UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

martedì 23 aprile 2024

SIAMO SULLA BUONA STRADA
di Angelo Gaccione
 


Il presidente della Polonia si è detto disponibile ad accettare sul proprio territorio armi nucleari. La Germania ha dato disposizione ai propri soldati di iniziare esercitazioni militari come se la nazione fosse in guerra. La Finlandia è pronta a dare all’Ucraina ogni sorta di missili. In Italia, a detta di lavoratori portuali, c’è un via vai di armi come non si vedeva da tempo, e quasi tutte le nazioni dell’Unione Europea – con la von der Leyen in testa – parlano di economia di guerra, di preparare i loro cittadini alla guerra. Gli Stati Uniti daranno all’Ucraina una marea di miliardi di dollari per continuare la guerra e presto arriveranno a Kiev le armi che da mesi Zelensky continuava a chiedere. Il primo ministro ungherese Orbán ha detto pubblicamente: Siamo a un passo dall’invio di truppe occidentali in Ucraina e Bruxelles gioca col fuoco”. Preoccupato ha affermato: “Ma noi ne resteremo fuori”. Non è perché si è convertito al pacifismo che Orbán ha fatto tali affermazioni; le ha fatte semplicemente perché ha capito quello che gli ottusi capi di Stato e di Governo che spingono per la “soluzione finale” dell’Europa e del mondo intero non hanno capito e non vogliono assolutamente capire: che questo accerchiamento costringerà la Russia a vendere cara la pelle e ad usare le sue novemila testate nucleari. Ha commesso una sola ingenuità il ministro ungherese: quella di credere che in un conflitto nucleare ci si possa tirar fuori. E stanno commettendo una grossa ingenuità gli Stati Uniti credendo che gli europei faranno la guerra alla Russia in sua vece, e che la morte, le rovine, le distruzioni, riguarderanno solo questa parte stupida ed ottusa di mondo e che Dio salverà la loro nazione dal diluvio nucleare. Una illusione di cui non potranno pentirsi, perché dopo non ci sarà un dopo; nessuno potrà disquisire sui torti e sulle ragioni, sui calcoli errati e sugli azzardi, su chi era stato più criminale o più cieco, se ne valesse la pena o meno.



Riprendo qui il titolo di questo scritto e ribadisco che siamo sulla buona strada dell’annientamento finale. Le stesse opinioni pubbliche mondiali mostrano che così deve essere: da una parte l’indifferenza generale, l’ignavia; dall’altra la reazione isterica (uomini o donne non fa differenza) di chi vuole andare fino in fondo, fino all’estinzione generale, totale, definitiva. Costi quel che costi. Muoia Sansone con tutti i filistei. Che morte sia. Così vuole questa parte di opinione pubblica mondiale. E non si tratta solo di gente malvagia, accecata, biliosa. Ovviamente nell’insieme ce ne sarà, ma è formata anche di persone di raffinata cultura e di buone letture; di studiosi sensibili al patrimonio artistico, amanti della musica, del teatro, del paesaggio, della natura, del pensiero. Non farebbero del male a un lucherino e in genere sono miti, moderati, e per nulla estremisti. Purtroppo in tempi calamitosi come questi accade, e la storia ce lo insegna, che anche le menti più lucide finiscono per farsi travolgere dal conformismo generale. Senso critico e dubbio vengono rimossi e si dimentica l’insegnamento di questi versi ammonitori di Brecht per ogni guerra: “Al momento di marciare / molti non sanno / che alla loro testa marcia il nemico. / La voce che li comanda / è la voce del loro nemico. / E chi parla del nemico / è lui stesso il nemico.”  
 

 

 

 

 

   

BIENNALE DI VENEZIA
di Gianmarco Pisa



Precarietà, sfruttamento, colonialismo: Serbia e Kosovo alla Biennale. 

