LO SGUARDO ‘GIANO’ DELL’UTOPIA
di
Claudia Mazzilli
Analisi
intorno al libro di Gabriella Galzio Ritorno alla Dea.
All’incrocio
tra manifesto di poetica, saggio e (in alcune pagine) romanzo saggio, Ritorno alla Dea sfugge volutamente a definizioni
troppo anguste, intrecciando filosofia, storia e critica letteraria entro una
visione poetica (e politica) di ampio respiro, che rifiuta le tassonomie, gli
incasellamenti e le gerarchie degli specialismi iper-parcellizzati
dell’orizzonte patriarcale: Gabriella Galzio si affida alla sintesi di cui solo
la poesia è capace, per ricostruire quello che definisce “un processo di rimonta mnestica a ritroso nel tempo e di breaking
through fuori dall’amnesia patriarcale”
(p. 25 e pp. 70-71). Un
metodo “regrediente” già sperimentato da Galzio in Voglia di partire (Moretti & Vitali 2021): ma se lì prevaleva
la narrazione nella formula (alchemica) di un diario di viaggio, Ritorno alla Dea si offre invece come un
piccolo ma assai denso prosimetrum
che alterna l’argomentazione e la narrazione ai brani poetici dell’Autrice (attinti
dalle raccolte Sofia che genera il mondo,
I Quaderni del Battello Ebbro, 2000; Ishtar
dagli occhi colmi, Moretti & Vitali 2002; La discesa alle madri, Arcipelago Edizioni 2011) o a citazioni di
poeti antichi e moderni. L’effetto è quello di un equilibrio dinamico tra
esplorazione intima della propria ricerca di poeta, unica e irripetibile, e indagine
storico-antropologica entro una koiné
in cui la voce individuale di Galzio si unisce a quella di madri simboliche e
padri generosi, orientati al mito e alla mitopoiesi. In tal modo Ritorno alla Dea, pur in un’armoniosa e
limpida composizione argomentativa affidata al testo scritto, serba in sé la
stratigrafia maieutica e mobile di colloqui, chiacchierate, relazioni e precedenti
pubblicazioni, che rendono più viva e fluida questa lettura, condensata in sole
settantadue pagine: un distillato, un punto di approdo.Come
in una traditio lampadis nel segno di
una solidale circolarità e sororità, dopo la prefazione di Heide Göttner-Abendroth
(di seguito HGA, la massima esperta al mondo di società matriarcali indigene esistenti,
fondatrice dei Moderni Studi Matriarcali), Gabriella Galzio si ricollega agli
studi di HGA, che ha dato una definizione strutturale sistemica a quattro
livelli di ciò che si intende per società
matriarcale: possono dirsi tali le società che a livello economico praticano l’economia del dono; a livello sociale sono caratterizzate da
matrilinearità, matrilocalità, egalitarismo di genere; a livello politico sono basate sul consenso; a livello culturale sono caratterizzate da sistemi religiosi e
simbolici basati sulla rinascita, in cui la morte faccia parte di un flusso
continuo vita-morte-rinascita, connesso alla vita e alla natura. Dall’orizzonte
antropologico di HGA e dalla mitopoiesi letteraria realizzata sulle figure
femminili di Cassandra e Medea da Christa Wolf (non è superfluo ricordare che
le due autrici tedesche furono in contatto e che i loro scambi epistolari
testimoniano proprio quella sorellanza che ho sopra invocato) Galzio trae linfa
vitale per nutrire un’utopia che non è astratta né nostalgicamente passatista. Mentre
descrive i fondamenti della sua poesia “neo-arcaica”, l’Autrice recupera le
date, i punti di snodo e le tracce, direi quasi materiche, della deriva
androcratica (violenta, nel segno del dominio e della sopraffazione) della
storia umana, ritrovando la via per costruire una società fondata sulla
cooperazione, sull’equilibrio tra i generi, sul rispetto (in termini sia
ecologici sia simbolici) della natura e dei cicli naturali, compresa la Morte,
marginalizzata e poi rimossa dall’ordine culturale del tecno-patriarcato,
responsabile di aver così rimosso ogni altro limite e di aver precipitato il
genere umano in una hybris cronica e patologica
di devastazione del pianeta (p. 41). “Ed
è con questa modalità “giano” di guardare al passato rivolta al futuro che ho
scritto molta parte della mia poesia rivisitando ambientazioni e miti femminili
arcaici” (p. 15).
