Il
semestre europeo
Di Giovanni Bianchi
Potenzialità e limiti della
"politica senza fondamenti"
Le elezioni della primavera 2014 hanno
finalmente mutato orientamenti e proporzioni in seno alle forze politiche
candidate al Parlamento europeo. Anche se il mutamento si è verificato
essenzialmente in Italia ed è rappresentato dal superamento della soglia della
40% dei suffragi conquistati su una linea decisamente europeista e
"socialdemocratica" dal Partito Democratico di Matteo Renzi.
Merito
indubbio dell'appeal del giovane leader decisionista fiorentino, ma merito
anche del consistere e del persistere delle strutture organizzative e dei
residui delle culture politiche delle forze riformatrici del quadro democratico
italiano. Una buona performance, soprattutto se confrontata con il resto del
panorama del vecchio continente dove i populismi della destra xenofoba non
hanno cessato di galoppare.
Le
troppe chiacchiere della politica italiana sembrano tuttavia aver dimenticato
per strada la presidenza italiana del semestre europeo. Vezzo non è
encomiabile, perché viene dopo elezioni
giocate essenzialmente "in casa", su temi casalinghi e ostinatamente
nazionali, con contrapposizioni tra leadership addirittura strapaesane.
Non
è un buon segnale perché il confronto con il semestre europeo rappresenta un
banco di prova meno emotivo e più realistico della capacità della classe
dirigente di misurarsi con la grande politica, finalmente al di sopra e al di
fuori degli abituali provincialismi. Penso infatti che non riusciremo a
valutare la fase politica che stiamo attraversando fino a quando non metteremo
a tema Matteo Renzi come fenomeno sociale non esclusivamente italiano.
L'ex
sindaco di Firenze è il miglior surfista sulla tavoletta della politica
nazionale in grado di tenere l'onda della comunicazione di massa e del
successo: in pratica lo spirito del tempo. Il numero uno cioè nella
interpretazione della vigente e vincente "politica senza fondamenti".
Che
Renzi vinca e abbia fatto vincere il Partito Democratico con la sua leadership,
mutandone il destino, l’appeal e la fisionomia apicale, è fatto misurato dai
numeri, ineditamente generosi. E siccome la politica senza fondamenti cresce
grazie ai consensi e ai plebisciti, restano da valutare le potenzialità al di
là della fase contingente.
Insomma
per chi non si è iscritto alla politica senza fondamenti, ma mantiene un
ancoraggio ai contenuti, non necessariamente vecchi, del pensare e del fare
politica, si propone, accanto al tema del cavalcare l'onda dello spirito del
tempo, anche il problema più arduo e più tradizionale della critica dello
spirito del tempo.
Il
problema è cioè se sia possibile fare politica capace di riforme e in alcuni
casi di interventi radicali a prescindere da una meditata visione delle cose,
da un futuro non lasciato all'imprevedibilità e alla casualità degli
avvenimenti, e quindi da un pensiero programmatico. Ho chiaro che impostando
così il problema misuro il fenomeno Renzi con le lenti del cattolicesimo
democratico, la cui crisi peraltro è a sua volta sotto i nostri occhi.
E
infatti, immerso come tutti nella politica senza fondamenti, non mi piace che
anche Renzi appaia così
disinteressato ai fondamenti. Aiuta questa attitudine ? Aiuta la politica?
Aiuta la democrazia? Aiuta questa frastornata Europa? E infine come stiamo
usando il nostro turno al vertice del semestre europeo?
Diceva
Luigi Sturzo: "Programmi, non
persone". E non si debbono spendere molte parole per dimostrare che il
partito personale così bene interpretato da Renzi (e comunque non tale da
annullare la consistenza e la differenza storica del Partito Democratico, come
giustamente va scrivendo Ilvo Diamanti) si pone in posizione nettamente
ortogonale rispetto alla visione sturziana.
Così
pure Aldo Moro aveva l'abitudine di ripetere che il pensare politica e già per
il 99% fare politica… Possono parere una provocazione questi richiami, quando
una vulgata sicuramente sincera prova a inscrivere il fenomeno Renzi nell'alveo
del cattolicesimo politico: l'ex sindaco di Firenze infatti non nasconde la propria
passione per la monogamia, insieme all'appartenenza agli scout… Mi astengo da
altre similitudini così come da altri esempi che non supporterebbero la tesi di
una appartenenza alla politica cattolica moderna. Basterebbe ricordare che quel
che storicamente fa la differenza tra il cattolicesimo democratico e le
modalità proteiformi del gentilonismo è proprio l'apparire del partito
sturziano, la sua irriducibilità ad altre forme organizzative, che pure
sarebbero potute apparire vincenti e certamente protette dal Vaticano.
