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UNA NUOVA ODISSEA...
L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

(foto di Fabiano Braccini)
Buon compleanno Odissea

1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)
lunedì 30 giugno 2025
CUPIO DISSOVI
Nel cupio
dissolvi collettivo, un ruolo deleterio di grande e importante
rilievo svolge la progressiva e incalzante incultura (e quindi inadeguatezza al
ruolo) della classe politica di governo o altrimenti dirigenziale. In Occidente il degrado cognitivo dei vertici dei
Paesi è particolarmente favorito dalla presenza maggioritaria di gente che
“crede” in ciò che le viene insegnato con accenti propagandistici rispetto a
ciò che “potrebbe pensare” se facesse ricorso al proprio raziocinio. Scuole concesse in gestione a preti e a speculatori
(credenti ma con il pelo sullo stomaco in quanto proprietari di
“diplomifici” a pagamento) completano il quadro per giungere a un inevitabile scadimento culturale. Inoltre, una vera e propria cultura non
conformistica e laica dei vertici dirigenziali e di governo è impedita dalla
incombenza, sul piano giudiziario, di “avvisi di garanzia” più precisi di
missili e droni telecomandati nel colpire leader politici capaci che possano
sbarrare il passo a quelli che Franco Continolo nel suo blog definisce
i “super idioti”. La ciliegina sulla torta
dell’incultura politica è data da leggi elettorali truffaldine che
consentono di governare a minoranze (rissose ma interessate ai vantaggi di
entrare nella stanza dei bottoni) che se infischiano del Paese vero (che
non ha altra strada che astenersi). Sul
terreno della concretezza e dell’attualità, gli eventi Occidentali più recenti
hanno dimostrato nel senso più pieno quanto appena detto, con l’eccezione degli
Stati Uniti d’America che, eleggendo Donald Trump (nonostante le
difficili caratteristiche del personaggio) hanno inteso sottrarsi al “cupio
dissolvi” della collettività Occidentale, scaricandolo solo sugli Europei. I “super beoti” (di Francia, Germania, Inghilterra,
Italia in prima linea) si sono dimostrati, grazie alla loro stupida
insipienza leader pronti ad addossarsi il fardello loro imposto dal
neo eletto Presidente Americano. Molto
mal messi, stanchi e spossati fino al punto di articolare male frasi
spesso inaspettatamente tronche e più del consueto prive di senso comune,
quei “tromboni male accordati”, con le loro azioni politiche sono stati
tutti, senza eccezioni, della medesima irresponsabilità per la sconsiderata
politica. Meloni, Macron, Starmer, Metz, dopo avere violato (mentre la
invocavano) una legge NATO che dimostravano di non conoscere, si sono cacciati
in una guerra che da cobelligeranti (non avendo essi seguito l’esempio
di Trump) dovranno sostenere a proprie spese, aiutando l’industria delle
armi, per massima parte statunitense, a non subire perdite per la “resa” e
l’uscita dal gruppo dei Nord-americani. Il
fatto più grave è stato che né in Italia né negli altri Paesi Europei ci
si poteva aspettare altro dagli uomini politici di diverso orientamento
(In Italia la scalmanata e rissosa Elly Schlein, il velenoso e acido Calenda,
l’ineffabile e inaffidabile Renzi non dicevano cose diverse, avendo la stessa
macroscopica e madornale ignoranza delle norme NATO).
domenica 29 giugno 2025
MUSICA
di Gabriele Scaramuzza
Nabucco
all’Arena di Verona
La stagione lirica
estiva è stata inaugurata con Nabucco
di Verdi, opera peraltro di casa all’Arena di Verona. Mi riferisco
trasmissione su Rai3 del 21 giugno, Festa Europea della Musica 2025. Tra i
presenti si notavano, oltre al ministro Giuli, Angela Merkel. Ha da subito
colpito il palese nazionalismo della rappresentazione: Fratelli d’Italia, inno nazionale mediocre nella musica e nelle
parole, ha aperto lo spettacolo; sul proscenio c’erano tre gruppi di coristi,
ognuno contrassegnato da un colore diverso: bianco, rosse e verde. Nessun cenno
all’Inno europeo, di ben altra statura musicale e culturale. Quasi in gioco
fossero solo gli italiani.
Ora, Nabucco:
è rappresentato per la prima volta alla Scala nel 1842. Come mi conferma Anna
Foa, in quegli anni “l’emancipazione degli ebrei era in agenda”, un
tema importante per tutti, contrastata dalla Chiesa. Non si può farne
un’opera in cui gli ebrei sono visti solo come pallide controfigure di eroi
risorgimentali o peggio, quasi il loro ebraismo fosse solo un pretesto, una
pennellata di colore, in una storia al cui centro sta solo il popolo italiano.