Gabriella Galzio
Questo
itinerario a ritroso (questa rimonta mnestica, come si diceva) è guidato
dalle dee che anche nell’immaginario antico sorvegliavano i trivii e i percorsi
difficili: così ad ogni incrocio, ad ogni svolta o linea spezzata fra i meandri,
Gabriella Galzio si fa guidare dalle dee nel labirinto deviante e claustrofobico
del patriarcato, cercandone l’uscita. Queste dee non sono vacue fantasticherie
dell’Autrice; sono piuttosto epifanie,
che si manifestano concrete a una mente sensitiva, ispirata eppure vigile anche
in sogno, capace di recepire, nel rumore di una contemporaneità che frastorna
(anche con i suoi rinnovati inni guerrafondai, aggiungerei io...), l’eco del
rimosso nella Storia. Queste dee sono ombre fragili, ipostasi parziali, dimidiate,
diafane, impalpabili della Grande Dea a cui l’itinerario della Galzio ci
avvicina a poco a poco.Platone,
che pure riconnette la manía al
femminile (in Fedro 244a-d cita
esplicitamente la profetessa delfica, le sacerdotesse di Dodona e le Muse), è ormai
figlio di una cultura patriarcale, che lo porta a distinguere tra un’Afrodite
Pandemia (nata dall’oceanina Dione) e un’Afrodite Urania (nata dai genitali
mutilati di Urano), quasi una grande Dea scissa tra patriarcato e matriarcato
(pp. 23-31). Eschilo
(lo stesso poeta che rappresenta Oreste nell’atto di vendicare il padre con il
matricidio, lo stesso che fa dire ad Apollo che ci può essere padre senza madre e che nelle Eumenidi affida lo scioglimento del dramma all’intervento di
Athena, dea armata di tutto punto, nata dalla testa di Zeus) serba tracce della
detronizzazione di Themis all’interno di una matrilinea Gea-Themis-Febe-Febo,
dove Febo Apollo usurpa il ruolo che doveva essere di sua sorella Artemide/Diana,
“l’ultima Dea” – ci fa notare Galzio con acuta connessione (p. 29) –, proprio quella
Artemide/Diana efesina del V secolo dopo Cristo, la cui pallida icona è la
Madonna cristiana, uscita indebolita e desacralizzata dal concilio di Efeso del
421 d.C.: l’Assunta (participio
passivo), perché il moto autonomo di ascensione
può essere solo di un dio maschio (pp. 16-17).