Il
partito moderno – in quanto pensiero e impresa collettiva – continua cioè ad
essere la vera discriminante cattolico-democratica rispetto ad altre modalità
del fare politica in campo cattolico. E nell'idea di partito, nel suo
radicamento come nella sua visione, il cattolicesimo democratico include
necessariamente la sorte di un'esperienza collettiva e l'orientamento
imprescindibile al bene comune.
Come
a dire una netta presa di distanze dalla volontà di potenza, per misurare la
prassi politica con le compatibilità e lo sviluppo della democrazia.
Non
basta che vinca la mia parte; è necessario che essa sviluppi le condizioni
della convivenza democratica. Altrimenti la vittoria della mia parte risulterà,
sempre ovviamente nell'ottica del cattolicesimo democratico, una vittoria di
Pirro.
Tutta
l'azione dei professorini alla Costituente è impostata su questo modo di vedere
e sentire l'impegno politico. Così ovviamente Dossetti, che propone
l'antifascismo come base comune e condivisa del personalismo costituzionale;
così Giorgio La Pira che ricorda come lo Stato e la Costituzione siano chiamati a riconoscere diritti già presenti nella
natura umana; così Giuseppe Lazzati che propone il metodo democratico
addirittura come il metodo migliore per ricercare quel poco di verità che ci è
concesso di acquisire in questa vita. Insomma, in tutti questi esponenti e in
ogni caso la democrazia prevale sulla volontà di potenza e sui suoi successi. Tutto
ciò risulta molto più complicato dalla fase storica che stiamo attraversando,
proprio perché essa appare dominata dalla "politica senza
fondamenti", dai suoi riti e dai suoi successi.
Quanto
al fenomeno Renzi quindi il problema è di chiedersi se oltre alla capacità di
cavalcare l'onda vincente, esso contenga anche le attitudini a una critica
attenta, senza la quale i problemi non si risolvono neppure nel postmoderno e
senza la quale la democrazia non è in grado di tener dietro alla velocità dei
problemi.
Il
mito della velocità insieme all'avvento delle tecnocrazie risponde dunque ad
una domanda reale. Risolverla implica tenere conto dello spirito del tempo, ma
anche essere in grado di una critica efficace nei suoi confronti. Anche il
decisionismo è chiamato a confrontarsi con le nuove ragioni della democrazia,
mentre il proliferare di nuovi luoghi di decisioni e dei
"sottosistemi" luhmanniani indica che altre possibilità stanno nelle
cose e nell'orizzonte, rispetto alle quali i dubbi di un democratico non
possono essere accantonati.
Avere successo è condizione per ottenere il
consenso. Ma la natura dei provvedimenti non può essere tutta piegata alle
ragioni del successo. Non per una ragione di tempi, ma di efficacia reale, che
non il tempo breve, ma piuttosto il tempo medio e lungo si incaricheranno di
evidenziare.
Per
questo l'appoggio a Renzi non deve prescindere dalla critica
"costruttiva". Non si dà infatti politica moderna e democratica a
prescindere dalla critica. Altro sono i "gufi" dell'orizzonte
oratorio renziano, altro i partners e i sostenitori democratici, ovviamente non
assimilabili ad una tifoseria.
Le riforme
Tutto
il carosello delle riforme costituzionali gira infatti intorno a due assi
centrali: l'esigenza di avere successo e di mostrarlo, per ottenere e
solidificare il consenso; la natura dei provvedimenti messi in atto. E non
basta risolvere il problema da un punto di vista soltanto. Dimostrare di essere
in grado di proporre e condurre in porto riforme costituzionali come quella di
un Senato che consenta di lasciare alle spalle il bicameralismo perfetto, è un
tema che riguarda la forza della leadership e la sua capacità di consenso, un
tema tuttavia che non può essere disgiunto dalla valutazione dell’affidabilità
dell'organismo così creato.
E
lasciare in sospeso il giudizio sulla natura del nuovo Senato non elettivo non
è un modo per evitare il giudizio, ma per invitare a riflettere su una
soluzione che tenga insieme contemporaneamente i due corni del dilemma.
