LA MIA CITTÀ
di
Dacia Maraini
Difficile
per me raccontare la mia città, perché in realtà sono diverse le mie città:
quella di nascita, Firenze, in cui ho abitato per 5 anni; Kyoto, dove ho
conosciuto le favole raccontate dalla dolce voce di Okachan e l’amore per o
grandi alberi abitati dagli spiriti gentili; Palermo che ho frequentato da
adolescente e in cui ho studiato per otto anni. E infine Roma dove abito ormai
da una vita.
Firenze
mi ricorda il collegio della Santissima Annunziata: la bella villa medicea in
cima al colle, proprio vicino a dove abitava mio nonno. E vicino anche
all’antica casa di Galileo. Era la città
dell’Arno sulle cui rive andavamo in fila noi collegiali con la divisa grigia e
il collettino bianco a respirare l’aria dantesca recitando a memoria alcune sue
rime. È la città del mio momento
religioso. Avevo una madonna dentro il banco e le portavo tutti i giorni dei
fiori freschi. La notte prima di dormire, facevo una chiacchierata con il Gesù
che pendeva dal mio capezzale, un corpo martoriato che cercavo di carezzare per
rappacificarlo con la vita. Gli chiedevo che cos’è il dolore e come possiamo
ingoiarlo e digerirlo. Firenze era la casa di mio nonno, non lontano dal collegio,
dove crescevano i pini e i corbezzoli, le dalie e i limoni. Era la casa degli
scalini di pietra, in cima a cui c’era la camera dove dormivo, accompagnata dal
gocciolio dell’acqua che scorreva nei tubi; dove dalle finestre aperte entravano in primavera certe
farfalline gialle che si rincorrevano agitando, anzi frullando le piccole ali
gialle. Era anche la casa dove
risuonavano le note di Bach e di Mozart e dove a ogni angolo ci si imbatteva
nel ritratto in bianco e nero di mia nonna Yoi, la coraggiosa avventurosa,
ragazza inglese che si metteva lo zaino in spalla e andava in giro per il mondo
da sola negli anni 10 del secolo scorso.
Palermo
è la città della mia adolescenza. Non felice perché l’educazione di Fosco e
Topazia, fatta di libertà e responsabilità personale si scontrava le regole
repressive di una società che ipocritamente nascondeva i suoi appetiti e la sua
sensualità dietro interdizioni e divieti che rendeva pesanti le giornate. Nello
stesso tempo rappresentava la gioia di un mare accogliente e sempre pulito in
cui mi immergevo per pescare i ricci e mangiarli sulle rocce assieme agli
amici. Era la città delle tante bellezze ma anche delle tante nuove bruttezze.
Era la città in cui correvo in bicicletta, scrivevo i primi racconti e li
pubblicavo sul giornale della scuola Garibaldi, mi innamoravo di un ragazzo bello
e cinico, imparavo le prime schermaglie d’amore, e leggevo, leggevo fino a
consumarmi gli occhi. I libri erano i miei compagni preferiti.
E
veniamo a Roma, città che mi è stata ostica e misteriosa finché non l’ho
conosciuta nelle sue radici. Ci vivevo con mio padre, dalle parti di piazza
Bologna. Dalla finestra vedevo il cortile di una caserma, e mi svegliavo al
suono della tromba militare. Roma è la scuola Mamiani, dove i giovani compagni
di classe si preparavano in anticipo a saltare sul cavallo al galoppo della
storia. E la città del Tevere e dei suoi segreti. Mi è sempre piaciuta l’acqua
che scorre. Appena ho potuto mi sono trasferita vicino al fiume. Roma, quando
ci sono arrivata, era stordita dalla guerra, ma i più avidi si stavano
rimboccando le maniche per costruire, in barba a ogni legge protettiva della
comunità, seguendo le sirene dell’abusivismo, enormi periferie senza regole né
giardini. Roma è la città in cui ho fondato il teatro Centocelle, per dare voce
a chi non l’aveva alla fine degli anni 60. Il quartiere era così povero e
arretrato che quando andavo di porta in porta a raccontare della nascita di un
teatro di cantina, la prima cosa che mi chiedevano era: Ma cosa vendete? Roma è
stata la città dell’impegno, del teatro, della bulimia del conoscere, del
desiderio spasmodico di cambiare il mondo e renderlo più giusto e umano.
[Roma
maggio 2024]