Al
contrario, di sincretismo in sincretismo, una corrente orientale ripercorsa con
moto retrospettivo riconduce l’Autrice (e noi con lei) dall’Afrodite greca alle
cretesi Arianna, Ecate ed Eileithyia
e, attraverso la dea Kypria (che da
Cipro appunto prende il nome), fino alla Ishtar (o Ishara) mesopotamica e alla
dea sumera Inanna, gradualmente disincrostate dalle patriarcalizzazioni
indoeuropee o accadiche, capaci di moto se-movente,
portatrici attive di un passo ascendente che non ha bisogno di guide maschili e
che nella danza della poesia traccia figure circolari, simboli di
nascita-morte-rinascita, fuori del progresso unilineare della Storia scritta
dal potere androcratico. Sono questi i miti e gli archetipi della poesia di
Galzio, non le figure mitologiche abusate (in tutte le accezioni possibili)
dalle narrazioni maschili e patriarcali. Nessuno può sguardarci dal
male Nessuno può salvarcitutto c’impregnanel sangue nel midollodi questa fitta melma che
ci sbranaquest’oro nero purissimo
che sale Sale
dal fondo del vulcano e della plebesale
da un poema/.../Datti
un tempo, datti un camminoverticale
e fra ugualiporta
a un incedere di perle e fangointere
popolazioni ai loro templi (Tratto
da “(Trasmutazione) Oro nero”, in Gabriella Galzio, Ishtar dagli occhi colmi,
cit. pp. 68-70) Scesi
alla luce, perla, che allaga d’acqua il visopronto
a ritrarsi, d’erba, giù per il folto ventred’ossa
e radici, intrico, soffice d’ocra e sanguepassi
di terra e oro incedere verso un trono Moto
a ritroso, nascita, dentro una morte radiosache
ogni vita precede, rientra infine nel buio Scesi
persa nell’ala di un volo cieco e lentofra
le sue braccia gelide, esalai, trapassai nel Regnoforte
mi slacciò il ventre, alto nel cosmo radianteenergia
di una morte pura sciolta ai legami del mondo Mi
lapidò nel sangue, nel blu di un più alto assedioin
un azzurro intonaco di guerra e di necropoli Visioni che sfilai ai
morti o morti già alla visionemi sfilarono accanto,
ombre, quinte di città deserteabbandonate su sponde,
echi, come onde tragiche che tornanonel latrato eterno della
Storia[...] (Tratto
da “(Ratto di Kore) La Grande “Tessitrice”, in Gabriella Galzio, Ishtar dagli occhi colmi, cit. pp.
68-70) Ecco
l’epifania poetica di Ishtar, colei che colmi aveva gli occhi, un’“epica gentile”, una contro-epica, una
palinodia che riscrive mitopoieticamente la letteratura, rifiutandosi di
invocare le Muse per cantare e celebrare la guerra: “Attingendo al mito neolitico mesopotamico, si componeva da solo questo
poema dei morti o della rinascita entro cui trasporre i drammi contemporanei
del bene e del male” (p. 36).E,
proseguendo nella lettura, quando a p. 37 Galzio usa il femminile Die Mythe invece del maschile der Mythos, mi sono venute in mente le
parole della Cassandra di Christa Wolf: “Anchise disse una volta che
più importante dell’’invenzione del ferro maledetto avrebbe potuto essere per
loro la capacità di immedesimazione. Che non riferissero i ferrei concetti di
bene e di male soltanto a sé stessi. Ma, per esempio, anche a noi. I loro
cantori non tramanderanno niente di tutto ciò. E se loro - o noi lo
tramandassimo?” (Chr. Wolf, Cassandra, edizioni e/o, 1990, p. 133).
Una
genealogia poetica essa stessa matrilineare, in cui Galzio rinuncia a Omero (e
a quel canto di guerra che Simone Weil chiamò il poema della forza) e
recupera Saffo non solo come poetessa, cioè esperta della téchne mousiké, ma come figura sapienziale di più ampio e alto
rango se Socrate, quello stesso Socrate che nel Simposio asserisce di essere stato reso sapiente da Diotima, nel Fedro dichiara di aver appreso altri
discorsi sull’Eros “dalla bella Saffo e
dal sapiente Anacreonte” (p. 47), discorsi più divini di quelli ascoltati
dall’oratore Lisia: Saffo, poetessa dell’amore inteso come forza divina
immanente e naturale, esperienza ciclica, totalizzante, comunitaria, estatica
ed estetica, all’interno dei tiasi in cui la condizione femminile della donna
(per lo meno della donna aristocratica) era ancora molto diversa da quella
totalmente subalterna e marginalizzata delle donne ateniesi dell’età di Pericle,
se Alceo, che opera nelle corrispondenti eterie maschili, la interpella, se non
come una dea, almeno come sua omologa chiamandola Saffo coronata di viole,
veneranda, dal sorriso di miele (fr. 384 Voigt) e se un epigramma
attribuito a Platone (Epigr. XVI),
ancora molto tempo dopo, la annovera come decima Musa. Saffo per Gabriella
Galzio è una poetessa di frontiera, per la posizione geografica dell’isola di
Lesbo, a ridosso del vivace entroterra di Lidia, con cui Mitilene condivide il
culto della charis e della abrosyne: in questo contesto nessuna divisione
specialistica separa il culto di Afrodite dalla musica, dalla danza, dalla
poesia, dall’educazione e dall’espressione della vita comunitaria in riti di
passaggio che collegano tra loro le generazioni di bambine, fanciulle, donne.