Che Verdi avesse simpatie rinascimentali, che fosse anticlericale, si sa; ma
non è per nulla tutto lì. Entrambe le cose insieme dovettero portarlo a simpatizzare
per l’emancipazione degli ebrei. Che in ogni caso in Nabucco sono presenti in quanto tali, anche se si tratta di ebrei
di un’epoca lontana.
Che gli ebrei nel Nabucco, mi
scrive Emilio Sala, siano rappresentanti di una “patria perduta”, da essa
esiliati, non risolve il problema del loro “statuto”. L’associazione
“risorgimentale” con il popolo “senza patria” risolve solo metà del problema.
Conclude Fabrizio Della Seta: “Quanto a Nabucco,
non credo che l'alternativa sia Ebrei/Italiani del Risorgimento, e comunque una
interpretazione non esclude l'altra. Penso che ciò che appassionava Verdi
fosse il tema dell'oppressione e della libertà, comunque si ponesse”; “è
innegabile che Verdi abbia sentito e reso il soggetto con una partecipazione
non scontata, quali che fossero le sue motivazioni, che d'altronde non sono
necessariamente esclusive; la causa nazionale e la questione ebraica sono
strettamente collegate.
Nabucco ha da sempre
profonde radici in me. I cori, gli accenti di taluni protagonisti, momenti
quali - ahimè, pochi me lo perdoneranno - la marcia funebre di Fenena, di
sapore bandistico (ripresa se ben ricordo anche da Testori), l’ampio respiro musicale
del dramma, lo fanno emblema di una profonda liberazione. La sua conclusione ne
fa un inno a profondi valori ebraico-cristiani oggi calpestati, sovvertiti con
disprezzo (anche in ambienti ebraici) - assieme ai valori greco-romani che
danno fondamento etico ed esistenziale alla nostra civiltà.
All’Arena la regia, le scene, i costumi, alcuni
momenti musicali (senza nulla togliere alla dignità di taluni interpreti) mi
risultano incomprensibili, “brutti” francamente; e tali da cooperare alla
insensata distruzione di un mondo culturale, non certo alla valorizzazione
dell’opera. Poche cose più indisponenti dell’intento di “rinnovare” le opere
con regie attualizzanti, quasi non avessero in sé una loro sostanza musicale e
culturale sufficiente a tenerle in vita.
Certo, c’è guerra, l’aggressione iniziale
di Nabucco, l’aggressività di Abigaille, il lamento cui segue l’ansia di un
riscatto non affidato alle armi, ma al ritorno a profondi valori ebraico-cristiani.
Ma nessun accento bellicista.
P. S. La recente Norma alla Scala
conferma la pervasività della mania di risorgimentalizzare e nazionalizzare
tutto: ai romani dell’originale sono sostituiti gli austriaci del Risorgimento,
non manca un tricolore che avvolge la salma di un patriota sacrificatosi per la
patria…. La scena è progettata intorno a prospettive della Scala. Le parole del
libretto, le indicazioni sceniche, la musica stessa, restano ovviamente quello
che sono, non si comprende come possano prestarsi a una simile trasposizione di
tempi e luoghi. Certo la musica si salva grazie a Fabio Luisi, taluni cantanti
sono all’altezza del loro compito. Ma l’insieme resta nella mia ottica astruso.
Temistocle Solera - Giuseppe Verdi
Nabucco
allestimento dell’Arena di Verona 2025
regia di Stefano Poda
direttore d’orchestra Pinches Steinberg
tra i molti interpreti che si alternano
Amartushin Enkhbat, Luca Salsi, Francesco
Meli
Anna Pirozzi, Anna Netrebko, Maria José Siri.
LETTERE DAL SUD
Confronti
Caro
Direttore,sono mossa da un certo sentimento
di rammarico rispetto alle vicende che quotidianamente investono le vite di
giovani ragazzi e ragazze adolescenti in preda a gesti estremi verso sé stessi
e verso persone care, forse perché io stessa mi ritrovo nel ruolo di genitrice,
per cui sento tutto il peso della responsabilità nel fornire ai miei figli gli
strumenti possibili per vivere in modo rispettoso e dignitoso nella nostra
attuale e difficile epoca, improntata sulla virtualità e digitalizzazione. A
volte, credimi, si ha la sensazione di percorrere strade tortuose e piene di
insidie e per questo faticose. Mi chiedo, pertanto, in che modo, attualmente,
le istituzioni, in primis la famiglia e la scuola, possano essere efficaci per
i nostri giovani, pragmaticamente parlando, sul piano educativo-pedagogico.
