatri di guerra internazionali. Decolli e atterraggi ad altissimo rischio per il traffico aereo passeggeri e spericolate evoluzioni sulle teste delle decine di migliaia di abitanti delle città di Trapani e Marsala e delle isole Egadi. Il 19 marzo scorso si è pure sfiorata la tragedia nello scalo siciliano. Alle ore 13, un prototipo di aeromobile a pilotaggio remoto P.1HH “HammerHead” (Squalo martello) della Piaggio Aerospace è uscito fuori pista durante le prove di rullaggio per la valutazione delle caratteristiche di ground handling. Il drone ha terminato la sua corsa nel prato circostante la pista, senza riportare danni di rilievo. La pista è stata temporaneamente chiusa, il traffico civile è stato dirottato sull’aeroporto di Palermo - Punta Raisi e gli sfortunati passeggeri hanno dovuto poi raggiungere Trapani in bus.
“L’evento è accaduto durante un’attività realizzata nell’ambito del programma di sviluppo e sperimentazione del sistema da parte della Piaggio Aerospace, cui l’Aeronautica Militare sta fornendo supporto tecnico-logistico a livello aeroportuale”, recita un laconico comunicato delle autorità aeroportuali. “L’Aeronautica Militare e Piaggio si sono attivate per rimuovere il mezzo e riaprire la pista nel più breve tempo possibile, al fine di ripristinare il normale traffico aereo militare e civile sulla base, così il traffico è ripreso alle 15.30 circa”.
Lo Squalo martello che si posiziona nella fascia alta dei velivoli a pilotaggio remoto MALE (Medium Altitude Long Endurance), è stato progettato e realizzato negli stabilimenti Piaggio di Villanova d’Albenga (Savona). Si tratta della versione senza pilota del bimotore P.180, utilizzato in ambito civile e militare da numerosi paesi al mondo. Con un’apertura alare di 15,5 metri, il drone può raggiungere la quota di 13.700 metri e permanere in volo per più di 16 ore. La missione è gestita da una stazione di terra, collegata attraverso un centro di comunicazione in linea di vista e via satellite. Il velivolo è stato dotato da Selex ES (gruppo Finmeccanica) di torrette elettro-ottiche, visori a raggi infrarossi e radar “Seaspray 7300” che consentono d’individuare l’obiettivo, anche in movimento, fornendo le coordinate per l’attacco aereo o terrestre, o colpendolo direttamente con missili e bombe a guida di precisione (lo Squalo martello può trasportare sino a 500 kg di armamenti).
Nei mesi scorsi l’Aeronautica italiana ha firmato con Piaggio Aerospace un contratto per l’acquisto di tre sistemi completi P-1HH con sei velivoli a pilotaggio remoto e tre stazioni di controllo terrestre (la consegna è prevista entro i primi mesi del 2016). I voli sperimentali del prototipo dello Squalo martello sono però condotti a Trapani Birgi dal novembre 2013, sotto la guida di un’équipe composta da tecnici di Piaggio e Selex-Finmeccanica e dal personale del 37° Stormo dell’Aeronautica di stanza nello scalo trapanese. L’ultimo ciclo dei test in Sicilia era stato annunciato ai piloti di aeromobili lo scorso 29 gennaio con il NOTAM B0443/15: “dal 15 febbraio al 15 aprile 2015, l’aerodromo potrebbe essere chiuso al traffico ogni giorno per 45 minuti previa autorizzazione e contatto radar durante l’esecuzione delle attività già preannunciate dal NOTAM W0191/15 (attività di velivoli senza pilota)”. Due mesi interi, dunque - comprensivi di feste pasquali - di pericoloso asservimento del traffico aereo civile per i profitti finanziari di una società, Piaggio Aerospace, il cui capitale azionario è in mano alla Mubadala Development Company, la società di investimenti strategici del governo degli Emirati Arabi Uniti.
L’aeroporto “Vincenzo Florio” di Trapani Birgi è classificato come “scalo militare destinato al ruolo di Deployement Operating Base (DOB)”: sostiene cioè i “rischieramenti temporanei” di velivoli da guerra italiani e NATO, ma le sue due piste lunghe rispettivamente 2.695 e 2.620 metri, possono essere aperte al traffico aereo civile “a determinate condizioni”. Attualmente lo scalo ospita il Comando del 37° Stormo dell’Aeronautica militare, il 18° Gruppo di volo dotato di otto caccia multiruolo di ultima generazione Eurofighter Typhoon per la sorveglianza dello spazio aereo mediterraneo e l’82° Centro CSAR (Combat Search and Rescue), equipaggiato con gli elicotteri HH-3F, con compiti di ricerca e soccorso degli equipaggi dispersi e il trasporto sanitario d’urgenza. Dalla seconda metà degli anni Ottanta, Trapani Birgi è pure la base operativa avanzata (FOB) degli aerei-radar E-3A AWACS nell’ambito del programma multinazionale NATO Airborne Early Warning Force per la sorveglianza integrata dello spazio aereo, il cui comando generale è ospitato a Geilenkirchen (Germania).

