NEL 10° AVVERSARIO DELLA MORTE DI PEPPO PONTIGGIA
di Pier Luigi Amietta
§ Approfitto spudoratamente della sua impossibilità di replicare, lui che ci ha lasciato un gustoso raffinatissimo opuscolo intitolato “Gli aggettivi nella critica letteraria” e dico che tutta la sua arte di scrittore - e anche tutta la sua vita di uomo - potrebbero essere strette in due coppie di aggettivi nelle quali circoscriverle, senza limitarle: semplice e preciso, limpido e profondo: sembrano due ossimori, e invece sono le sue cifre essenziali, le quattro dimensioni ch’egli integrava e rendeva continuamente compatibili con la letteratura, la critica, la poesia, l’arte dello scrivere, non meno che ogni suo altro approccio con le persone e col mondo. E questo è un indicatore sicuro dei veri grandi.
§ Pontiggia non “faceva” lo scrittore-maître-à-penser, per la ragione dirimente che lo era. Di conseguenza, non era mai andato nei salotti altoborghesi a recitare la commedia dell’intelligenza ad uso delle signore. Eppure, chiunque l’avvicinasse, anche soltanto per un’ora, ne usciva misteriosamente arricchito. In prima persona posso testimoniare quanto era generoso nel dare e quanto grato nel ricevere: gli portai il testo d’un mio libro appena finito (“Dal gesto al pensiero”), di circa seicento pagine, lamentando che l’editore mi richiedeva di tagliare centoquaranta pagine, e sperandolo solidale con le mie resistenze. Me lo restituì dopo nemmeno un mese, dicendo testualmente: «È un libro importante» -non spendeva mai un aggettivo a caso – ma disse subito: «Taglia quelle pagine: vedrai che ne uscirà un libro migliore».
In altra occasione, mentre si parlava di scrittura e di scrittori, mi disse che non conosceva - e io strabiliai, perché pensavo sinceramente che avesse letto tutto – i “33 paradossi dello scrittore” che Giovanni Papini si era divertito a enumerare nel suo “Eresie letterarie”. Parve incuriosito e aggiunse in tono modesto: «Mi faresti copia di quelle pagine? Mi potrebbero servire per un lavoro che sto facendo»; fui felice di farlo, ancora incredulo che io potessi, per una volta, essergli utile sul terreno dove lui era “signore e donno”.
§ Era anche un autoironico gourmand e un fine intenditore di vino. Con Lucia e Andrea, fu a pranzo a casa nostra in due o tre occasioni, mostrando di apprezzare con semplice gioia un buon piatto di polenta e cazzoeula, accompagnato da un’umile Bonarda. Purché - fu chiarissimo dopo la prima volta e molto lusinghiero per la cuoca (mia moglie Mila) e per l’apprendista stregone sommellier (io)- la cazzoeula fosse fatta a regola d’arte e la Bonarda fosse genuina. Una volta, giunti al digestivo, forse colto a tradimento da un attacco di super-io, sospirò: «Forse ho esagerato…». Pensai di confortarlo: «Sei sempre in tempo a metterti a dieta». Mi lanciò uno sguardo, con la stessa espressione canzonatoria che ha sul retro de “I Meridiani” curato da Daniela Marcheschi: «Io sono a dieta da trent’anni. Le ho provate tutte…». Poi, in tono semiserio: «…ma non riesco a fare la sola che potrebbe funzionare e che mi ha suggerito il mio medico: “mangi di tutto, ma solo un terzo di quanto magia abitualmente…”».
§ Condivideva le migliori qualità dei migliori. La sua attenzione maniacale alla parola superava quella di Giulio Nascimbeni: poteva toglierti il saluto per un frase sgangherata o un aggettivo fuori posto, ma era altrettanto inflessibile con se stesso (altamente formativa, in questo senso la lettura comparata delle due versioni de “La grande sera”); la sua ironia gareggiava vittoriosamente con Flaiano, del quale non raggiungeva mai il tagliente sarcasmo; con la sola eccezione, forse, de “L’arte della fuga”, la sua “leggerezza” avrebbe costituito un paradigma ideale per Itali Calvino. Tutto, sempre, con semplicità, con naturalezza, senza soprassalti schizoidi, come un grande ininterrotto respiro del pensiero: semplice e preciso, limpido e profondo. Peppo Pontiggia.