ALLA RICERCA DEL CETO MEDIO PERDUTO
di Alfonso
Gianni
C’erano varie proposte avanzate
dal team nominato dal Ministro dell’economia
e delle finanze sul tavolo di confronto con i partiti politici della
maggioranza per definire il disegno di legge delega di riforma fiscale, che il
governo aveva dichiarato nella Nadef essere uno dei ben 21 collegati alla
manovra di bilancio. Alla fine della discussione è stata scelta la peggiore. Questa
ora verrà sottoposta all’approvazione di Draghi e dei segretari dei partiti
della maggioranza e poi confluirà in un emendamento governativo al testo della
manovra di bilancio ora in discussione al Senato. Ma l’accordo politico c’è,
hanno tutti assicurato nelle dichiarazioni di ieri. Si tratta di un intervento
sull’Irpef e sull’Irap che configura una manovra regressiva, peggiore di quanto
ci si potesse aspettare, vista la discussione nelle commissioni parlamentari
competenti di Camera e Senato che avrebbero dovuto fornire consigli per l’elaborazione
della legge. Senza contare che anche da Bankitalia erano giunti moniti che sono
stati tenuti in non cale. Degli 8 miliardi previsti 7 verrebbero utilizzati
sull’Irpef e uno sull’Irap. L’Irpef verrebbe ridisegnata lungo 4 aliquote
rispetto alle 5 attuali. Il che comporta un’ulteriore riduzione del criterio
della progressività contenuto in Costituzione.
Si ricorderà che la riforma
fiscale entrata in vigore nel 1974 prevedeva un sistema tributario di 32
aliquote dal 10% al 72%. Da allora si è snodato un lungo ma implacabile
percorso, punteggiato da innovazioni legislative regressive, che hanno sorretto
la lotta di classe condotta dalle classi e dai ceti dominanti lungo l’ultimo
quarantennio e che ora troverebbe così la sua nuova epifania. Le 4 aliquote
sarebbero del 23%, del 25%, del 35% e del 43%. Mentre per la no-tax area si
parla di minime e per ora imprecisate modifiche, la fascia di reddito fino a
15mila euro resta al 23%; quella tra i 15 e i 28mila euro scende dal 27% al
25%; la successiva dai 28mila ai 50mila euro (non più 55mila) diminuisce di tre
punti dal 38% al 35%; oltre quella cifra, avendo cancellato l’aliquota del 41%,
si applicherebbe quella del 43%. Il famoso salto dalla seconda alla terza aliquota
che prima era di 11 punti verrebbe solo ritoccato portandolo a 10. L’effetto di
questo ridisegno di scaglioni e aliquote favorisce i redditi medi ed anche
quelli con un alto imponibile. Basta guardare al terzo scaglione per rendersene
conto. La riduzione di tre punti dell’aliquota favorisce proporzionalmente di
più coloro che si trovano nella parte alta dello scaglione, ovvero vicino ai 50
mila euro, che non quelli che stanno vicini ai 28 mila, poiché per questi ultimi
la riduzione agirebbe solo su una componente minimale del loro reddito che
verrebbe per il restante investito da una riduzione inferiore dell’aliquota.
Nel contempo l’aliquota del 43% rimane il tetto del sistema tributario, molto
lontano da quel 72% di quaranta anni fa, e lascerebbe indifferenti gli strati
più ricchi della popolazione. Altro che riduzione della pressione fiscale sul
lavoro dipendente e sui pensionati, soprattutto quelli con gli assegni più
bassi. Come aveva avvertito la stessa Bankitalia, la scelta di agire in modo
orizzontale sulle aliquote, per giunta riducendone il numero, finisce per
favorire maggiormente redditi ben diversi di quelli del lavoro dipendente. Alla
faccia della recente elaborazione di Openpolis su dati Ocse, che mostra come i
salari italiani siano gli unici nel quadro europeo ad essere diminuiti (del
2,9%) dal 1990 ad oggi. Ma la scelta e l’obiettivo erano altri, cioè quelli di
venire incontro ai mitici ceti medi. Lo si vede anche dall’intervento
sull’Irap, ove peraltro le cose appaiono più confuse. Non solo l’intervento
complessivo rientra negli otto miliardi previsti, mentre ne servivano ben di
più per una misura che avesse una qualche efficacia sullo scarso reddito dei
lavoratori dipendenti. Ma un miliardo se ne va per la riduzione della tassa che
svolge un ruolo fondamentale nel finanziamento del sistema sanitario nazionale,
scegliendo irresponsabilmente il momento meno indicato di fare ciò che è pur
sempre una cosa sbagliata. Un contentino alla Lega, dopo il braccio di ferro
sulle misure anti-Covid? Sarà, sta di fatto che l’eliminazione dell’Irap per
ditte individuali si aggiunge ai diversi tagli che hanno più che dimezzato il
gettito fiscale di questa imposta dal 2,7% del Pil nel 2007 all’1,2% nel 2020. L’accordo
politico è quindi pessimo, i suoi dettagli se confermati lo dimostrano. C’è
poco da sperare in questo Parlamento la cui composizione è essenzialmente
frutto delle scelte dei vertici dei partiti. Eppure sarebbe un errore
considerare chiusa la vicenda. Chi l’ha condotta afferma trionfante che si
tratta di misure strutturali e non per il solo 2022. Non è solo la Cgil a
mostrare contrarietà. Ma non è cosa che può essere lasciata a mobilitazioni
locali. Se è compatibile il lavoro con lo stato di emergenza determinato dalla
pandemia, lo è anche l’astensione dallo stesso per motivate ragioni. È proprio
il caso in cui non è necessario essere tardivi seguaci di Sorel per chiedere
uno sciopero generale. Capace di realizzare quella coesione sociale fra
lavoratori dipendenti, precari, pensionati di cui c’è grande bisogno per
riportare la questione sociale, oltre a quella sanitaria, in cima all’agenda
del paese.