Nessuna espressione culturale è artificiale, astratta, desacralizzata, ma
profondamente connessa alla natura. E, benché non sia tra le opere citate
dall’Autrice nel RITORNO ALLA DEA,
vorrei menzionare anche il suo Breviario
delle Stagioni (Agorà & CO., 2018) tra le opere che Gabriella Galzio
compone ispirata da queste suggestioni antiche: un breviario “scritto in un
tempo ciclico, nell’arco di sette anni, ogni anno, a ogni stagione, ritornando
su sé, approfondendone la visione, la contemplazione” (epigrafe al testo su
citato).Nella
manía saffica, dunque, Galzio
riconosce un paradigma paideutico e creativo composito e complesso, articolato
in forme ritualizzate entro il divenire delle stagioni, irriducibile allo
stereotipo bidimensionale della madre/massaia/fattrice all’interno del focolare
domestico, perpetrato per millenni dalla cultura patriarcale; Saffo è poetessa
“liminale” anche perché compone sia lirica corale sia lirica monodica e perché
opera in età arcaica, alla fine di quel medioevo ellenico in cui si è consumata
la definitiva transizione tra matriarcato e patriarcato con l’indoeuropeizzazione
miceneo-dorica della Grecia (pp. 53-55).
In
Ritorno alla Dea, quindi, trovano forma poetica e
coerenza intellettuale i sogni (la Madonna del Ti-a’mat...), le visioni
archeologiche che riaffiorano in anamnesi ricorsive sempre più convincenti (la
dea dei serpenti..., l’Afrodite adagiata nel grembo di sua madre Dione nel
frontone orientale del Partenone..., le colonne del Palazzo di Cnosso..., la
Porta di Ishtar ricostruita al Museo Pergamon
di Berlino, gli affreschi di Pompei...), le stratificazioni e agglutinazioni recuperate
dalla filologia (il componimento erotico-mistico del Cantico dei Cantici assorbito
nella Bibbia, eppure refrattario a qualsiasi patriarcalizzazione), le etimologie,
le genealogie mitiche matrilineari interrotte eppure riconoscibili (Afrodite-Armonia-Semele-Dioniso;
la già citata matrilinea Gea-Themis-Febe-Febo), le costanti narrative nei
racconti mesopotamici, greci, ebraici, cristiani e coranici (l’uccisione del
drago o serpente ctonio, vero e proprio mitologema del passaggio dal
matriarcato al patriarcato; ma anche le Regine del Sud, riconoscibili nella
vicenda della Regina di Saba che torna col figlio avuto dal Re Salomone nel
proprio regno, da autentica regina, senza mescolarsi alla poliginia dell’harem
di Salomone), i libri incontrati per caso nei viaggi (la libreria tedesca a
Heraklion, dove per la prima volta a Gabriella capita tra le mani La Dea e il suo Eroe di HGA)...Tutti
questi segni danno potenza
immaginifica ma anche rigore scientifico e solidità argomentativa a un
ragionamento interiore mosso ma coeso che, nello sforzo interdisciplinare di
costruire una visione coerente ma aperta, evita la tentazione del ripiegamento
in una scrittura solitaria e invece chiede, cerca e trova appoggio negli studi
di altri studiosi e studiose, poeti e poete (le archeologhe: Marija Gimbutas
per il suo pionieristico Il linguaggio
della Dea e poi Maria Rosaria Belgiorno per gli scavi a Cipro; la teologa
Mary Daly; le poete Verena Stefan e Louise Glück; la filosofa Ingrid Straube,
Ingeborg Bachman per la concezione della letteratura come utopia; Chiara Colli
