QUESTIONE DI LESSICO
Ho sentito
alla tivù che la ministra del lavoro nel suo intervento all’assemblea della
Confindustria ha sostenuto ad alta voce che non bisogna “demonizzare il
profitto”. “Demonizzare” è una metafora consunta anche se chi l’ascolta, come
proprietario di un’impresa, può essere tutto contento. Elettoralmente il
linguaggio è perfetto, e corrisponde a quella critica del lessico
“intellettuale” che si diffonde dal ceto politico ai mezzi di comunicazione di
massa senza chiedersi minimamente che cosa si può comprendere se si usa solo il
lessico quotidiano e quanto il “mondo”, così diventa piccolo. Vorrei ricordare,
a proposito del profitto, che al tempo del “socialismo reale” ci furono
economisti che giustamente sostennero che il profitto delle industrie
statizzate dava il metro per comprendere se la loro produzione era efficiente.
Del resto il nonno Marx non ha mai pensato che il profitto industriale (diverso
il caso della rendita) dovesse non esistere, come se il processo economico
potesse essere ricondotto a un gigantesco consumo. Il profitto doveva servire
per processi di civilizzazione sociale, per il rinnovo del capitale fisso e,
ovviamente per una sua equa distribuzione. Se un’impresa funziona così, anche
se contratta severamente intorno alla sua quota di profitto (Olivetti e la sua
cultura non si riproducono come le nuvole in cielo), le cose “vanno bene” in
una situazione socio-economica come quella attuale (che, contrariamente a
quanto pensava Ruffolo, è molto più precaria di quanto non si creda proprio per
lo “stato del mondo”). Che poi esista un mercato basso e un mercato alto,
questo è implicito; sarebbe sufficiente diventasse sapere comune che solo
l’estensione della forza lavoro e la dimensione del salario socialmente
decoroso, estendono la possibilità del profitto. Non è tuttavia una impresa né
intellettuale né pratica da poco, ma costituisce la premessa per un governo
che, nel nostro momento storico, possa garantire un equilibrio. Al di là delle
scommesse che circolano in sub-culture che assumono forma politica.
Per quanto possibile, in un tempo difficile come il
nostro, il profitto, invece di correre nell’area (pericolosa) dell’economia
finanziaria, perché non prende anche la strada del decoro pubblico, di una più
elevata civilizzazione della vita sociale? È impossibile varcare questa soglia,
e non cercare fuggevoli amicizie e ancora più fuggevoli approvazioni con la
metafora del “demonio”. Perché se proprio desideriamo rendere visibile il
demonio basta pensare a dove sta andando a finire la storia degli ultimi due
secoli. Tuttavia questa prospettiva richiede un lessico intellettuale fuori
moda.
Lei, professore, porterebbe le ghette che anche il primo
Mussolini prediligeva favorendo le raffinatissime furie di Carlo Emilio Gadda?
Fulvio Papi