Autoritarismo elettorale in partes tres
di Giovanni Bianchi
Giulio Cesare |
Le derive
Analizzando la deriva turca e quella della Russia
di Putin, Timothy Garton Ash ragiona intorno al termine autoritarismo elettorale su “la Repubblica” di sabato 4 marzo 2017. Si tratta di un andazzo più
esplicito in alcune nazioni e meno in altre, ma che pare stia estendendosi nei
diversi sistemi politici con rapidità epidemica. Leadership forti e sostenute
dall’apparato mediatico, così come dagli oligarchi economici (esistono anche
nell’Occidente globalizzato) si stanno imponendo, travolgendo le vecchie
garanzie democratiche, screditandone il senso e l’efficacia presso le opinioni
pubbliche. Quel che ne sanziona la dubbia legittimità è il ricorso ai
referendum e a voti comunque plebiscitari. I diversi sistemi ne sono
attraversati e intaccati, chi più chi meno, come organismi insidiati da un
tumore che mette a rischio le democrazie così come le abbiamo fin qui
conosciute e praticate. Ovviamente la spinta, la delegittimazione e il percorso
viene segnato da esigenze, sempre più veloci, di governabilità…
Eppure resto convinto che gli esiti del referendum
costituzionale abbiano segnato uno spartiacque nella stagione italiana, che
pure questi rischi condivide, tale da mostrare quanto meno i tarli, se non
ancora la crisi che attraversano le narrazioni prive di fondamento e le
leadership col turbo. Ci sono cioè elementi con i quali anche la nuova
generazione di leader autoritari è chiamata a fare i conti, al di là di un
copione oramai noto.
Per cui può avere ragione Garton Ash quando osserva che “se
i nostri governi non fanno grandi passi, è ancor più importante che noi ne
facciamo molti piccoli”. Le politiche attive cioè e la solidarietà civica
possono essere invitate e addirittura
forzate a riprendere parola e iniziativa, scrollandosi finalmente di dosso
un’inerzia ed un’apatia che sono suonate fin qui un inno al disincanto e più
ancora all’impotenza.
Timothy Garton Ash |
Ricominciare
Che qualcosa possa di nuovo ricominciare dal dissenso e “dal
basso” può già essere una novità non segnalata e non riconosciuta nel ventre
molle del corpo sociale. Ed ho ragione di pensare che non potrà essere del
tutto esorcizzata dai vecchi trucchi del vecchio ceto politico, ma anche del
nuovo, invecchiato con una rapidità che probabilmente i rottamatori non
sospettavano e soprattutto non si aspettavano. Ancora il 15 gennaio - sempre di
domenica e sempre su “la Repubblica”- Matteo Renzi, evidentemente infastidito
dal pressing dell’intervista di Ezio Mauro, poteva rispondere con esplicito
sarcasmo: “Ma vorrei ricordarle che io mi sono dimesso, in un paese dove di
solito le dimissioni si annunciano… Sarei andato via anche con il 49 per cento.
In realtà mi sono dimesso tre volte… La prima appena usciti i risultati,
domenica sera. La seconda davanti a Mattarella, lunedì. Poi il Presidente mi ha
chiesto di portare a casa la legge di bilancio. L’abbiamo fatta in 48 ore. E
con 173 voti a favore presi al Senato mi sono dimesso per la terza volta.
Adesso c’è il presidente Gentiloni cui va tutto il nostro sostegno”.
Peccato che agli italiani (e certamente a me) questa voglia
di dimissioni non sia apparsa né così decisa, tantomeno convinta, né
soprattutto definitiva. Ovviamente “definitiva” come può risultare una
decisione politica inevitabilmente contingente.
Incalzato ancora dal fastidioso Ezio Mauro, verso la fine
dell’intervista, di fronte all’insinuazione “di usare il partito con un taxi
per arrivare a Palazzo Chigi, Matteo Renzi si esibisce in un quasi giuramento:
“Io credo nel Pd, credo nell’intuizione veltroniana del partito maggioritario,
credo possa essere la spina dorsale del sistema, soprattutto in un quadro
bipolare come piace a me”.