L’infrastruttura siciliana è stata una delle basi più utilizzate dalla coalizione internazionale per le operazioni di guerra in Libia, dal 19 marzo al 31 ottobre 2011: stando alle stime ufficiali, la NATO ha lanciato da Trapani quasi il 14% dei raid aerei contro obiettivi libici. Il conflitto ha comportato lo stop del traffico aereo civile per undici giorni di seguito, con effetti pesantissimi sull’economia e il turismo nella Sicilia occidentale. A quattro anni di distanza, il governo Renzi ha autorizzato l’esborso di una “prima” tranche di 5 milioni di euro a favore della società mista che gestisce lo scalo trapanese, come parziale risarcimento dei mancati guadagni durante la guerra alla Libia. Nel 2014 da Birgi sono transitati 1.598.571 passeggeri: donne, uomini e bambini ignari che un manipolo di militari e costruttori di droni testavano i futuri strumenti di distruzione di massa mettendo seriamente a rischio le proprie vite.
EVENTI
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EVENTI
Chiara Pasetti segnala ai lettori di Odissea un appuntamento a Roma
con lo scrittore francese Yves Pagès:
Martedì 31 marzo 2015, ore 19.00
Libreria minimum fax, Via della Lungaretta 90/E, Roma

Una canzone per "Ricordarmi di". Yves Pagès incontra i lettori.
Introduce e traduce Lorenzo Flabbi (L’orma editore).
Un gioco col passato fatto di piccoli frammenti, una canzone da cui tutto parte o a cui tutto arriva, uno degli scrittori più istrionici del panorama francese contemporaneo. Un brindisi per salutare Yves Pagès.
Yves Pagès
Yves Pagès è una delle figure più interessanti del panorama letterario francese. Scrittore e fondatore delle Éditions Verticales, intellettuale affascinante ed istrionico, pubblica per la prima volta in Italia con i tipi de L’orma un’opera a cui ogni definizione sta stretta: una narrazione per non dimenticarsi gli episodi di una vita intera che partono da un solo individuo per ritrovarsi in un’empatia collettiva. Frammento per frammento, episodi dalla sua memoria ma anche dati colti con la curiosità dell’umanista militante osservando la società che cambia a cavallo tra il XX e il XXI secolo. Come lui stesso lo ha definito, è un libro che parla moltissimo degli altri, attraverso le suggestioni raccolte nel corso degli anni dal suo sguardo di scrittore e osservatore. Una raccolta di riflessioni, di ricordi, dall’infanzia agli eventi di attualità, che non potranno non ricordare il Georges Perec di Je me souviens, ma con una profonda appartenenza alla nostra contemporaneità.
Ricordarmi di…
di non dimenticare che, nella massa degli iperattivi dell’auricolare e degli altri maniaci del telefono in dialogo con interlocutori ipotetici su una banchina della metropolitana, la panchina di un giardinetto o un passaggio pedonale, non sappiamo più distinguere i veri logorroici in stato di crisi acuta che vent’anni fa facevano voltare i passanti, dei quali ormai possiamo solo supporre che abbiano dovuto disertare la pubblica via o cambiare sintomo manifesto, rimuginando altrove la loro solitudine sovrappopolata.
Yves Pagès (Parigi, 1963) ha fatto il magazziniere, il libraio in nero, il bidello e ora è l’editore dell’autorevole casa editrice Verticales; è anche drammaturgo teatrale e animatore militante del dibattito culturale d’Oltralpe, nonché il rigoroso compilatore di una monografia su Louis-Ferdinand Céline più volte ristampata e l’autore per France Culture di numerosi testi radiofonici. Ma soprattutto, o forse no, è lo scrittore di una decina di opere di narrativa (tra le quali, in italiano, Piccole nature morte al lavoro) che gli sono valse il Prix Wepler e il Prix Choix des libraires.
Yves Pagès su Ricordarmi di (Souviens-moi): https://www.youtube.com/watch?v=qUI7F8z7
PER RI MANERE UMANI
Segnaliamo a tutti i nostri lettori, questi eventi culturali

 
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martedì 24 marzo 2015

Della prevalenza dei volgari nelle arti e in politica
Prendendo spunto dalle ragioni del declino della letteratura spagnola e ispanoamericana secondo Roberto Bolaῆo

di Mauro della Porta Raffo

Di seguito, quanto, riguardo al tema proposto, ebbe a scrivere Roberto Bolaῆo
nel luglio 1994 a Madrid. Credo sia possibile sostenere che le medesime origini
abbia il rovinoso declino in genere delle arti e della politica a livello mondiale
a partire dalla fine degli anni Sessanta del Novecento.


“Una volta gli scrittori spagnoli (e ispanoamericani) entravano sulla scena pubblica per trasgredirla, per riformarla, per bruciarla, per rivoluzionarla. Gli scrittori spagnoli (e ispanoamericani) provenivano in genere da famiglie benestanti, famiglie solide o con una certa posizione, e quando prendevano la penna in mano si rivoltavano e si ribellavano contro questa posizione: scrivere era rinunciare, era rinnegare e a volte era suicidarsi. Era andare contro la famiglia.
Oggi gli scrittori spagnoli (e ispanoamericani) provengono in numero sempre più allarmante da famiglie di classe bassa, dal proletariato e dal sottoproletariato, e il loro esercizio più consueto di scrittura è un modo per scalare la piramide sociale, un modo di sistemarsi avendo ben cura di non trasgredire nulla. Non dico che non siano colti. Sono colti come quelli di un tempo. O quasi.
Non dico che non siano lavoratori. Sono molto più lavoratori di quelli di un tempo. Ma sono anche molto più volgari. E si comportano da imprenditori o da gangster. E non rinnegano nulla o rinnegano solo quello che si può rinnegare e stanno bene attenti a non crearsi nemici o a sceglierli tra i più inermi. Non si suicidano per un’idea ma per follia e per rabbia. Le porte implacabilmente gli si spalancano davanti. E così la letteratura va come va. Tutto quel che inizia in commedia finisce immancabilmente in commedia!”





giovedì 19 marzo 2015

PER RI MANERE UMANI
L’Associazione Italia Mozart vi ricorda il concerto Pasquale
di mercoledì 25 marzo alle ore 21 nella magnifica cornice della
chiesa di San Marco a Milano (Via San Marco n. 2)
L’orchestra come sempre è diretta dal maestro Aldo Bernardi.
Per prenotare e ulteriori informazioni, cliccare sulla locandina.