 
Separati della politica, dagli interessi di élite nazionalistiche troppo spesso incapaci di prospettiva e di visione, lacerati dai conflitti conseguenti all’aggressione imperialistica delle potenze occidentali contro la Federazione Jugoslava del 1999, tenuti in una sorta di “limbo” dalle ambivalenze della diplomazia e dalla irresolutezza di una riconciliazione che stenta a prendere il largo, Serbia e Kosovo sono invece sorprendentemente accomunati dall’intensità e dalla profondità dei messaggi sociali e politici che i loro padiglioni alla Biennale di Venezia esprimono. Opere d’arte di grande impatto, visuale ed emotivo, con al centro, rispettivamente, due grandi questioni politiche e sociali del nostro tempo: la condizione delle donne lavoratrici e la precarietà del lavoro, da una parte; il colonialismo e il neocolonialismo, le moderne forme di oppressione e spoliazione, dall’altra. 



Il Padiglione del Kosovo alla LX Esposizione Internazionale d’Arte - Biennale di Venezia - presenta l’installazione dal titolo “The Echoing Silences of Metal and Skin” il cui tema-guida è la dimensione di genere del lavoro, la condizione femminile nel lavoro e, in generale, le disuguaglianze, in particolare di genere, sul posto di lavoro. Partendo da due cruciali presupposti storico-politici, vale a dire la deindustrializzazione dell’economia produttiva e la deregolamentazione del mondo del lavoro, che caratterizzano l’insieme delle economie neoliberiste (è la cifra della precarizzazione dei rapporti sociali a partire dagli anni Ottanta e della fine dell’intervento pubblico in economia), l’artista Doruntina Kastrati si interroga, attraverso la sua installazione, sulla precarietà del lavoro, in particolare nel settore dell’industria leggera, all’indomani della guerra del Kosovo del 1999, una stagione storica segnata da una radicale e drammatica transizione da un sistema a orientamento socialista, contraddistinto dall’intervento pubblico e dalle protezioni sociali, ad un sistema neoliberista, segnato viceversa da privatizzazioni, smantellamento dell’economia nazionale, precarietà.



In questo quadro si inserisce, poi, anche una specifica, peculiare, dimensione di genere, dal momento che la “femminilizzazione” del lavoro in determinati settori (l’industria alimentare, dalle conserve alla trasformazione) ha finito per cristallizzare i ruoli tradizionali di genere presenti all’interno della società, a maggior ragione in una società, come quella albanese kosovara, nella quale persistono tracce profonde del retaggio patriarcale. Letta in questa prospettiva, l’installazione del padiglione kosovaro, “The Echoing Silences of Metal and Skin” corrisponde anche al bisogno di una presa di parola nello spazio pubblico e porta le narrazioni delle donne, direttamente e impietosamente, di fronte all’opinione pubblica. Questo progetto artistico si basa, infatti, su una ricerca sociale, che ha portato l’artista a raccogliere una serie di storie orali narrate dalle operaie di una fabbrica di lokum, le cosiddette “delizie turche” (turkish delights), a Prizren, che è, al tempo stesso, la città natale dell’artista, la seconda città più grande del Kosovo, e la città cuore della presenza turca nella regione.
Il titolo dell’installazione, di conseguenza, è presto spiegato. Le donne svolgono, in questo genere di produzione, un lavoro stancante e ripetitivo, una forma tipica di marxiana alienazione del lavoro, che le costringe, tra l’altro, per molte ore al giorno, a stare in piedi: cosicché, quasi un terzo delle operaie subisce interventi chirurgici al ginocchio. Le protesi metalliche (il Metal del titolo) impiantate sotto pelle (la Skin) nelle ginocchia sono la traccia di un lavoro massacrante per un salario basso, in una condizione, ancora e duramente, di alienazione e di sfruttamento. L’installazione è infatti composta da una serie di sculture indipendenti, che riproducono allusivamente la forma dei gusci delle noci utilizzati per le “delizie turche” e alludono, al tempo stesso, agli impianti chirurgici e alla produzione industriale, con la scelta di un’associazione potente, ospedale e fabbrica, tra luoghi che possono essere, al tempo stesso, di contenzione e di liberazione, di oppressione e di salvezza. 