Matteo Renzi |
Se aggiungiamo le dichiarazioni che chiudono la replica alla
fine della grande assemblea generale, ne emerge un disegno di partito
personale. Di fronte a un leader che predilige l’enfasi e si dichiara
indisponibile a fare il custode di un caminetto e afferma di amare il mare
aperto e soprattutto di volere un partito “senza correnti”, mi sento risospinto,
salutarmente, sui miei fondamentali.
Per il mio punto di vista cattolico-democratico cioè (e
lascio agli uomini delle sinistre il riesame in casa propria) un partito senza
correnti non si dà in alcun sistema democratico. E neppure nella vigente Costituzione
del 1948. È proprio qui che svanisce l’ipotesi di un renzismo in grado di
tamponare le spinte “populiste” di Grillo e Salvini. Chi si mette sulla
medesima strada finirà per scivolare sulla medesima montagna di sapone.
Per esprimermi alle spicce, il “populismo” in Italia avanza
su tutti i fronti e, come la Gallia di Cesare, si articola in partes tres: quello di Salvini (il sovranista), quello di Grillo
(l’algoritmo), e infine quello renziano, tipo vintage americano.
C’è nelle espressioni sopra richiamate tutta la modernità
del renzismo, anzi, il suo modernariato. La serie Happy Days è lontana nel
tempo non soltanto per il pubblico americano, ma anche per i telespettatori
italiani. Recita infatti Google: “È una situation
comedy televisiva statunitense di grande popolarità e successo andata in
onda in prima visione negli Stati Uniti dal 15 gennaio 1974 al 24 settembre
1984 sulla rete televisiva ABC. La serie, creata da Garry Marshall, presenta
una visione idealizzata della vita negli Stati Uniti d'America, a cavallo tra
gli anni cinquanta e sessanta”. Troppo in là e troppo indietro nel tempo anche
per l’opinione pubblica italiana.
Papa francesco |
Il bigino del Papa
Tanta acqua è passata infatti sotto i ponti televisivi nel
Bel Paese, e soprattutto in Europa. I giorni devono apparire assai meno felici
non soltanto ai “gufi”, ma anche ai cittadini-consumatori in generale, se papa
Francesco può lasciarsi andare, parlando di Trump, neopresidente degli Stati
Uniti, ad una ricostruzione molto rapida, sapida ed anche un poco biginesca
della storia tedesca. (Sempre su “la Repubblica” di domenica 22 gennaio 2017.)
Dice infatti Papa Bergoglio: “Dopo (Paul von) Hindenburg, la
crisi del 30, la Germania è in frantumi, cerca di rialzarsi, cerca la sua
identità, cerca un leader… qualcuno che gli ridia la sua identità è c’è un
ragazzetto di nome Adolf Hitler che dice
“io posso, io posso”. E tutta la Germania vota Hitler. Hitler non rubò il
potere, fu votato dal suo popolo, e poi distrusse il suo popolo”.
Come si vede, lasciando da parte i sociologismi e servendosi
come al solito del sermo humilis, papa Francesco imposta da par suo il tema
dell’autoritarismo elettorale.
Non proprio una novità e non proprio una semplice ruga sul
volto non mai completamente liscio delle democrazie. Pensarci e provvedere per
tempo sembrerebbe saggezza. In particolare uscendo finalmente dal tunnel delle
leadership solitarie e delle narrazioni tipo Happy Days.
Il partito personale non risolve i problemi della
transizione infinita, anzi è il problema, o comunque aggiunge problema a
problema. Sono “fermo” a Norberto Bobbio, non proprio l’ultimo arrivato: il
partito personale è una contraddizione in termini, dal momento che un partito
per esistere deve fare riferimento a un noi.
Beppe Grillo |
Meno chiacchiere, meno marinettismi, meno effetti speciali.
In democrazia i fenomeni vanno meglio al circo che al governo. Uomini comuni,
non “uomini qualunque”. Paolo Gentiloni a tutto s’atteggia tranne che a
istrione. Per questo può durare e gli si deve augurare lunga durata. Quanto alla democrazia, quando ha mantenuto
l’abitudine di studiare e di affrontare i
problemi dopo averli capiti, può ancora concedersi di vestire un compìto
abito grigio.