NORMALITÀ E PATOLOGIA
di
Pierpaolo Calonaci
Opera di Max Hamlet Sauvage
Il
concetto di norma è un concetto originale che non si lascia, in fisiologia più
che altrove, ridurre a un concetto oggettivamente determinabile con metodi
scientifici. Non si dà dunque, propriamente parlando, una scienza biologica del
normale. Si dà una scienza delle situazioni e delle condizioni biologiche dette
normali. [George
Canguilhem]
La
normalità è assimilata tout court a
ciò che è regolare – come conseguenza di effetti normativi - in quanto “normalizza”
la vita biologica quanto quella sociale. Quale rapporto esiste tra normalità,
anomalia e anormale? E rispetto a cosa si definiscono? Un’interpretazione la
offre Canguilhem, storico e filosofo delle scienze biologiche e mediche del
Novecento francese che, partendo dalla relazione tra normalità e patologia in
fisiologia, giunge ad un’analisi socio-politica che indaga gli effetti
normalizzanti del potere fascista sul corpo sociale degli individui (i
contadini di allora). Canguilhem individua nel rapporto tra normalità e
patologia una polarità, un dinamismo
normativo intrinseco a quei due termini. Come dire, non c’è affatto bisogno di
alcuno intervento esterno per definirne la relazione. Siccome l’autorità
normativa ha buon gioco ad inserirsi come medium
tra ogni opposizione surrettiziamente
creata, presentandosi come potere che
definisce cosa sia buono e cattivo, normale e patologico, l’analisi del
filosofo evita razionalmente questo trabocchetto, suggerendo che nell’identificazione
tra normalità e norma venga dissimulata la possibilità di capire chiaramente
determinate condizioni fisiologiche e sociali che producono certi rapporti;
cancellando, di fatto, tutte le relative contraddizioni inscritte nella storia
del sintomo (in medicina), nei bisogni e nei comportamenti (come condizioni
sociali di produzione di questi). “Ma una norma non è un
imperativo di esecuzione sotto la minaccia di sanzioni giuridiche”, è il suo monito per l’oggi. Anomalia, ricorda il pensatore, deriva
dal greco an-omolos. Omalos è ciò che
è unito, uguale, per cui anomalia rimanda
a ciò che è diseguale o accidentato ma non in contrasto con Omalos. Per cogliere questa relazione
occorrerebbe non cancellare il conflitto che essa possiede. Per qualche inganno
interpretativo si è prodotto invece uno scivolamento per cui anomalia viene accostata ad anormalità, rendendo sinonimi i due
termini. Sinonimia che abbisogna del nomos
per tenersi in piedi, il quale però è
costruito da un potere esterno. Questo slittamento etimologico è esiziale
perché costruisce il senso di normalità derivante dal valore che la norma le
conferisce, sradicandolo dal senso proprio che invece lo costituirebbe: quello
appunto del dinamismo, tanto in fisiologia quanto sul piano dei rapporti
sociali, della polarità tra
disuguaglianza e uguaglianza; dove il normale non è, per capirsi, nemico del patologico. Quindi, questo dualismo esiste poiché viene instaurato
dal regime della norma, che è surrettizio.
I vari meccanismi di normalizzazione
derivano da qui, giungendo ben presto a giustificare lo status quo, esemplificati dall’arbitrio del “ognuno al proprio
posto”. La follia ne è l’esempio più drammatico, oserei direi proprio il topos; poiché spiega quanto la normalità
veicolata dal nomos abbia operato
violenza, da parte delle istituzioni mediche preposte alla “cura” del “folle”,
sul piano della dignità della persona e abbia legittimato quel sistema di
dominio e quell’ordine del discorso[1] che necessariamente lo accompagnò,
propugnando stigma[2] sociale fino alla cancellazione
dell’identità stessa dell’individuo. Foucault (nonché la denuncia della
funzione sociale della medicina in un sistema capitalista formulata dai coniugi
Basaglia e altri) descrisse, individuando nel metodo scientifico pensato da
Cartesio, la genesi di quella follia. Quest’ultimo, nel tentativo di dare
compimento e coerenza al suo modello scientifico con il quale pensare
biologicamente e metafisicamente l’uomo, si trovò nell’imbarazzo di realizzare
che l’uomo non è una macchina perfetta; detto meglio, che il cogito, per essere tale, necessita
vitalmente dell’errore. Cartesio, per Foucault, rimosse questo errore dal
metodo con cui pensava l’uomo e i suoi rapporti con la scienza e il mondo;
relegando l’errore ad una zona cerebrale in cui si produrrebbe. Tutto ciò prestò
il fianco (non per colpa di Cartesio, ovviamente) alla costruzione del
comportamento deviante per il quale il potere della norma decide chi sia
normale e chi no. Ne discesero i manicomi e un tipo di produzione normativa, espressione
dell’idea di stato terapeutico-repressivo, metastasi dello stato sociale, che poterono
prosperare proprio per aver avvalorato la norma quale valore scientifico. Trasformare
la normalità in valore di norma assoluta e universale, significa garantire, in
modo coercitivo, l’omogeneità della vita, biologica e sociale affinché ognuno,
non solo rispetti il comando del “è così perché è così”, ma oltretutto non
desideri ribellarsi. “Chi decide chi è
normale? La normalità è un’invenzione di chi è privo di fantasia” (Alda
Merini).