Soprattutto se si è animati dalla convinzione che la natura delle cose proposte
e realizzate democraticamente faccia parte della forza innovatrice di una
politica chiamata a trasformazioni oramai irrinunciabili.
Sarà
il profilo riconosciuto di questi atti a conferire il necessario prestigio al
governo e alla politica italiani nell'ambito europeo e nell'arengo
internazionale. Un banco di prova reso quanto mai visibile e probante dalla
presidenza italiana del semestre europeo in corso.
E
proprio perché mi è parso che le elezioni europee siano state giocate nel
nostro Paese con un piglio davvero provinciale o da strapaese, mi pare utile
riproporre alcune riflessioni di vasto polmone in tema d’Europa. Come a dire
che il "cambio di verso" della politica italiana, per essere insieme
credibile e propositivo, deve risultare percepibile e misurabile al di là dei
confini del Bel Paese.
E
qui davvero la "politica senza fondamenti" deve cedere il passo non
solo a una politica conscia delle radici e degli orizzonti, ma in grado di
confrontarsi con la storia e con una grande storia. Sapendo che solo la grande
politica è in grado di muovere anche contro
la storia.
Perché
di fondamenti c'è bisogno. C'è bisogno di riferimenti sicuri. C'è bisogno di
radici storiche e del fare di loro memoria. Di padri c'è bisogno.
A
differenza che nella vita concreta, uno in politica la famiglia e la genealogia se la sceglie e se la
costruisce, su misura, andando a ritroso nella storia e non di rado lavorando
di immaginazione.
Quale Europa
A
chi gli chiedeva cosa era venuto a fare in un oceano così lontano dal suo, così
rispondeva De Gama: a cercare pepe e cristiani…
Al
Salvador dedicava la sua prima isola Cristoforo Colombo, che morirà triste e
solo, senza aver capito che il suo approdo non era un avamposto dell’India, ma
una terra “nova”. E cosa si capirebbe del ‘600 senza il “mondo”? La perfida
Albione è in questi decenni cruciali che si scopre un’isola e non un pezzo di continente. La sua terra
ferma sarà il mare: dall’Atlantico, sempre più in là...
Solo
suggestioni, ma per dire che l’Europa è inconcepibile senza “globalizzazione”,
senza questo senso del mondo di cui si sente il cuore, almeno fino alla seconda
guerra mondiale.
E
non si pensi che il discorso potrebbe finire qui. In questi anni ci fu uno dei
dibattiti più alti tra il domenicano Bartolomeo
de Las Casas , l’umanista Sepùlveda e il grande Montaigne. Chi era l’altro? Un non uomo? Un cristiano
possibile? Un diverso, che proprio come tale, aveva gli stessi diritti e la
stessa dignità di ogni persona?
Forse
oggi non si è andati molto più in là. Solo suggestioni, ma per dire che
l’Europa è incomprensibile e inconcepibile senza una “globalizzazione” che fa
parte della sua vicenda storica, senza questo senso del mondo di cui si sente
il cuore, almeno fino alla seconda guerra mondiale.
Oggi
globalizzazione non indica tanto un aprirsi al mondo, ma l’accelerazione di un
rapporto. Da una mondializzazione calma si passa ad una mondializzazione
frenetica. I tempi della comunicazione e dello scambio sconvolgono i processi
da secoli già mondializzati dell’economia-mondo. E’ una sincronia che sembra
avere perso ogni dimensione diacronica: il tutto accade contemporaneamente,
insieme…
Per
restare ai nostri ricordi dell’altro ieri: la “rivoluzione dei prezzi” del XVI
secolo impiegò decenni perché l’oro del mondo nuovo ridisegnasse l’economia
dell’Europa, i ceti sociali, i campi. Ora bastano settimane, giorni. Ma basta
la rete telematica a spiegare quest’accelerazione improvvisa? Basta avere
sostituito le nuove caravelle e i maestosi galeoni con le e-mail?
L’accelerazione
è in gran parte politica. Noi siamo come in un vortice. La scomparsa
dell’Unione Sovietica ha creato un movimento senza ritorno: un enorme buco nero
in cui è disceso il vecchio ordine del mondo. E’ iniziato, in fondo, solo ieri:
1989. La strada è solo agli inizi.
La
grande storia è, a suo modo, geologica, anche nell’epoca di internet. “Prende
tempo”, anche quando questo appare fulminante. Per creare nuovi scenari
geopolitici non basta internet. Tempi lunghi. E siamo dentro un delirio, uno
spasmo. Il grande ordine dei blocchi è scomposto e non c’è un ordine nuovo.
