Nella
guerra civile siriana sono state usati i gas aggressivi chimici in forma
gassosa. Se ad opera delle forze governative o di quelle ribelli non ha
importanza qui stabilire. La presente nota non ha lo scopo di accertare la
verità e si giustifica persino se venisse accertato che i gas venefici non sono
stati impiegati né da una parte né dall’altra. La questione riguarda il
principio internazionale che considera l’uso delle armi chimiche un delitto contro
l’umanità. Tale principio sembrerebbe incontestabile, apparendo anzi del tutto
ovvio. E nondimeno esso lascia tacitamente intendere che, invece, l’uso delle
armi tradizionali non sia affatto un crimine contro l’umanità. In altre parole:
la guerra è la guerra e uccidere va benissimo (non ci sono forse anche le
guerre “giuste”?) ma lo si deve fare onestamente, coi rumorosi mezzi
tradizionali e non con silenziose esalazioni. Sembrerebbe infatti doveroso stabilire
una gerarchia nelle efferatezze, poiché ce ne sono alcune che appaiono più
nefande delle altre. I delitti non sono tutti uguali e si pensa che uccidere
sia più grave che rubare e che derubare un cieco o una vecchietta indifesa sia,
almeno moralmente, più grave che impadronirsi di una motocicletta. Nel nostro
caso, ossia degli interventi sulle popolazioni, sembrerebbe che una morte dolce
e silenziosa per via respiratoria sia più odiosa, perché frutto di ipocrisia, della
morte violenta per deflagrazione, che ha in sé una sua lealtà; diffondere un
gas appare più vile che gettare un missile.
E’ tuttavia curioso che di fronte alla violenza individuale
la nostra emotività reagisca invece in modo opposto. Tutti troveremmo più
elegante uccidere la moglie con l’arsenico piuttosto che tagliarle la carotide
con un coltello da cucina. Nel Gattopardo,
il principe di Salina cita l’episodio di un parroco ucciso durante la messa; e
aggiunge che nessuno gli aveva sparato in chiesa con la lupara, cosa che
sarebbe apparsa orrenda al cattolicesimo dei siciliani; semplicemente gli era
stato messo il veleno nel vino da messa, atto più civile e persino più
“liturgico”.
Nella violenza bellica, invece, niente arsenici, niente
cianuri, niente ipriti, niente fosgeni, o il presidente degli Stati Uniti ti
punisce: a scopo dimostrativo, beninteso, e senza dichiarare guerra, con un
intervento armato ma lecito (ovviamente non con i gas), sorta di sacrosanta
punizione, un po’ – fatte le debite proporzioni – come facevano un tempo i
maestri di scuola con lo scolaro disubbidiente. È vero che in questo caso non
si sarebbe trattato di bacchettate sulle dita ma di altri morti (essendo
difficile, nonostante l’alto livello tecnologico degli armamenti leciti, che la
“mira” di un missile sia tanto precisa da escludere, scoppiando, i filogovernativi
dai ribelli, i bambini dagli adulti). Ma, notoriamente, è il principio che
conta.
E soprattutto ci si domanda: perché usare un gas quando
si può ottenere lo stesso effetto in altro modo? perché passare per nemico
dell’umanità quando nessuno ti dice niente se fai fuori migliaia di persone con
le bombe? che senso ha preferire l’iprite a un lanciafiamme? O vogliamo farne
una questione di eleganza o di comodità?
La guerra, civile o no, è una nobilissima consuetudine,
la si fa da che mondo è mondo, non accenna a passare di moda. Non si può
contestarla, e il pacifista ad ogni costo si rivela più che mai nemico delle
tradizioni e della storia. Ma le nazioni che ambiscono alla distruzione
reciproca, coloro che hanno il potere e lo vogliono conservare, coloro che non
ce l’hanno e lo vogliono conquistare, devono uccidersi a viso aperto, senza
barare. La guerra è una sorta di gioco ma proprio per questo ha regole che
devono essere rispettate. È una questione di galateo.
Sandro Bajini
In
punta di penna
di
Sandro Bajini
Facciamo
un gioco? Confrontiamo il Partito Democratico e il Partito della Libertà. Non
sul piano dei principi politici, poiché sarebbe impossibile: nel PD si
scontrano le opinioni più diverse e nel PDL nessuna. Vediamo invece quali sono
le differenze sul piano fenomenologico. La più incontestabile è la seguente:
nel partito democratico la presenza di ex-comunisti è una palla al piede; nel partito
della libertà la presenza di ex fascisti è un fiore all’occhiello. Si capisce
dunque perché quest’ultimo appaia – indipendentemente dall’indissolubile
vincolo d’amore che lega i cortigiani al sovrano – come un roccioso monolite,
mentre il partito democratico si presenta come un castello di sabbia. E si
capisce perché molti osservatori chiedano al partito democratico di rinnovarsi,
mentre nessuno chiede che si rinnovi il partito della libertà. Il primo ha
bisogno di cambiare, il secondo di rimanere com’è. Il primo deve liberarsi dell’eredità
socialcomunista, che agisce come morta zavorra; il secondo non ha alcun bisogno
di liberarsi dell’eredità fascista, che lungi dall’essere una zavorra è colonna portante. Lo dimostra proprio la
defezione di un ex fascista, avvenuta qualche anno fa.
Come il socialcomunismo, anche il fascismo ha i suoi
pentiti. È questo un fenomeno che non è stato sufficientemente apprezzato. Fini
lasciò il partito della libertà perché non lasciava sufficiente libertà agli
iscritti e si dimostrò nell’occasione meno fascista del sovrano. Con tutto
questo, non possiamo dire che il partito della libertà è un partito fascista,
poiché sappiamo benissimo che il suo sovrano sarebbe prontissimo
Ne fa testo la nota defezione di qualche anno fa, generata da divergenze sulle regole interne di
gestione, fatto in cui l’ex fascista (che aveva sconfessato il fascismo non
meno degli ex comunisti il socialcomunismo), si dimostrò meno fascista del
sovrano. Nulla vale la considerazione che non ci sono nel partito iscritti più
anticomunisti degli ex comunisti, poiché il passato e la fama prevalgono sempre
sui comportamenti e sulle dichiarazioni e non ci si fida.