Il Padiglione della Serbia alla Biennale di Venezia, d’altra parte, avendo come luogo artistico centrale la mostra dal titolo “Exposition Coloniale”, è un richiamo agli esiti e alle conseguenze del periodo coloniale e una denuncia del colonialismo in tutte le sue manifestazioni ed espressioni. È questo sfondo storico, infatti, ad aprire la strada all’esplorazione dell’artista, Aleksandar Denić, intorno alla dimensione contemporanea del colonialismo e all’impatto delle forme perduranti e tuttora attuali di divisione, oppressione e sottomissione di popoli e culture. La mostra allude chiaramente al fatto che tali temi, dalla divisione internazionale del lavoro allo sfruttamento delle risorse fondamentali, fino alle moderne forme di colonialismo e neocolonialismo, non solo non rappresentano un retaggio del passato, ma continuano a essere pertinenti, certamente nel campo della politica e dell’economia, ma anche nella sfera della cultura, nel quadro dei valori e dei diritti umani. Qui, strutture, manufatti, conglomerati, vengono rappresentati come veri e propri “cimeli” sociali, sfidando, al tempo stesso, i visitatori, “costringendoli” a interrogarsi sulla loro visione o percezione delle dinamiche e dei meccanismi del potere, dell’oppressione, del consumismo, e, in definitiva, della realtà del mondo come lo conosciamo, sollecitando anche interrogativi più profondi, sulle sue condizioni e sulla sua trasformazione.

lunedì 22 aprile 2024

GLI AUGURI DELLA COREIS
di Abu Bakr Moretta*


 
Auguri per la Liberazione al Governo Italiano e alla Comunità Ebraica.
  
Questa settimana è benedetta anche per la celebrazione di Pesach. Come Presidente della COREIS trasmetto gli auguri all’UCEI, all’Assemblea Rabbinica d’Italia e alle famiglie dei cittadini israeliani rapiti da Ottobre per la ricorrenza della Pasqua Ebraica. Gli insegnamenti tradizionali ci ricordano che Pesach rappresenta per i fratelli e le sorelle della comunità ebraica in Italia e nel mondo la liberazione dalla tirannia e dalla schiavitù della corte di Faraone e l’inizio di un nuovo ciclo per il monoteismo nell’adorazione del Dio Unico che unisce ebrei, cristiani e musulmani.
Preghiamo insieme per la Pace e per la cessazione dei conflitti e delle ostilità nei confronti dei cittadini e dei credenti ebrei, cristiani e musulmani in Iran, Israele, Palestina, Russia e Ucraina. 
La sicurezza nazionale e il legittimo combattimento contro il male della corruzione nelle mafie e contro la violenza nel terrorismo non devono mai dilagare in attentati a sedi diplomatiche, dimostrazioni e ritorsioni teatrali di droni militari, boicottaggi del sapere e della collaborazione accademica per scatenare una crisi escatologica in Medio Oriente e in Occidente.
Preghiamo affinché il Governo Italiano possa impegnarsi e ispirare una politica di mediazione e di Pace favorendo i soccorsi umanitari alla popolazione a Gaza ed evitando ogni ulteriore bombardamento, occupazione territoriale permanente e massacro di famiglie a Rafah.
Preghiamo e operiamo affinché la discriminazione e l’odio contro gli ebrei e i musulmani e tra cristiani in Europa non sia oggetto di strumentalizzazione e propaganda politica. Lavoriamo insieme per la Conoscenza, per la Fratellanza, nella Giustizia e nella Pace.
Preghiamo insieme per la Pace e per la cessazione dei conflitti e delle ostilità nei confronti dei cittadini e dei credenti ebrei, cristiani e musulmani in Iran, Israele, Palestina, Russia e Ucraina. 
La sicurezza nazionale e il legittimo combattimento contro il male della corruzione nelle mafie e contro la violenza nel terrorismo non devono mai dilagare in attentati a sedi diplomatiche, dimostrazioni e ritorsioni teatrali di droni militari, boicottaggi del sapere e della collaborazione accademica per scatenare una crisi escatologica in Medio Oriente e in Occidente.
Preghiamo affinché il Governo Italiano possa impegnarsi e ispirare una politica di mediazione e di Pace favorendo i soccorsi umanitari alla popolazione a Gaza ed evitando ogni ulteriore bombardamento, occupazione territoriale permanente e massacro di famiglie a Rafah.
Preghiamo e operiamo affinché la discriminazione e l’odio contro gli ebrei e i musulmani e tra cristiani in Europa non sia oggetto di strumentalizzazione e propaganda politica. Lavoriamo insieme per la Conoscenza, per la Fratellanza, nella Giustizia e nella Pace.
[*presidente]