Staude e Gabriella Cinti per gli studi su Saffo; il grecista Angelo Tonelli con
i suoi studi sullo sciamanesimo e sui filosofi presocratici che ancora nella
Dea trovano legittimazione per la loro sapienza, anello di congiunzione tra sophía più antica e nascita della
filosofia ‘cosiddetta’ occidentale). Ad
ogni citazione, ad ogni micro-racconto di un’esperienza di lettura o di un
sodalizio intellettuale, Galzio ci invita ad aprire nuove porte di conoscenza, ianuae che si muovono sui loro cardini
per andare e guardare sia di qua sia di là, dentro e fuori di noi, e tornare
più volte sui nostri passi, fra passato e presente, in un con-divenire di letture e incontri che creano piccole e grandi
comunità, sempre più libere dalla cultura dominante che, mai come in questi
tempi, si è fatta fanfara, becera propaganda o, nel migliore dei casi, ripetizione
di analisi geopolitiche polverose che tentano l’ennesima legittimazione delle
categorie di dominio.
Gabriella
Galzio Ritorno alla DeaAgorà
& CO. 2022Pagg.
74 sip
All’incrocio
tra manifesto di poetica, saggio e (in alcune pagine) romanzo saggio, Ritorno alla Dea sfugge volutamente a definizioni
troppo anguste, intrecciando filosofia, storia e critica letteraria entro una
visione poetica (e politica) di ampio respiro, che rifiuta le tassonomie, gli
incasellamenti e le gerarchie degli specialismi iper-parcellizzati
dell’orizzonte patriarcale: Gabriella Galzio si affida alla sintesi di cui solo
la poesia è capace, per ricostruire quello che definisce “un processo di rimonta mnestica a ritroso nel tempo e di breaking
through fuori dall’amnesia patriarcale”
(p. 25 e pp. 70-71).
Eschilo
(lo stesso poeta che rappresenta Oreste nell’atto di vendicare il padre con il
matricidio, lo stesso che fa dire ad Apollo che ci può essere padre senza madre e che nelle Eumenidi affida lo scioglimento del dramma all’intervento di
Athena, dea armata di tutto punto, nata dalla testa di Zeus) serba tracce della
detronizzazione di Themis all’interno di una matrilinea Gea-Themis-Febe-Febo,
dove Febo Apollo usurpa il ruolo che doveva essere di sua sorella Artemide/Diana,
“l’ultima Dea” – ci fa notare Galzio con acuta connessione (p. 29) –, proprio quella
Artemide/Diana efesina del V secolo dopo Cristo, la cui pallida icona è la
Madonna cristiana, uscita indebolita e desacralizzata dal concilio di Efeso del
421 d.C.: l’Assunta (participio
passivo), perché il moto autonomo di ascensione
può essere solo di un dio maschio (pp. 16-17).
Nessuno può sguardarci dal
male
Ad
ogni citazione, ad ogni micro-racconto di un’esperienza di lettura o di un
sodalizio intellettuale, Galzio ci invita ad aprire nuove porte di conoscenza, ianuae che si muovono sui loro cardini
per andare e guardare sia di qua sia di là, dentro e fuori di noi, e tornare
più volte sui nostri passi, fra passato e presente, in un con-divenire di letture e incontri che creano piccole e grandi
comunità, sempre più libere dalla cultura dominante che, mai come in questi
tempi, si è fatta fanfara, becera propaganda o, nel migliore dei casi, ripetizione
di analisi geopolitiche polverose che tentano l’ennesima legittimazione delle
categorie di dominio.