Alla ricerca di spiegazioni plausibili e razionali alle mie perplessità ho
voluto fortemente assistere, la scorsa settimana, al Festival culturale di Conversazioni
dal Mare che annualmente si tiene a cielo aperto nello splendente gioello
adriatico della città pugliese di Giovinazzo, avendo appreso che fra gli ospiti
di eccezione dell’edizione 2025, avrei potuto ascoltare il dibattito sul “Bene
e il Male: educare i giovani”, condotto dal professor Galimberti. Un’ora pura
di filosofia, psicologia e antropologia, per me appassionata e studiosa di
questi ambiti, mista ai profumi di salsedine, di cui la brezza marina ci
inondava, non sono, tuttavia, riusciti a placare quel senso di disagio che ho
avvertito quando il professore ha riportato un dato davvero inquietante in
merito alla stima dei suicidi adolescenziali: 400 la media raggiunta
quest’anno. Quale allora l’origine del dolore esistenziale delle nuove
generazioni, tale da indurli all’autoeliminazione, a cui si aggiungono
comportamenti omicidi attuati nei confronti di giovanissime ragazze e ragazzi
coetanei e non solo? E perché sempre più si avverte una degenerazione del
rapporto, un tempo fondato sul rispetto e sulla fiducia, fra studenti e
docenti? Galimberti tenta di fornire spiegazioni al pubblico, individuando,
nella mancanza di risposte e di obiettivi, a danno della crescita psico-emotiva
delle giovani generazioni, la possibile motivazione a tale angoscia
adolescenziale. Che l’assuefazione alla virtualità nell’era digitale abbia
raggiunto livelli alti di criticità è fuor di dubbio, in concomitanza, la
“panta-mercificazione”, per usare un neologismo, in nome del consumismo e della
tecnica, hanno conferito una impronta materialistica alle questioni della sfera
spirituale, col risultato di un appiattimento emotivo mai riscontrato
precedentemente e che rievoca il pensiero unidimensionale, formulato negli anni
sessanta dal filosofo Marcuse nel suo libro L’uomo a una dimensione. Il
professore attinge dalla lingua tedesca il verbo “fühlen/sentire
interiormente-percepire”, per ammonirci, genitori e docenti, del nostro essere
corresponsabili della crescita e dello sviluppo psico-emotivo dei giovani.
Sarà, dunque, la risonanza emotiva nella gestione delle conflittualità
relazionali delle giovani generazioni, la giusta via da intraprendere, da parte
delle istituzioni familiari e scolastiche, per discernere il Bene dal Male? Anna Rutigliano
Caro
Direttore,anche io ho voluto essere
presente a uno degli incontri, previsti quest’anno, nel corso del Festival
culturale “Conversazioni dal Mare” che, nei giorni scorsi, si è tenuto a
Giovinazzo, una città già sede in passato di una importante industria
siderurgica e oggi perla nel territorio della Provincia Metropolitana di Bari: incontro
con lo psicologo, filosofo, saggista e antropologo, Umberto Galimberti. Tema:
“Bene e male nella formazione dei giovani”. Permettimi però, innanzitutto, tu
che mi conosci, fare una premessa che mi sta a cuore: ricordare, con te, il
contesto in cui si è tenuto l’appuntamento con il professor Galimberti: il
porticciolo della città. Vero cuore pulsante della città, là dove i pescherecci
si cullano sulle onde e l’odore salmastro si mescola alle storie di tanti
pescatori che, da generazioni, animano queste rive e che il tramonto nei mesi
più caldi, e quindi anche in questo nostro caldo giugno, tinge di sfumature
rosate le facciate alte dei grandi palazzi quando si rispecchiano da un lato e
si riflettono sull’acqua, regalando uno spettacolo suggestivo e
indimenticabile. Il palco, che ospita l’oratore, è quasi in riva al mare, e in
una atmosfera quasi sospesa dal tempo, colpisce una lunga barca da pesca dai
colori vivacissimi, posta alle sue spalle: sembra voler salpare, da un momento
all’altro, e intraprendere il viaggio, per
seguir virtute e canoscenza. Sì, perché il futuro ormai è un mistero, ed è
fatto di parole, solo di parole, noi viviamo di parole, che sono l’anestesia
del presente. Ha una specie di grido la roca voce di Galimberti, quando dice
che anche le chiese sono riempite di sepolcri imbiancati. Eppure siamo chiamati
a riconoscere e armarci di coraggio, per affrontare il nichilismo e la
rassegnazione, e interrogarci in maniera molto precisa sul significato da attribuire
al concetto di identità della persona e, per converso, alle tante identità dei
nostri giovani. Con forza, il professor Galimberti afferma che è la società che
crea l’identità e non l’individuo che crea la società. La società viene prima
dell’individuo, e stare in società è come partecipare ad una partita di calcio,
