SAN SISTO E IL
MUSEO MESSINA
di Angelo Gaccione
Milano, San Sisto - Museo Messina (Foto Odissea) |
Probabilmente in pochissimi conoscono la chiesa
di San Sisto a Milano. Chi va verso il
Carrobbio percorrendo la trafficata via Torino diretto al Ticinese,
difficilmente devia nella piccola e stretta via San Sisto, che prende il nome
proprio dalla seicentesca omonima chiesa. Chi vi si reca è perché sa che dal
1974 questa chiesa sconsacrata e ad un’unica navata, è divenuta prima studio e
poi museo dello scultore Francesco Messina. All’artista siciliano (era nato a
Linguaglossa in provincia di Catania nel 1900) si deve la sua salvaguardia;
volevano buttarla giù dopo anni di incuria, e non oso pensare che cosa
avrebbero edificato in quegli anni al suo posto. Messina si offerse di
restaurarla a sue spese trasferendovi lo studio, impegnandosi in una donazione,
come è poi avvenuto, per farne il magnifico e raccolto attuale Museo che porta
il suo nome. Meno male, all’ex direttore dell’Accademia di Brera (e
naturalmente anche a noi amanti dell’arte) è andata meglio di tanti altri
artisti. Penso ad esempio all’indegna vicenda del pittore Enrico Baj, e di come
la città si è vista privare del suo importante lascito, a causa di
amministratori ottusi e incapaci. O all’immenso archivio del premio Nobel Dario
Fo finito a Verona.
Oggi i milanesi, e non, recandosi in via San Sisto al n. 4,
possono entrare in un luogo accogliente dichiarato monumento nazionale, ed
ammirare le opere (80 sculture tra bronzi, marmi, ceramiche, cere, terrecotte e
26 opere grafiche su carta) che Messina ha lasciato alla città. Io ci sono
venuto più volte per ammirare i suoi cavalli, le numerose ballerine colte nelle
pose più diverse (la bellissima moglie Bianca ballerina lo era stata di
professione, e questo deve avergli trasmesso l’amore per tale disciplina), i
nudi, i busti di Pietro Marussig, del poeta Quasimodo, il ritratto del
cardinale Idelfonso Schuster, le due splendide cere con i volti di Maria Laura (1946) e di Felicita Frai (1949-1950), il Grande nudo femminile (1967) più alto di
me, il profilo bellissimo della moglie Bianca
(1937-1968) in marmo bianco policromo. Conosco una parte consistente
dell’opera di questo artista, noto ai più per il suo Cavallo morente davanti alla sede della Rai di Roma, e quando vado
a Pavia non trascuro di alzare lo sguardo verso la sua statua della Minerva che
dà il nome alla piazza, e di andare a vedere il suo monumento equestre del 1937
posto proprio di fronte al Duomo, conosciuto col curioso nome di Regisole.
Al Museo Messina ci sono ritornato sabato pomeriggio (28 luglio)
per visitare la mostra “L’eco del classico. La Valle dei Templi di Agrigento”,
che vi è ospitata. Rimarrà aperta fino al 21 ottobre, fruibile anche di
domenica, e quel che è più meritorio, con ingresso gratuito, come avviene tutto
l’anno per il Museo. È una mostra davvero indovinata perché tenta un dialogo,
secondo me riuscito, fra le opere classiche di Messina e alcuni ritrovamenti
avvenuti in quell’inesauribile “miniera” che è la Valle dei Templi. Teste,
cavalli, statuette femminili e nudi esposti, sono in risonanza con molti lavori
dell’artista siciliano. Il busto in terracotta di Demetra (fine IV - inizi III
sec. A.C.), il Torso maschile in marmo (IV se. A.C.), dialogano bene e a
distanza di tanti secoli, con Narciso
(1946), Eva (1949), Efebo (1959), il Torso femminile del 1975, i quattro cavalli in bronzo del 1958, così come le teste e i busti di
Messina, tanto per citare.
Il profilo di Bianca, moglie dell'artista |
Ai piani superiori una serie di acquerelli con vedute e
scorci della Valle dei Templi del pittore greco Habidis, mentre Leonardo Nava
ha realizzato una sorta di scultura vegetale intrecciando più di cinquemila
bastoni di nocciolo, che dall’esterno entra nella chiesa. Seguendo la forma
sinusoidale della facciata la cinge in un groviglio correndo lungo l’arco subito
sopra il timpano del portale. Le motivazioni dell’artista e degli ideatori sono
molto convincenti sulla carta, meno dal punto di vista visivo. Ma è un’opinione
personale. Mi piacerebbe, invece, che la facciata e i lati di San Sisto
venissero ripuliti, anche perché l’intonaco in alcune parti è scrostato. Non
sono il ministro della difesa e non posso disporre della scandalosa cifra di 70
milioni di euro al giorno che l’Italia spende per questo Ministero della morte,
ma si può almeno lanciare l’idea di devolvere il 5 per mille al Museo Messina
per questa incombenza. Io sono disponibile.
P.S. Una minuscola statuetta (cm. 31 x 6) di fine IV sec. e
inizi del III a.C. raffigurante un neonato in fasce, presente in questa mostra,
mi ha svelato quanto fosse antica quella tremenda pratica di “imbalsamare”, come
in una camicia di forza, i poveri bambini. Fasciati dalle spalle in giù e con
le braccine allineate lungo i fianchi, non era permesso loro alcun gesto o
movimento. Una vera e propria tortura che ho fatto in tempo a vedere in
Calabria, nella mia terra di nascita. Per fortuna un’altra visione più
consapevole, ha cancellato, almeno in Occidente, questa usanza così
abominevole.