Se potete non mancate




PER RICORDARE GILBERTO FINZI





I Cento numeri de “Il Segnale”



 
Lbro di Annamaria De Pietro





PRENDIAMOLI A CALCI


Ho aggiunto al mio intervento in Consiglio le sette righe finali. LEGGETE E DIFFONDETE
INTERROGAZIONE (al Consiglio di Zona 8 del 19 marzo 2015)

Oggetto: PRENDIAMOLI A CALCI

Egr. Presidente,
quattro settimane fa Lei – gliene diedi atto in quest’aula – mi rispose allegando i solleciti che aveva fatto agli assessori circa diversi lavori o progetti che interessavano e continuano a interessare la zona 8, la CLOACA MASSIMA DELLA CITTA’.
Se insisto tutti i giovedì è perché della documentazione progettuale non si è vista neanche l’ombra.
REITERO LA RICHIESTA DEL DOCUMENTO CHE CERTIFICHI PER ISCRITTO L’ARRESTO IN APPENNINI DELLO SCONCIO DELLA VIA D’ACQUA. SENZA CHE PROSEGUA, IN FUTURO, NEL PERTINI.
Lei si fida ed è per questo benvoluto, io no e considero un titolo di merito essere odiato dai potenti.
Sembrava che martedì dovessimo finalmente vedere il progetto Mac Mahon. Non ho potuto partecipare avendo preferito il CONVEGNO in Sala Alessi sulle prospettive del DOPOEXPO (se EXPO si farà con inaugurazione nel cortile di SAN VITTORE). Mi hanno riferito la “notizia” di martedì: il supervisore dell’opera (il tram 12 è stato fermato il 15 novembre) sarà CARRA. Una “non-notizia” dato che è uno dei massimi dirigenti del settore Verde e Ambiente. La sua direzione sarà stile PEROTTI?
Rimanendo in ambiente verde (per la sesta volta nelle ultime otto FEDRIGHINI è…assente) vi presento: “TRE ATTACCABOTTONI”.
L’architetto ALDO ROSSI (1931-1997) nel 1975 scrive:
“L’architettura dei cantieri milanesi non è andata oltre la proposta di BOTTONI (1903-1973) con QT8 e Monte Stella; così questi due fatti rimangono certamente gli esempi più importanti – e senza seguito – della situazione milanese.
E, due lustri dopo, aggiunge:
“Pochi sono i monumenti dell’architettura moderna che hanno un significato che va oltre la loro qualità tecnica. Lo sono di certo QT8 e Monte Stella. Bottoni trasforma un programma in una grande architettura: il Monte Stella”.
Come ogni grande architettura ingentilisce il mondo e aiuta gli esseri umani ad abitare. Una ragione questa che ne impone la massima cura e che “induce” i cittadini ad una difesa strenua dalle grinfie dei tre che, probabilmente, non sanno – o non ricordano – il valore dei DUE. Mi riferisco ai tre culturalmente sprovveduti che vogliono piazzarci i concerti della rassegna CITY SOUND. Per farne forse una CASA POUND?
 Luigi Caroli

Per gran parte le ultime considerazioni non sono mie (ho aggiunto il titolo “TRE ATTACCABOTTONI” e alcune trucide sottolineature) ma di GABRIELLA TONON che le ha pubblicate su ARCIPELAGO MILANO del 4 marzo 2015.
CONVEGNO A PALAZZO REALE
Organizzato da Anita Sonego, verteva sull’utilizzo del verde nell’ex piazza d’armi retrostante la caserma Perucchetti. Al tavolo sei donne su sette. Alla fine, mi sono calorosamente congratulato con la responsabile metropolitana per l’ambiente del (udite, udite) PD, avvocatessa Francesca. Il cognome non lo ricordo ma è una bella bruna.
Ha dichiarato:”LA POLITICA PER L’AMBIENTE DEL PD NON E’ QUELLA DELL’ASSESSORA DE CESARIS”
suscitando le vivaci proteste di una signora che era al tavolo in rappresentanza del WWF(difendono le fiere?) ma altresì gli applausi del pubblico. Candidatura affossata definitivamente?
La DAMANERA non la merita.
Vuole, d’accordo con BARBARELLA B., lo stadio in viale Scarampo. Il vecchio ladro e indagato che guida la FONDAZIONE FIERA cominci a restituire ai cittadini i 523 milioni incassati da Citylife per la vendita di parte dell’EX FIERA.
Quell’area e quei soldi erano dei milanesi. L’indagato ha dichiarato al GIORNO che, nella scelta, farà gli interessi della FONDAZIONE.
Lui DEVE FARE, essendo nominato dalla Regione, quelli dei cittadini. Pertanto almeno “tutta” la stecca “DEVE ESSERE ADIBITA A SCOPI SOCIALI”.
Lo stadio c’è già, è enorme e vi hanno appena portato la M5.
Ma…sia M5 che M4 sono state fatte per favorire LUPI, INCALZA, PEROTTI e gli incompetenti ladri che pullulano in METROPOLITANA MILANESE.

Prendiamoli a calci nell’area C.

Chi ha nominato PEROTTI come DIRETTORE LAVORI della M4 e della M5 è ancora più colpevole di lui e come lui DEVE FINIRE IN GALERA. A far compagnia a chi ha massacrato rapidamente e inutilmente gli alberi secolari di piazza Frattini. M4, fatta per rubare perché serve a poco d’altro, DEVE ESSSERE ANNULLATA IMMEDIATAMENTE. Tanto più che, dopo EXPO, non ci saranno soldi per pagarla.