in cui ci sono delle regole e il principio base della educazione è il rispetto
delle regole, quelle che ci portano a separare il bene dal male. Bene e male,
potremmo anche non definirli, perché ciascuno sente naturalmente da sé che cosa
è l’una e che cos’è l’altro; oggi, però, non è più vero questo, perché noi
vediamo che questa distinzione tra i giovani non è più esattamente percepita
come dovrebbe. Non percepire la differenza tra il corteggiare una ragazza, o
stuprarla, significa che qualche cosa non ha funzionato nella educazione alla
sessualità. Che cosa è accaduto in questi anni? Lo sviluppo della tecnica,
quella che giustamente tu, cara Anna, chiami “assuefazione alla virtualità”, la
pervasiva sollecitazione al consumismo, l’elevazione del denaro e della forza
come elementi di affermazione, hanno portato alla scomparsa di quella risonanza
affettiva, che “è sentire” ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è grave da
ciò che non lo è”. Risonanza affettiva, che nasce dall’empatia, sentimento che
abbiamo in noi appena nasciamo e che, se non coltivata e protetta dai genitori,
dagli educatori, con gli anni della crescita si perde, rendendo poi
estremamente possibile che i giovani non riescano più a percepire la
divaricazione appunto tra ciò che è bene e ciò che è male, ponendo le basi così
per una società schizofrenica (cioè scissa da freni). E c’è anche un’altra
amara considerazione da fare e da non dimenticare: la società attuale, alle
premesse precedenti, aggiunge lo stato di isolamento e smarrimento dei giovani,
quando non dà loro il lavoro e non consente di sviluppare le grandissime
potenzialità che ognuno di loro possiede. La Storia umana è stata scritta dai
giovani (Leopardi, Einstein, Mozart etc.). Una società che si permette di fare
a meno dei giovani è una società destinata a morire. Per questo assistiamo al
tramonto dell’Occidente. Caro direttore, ben vengano altri incontri di questo
immenso spessore. Auguriamocelo di cuore. Zaccaria Gallo
CINEMA
di Marco Sbrana
A proposito di Davis dei
fratelli Coen - L’eterno ritorno della sconfitta.
Un palco. Luce di
riflettore su un volto giovane e già piegato. Barba incolta, ricci capelli
scombinati. Oscar Isaac, ossia Llewyin Davis, ispirato alla figura mitica del
musicista folk Dave Van Ronk, canta Hang me, Oh, Hang Me col dissapore
di chi, iniziando, sa già di aver finito. Dopo l’esibizione, infatti, nel retro
del locale che ospita le esibizioni, Davis viene picchiato a sangue da un
misterioso uomo di cui non discerniamo il volto ma solo il cappello a tesa
larga che porta in testa. E ci immergiamo nella depressione funzionale di un
altro freak della letteratura dei fratelli Coen.
A proposito di Davis è un film
ambientato nel mondo della musica, precisamente la scena folk degli anni
Sessanta newyorkesi. Lo spettro di Dylan, che vedremo, incombe; ma non è ancora
il suo momento. L’eroe dei Coen è l’uomo che fallisce e che, nel fallire
nuovamente, e nuovamente ogni giorno, fallisce meglio. Opera che sintetizza la
poetica del perdente che attraversa Il grande Lebowski, passa per Fargo
e raggiunge il bianco e nero de L’uomo che non c’era, fino al
grottesco protagonista di A serious man, A proposito di Davis propone
un viaggio spiraliforme nella settimana tipo del protagonista. Che un posto per
dormire non ce l’ha. Dopo la primissima esibizione - e il pestaggio - lo
troviamo che si cucina uova in una casa che non è la sua, e che spia, che abita
da straniero, perché Davis è straniero, e lo è in ogni luogo si immetta. Il
gatto degli ospiti corre fuori, sul pianerottolo, quando Davis si è chiuso la
porta alle spalle. Davis dovrà tenerlo con sé, il micio.
Llewyin has the cat, dirà
Davis alla segretaria del professore, amico ospite di Davis. Che, sbagliando,
ripeterà Llewyin is the cat. Llewyin è il gatto senza nome che, passo
felpato, si aggira nella metropoli alla ricerca di un pasto caldo e di un modo
per realizzarsi. Ma la casa discografica - amministrata da un grottesco uomo
che, anziché denaro, vuole pagare Llewyin con il suo cappotto - non se la passa
bene; e il disco di Davis non vende. Eppure, per tutta la durata del film,
Davis ripeterà, sebbene non sia vero (ma forse è vero) che la musica è ciò che
fa per vivere, è ciò con cui si paga l’affitto. Pertanto, quando, ritrovato il
gatto in strada, tornerà dalla coppia ospite, sbraiterà nel sentirsi chiedere
di esibirsi, come se fosse un pupazzetto. Anche perché, mentre canta, la moglie
ospitante esegue la parte di Mark. L’altra parte del duo. Morta suicida.