Note 1. Cfr. Michel Foucault 2. Cfr. Erving Goffman
Opera di Max Hamlet Sauvage |
Il
concetto di norma è un concetto originale che non si lascia, in fisiologia più
che altrove, ridurre a un concetto oggettivamente determinabile con metodi
scientifici. Non si dà dunque, propriamente parlando, una scienza biologica del
normale. Si dà una scienza delle situazioni e delle condizioni biologiche dette
normali.
La
normalità è assimilata tout court a
ciò che è regolare – come conseguenza di effetti normativi - in quanto “normalizza”
la vita biologica quanto quella sociale. Quale rapporto esiste tra normalità,
anomalia e anormale? E rispetto a cosa si definiscono? Un’interpretazione la
offre Canguilhem, storico e filosofo delle scienze biologiche e mediche del
Novecento francese che, partendo dalla relazione tra normalità e patologia in
fisiologia, giunge ad un’analisi socio-politica che indaga gli effetti
normalizzanti del potere fascista sul corpo sociale degli individui (i
contadini di allora). Canguilhem individua nel rapporto tra normalità e
patologia una polarità, un dinamismo
normativo intrinseco a quei due termini. Come dire, non c’è affatto bisogno di
alcuno intervento esterno per definirne la relazione. Siccome l’autorità
normativa ha buon gioco ad inserirsi come medium
tra ogni opposizione surrettiziamente
creata, presentandosi come potere che
definisce cosa sia buono e cattivo, normale e patologico, l’analisi del
filosofo evita razionalmente questo trabocchetto, suggerendo che nell’identificazione
tra normalità e norma venga dissimulata la possibilità di capire chiaramente
determinate condizioni fisiologiche e sociali che producono certi rapporti;
cancellando, di fatto, tutte le relative contraddizioni inscritte nella storia
del sintomo (in medicina), nei bisogni e nei comportamenti (come condizioni
sociali di produzione di questi). “Ma una norma non è un
imperativo di esecuzione sotto la minaccia di sanzioni giuridiche”, è il suo monito per l’oggi. Anomalia, ricorda il pensatore, deriva
dal greco an-omolos. Omalos è ciò che
è unito, uguale, per cui anomalia rimanda
a ciò che è diseguale o accidentato ma non in contrasto con Omalos. Per cogliere questa relazione
occorrerebbe non cancellare il conflitto che essa possiede. Per qualche inganno
interpretativo si è prodotto invece uno scivolamento per cui anomalia viene accostata ad anormalità, rendendo sinonimi i due
termini. Sinonimia che abbisogna del nomos
per tenersi in piedi, il quale però è
costruito da un potere esterno. Questo slittamento etimologico è esiziale
perché costruisce il senso di normalità derivante dal valore che la norma le
conferisce, sradicandolo dal senso proprio che invece lo costituirebbe: quello
appunto del dinamismo, tanto in fisiologia quanto sul piano dei rapporti
sociali, della polarità tra
disuguaglianza e uguaglianza; dove il normale non è, per capirsi, nemico del patologico.
Quindi, questo dualismo esiste poiché viene instaurato
dal regime della norma, che è surrettizio.
I vari meccanismi di normalizzazione
derivano da qui, giungendo ben presto a giustificare lo status quo, esemplificati dall’arbitrio del “ognuno al proprio
posto”. La follia ne è l’esempio più drammatico, oserei direi proprio il topos; poiché spiega quanto la normalità
veicolata dal nomos abbia operato
violenza, da parte delle istituzioni mediche preposte alla “cura” del “folle”,
sul piano della dignità della persona e abbia legittimato quel sistema di
dominio e quell’ordine del discorso[1] che necessariamente lo accompagnò,
propugnando stigma[2] sociale fino alla cancellazione
dell’identità stessa dell’individuo. Foucault (nonché la denuncia della
funzione sociale della medicina in un sistema capitalista formulata dai coniugi
Basaglia e altri) descrisse, individuando nel metodo scientifico pensato da
Cartesio, la genesi di quella follia. Quest’ultimo, nel tentativo di dare
compimento e coerenza al suo modello scientifico con il quale pensare
biologicamente e metafisicamente l’uomo, si trovò nell’imbarazzo di realizzare
che l’uomo non è una macchina perfetta; detto meglio, che il cogito, per essere tale, necessita
vitalmente dell’errore. Cartesio, per Foucault, rimosse questo errore dal
metodo con cui pensava l’uomo e i suoi rapporti con la scienza e il mondo;
relegando l’errore ad una zona cerebrale in cui si produrrebbe. Tutto ciò prestò
il fianco (non per colpa di Cartesio, ovviamente) alla costruzione del
comportamento deviante per il quale il potere della norma decide chi sia
normale e chi no. Ne discesero i manicomi e un tipo di produzione normativa, espressione
dell’idea di stato terapeutico-repressivo, metastasi dello stato sociale, che poterono
prosperare proprio per aver avvalorato la norma quale valore scientifico. Trasformare
la normalità in valore di norma assoluta e universale, significa garantire, in
modo coercitivo, l’omogeneità della vita, biologica e sociale affinché ognuno,
non solo rispetti il comando del “è così perché è così”, ma oltretutto non
desideri ribellarsi. “Chi decide chi è
normale? La normalità è un’invenzione di chi è privo di fantasia” (Alda
Merini).
1. Cfr. Michel Foucault