  

FORMA POLITICA E FORMA PARTITO
di Franco Astengo


 
Nel rivolgermi a un numero limitato di interlocutori cercherò di affrontare, pur disponendo di limitate capacità intellettuali, il tema della forma-partito.
Forma partito come forma politica visto almeno sul versante delle forze costituzionali di opposizione: una questione che pare tornata di grande attualità con le scelte compiute in occasione della formazione delle liste delle candidate/i per le elezioni europee condotte con metodi più riconducibile ad un casting per una serie televisive piuttosto che per definire presenze di rappresentanza politico-istituzionale della complessità sociale. Liste che non sono più formate attraverso la crescita di una classe dirigente. In questo quadro si è anche aggiunta la proposta per ora accantonata di definitiva personalizzazione del PD (quasi un tentativo di allineamento al modello di partito personale).
Andando per ordine: nel corso dell'infinita “transizione italiana” e nel modificarsi proprio della natura delle organizzazioni politiche (analizzate nel corso del tempo: dal partito ad integrazione di massa a “catch all party” fino a partito azienda, partito personale, partito a “democrazia del pubblico”, partito della “democrazia recitativa”) dalla classe dirigente della parte costituzionale di opposizione alla destra non sono stati affrontati almeno due punti:



1) Il tema del progetto. A questo proposito non compare un’ipotesi di superamento dell’impostazione di semplice gestione dell’esistente (cui sono affidate anche le grandi transizioni da quella ecologica a quella digitale) e di andare oltre all’avvenuto sacrificio di identità sull’altare del governo come è avvenuto in diverse fasi contrassegnate da governi “tecnici” o di “solidarietà”. In particolare Il PD, principale soggetto presente nell’opposizione che si vorrebbe democratico-costituzionale, soffre di un’assenza di riferimenti complessivi sul piano culturale che proviene da lontano, almeno dall'espressione di quella “vocazione maggioritaria” basata su di una mera visione elettoralistica dello scopo stesso di esistenza della formazione politica.
L’assenza di progetto del resto accomuna il PD ad altri soggetti sia a sinistra, sia a vocazione “centrista”. Manca complessivamente una visione di collegamento culturale, non viene esercitata alcuna funzione pedagogica, non è stata aperta una seria riflessione sulla completa assunzione dell’ideologia neoliberista verificatasi a suo tempo nella fase dell’Ulivo;
2) Il tema della forma politica. “Forma politica” e non tanto “Forma partito”: la seconda definizione quella appunto di “Forma partito”, infatti, risulterebbe quanto meno semplicistica proprio rispetto alla realtà dei tempi che stiamo vivendo. La “politica” ha subito, anche sulla spinta dell’innovazione tecnologica in campo mediatico e della comunicazione, una modificazione profonda passando (come ci è già capitato più volte di sottolineare) da fatto prevalentemente fondato sul pensiero come espressione di una identità culturale a questione di immagine e di richiesta di scelta elettorale basata sulla competizione individualistica dell’apparire. In questo senso è risultato micidiale il meccanismo dell’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti delle Giunte Regionali (questi ultimi ormai impropriamente definiti come “Governatori” dai mezzi di comunicazione di massa). Elezione diretta che sicuramente ha garantito la stabilità degli esecutivi al prezzo di una vera e propria mortificazione dei consessi elettivi e di conseguenza della rappresentanza e della partecipazione. Da questa analisi si deduce oggettivamente la necessità di formare un vero e proprio sbarramento all’ipotesi di premierato che la destra sta ponendo all’ordine del giorno.