Gettatasi dal Washington Bridge. Davis ha due amici: Jim e Jean, felice coppietta.
Non troppo felice, forse: Davis è perdutamente innamorato di Jean, con cui ha
avuto una storia e che di recente ha messo incinta.
Oltre alla sopravvivenza, oltre alla necessità di trovare un posto caldo dove riposare, perché una casa non ce l’ha, il nostro, Davis deve anche risolvere il problema dell’aborto. Il fallimento è esistenziale, è un connotato quasi ontologico, una qualità esistentiva dell’ente, per i fratelli Coen, ossessionati da figure che si muovono a stento nel mondo, che dal mondo sono divorziati a causa della loro bizzarria, delle loro velleità, che li rendono emarginati, creature di frontiera in qualunque casa cerchino di stabilirsi. Il loser, per natura, non ha luogo dove sedere; così il nostro Davis. Indicativo è anche, nel testo dei Coen, il fatto che Davis sia un tutto tagliato a metà dal suicidio tremendo del presente-assente Mark. Dunque: il disco non vende; Jean deve abortire; le esibizioni non vanno bene; Davis non ha luogo dove dormire. E il gatto? Llewyin ha ritrovato il gatto sbagliato. Mentre prendeva un caffè con Jean, ha visto passare un sosia del felino, e l’ha preso. Ma è una femmina; il gatto fuggito, che Davis si è portato in braccio finché la bestiolina non è scappata dalla finestra di Jean, che ha ospitato Davis, ecco, il gatto fuggito è un maschio. Quello che Davis ha portato alla coppia ospite è una femmina. Where is his scroto? E si chiude così la prima parte del fallimento spiraliforme di Davis. Che, continua a dire, di musica ci vive. Anche se non è vero, anche se forse è solo una velleità che si è portato appresso dalla gioventù, a cui si è affezionato tanto da non liberarsene al momento opportuno, facendo sì che la musica diventasse interesse assorbente e condanna, roccia di Sisifo senza speranza di realizzazione.
Sebbene Davis le tenti tutte, compreso un provino a
Chicago, dove si reca in autostop, in macchina con John Goodman e il suo
valletto, un poeta beat che cita a memoria Peter Orlovsky, tra eroina e
sigarette che, malgrado la richiesta, a Davis non vengono offerte. E quando
Davis si esibisce, così si esprime il produttore: I don’t see a lot of money
here. Forse, dice il produttore, Davis dovrebbe tagliarsi la barba. Ha
sempre suonato da solo? No, dice Davis, infreddolito, rattrappito, di cui
sentiamo l’essenza, che è l’essenza dei cani smagriti in inverno, abbandonati
sul ciglio dell’autostrada. No, dice Davis, avevo un partner. E il produttore: Ti
do un consiglio. Tornate insieme.
Ironia dei Coen, che è quella di Beckett:
niente di più buffo, è Beckett in Finale di partita, dell’infelicità; ma
è come quella barzelletta che ci hanno raccontato tante di quelle volte che
adesso non ci fa più ridere.
Altra ironia: il medico che dovrebbe far
abortire Jean non fa pagare un soldo a Davis. Perché? chiede Davis. Lavora pro
bono? No, è che l’ultima volta non ha fatto niente, e Davis ha pagato a vuoto.
Ebbene, Davis ha anche un figlio. Ma prima ritorna dal padre, in RSA, presso
cui si esibisce. Ma il padre è un corpo che secerne saliva e che, al termine
della canzone Shoals of herring, libera l’intestino. E vano è il
tentativo, per via di debiti accumulati, di mollare tutto e imbarcarsi.
La vita è questa? sembra chiedere Davis, con
gli occhi, a un Dio silente. La vita è veramente, come diceva Céline,
inchinarsi ogni giorno alla stessa muraglia? Non può essere così fallimentare
qualunque cosa faccia? Sto venendo punito? Perché Dio non mi restituisce nulla
in cambio del sudore che impiego affinché ciò che faccio (per vivere!) abbia un
valore, in un mondo che premia solo chi è in grado di fare politica, di adulare
i potenti e di produrre merce commercialmente valida e vacua artisticamente? La
vita è una grande ciotola di merda, ha detto John Goodman in auto, e non
ti ricordi di averne cagata così tanta, ha detto per poi sprofondare nel
sonno dell’eroina.