SINDACO, SVEGLIATI. Invece di farti fotografare in sella alla bicicletta che stracosta ai milanesi, cerca di fare qualcosa contro la CORRUZIONE. A MILANO E’ GRANDISSIMA.
NUOVE AVVENTURE MILITARI  ITALIANE IN CORNO D’AFRICA
di Antonio Mazzeo


L’Italia ha donato all’esercito somalo 54 mezzi da guerra di seconda mano nell’ambito di un programma di cessione di equipaggiamento che include anche vestiario e altre dotazioni militari. La consegna è avvenuta a Mogadiscio lo scorso 5 marzo: si tratta di autocarri e veicoli multiruolo corazzati MAV 5 4x4 prodotti dalla Carrozzeria Boneschi Srl e da Iveco Spa, in grado di trasportare sino a sei persone e utilizzati la prima volta dalle forze armate italiane proprio in Somalia nel 1993, con l’Operazione Ibis. I mezzi saranno utilizzati dalle forze armate somale in attività di ordine pubblico e contro le milizie anti-governative degli al Shabaab.
Attualmente l’Italia partecipa alla missione d’addestramento EUTM Somalia (European Union Training Mission) dell’Unione europea, con 78 militari impiegati in vari ambiti. “Oltre alla formazione militare di base, a quella specialistica e a quella finalizzata alla leadership, EUTM fornisce al ministero della difesa ed alle forze armate nazionali della Somalia consulenza strategica sullo sviluppo del settore della sicurezza, anche per quanto riguarda la gestione del personale, la pianificazione strategica e la legislazione relativa alla difesa”, spiega il Ministero della difesa. Prorogata dal Consiglio dei ministri degli esteri europei fino al 31 dicembre 2016, la missione Ue ha contribuito sinora alla formazione di circa 4.000 militari somali e opera in stretta collaborazione con il Comando militare statunitense per il continente africano (US AFRICOM) ed AMISOM, la missione militare dell’Unione africana in Somalia. Dal gennaio dello scorso anno la base di EUTM è stata trasferita dall’Uganda nel complesso portuale-aeroportuale di Mogadiscio, mentre tutte le attività addestrative sono condotte presso il Jazeera Training Camp, sito a una ventina di chilometri dalla capitale. EUTM comprende a sua volta due missioni Ue complementari: EUNAVFOR Somalia - Operazione Atalanta contro la pirateria al largo delle coste somale ed EUCAP Nestor “per lo sviluppo delle capacità nel settore della sicurezza marittima nel Corno d’Africa e nell’Oceano indiano occidentale”. Dal 6 agosto 2014 al 3 marzo 2015, l’Italia ha dispiegato per EUNAVFOR nell’aeroporto di Chabelley, Gibuti, i velivoli a pilotaggio remoto Predator A+ del 32° Stormo dell’Aeronautica. I droni sono stati impiegati in ben 28 interventi (con oltre 300 ore di volo) per la raccolta dati d’intelligence, la ricognizione e la sorveglianza in mare e sulla terra ferma.
Le forze armate italiane guidano da più di due anni le attività di EUTM in Corno d’Africa. Dall’8 marzo scorso, Bruxelles ha nominato comandante della missione il generale di brigata degli alpini Antonio Maggi, che ha sostituito il gen. Massimo Mingiardi. “EUTM Somalia rischia di fallire nelle sue finalità addestrative e di equipaggiamento del Somali National Army (SNA) se gli Stati Uniti e l’Unione europea non assicureranno congrui finanziamenti a lungo termine”, ha dichiarato il gen. Mingiardi, prima di lasciare il proprio incarico. Nello specifico, il militare ha invitato Bruxelles ad impiegare i 2,5 milioni di euro stanziati nel 2015 per EUTM, nell’acquisizione di attrezzature “non letali” e nella costruzione in Somalia di caserme, alloggi e altre infrastrutture. Intanto, lo scorso mese di febbraio, i militari italiani di EUTM  Somalia hanno donato una serie di attrezzature ai soldati somali che hanno frequentato i corsi tenuti a Mogadiscio: blu guns (repliche di armi in plastica blu, necessarie per l’addestramento di base individuale e di squadra), scudi e caschi protettivi, maschere antigas e altri accessori per le operazioni anti-sommossa e di ordine pubblico. Nell’aprile 2014, l’Italia aveva consegnato alle forze di polizia somale pure 30 veicoli blindati.
Decine di ufficiali somali sono addestrati in questi mesi a Livorno presso le apposite strutture del Comfose, il Comando Forze Speciali dell’Esercito, dagli incursori del  9° Reggimento d’Assalto “Col Moschin”, reparto d’eccellenza della Brigata Folgore. Le attività rientrano nel programma di cooperazione militare rivolto alla Somalia, avviato dopo la firma a Roma, nel settembre 2013, di un Memorandum bilaterale nel settore Difesa e gli accordi messi a punto con la visita a Mogadiscio, il 10 ottobre 2014, dell’allora Capo di stato maggiore, ammiraglio Luigi Binelli Mantelli. Contestualmente ha preso il via a Gibuti la missione addestrativa MIADIT dell’Arma dei Carabinieri, “volta a favorire la stabilità e la sicurezza della Somalia e dell’intera regione del Corno d’Africa, accrescendo le capacità nel settore della sicurezza e del controllo del territorio da parte delle forze di polizia somale”. I moduli formativi per 150-200 agenti somali alla volta, hanno una durata di 12 settimane e sono curati da un team di 30 militari dell’Arma. L’ultima fase di MIADIT ha preso il via il 24 febbraio scorso ed è stata estesa pure a 40 elementi delle forze di polizia gibutine con istruttori provenienti dal GIS - Gruppo Intervento Speciale (specializzato in operazioni antiterrorismo), dal 1° Reggimento Paracadutisti “Tuscania” e dai ROS dei Carabinieri. Nell’ambito dell’accordo sottoscritto tra le forze amate italiane e quelle di Gibuti, nel giugno dello scorso anno sono stati consegnati al piccolo paese africano pure sei blindati 4x4 “Puma” e una decina di obici semoventi M-109L da 155 millimetri prodotti da Oto Melara, dismessi in Italia dopo l’acquisto dei nuovi semoventi Pzh-2000.
Il decreto del governo Renzi del 10 febbraio scorso che ha rifinanziato le missioni militari all’estero fino al 30 settembre 2015, ha destinato complessivamente 21.235.771 euro a favore di EUTM Somalia, EUCAP Nestor, al funzionamento della base logistica dell’esercito italiano a Gibuti (operativa dal 2013) e alla proroga dell’impiego di personale militare in attività di addestramento delle forze di polizia somale e gibutiane. Altri 29,4 milioni di euro sono stati stanziati per la partecipazione delle unità navali della Marina alla missione antipirateria “Atalanta” nel Golfo di Aden. Fuori bilancio la spesa necessaria ad aprire, quest’anno a Mogadiscio, una missione autonoma italiana di “consulenza e assistenza militare” delle forze armate somale, come auspicato dai vertici della difesa qualche mese fa.

