FERRAGOSTO DI LUCI E OMBRE
di Angelo Gaccione
Quand’ero ragazzo e sentivo che ci si scambiava gli auguri per
Ferragosto rimanevo sempre molto perplesso. Non ne capivo la ragione. Molto più
tardi compresi che la ricorrenza era stata collegata dalla chiesa cattolica
all’Assunzione, ed infatti, nella mia città ci si recava nel quartiere storico
di Padìa per rendere omaggio alla santa nell’omonima chiesa, e ad assistere
sulla piazzetta Azzinnari alla festa tutta laica a base di canzonette moderne e
di intrattenimento. Con la diffusione dell’automobile anche fra i ceti
popolari, Ferragosto diventò il rito della scampagnata mangereccia. Si
preparavano succulente pietanze e si partiva per salire in Sila. I più
ardimentosi partivano in piena notte per accaparrarsi il posto migliore dove
arrostire salsicce e carni alla brace, stare all’ombra, avere a portata di mano
l’acqua fresca di quel meraviglioso altopiano folto di pinete. La mia città si
svuotava e i cocomeri, alcuni raggiungevano i 25 chili, erano un trionfo di
colori su tutti i tavolati di fortuna o sulle stuoie e le coperte stese sopra i
prati. Feriae Augusti,
cioè la festa in onore di Augusto di cui il mese prendeva il nome, lo diventò
più tardi, quando i miei studi e l’interesse per l’etimologia si irrobustirono.
La storia ci ricorda che i festeggiamenti riguardavano ogni parte dell’Impero e
si gli animali, addobbati di fiori, prendevano parte a
corse o a sfilate. Una buona pratica perché almeno in quei giorni uomini e
animali gravati dalle fatiche, potevano riposare e avere il giusto
riconoscimento della loro importanza e utilità. In origine la festa si
celebrava ai primi del mese e come si vede aveva un carattere preminentemente
pagano e laico. Fu molto più tardi che la Chiesa ne spostò la data e la fece
coincidere con l’Assunzione di Maria. Durante l’età rinascimentale nello Stato
Pontificio fu resa addirittura obbligatoria e gli auguri che i contadini e i
lavoranti formulavano ai loro padroni ottenendone una piccola ricompensa,
mutarono significato. Gli auguri avevano ora un carattere religioso e gli onori
tributati alla madre del Cristo con processioni, candele e altri riti. Le gite
fuoriporta o i viaggi di una certa distanza dai propri luoghi furono promossi
in epoca fascista. Strumento di consenso politico come lo era stato in epoca
augustea, e strumento di consenso sotto il fascismo, Ferragosto dava alle
classi popolari l’opportunità di vedere luoghi mai visti prima e conoscere
città, mari, laghi, montagne. Ci si muoveva con treni a tariffe scontate e
spesso in maniera collettiva grazie alle varie associazioni, soprattutto
dopolavoristiche, che il regime favoriva. Del Ferragosto, e della sua
atmosfera, hanno parlato cinema e letteratura, e si potrebbe farne una robusta
campionatura. Da Alberto Moravia con il suo racconto Scherzi di Ferragosto
fino a Carlo Cassola col suo romanzo apocalittico Ferragosto di morte, e
via via proseguendo con il giallista Renato Olivieri con il suo Maledetto
Ferragosto, con Raffaele Crovi e il suo Ladro di Ferragosto, con Ferragosto
addio! di Luca Ricci e chiudendo con Feria d’agosto dello scrittore
piemontese Cesare Pavese. Ma che cosa è rimasto ora del Ferragosto della mia
adolescenza? Nulla. Città desolatamente svuotate, tristi e infuocate da un
lato; prese d’assalto da orde di turisti dall’altra e sporcate, rese rumorose,
a volte sfregiate nei loro patrimoni, speculativamente care e fuori controllo
nelle località marine e rivierasche. Giorno più caro in assoluto, privilegio da
ricchi. E con tante solitudini di anziani, malati e poveri. Abbandonati come i
cani sulle autostrade, considerati un inutile peso, uno scarto.