Un’ultima esibizione prima della fine.
E il palco, dopo che Davis ha cantato, è
occupato da un profilo che conosciamo tutti: quello del menestrello di Duluth,
Bob Dylan.
Davis esce e, di nuovo, viene picchiato a
sangue dall’uomo nell’ombra, dall’uomo nell’ombra col cappello a tesa larga.
Arranca, Davis, e vede l’aggressore perdersi nel traffico. E, nell’ultima
scena, si rivolge a lui e vediamo Davis fare il saluto militare e dire: Au
revoir.
Composizione ad anello. Chiusura del racconto
a spirale, quasi bernhardiano, che ruota su se stesso, nel quale l’inizio
coincide con la fine, nel quale l’inizio dà avvio a un paesaggio identico a
quello di ieri, e identico a quello di domani. Perché domani sarà uguale,
ritorneranno le stesse fitte ai reni, ritorneranno le stesse botte, nell’eterno
ritorno del fallire, il fallire di chi ha investito il sangue nelle sue
velleità, e che adesso soffre il freddo perché di velleità non si può vivere.
Ma in qualche modo, facendosi ospitare, scroccando, intrufolandosi, creando
brecce di sopravvivenza laddove nessun vincitore riuscirebbe a crearle, perché
troppo abituato, il vincitore, all’opulenza, ecco, in qualche modo si farà.
E si fallirà di nuovo, come dice Beckett, e
si fallirà meglio.
NUOVE ADESIONI
Altre
Associazioni e autori che si sono aggiunti al Manifesto Appello in favore della
dignità umana violata e della salvaguardia della vita promosso dai poeti Adam
Vaccaro e Massimo Pamio.
VERSO LEVANTE APS, testata LA CALCE & IL DADO
VERSO LEVANTE APS - https://www.facebook.com/versolevanteaps
LA CALCE & IL DADO - LA CALCE
& IL DADO - https://www.facebook.com/lacalceeildado
PUBBLICAZIONI LETTERARIÆ –
Pubblicazioni
Letterariæ - letteratura | cultura | arte | costume - https://www.facebook.com/pubblicazioniletterarie
ORCHESTRA POETICA
ITALIANA
diretta da Beniamino Cardines
BIBLIODRAMMATICA
Centro di ricerca produzione e promozione culturale APS
Giornale di cultura
“Odissea”
Rivista “Carte Sensibili”
Seguono i nomi di Autori che, dopo
quelli già pubblicati, hanno aderito al Manifesto:
Mara Motta, Letizia Buccini, Maria Benedetta Cerro, Antonella D’Arezzo, Luigi Di Giampietro, Paola Di Gregorio, Lucia Guidorizzi, Mario Pizzolon, Claudio Romano, Vittoria Ravagli, Alessio Scancella, Tito Truglia, Lucio Vitullo, Lucia Marilena Ingranata, John Picchione.
https://libertariam.blogspot.com/2025/06/comunicato-stampa-i-poeti-in-difesa_16.html
sabato 28 giugno 2025
LA NATO È UN PERICOLO, LA DIFESA PURE
di
Angelo Gaccione

Marco Travaglio
“L’unica
cosa seria che dovrebbe fare la Nato, non da oggi ma da quando sparì il Patto
di Varsavia, sarebbe sciogliersi per mancanza di nemici. Invece, da allora, se
li inventa”. Non sto citando né dagli scritti disarmisti dello scrittore
Carlo Cassola, che lo ha ripetuto fino a quando è rimasto in vita; né dai miei,
che lo vado ripetendo da oltre mezzo secolo. Sto citando il brano di apertura
dell’editoriale di Marco Travaglio dal titolo “Si vis bellum spara
balle”, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri venerdì 27 giugno. Per
fortuna esiste un quotidiano come questo e per fortuna esiste un direttore di
quotidiano che fa onore a questo vilipeso e umiliato mestiere. Ho una tessera
di giornalista da oltre 40 anni, ma mi ritengo uno scrittore e non un
giornalista. Quando una parte infame del nostro Stato ammazzava alla cieca
cittadini della sua stessa nazione, cittadini inermi e incolpevoli, in una
banca dove si commerciavano granaglie, sementi e capi di bestiame (la Banca
Nazionale dell’Agricoltura) per cancellare la giovane e fragile democrazia
italiana con il terrore della strage di Piazza Fontana a Milano, avevo solo 18
anni. Il comportamento dei grandi quotidiani e il disonore di cui si è macchiato
il 99% dei giornalisti in quella tragica vicenda, cancellò subito ogni fiducia
in questa categoria. Non fosse stato per una giornalista come Camilla Cederna e
per alcuni organi di stampa indipendenti, non avremmo più potuto recarci in
un’edicola per comprane uno. Non parliamo del conflitto contro l’Iraq: i
megafoni, la voce più ossessiva della guerra, era costituita da giornali e
televisioni, e poco importava se la balla dell’antrace era solo una menzogna.