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PAGINAUNO
La copertina del nuovo numero di Paginauno

In questo numero
Syriza e Podemos, socialdemocrazia ed Europa: la resa dei conti di una sinistra miope. Libertà di stampa al servizio del sistema dominante: pesi e misure intorno a Charlie Hebdo. Deserto culturale: letteratura e pensiero unico, il mito del progresso, l’idiozia delle masse. Lega Nord, la rivoluzione in camicia nero-verde: Matteo Salvini tra populismo e liberismo. Scioperiamo Expo: l’invasione del cantiere e l’ipocrisia dei sindacati targata Esposizione Universale. Il califfato dell’IS: guerra fra imperialismi occidentali e mediorientali. E ancora: letteratura e adulazione, intervista agli Inventionis Mater, recensioni di romanzi, saggi e film, e la copertina di Roberto Cracco. E tanto altro...


           


mercoledì 18 marzo 2015


IL PENSIERO IN BREVE
Pubblichiamo qui in prima pagina questo testo della scrittrice torinese Anna Antolisei, per alcune buone ragioni: perché siamo innamorati della forma breve del narrare; perché da sempre “Odissea” ospita fra le sue pagine aforismi e riflessioni brevi (si veda in questa stessa pagina la riflessione del filosofo Fulvio Papi su un aforisma di Karl Kraus) spesso più efficaci di un intero saggio (si vedano gli aforismi di Laura Volante, e altri); perché Anna si è dedicata alla difesa di questo splendido e insidiosissimo genere da molti anni, proteggendolo dalla marginalità e dall’oblio; perché con un gruppo di amici e letterati (ad esempio Sandro Montalto) ha ora avviato una sfida meritoria: ha dato vita all’Associazione Italiana per l’Aforisma, a cui “Odissea” augura il meritato successo. (a.g.)  

Anna Antolisei

L’aforisma, in quanto rampollo prediletto della “scrittura breve”, ed in qualità di forma letteraria nata in tempi antichissimi, ha vissuto in Italia momenti gloriosi, e non soltanto nel nostro fulgido Novecento. In ogni secolo, infatti, grandi scrittori, filosofi, accademici, politici hanno magistralmente usato la “forma breve” a sostegno di una loro verità, o scelta, o proposta, o visione del mondo attraverso il proverbio, l’epigramma, il detto memorabile, l’apoftegma, la sentenza, l’adagio, il motto, la freddura, lo slogan; tutte, a modo loro, “forme brevi” che hanno trovato una vasta diffusione perché furono - e sono - considerate “figlie della gnomica”, vale a dire discendenti dirette della filosofia della conoscenza. Si confermano, insomma, le creature preferite da chi ama la “verità in gocce”; e la gnomica era appunto una forma di sapienza non sistematizzata che si esprimeva, già nei tempi antichi, attraverso l’estrema sintesi e cioè nella forma di “pensiero distillato”.
L’aforisma in particolare, essendo perlopiù la goccia di veleno che viene cinicamente gettata nel cocktail del quotidiano che dobbiamo vivere, conserva lo scopo di graffiare la contemporaneità per indurre noi tutti ad avventurarci in quelle riflessioni che, senza un opportuno stimolo, non saremmo affatto ansiosi di fare.
L’Associazione Italiana per l’Aforisma lavora assieme a coloro che amano e che si dedicano alla “scrittura breve” affinché tanta ricchezza e tanta utilità non debbano perdersi nel marasma, rumoroso e vuoto, della prevalente letteratura commerciale d’oggi.
Non basta: l’Associazione mira anche a gettare un solido ponte tra culture e lingue diverse avvicinando gli aforisti italiani ai colleghi di “extra moenia” stimolando così un fertile confronto. Il Premio Internazionale per l'Aforisma “Torino in Sintesi”, giunto alla sua quarta edizione nel 2014, si sta rivelando il veicolo più efficace per raggiungere lo scopo.
L'Associazione persegue poi il fine di creare molteplici occasioni d’incontro in patria atte a dare maggiore visibilità ad un genere ancora considerato, a torto, troppo elitario; vuole altresì incrementare le pubblicazioni degli aforisti italiani di valore perché ne sia, anche internazionalmente, riconosciuto il merito attraverso la traduzione delle loro opere.
E tanto altro ancora mette in campo l’Associazione Italiana per l’Aforisma, godendo del supporto e del consiglio dei più stimati massimatori e studiosi oggi operanti nel nostro Paese. Senza mai perdere di vista - attenzione! - la qualità delle opere: condicio sine qua non perché la “scrittura breve” italiana possa a tutt’oggi brillare, protraendo nel tempo la sua grande tradizione di geniale creatività.
Anna Antolisei - (Presidente)


Associazione Italiana per l'Aforisma: viale Enrico Thovez, 57/8 - 10131 Torino
E- mail:
segreteria@aiplaforisma.org - Tel: 331 3470426 
CORRUZIONE
Laura Margherita Volante

“Ercole Incalza i Lupi
per appalti pubblici da divorare”.