Viviamo freneticamente in quest’intermezzo, tra una grande e una piccola
guerra, in attesa della prossima, come quelle grandi eruzioni vulcaniche, dove
colate di lava e lapilli si susseguono impetuosi fino alla fine improvvisa,
quando un nuovo assestamento ha chiuso la falla esplosiva del sottosuolo. Tra
il già del disordine e il non ancora dell’ordine. In quest’intermezzo i cantori
dell’effimero, della fluidità irrapresentabile...
Le
cose non andranno così. Sono in gestazione nuove rappresentazioni, nuove forme.
Il nichilismo esprime solo il disagio di questa tremenda fase di passaggio. E
la domanda è: come dare forma ai conflitti laceranti, ai sommovimenti tettonici
dei popoli?
No global?
Fa sorridere. Piuttosto l’Europa sembra
essere letteralmente scomparsa: nel 1950
c’erano alcune città europee tra le prime 15: Londra, Parigi, Milano,
Berlino… Nel 2000 nessuna. Nel 2015 la
distanza sarà maggiore. Questo non vuol
dire che l’Europa non c’è più. Tutt’altro: la sua importanza potrebbe
collocarsi altrove e in alternativa a questa forsennata concentrazione di
uomini e donne.
Quale
globalizzazione allora?
New global allude a questa domanda. Anche il
no-global non ha mai voluto dire un rifiuto della globalizzazione (lasciamo
queste miserie domestiche ai leghisti di
turno), ma di questa globalizzazione.
Questa globalizzazione che si presenta come il trionfo del mercato e della
comunicazione è un’astrazione triste.
Non la si capirebbe senza quel vuoto di politica che è subentrato alla fine del
mondo bipolare. Una globalizzazione in un vuoto straordinario di politica.
Eppure non c’è globalizzazione senza politica. E nello stesso tempo il vuoto
politico sui processi dell’economia accumula contraddizioni su contraddizioni.
Qui
si gioca il ruolo decisivo dell’Europa. Nel contesto bipolare l’Europa era
un’area strategica dell’Occidente. L’alleato americano non era solo quello che
aveva consentito di vincere la guerra contro il nazismo e il fascismo, era
anche il perimetro entro cui iscrivere la sua autonomia e il suo senso. La
formula della Nato esprime bene quest’identità. Che non è supina dipendenza, ma
accettazione creativa di un mondo dato e dei limiti entro cui potersi muovere.
In questa creatività s’è mossa, per fare solo qualche nome, l’azione di un
Dossetti o di un La Pira.
Nelle terrazze apocalittiche della bomba atomica pensare un attraversamento degli spazi.
Firenze capitale del mondo. Era possibile l’ultimo viaggio a Firenze dei new
global senza la traccia di La
Pira?
Oggi
non è più così. Sono saltati questi limiti. Tutto va reinventato. E non si
tratta di un lavoro a tavolino, ma di una iniziativa politica, diplomatica,
economica, culturale.
Nel
gran disordine mondiale non c’è ruolo “dato” per l’Europa, ma un ruolo da
costruire. E’ caduto il paravento americano. L’Occidente si divide. Un’Europa
protesi americana, un’Europa affogata in un confuso Occidente, un’Europa
insomma alla Fallaci non aiuterebbe neppure l’America ad uscire dal suo isolamento.
In quel processo di immani proporzioni che è la costruzione di un nuovo ordine
internazionale l’Europa deve essere uno dei grandi riferimenti mondiali,
insieme agli Usa, alla Cina, all’incerta Russia post-sovietica.
Non
ci sarà un impero. Un unico impero sarebbe il caos infinito, una guerra senza
fine. Ma che cosa è un impero? E’ un misto di forza e di consenso, di capacità
di integrazione e di governo delle differenze, capacità di governo delle
autonomie, evitando la loro dispersione e la loro indifferenza. Se il concetto
di impero non conservasse un’eco negativa, un sapore militaristico e
oppressivo, lo potremmo ancora usare per immaginare la figura politica delle
nuove sovranità emergenti da un mondo post-statuale.
Ma,
anche qui, non dimentichiamo che la figura dello Stato appartiene pienamente al solo mondo
occidentale, e che oggi varie e molteplici sono le forme della sovranità. Non
dimentichiamo neppure che una serie di Stati, veri anelli deboli della
cosiddetta "comunità internazionale", si stanno sbriciolando sotto i
nostri occhi.