Scoprimmo che dei giornalisti si erano persino trasformati in spie e
collaborazionisti al libro paga di poteri più o meno occulti. Oggi è lo stesso:
la Nato si inventa i nemici, come scrive Travaglio; capi di Stato e di Governi che
si comportano come veri e propri teppisti, come bulli di periferia, soffiano
sul fuoco allo stesso modo che dei provocatori estremisti infiltrati, e una
pletora di giornali e giornalisti non si pone alcuna domanda, non dubita, non analizza,
e ti chiedi se siano anche loro estremisti provocatori infiltrati o beoti
inconsapevoli e ignoranti come li definisce l’ex giudice della Corte
Costituzionale Luigi Mazzella. C’è di che vergognarsi e non poco; e la mente va
ai tanti educatori di asili, scuole, e collegi e ti domandi che cosa possono raccontare
ai loro giovani allievi per educarli, che cosa possono dire di questi
psicopatici che eleggiamo e reggono le sorti del mondo.
![]() |
Marco Travaglio |
Una stampa corriva
Tutte le mattine mi arriva sul
telefonino “la mazzetta” dei giornali, come si dice in gergo. Le altre
“mazzette”, quelle della corruzione, prendono altre strade. Non apro che i pdf
de il Fatto Quotidiano e di Avvenire. Verso gli altri ho maturato come un senso
di ripulsa. Non ce n’è uno che non faccia l’apologia della guerra, che non
parli di armi, bombe, missili e difesa. Non ce n’è uno che non parli
come gli uomini di governo e di potere. Se avessimo una stampa decente e non
compromessa, opererebbe un serrato e salutare controllo su tutti gli organi di
potere difendendo la Costituzione. Metterebbe in guardia i cittadini sulle
scelte di chi li governa. E quando costoro si comportano come provocatori ed
estremisti, dovrebbero far fronte comune con i cittadini e dire che è dai loro irresponsabili
governanti che si devono difendere. Sono loro il vero pericolo
della patria e della nazione.
Rendo onore pubblicamente a il Fatto Quotidiano: se questo giornale non ci fosse, molte delle sue firme non avrebbero un luogo dove esprimersi. A suo tempo, Cassola fu cacciato dal Corriere della Sera e dal quotidiano di Torino La Stampa solo perché osava scrivere contro la pazzia del riarmo e dei guerrafondai. Non ci fu un solo “intellettuale” che su quei giornali, o altri di un certo peso dove pure scrivevano, che ne prese le difese. Da allora ho imparato che la categoria è pessima: opportunista, vile, pavida, compromissoria, conformista. E vi si annidano i peggiori, quelli che un tempo facevano gli estremisti e i radicali, e oggi sono diventati i più zelanti assertori delle idiozie del potere. Sparano balle per attizzare la guerra, come scrive Travaglio, ma se ne guardano bene dal recarsi sui fronti di guerra a misurare la loro temerarietà, a provare il brivido della “bella morte”. Mancano i guerrieri in questo tempo, ma loro non partono; la pace intorpidisce, ma loro restano al sicuro comodamente seduti sulle poltrone dei talk show serali ben retribuiti.
Il concetto perverso di difesa
Ora, tutti noi disarmisti e
contrari alle voci del padrone sulla guerra, ci aspettiamo una più rigorosa
coerenza: fare il passo più ardito. La Nato va sciolta, non c’è alcun dubbio:
la sua esistenza costituisce una provocazione costante e un pericolo concreto
per l’ecatombe nucleare collettiva; ma a questa saggia convinzione ne va
sommata un’altra: la presa d’atto che in era nucleare non è possibile
alcuna difesa in caso di guerra. Il concetto di difesa ha perso ogni
giustificazione dal momento in cui pochi ordigni nucleari, possono azzerare
ogni forma di vita presente e futura nell’intero orbe terracqueo. Se non esiste
difesa possibile, è insensato tenere in piedi alleanze militari e
spendere per armarsi. Dunque, bisogna dire apertamente che rinunciamo alla difesa
come dottrina politico-militare, e la sostituiamo con quella della cooperazione
e dell’aiuto reciproco sia sul piano economico- scientifico-culturale, sia su
quello sanitario e della cura dell’ambiente. Un principio che andrebbe scritto
come articolo 1° della Costituzione contemporanea. Non c’è che questa presa di
coscienza se si vuole promuovere un’autentica pace stabile e duratura. Lo vado
ripetendo come un Catone solitario da decenni, e lo ripeterò fino alla noia: nessuna
difesa è possibile in era nucleare perché saremmo tutti sterminati:
pacifisti e guerrafondai, credenti e non credenti, governanti e governati.