Laura Margherita Volante
PER UN MANIFESTO MILANESE
di Giovanni Bianchi

           
La solitudine dell'interrogativo
Non mi scoraggia la sensazione che proporre in questa fase una sorta di esame di coscienza sullo stato della formazione politica possa apparire l'iniziativa di un gruppo di simpatici alcolisti anonimi in un Paese se non ubriaco almeno alticcio da tempo. Né diminuisce il disagio se provo criticamente a invertire la metafora: saremmo noi gli abituati a un vino robusto e pregresso, mentre da qualche tempo va di moda una bevanda insieme energetica ed analcolica i cui effetti collaterali non sono tuttavia stati testati... Ma il riproporsi degli interrogativi e il prolungarsi del disagio né convincono né aiutano a vivere. Da qui l’iniziativa di guardare dentro al problema mentre mettiamo sotto osservazione le nostre esperienze.
Sappiamo anche che non è più tempo di manifesti, ma di umili (non modesti però nel livello e nell'ambizione) e volenterosi cenacoli.
Ovviamente le decisioni passano altrove ed abitano le immagini della pubblicità che, anche nell'agone politico, ha sostituito la propaganda. E il primo interrogativo è se abbia un senso pensare politicamente senza preoccuparsi immediatamente della decisione conseguente, ed anzi inseguendo i meandri e le pause del pensiero che sempre più raramente viene a noi e che ha tutta l'aria di perdersi nei suoi labirinti gratuiti.
C'è un interrogare politicamente la storia e la contingenza che eviti non soltanto l'inefficienza ma anche l'insensatezza? C'è una politica in grado di prescindere dalla valutazione critica e dalla ruminazione di chi medita? Può il decisionismo legittimare se stesso ed esibire quasi con sarcasmo e con il dileggio della fatica di pensare la propria potenza?
La nuova logomachia da talkshow, che ha sostituito l'antica eristica, può tradurre indefinitamente l’audere semper – che notoriamente non è un mantra della sinistra – nell'ossessione del linguaggio mediatico che ci condiziona da sopra e da fuori? È destinata a risultare eterna la stagione del narcisismo vincente? (E quanti possono vincere nel narcisismo vincente?)
Sono questi soltanto una parte degli interrogativi che ci sospingono ad una riflessione sulla formazione politica e più ancora sulla latitanza di una cultura politica, che è la condizione più evidente di questa stagione senza fondamenti.

Oltre una divisione del lavoro generazionale

Opera di Rod Dudley

Parrebbe stabilita una divisione generazionale del lavoro: alle nuove generazioni l'ossessione del fare (che si presenta come l'ultima versione del riformismo); agli anziani il rammemorare nostalgico, sconsolato e non raramente brontolone. È una condizione tale da impedire se non un lavoro almeno un punto di vista comune?
È risaputo che il realismo sapienziale afferma che comunque ogni generazione deve fare le sue esperienze. E tuttavia è il processo storico a tenere insieme e concomitanti le diverse generazioni. Lo evidenziava Palmiro Togliatti ricordando don Giuseppe De Luca a un anno dalla sua morte: "Una generazione è qualcosa di reale, che porta con sé certi problemi e ne cerca la soluzione, soffre di non averla ancora trovata e si adopra per affidare il compito di trovarla a coloro che sopravvengono. E in questo modo si va avanti".
È in questa prospettiva che ci pare abbia senso riferirsi a quello che vorrei chiamare il guadagno del reducismo. Purché il reduce abbia coscienza d'essere tale, sappia cioè che il suo mondo è finito e non è destinato a tornare. Troverà ancora in giro tra i vecchi compagni e militanti il richiamo della foresta, ma le foreste sono tutte disboscate, non ci sono più, nessuna foresta, per nessuno.
Il reduce ha anche il vantaggio di osservare come la storia abbia rivisitato le contrapposizioni del passato, rendendole meno aspre e consentendo meticciati un tempo impensabili.
Le distinzioni ovviamente non vengono meno, ma diverso è l'animo e diversa l'intenzione di chi, pur avendole vissute, le misura oggi con il senno di poi. Vale anche in questo caso l'osservazione di Le Goff e Pietro Scoppola: la storia discende dalle domande che le poniamo.
E tuttavia, reduci da che? Può dirsi in sintesi e alle spicce, dal Novecento.
È il Novecento un secolo che non fa sconti, né a chi lo giudica "breve", alla maniera di Hobsbawm, né a chi lo giudica invece "lungo", come Martinazzoli e Carlo Galli. Per tutti comunque non si tratta di un secolo dal quale sia facile prendere congedo.
Possiamo infatti lasciare alle nostre spalle il gettone e perfino il glorioso ciclostile, ma sarebbe imperdonabile scialo non mettere nel trolley Max Weber e Carl Schmitt, La montagna incantata e i Pisan Cantos, e quel patriottismo costituzionale, non ostile alle riforme della Carta, che resta probabilmente l'ultimo residuo di un idem sentire di questa Nazione rigenerata dalla Lotta di Liberazione e distesa su una troppo lunga penisola.