Resta
la prospettiva di un soggetto politico forte, plurale al suo interno, unificato
da una storia comune, che è storia di differenze, di antichi conflitti che
hanno disegnato una identità. Per questo è importante che l’Europa non guardi
solo ad Est. La Russia
morirebbe se perdesse il suo volto asiatico o se perdesse il suo volto europeo.
Per ora non si sa cosa sia.
L’Europa
deve guardare a Sud, a Sudest, alla penisola anatolica, alla Turchia. Nel
conflitto con l’impero ottomano si è costruita buona parte dell’identità
europea. In quel versante si gioca oggi una partita decisiva. L’impero ottomano
è tra le concause della nascita dell’Europa moderna e la “questione d’Oriente”
coincide con la sua crisi e la sua fine. La Turchia deve approdare in Europa e l’Europa deve allargarsi
alla Turchia: Istanbul-Costantinopoli. L’Europa cristiana e musulmana. Senza
quest’ambizione non ci sarà un ruolo
geopolitico significativo dell’Europa di
domani.
L’Europa
non è solo Occidente, come non è solo occidente il suo mare, il Mediterraneo.
Questa diversità della storia europea, questa sua complessità va recuperata. Di
qui passa, infatti, un rapporto più interiore con il mondo islamico e una
percezione più creativa della stessa nozione di “medio oriente”, che si trova
oggi in una situazione di precipizio.
Ma andiamo con ordine.
L’identità
europea è plurale. Si parla di radici
cristiane dell’Europa. Ma ci sono anche evidenti radici greche, ebraiche,
romane, musulmane… E’ concepibile
l’Europa moderna senza l’Islam? Già questo interrogativo porta a complicare il
quadro, a porre domande non ideologiche.
La Turchia
farà parte dell’Europa? Ma se ciò accadrà vorrà dire una politica verso
l’universo islamico assai diversa dalla semplice aggressione militare.
Non
va mai dimenticata una vecchia
consapevolezza della sociologia storica: il mercato di per sé non produce società. La società si
costruisce superando le logiche di mercato, attraverso la percezione forte di una
responsabilità sociale dell’economia e delle forme istituzionali incisive che
assume questa responsabilità. Voglio ripetere che c’è un inestinguibile primato
della politica sul destino della cittadinanza. Non una società degli individui,
ma una società dei gruppi sociali, delle
istituzioni della solidarietà, dei diritti collettivi.
Infine,
una cultura europea.
Si,
proprio della “vecchia” Europa. Una cultura della complessità. L’Europa sa
che la democrazia non è una clava e la
libertà non è il semplice sogno dei Padri Pellegrini. Seicento
anni di storia ci hanno insegnato che la democrazia è un processo paziente che
si basa sul rispetto dell’altro. Fare della democrazia una clava è svuotarla
dall’interno, trasformarla in un nuovo autoritarismo, che ancora una volta
sancisce la superiorità dei più forti sui più deboli, in nome di una
superiorità che è solo soperchieria.
In
questo senso la cultura europea è necessariamente una cultura dell’accoglienza.
Ha ragione Ulrich Beck: c’è una via europea distinta da quella di altre culture
e “identità europea non significa monogamia culturale.”
Vede bene Cristina Carpinelli:“L’Europa
del XXI secolo è piuttosto un’Europa delle differenze.” E’ tempo di tornare
alla domanda iniziale: può la politica "senza fondamenti" confrontarsi
con questi scenari? È in grado di cavarsela il decisionismo mediatico? E i guru
che circondano i leaders, più esperti nei sondaggi e dinamiche collettive che
in radici, culture e destini dei popoli, sono all'altezza dei consigli
opportuni per la situazione?
Anche i populismi italiani, anche quelli
di sinistra, non possono evadere questi interrogativi e questo confronto. Porli
non è né una provocazione né un tributo alla vecchia politica dei fondamenti
dimenticati. È soltanto il dovere dell'ora e un modo per attrezzarsi. Per
vincere e far vincere la democrazia.
Il futuro è figlio del pensiero e
dell'immaginazione, nei casi migliori della profezia. Per questo non si lascia
catturare dall'invadenza seriale delle immagini. E non discende dalla nausea del
presente.
L'altra faccia della medaglia del resto
la conosciamo. L’ha descritta con l'abituale chiarezza il cardinale Martini:
"Del futuro si ha più paura che desiderio".