Riflettiamoci.
A QUANDO LA NASCITA DELLA BEOZIA UNITA?
di Luigi Mazzella

Ubbidite!
Il saccheggio della
Grecia antica da parte degli Europei ha origini lontane nel tempo.
L’Europa, divenuta una mera propaggine del Medio-Oriente quanto a religione, a
usi e costumi e a guerre più o meno sante, si è sempre dichiarata figlia della
civiltà greco-romana.
Pur dominato da
concezioni assolutistiche, astratte, intolleranti e fortemente autoritarie di
varia natura (religiosa-monoteistica o filosofica-platonica e poi hegeliana) il
Vecchio Continente si è auto-proclamato “patria della democrazia”, citando come
esempio e modello quella ateniese.
Ora, dopo gli ultimi
avvenimenti politici, è giunto il tempo per l’ultimo saccheggio, quello
riguardante il nome di un’intera regione greca: la Beozia!
Domanda: Perché appropriarsi
del nome Beozia per sostituirlo a quello di Europa?
Per gli Ateniesi antichi
(ma non solo per essi) gli abitanti della Beozia erano stupidi, avevano fama di
essere di tardo ingegno e mentalmente ottusi. Ancora oggi il termine “beota” si
usa per indicare un inguaribile credulone, contento e con il riso che
abbonda sulla sua bocca nonostante il precipitare degli eventi. In Italia,
secondo il comico Totò sinonimo di “beota” era “cuneese”, ma oggi l’epiteto è
caduto in disuso, per motivazioni che secondo alcuni notisti politici sarebbero
politiche.
Perché, allora, l’Europa
oggi dovrebbe cambiare nome e chiamarsi “Beozia”?


I Beoti della Nato
Risposta: per una raggiunta
consapevolezza del proprio status.
Basta,
infatti, riflettere:
1) Gli Europei da un po’
di tempo erano “servili” nei confronti degli Statunitensi ma non si erano
lasciati mai coinvolgere, in modo diretto, dalle ripetute guerre dello zio
Sam. Quando però un Presidente degli USA, considerato in patria affetto da
demenza senile e per tale motivo non ripresentato dal suo partito alla
competizione elettorale, ha ritenuto, nei suoi ultimi tempi di
governo, di dichiarare, come membro egemone e importante della
NATO, di voler violare le norme del trattato atlantico
(segnatamente: l’articolo 5, applicabile solo ai Paesi facenti parte
dell’Alleanza) per fare guerra alla Russia, gli Europei (già sostanzialmente
“neo-Beoti”) hanno deciso di seguirlo nell’avventura, dissanguandosi per
fornire armi e altri sostegni ai battaglioni neo nazisti Azov dell’Ucraina di
Zelensky.
2) Quando il Presidente
statunitense, neo eletto, Donald Trump si è avveduto del macroscopico e
madornale errore del suo incauto predecessore e ha dichiarato la sua
“resa” per tenersi fuori da una guerra supposta: neverending,
gli Europei (ancora una volta, “neo-Beoti”) hanno dichiarato di voler
continuare a essere co-belligeranti, promettendosi reciprocamente e
solennemente di riarmarsi per restare nella loro posizione
chiaramente “contra-legem”, ma ritenuta per occulte ragioni
“difensiva”.
3) Quando,
poi, Donald Trump, lontano intellettivamente (per sua fortuna e nostra
disgrazia) sia dalla Beozia e sia da Cuneo, ha colto che ritirandosi lui
dalla “pugna” poteva danneggiare l’industria statunitense delle armi e ha
convinto, quindi, gli ex alleati Europei (sempre più decisamente
“neo-Beoti”) a portare al 5% del bilancio statale le spese per la difesa (da
chi?), gridolini di gioia si sono levati per inneggiare alla vittoria di Trump.
Quest’ultimo, strizzando i suoi occhietti, ha potuto immaginare armati di
tutto punto eserciti di cittadini ridotti, per esigenze militari (avvolte nella
nebbia), in brache di tela!


Il Beota Olandese segretario della Nato
Conclusione: È facile immaginare
che la proclamazione ufficiale della Beozia come nuova entità geopolitica avverrà
con l’uscita del Nord America dalla NATO.