Gli esiti      

Diceva il cardinal Martini con l'abituale ironia: "La politica sembra essere l'unica professione che non abbia bisogno di una preparazione specifica. Gli esiti sono di conseguenza".
Anche la politica cioè nella stagione dell'assenza di fondamenti e dei populismi non può prescindere dalla ricerca di radici fondanti e di un progetto in grado di costituire una terrazza sull'avvenire. Di preparazione, training e selezione dei gruppi dirigenti.
Per dirla alla plebea, anche in politica non si nasce "imparati". Una condizione che costringe altrimenti a prender parte e partito alla maniera del tifoso piuttosto che del cittadino come arbitro (chi ricorda più Roberto Ruffilli?) o del militante: nel senso che lo schierarsi viene prima della critica e della valutazione, con una implementazione massiccia delle spinte emotive che si accompagnano ai poteri mediatici. Una condizione non più concessa neppure ai più assennati tra i tifosi del vecchio Torino... Una condizione costretta ad attraversare lo stretto sentiero che separa ed unisce oggi dovunque la governabilità  e la democrazia.
I conti con il ruolo della cultura politica e di una formazione specifica incominciano inevitabilmente qui. Ed è qui che il confronto con Giuseppe Dossetti torna utile al di fuori e lontano da ogni inutile intento agiografico.
Vi è infatti un'espressione, opportunamente atterrata dai cieli tedeschi nel linguaggio giuridico e politico italiano, che definisce l'impegno dossettiano dagli inizi negli anni Cinquanta alla fase finale degli anni Novanta: questa espressione è "patriottismo costituzionale".
Dossetti ne è cosciente e la usa espressamente in una citatissima conferenza tenuta nel 1995 all'Istituto di Studi Filosofici di Napoli: "La Costituzione del 1948 – la prima non elargita, ma veramente datasi da una grande parte del popolo italiano, e la prima coniugante le garanzie di eguaglianza per tutti e le strutture basali di una corrispondente forma di Stato e di Governo –   può concorrere a sanare ferite vecchie e nuove del nostro processo unitario, e a fondare quello che, già vissuto in America, è stato ampiamente teorizzato da giuristi e da sociologi nella Germania di Bonn, e chiamato 'Patriottismo della Costituzione'. Un patriottismo che legittima la ripresa di un concetto e di un senso della Patria, rimasto presso di noi per decenni allo stato latente o inibito per reazione alle passate enfasi nazionalistiche, che hanno portato a tante deviazioni e disastri".
Vi ritroviamo peraltro uno dei tanti esempi della prosa dossettiana che ogni volta sacrifica alla chiarezza e alla concisione ogni concessione retorica. Parole che risuonavano con forza inedita e ritrovata verità in una fase nella quale era oramai sotto gli occhi di tutti la dissoluzione di una cultura politica cui si accompagnava l'affievolirsi (il verbo è troppo soft) dell'etica di cittadinanza della Nazione.
Non a caso la visione dossettiana è anzitutto debitrice al pensare politica dal momento che uno stigma del Dossetti costituente è proprio l'alta dignità e il valore attribuito al confronto delle idee, il terreno adatto a consentire l'incontro sempre auspicato tra l'ideale cristiano e le culture laiche più pensose. Avendo come Norberto Bobbio chiaro fin dagli inizi che il nostro può considerarsi un Paese di "diversamente credenti".
Dove proprio per questo fosse possibile un confronto e un incontro su obiettivi di vasto volo e respiro, e non lo scivolamento verso soluzioni di compromesso su principi fondamentali di così basso profilo da impedire di dar vita a durature sintesi ideali.
Il secondo lascito dossettiano lo troviamo invece quasi al tramonto della sua esistenza terrena: "Ho cercato la via di una democrazia reale, sostanziale, non nominalistica. Una democrazia che voleva che cosa? Che voleva anzitutto cercare di mobilitare le energie profonde del nostro popolo e di indirizzarle in modo consapevole verso uno sviluppo democratico sostanziale".
Questo il fine. Interpreto così: come se il monaco di Monte Sole ci dicesse che la democrazia non è soltanto un metodo, ma un bene comune come l'acqua e come il lavoro.
Dove infatti una formazione politica all'altezza di questa crisi si distingue dall’aggiornamento tecnologico cui si dedicano con diversa competenza università ed aziende? Ripensare la formazione politica significa riscoprirne la vocazione democratica. Senza questa nota dominante ricadremmo comunque nelle regioni e nelle ragioni degli specialismi.
Dossetti si confida al clero di Pordenone in quello che mi pare possibile considerare il suo testamento spirituale: la conversazione tenuta in quella diocesi presso la Casa Madonna Pellegrina il 17 marzo 1994 e pubblicata con il titolo Tra eremo e passione civile. Percorsi biografici e riflessioni sull’oggi, a cura dell'associazione Città dell'Uomo.
E il mezzo individuato come il più adeguato per raggiungere il fine è per Dossetti l'azione educatrice: "E pertanto la mia azione cosiddetta politica è stata essenzialmente azione educatrice. Educatrice nel concreto, nel transito stesso della vita politica. Non sono mai stato membro del Governo, nemmeno come sottosegretario e non ho avuto rimpianti a questo riguardo. Mi sono assunto invece un'opera di educazione e di informazione politica."
Dunque un’azione politica educatrice nel concreto, nel transito stesso della vita politica. Un ruolo e un magistero al di là della separatezza delle scuole di formazione, nel concreto delle vicende e del confronto e – si immagina facilmente, con a disposizione la documentazione di un intero itinerario –   prendendone di petto i conflitti e le asprezze. Che appare con tutta evidenza la vocazione di una leadership riconosciuta, il ruolo che fu dell'intellettuale organico, del partito politico come in parte era e come dovrebbe essere, pur ipotizzandone impreviste metamorfosi: capace cioè di organizzare persone e gruppi intorno a un progetto e a una linea di pensiero.

La formazione di un punto di vista


Quel che non cessa di apparire urgente è la formazione di un nuovo punto di vista.
Il processo di rottamazione ottiene una sua plausibilità dal trascinarsi di inerzie in grado di impedire ogni riforma, ma è costretto a non ignorare due circostanze dirimenti.
In primo luogo, la velocità introdotta nei processi politici in nome di una governabilità in conflitto con una democrazia incapace di decidere ha finito per attraversare tutto il quadro democratico e quello che un tempo si era usi chiamare "l'arco costituzionale". E quindi inevitabilmente – probabilmente assai prima di quando preventivato – finirà per incalzare gli stessi rottamatori.
In secondo luogo, se provvedimenti intesi a promuovere e garantire democraticamente il ricambio non verranno tempestivamente varati, si assisterà al rapido ricrearsi di una nuova casta: una sorta di burocratica "metempsicosi" che vedrà l'anima castale passare da vecchi e attempati organismi a nuovi e più energetici personaggi.
Eroi non si rimane, sta scritto nelle lettere dei condannati a morte della Resistenza Europea. Probabilmente non è neppure un destino quello di restare riformatori in eterno. Le riforme sono come le sirene: prima ammaliano – anche gli elettori e le masse – con il canto e poi ti attirano tra marosi imprevisti dove ancora una volta navigare necesse est.
È a questo punto che il ruolo della cultura politica ridiventa strategico. E quello della formazione indispensabile a garantire la "plasticità" e l'ascolto democratico di un nuovo personale politico. Ed è ancora a questo punto che la creazione di un punto di vista comune e condiviso chiede di essere valutata e messa alla prova: altro del resto non chiede questa convocazione milanese.
Un lavoro ed un cenacolo (consapevole del proprio peso) che, come il buon scriba, tragga dalla cultura politica le cose utili e buone del passato per confrontarle con il presente e il futuro. Un ambito dove la vecchia generazione non faccia senza discernimento carta straccia di tutte le posizioni lungamente studiate e consenta alle nuove di appropriarsene per volgerle in decisione ed azione. Senza confusione di ruoli e furbate reciproche.
Spetta ai "reduci" sottoporre a giudizio le antiche posizioni. Spetta alle nuove generazioni l'azione riformatrice.
È palese l'esigenza di confrontarsi senza remore pregiudizievoli con lo spirito del tempo, ma anche di additare gli strumenti della critica al medesimo spirito del tempo. Tutto può fare il nuovo riformismo tranne che astenersi da una critica costruttiva. Il nuovo non è allontanamento dal vecchio e dall'antico, ma critica e superamento – non solo innovazione, ma trasformazione – di alcune tra le cose antiche e instaurazione delle nuove.
Qualora dimenticasse a casa le armi della critica, cadrebbe inevitabilmente nella sostituzione del vecchio con il vuoto e si esporrebbe al patetico della ripetizione sotto forme diverse.
Prima che un problema di ruoli, riflettere sullo stato della formazione politica vuol dire chiedere se essa sia oggi possibile e a quali condizioni. Vuol anche dire mettere in campo, magari a tentoni, nuovi tentativi e nuove esperienze.
Perché il coraggio della politica non può essere inferiore a quello della cultura.

Due elementi di prospettiva


Esiste un orizzonte di breve termine? Due indicazioni mi paiano in questo senso utili.
La prima riguarda l'inarrestabile sviluppo delle tecnologie della comunicazione, in particolare quelle elettroniche. Una democrazia postmoderna ed efficiente non può semplicemente ripararsi da esse. Le frizioni tra governabilità e democrazia trovano anche su questo piano le occasioni di confronto così come le modalità delle soluzioni partecipate.
Si tratta di fare conti inevitabili con la cultura delle reti, che riguarda più da vicino la politica rispetto alle altre discipline. In particolare non sono pensabili la comunicazione politica e la partecipazione, anche sul territorio, a prescindere da un confronto serrato, critico e creativo con le nuove generazioni dei media. Esse non possono pensare di consistere al posto della democrazia rappresentativa, ma la democrazia rappresentativa non può ostinarsi ad ignorarle.
In secondo luogo penso vadano positivamente valutate le iniziative recenti che sembrano rompere un lungo indugio – addirittura uno stallo – per mettere testa e mano alla riorganizzazione del partito. Considero infatti tali gli incontri che dichiarano di avere come scopo la costruzione di nuove correnti intorno a un idem sentire e a un nucleo culturale condiviso.
Credo rappresentino l'occasione per riaffrontare il tema della partecipazione e dell'organizzazione politica, in un Paese che – unico in Europa e al mondo – ha azzerato dopo Tangentopoli tutto il precedente sistema dei partiti di massa.
Oltre la pratica opportuna delle primarie, che comunque hanno costituito la surroga di un mito originario, l'organizzazione partitica ribussa alla vita democratica quotidiana. Il partito cioè torna ad essere lo strumento intorno al quale si riorganizzano la ricerca, la partecipazione, la formazione della classe dirigente. In una prospettiva che, in sintonia con le dichiarazioni dei padri fondatori – qualcuno  di loro arrivò a dire che la nostra era una Repubblica fondata sui partiti – riproduce la fisiologia costituzionale e rimette al centro dell'attenzione i corpi intermedi.
Il partito moderno (e anche postmoderno) infatti si costruisce attraverso le correnti. Correnti in grado pluralmente di alludere e lavorare oltre se stesse alla strutturazione di  una comune compagine. Con la coscienza diffusa che così come il partito è parte di una democrazia complessa e dialettica, la corrente è parte di un partito plurale ma unitario.
Il solito vecchio Togliatti amava ripetere che i partiti sono la democrazia che si organizza. I partiti, ma non solo: non si possono dimenticare i corpi intermedi. Quelli tradizionali e quelli nuovi, che contribuiscono a costruire quella rete di relazioni democratiche che, creando senso e relazioni, concorrono a costituire quel tessuto che negli Stati Uniti d'America viene solitamente definito civil religion e che da noi rappresenta e insieme indica il bisogno di un'etica di cittadinanza.
Riempire di contenuti, senso, relazioni,  reti organizzative il contenitore partito è un modo per andare oltre i populismi che si sviluppano nelle politiche senza fondamenti. Non per fermare il vento con le mani, ma per tornare a far viaggiare venti – condivisi – di speranza.

                                                                        
                         
                                                                                                          




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