Su questi due punti, dell’identità progettuale e della forma dell’agire politico, non appare nel sistema politico italiano una qualche tendenza a rinnovarsi e anzi, sul piano dell’indeterminatezza identitaria, sembra esercitare una sorta di coazione a ripetere rispetto al passato. In realtà si tratta di una carenza di visione culturale che ha attraversato il sistema fin dal processo di liquidazione del PCI. A sinistra non si sono realizzate scelte: né quella della socialdemocratizzazione, né quella riferita al modello americano (cui pare tendere Schlein di cui non deve essere dimenticata la forma di elezione al di fuori dalle istanze di partito). A complicare il quadro va inoltre ricordato come a PD e AVS soggetti già provenienti tra loro da differenti culture tocca misurarsi con l'antipolitica che permane come marchio identitario del M5S.
 Non si può dimenticare come, oggettivamente, il sistema lasci ampi spazi vuoti che non saranno sicuramente colmati da un tentativo di definitivo allineamento proprio al modello del partito elettorale fondato sulla “democrazia recitativa”; partito nel quale la sintesi della feudalizzazione avverrebbe attraverso il dialogo diretto tra Capo e potenziale elettorato, in sostanza tra il Capo e le masse.

CRESCENZAGO IN CORTEO
Con l’Anpi il 25 Aprile


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CONFRONTI
Fascismo-antifascismo.



A differenza di quanto affermato da Giovanni Minoli ex megadirigente galattico RAI, che ospite il 14 aprile scorso della trasmissione Chesarà di Serena Bortone, ha affermato che il dibattito fascismo-antifascismo è inutile, da cittadino mega-semplice penso che in questo paese sia un dibattito indispensabile. A riprova, nella stessa trasmissione una settimana dopo, è stato eliminato dalla scaletta annunciata Antonio Scurati, reo di aver chiesto nel suo intervento il pronunciamento della parola ‘antifascista’ alla Presidente del Consiglio in carica. Agli zelanti cortigiani autori del deferente omaggio, ha fatto eco la Presidente Meloni (ma com’è democratica lei) che ha pubblicato il testo di Scurati gratuitamente sulla sua pagina Facebook, spiegando che in RAI era stato scartato causa troppo esosa richiesta economica dello scrittore. Ma riscaldata dalla “fiamma”, la Presidente continua a rinunciare all’uso della parola antifascista, sostituendola con perifrasi buone per tutti i palati, post fascisti compresi. Fra i cortigiani si ricorre di continuo alla impropria contrapposizione, “ma chi si dice antifascista, perché non aggiunge di essere anticomunista?”, e dietro questo paravento credono di ripararsi dal dato di fatto tutto italiano, per cui l’antifascismo è un valore fondante la Repubblica e costituzionale, destinato a vivere con la Costituzione sino a che avrà vita, mentre l’anticomunismo è una libera opzione politica. Ancora una volta però a pesare sulle sorti del nostro paese, sono gli “indifferenti”, che considerano tutto inutile (a parte il loro ombelico), compreso il dibattito attorno al dualismo fascismo-antifascismo.
Vittorio Melandri

CONFRONTI
“Alla pace eterna”


Immanuel Kant

Berlino. Il 22 Aprile 1724 nacque a Königsberg il filosofo Immanuel Kant. Oggi se ne festeggia il trecentesimo anniversario. Nell’odierna newsletter del Professor Heribert Prantl, giurista e pubblicista, molto noto non solo in Baviera dove spesso scrive per la Süddeutsche Zeitung, si fa riferimento ad un’opera kantiana forse non molto conosciuta, ma ben adatta a questi tempi di morti e stragi di guerra. Il titolo, riferisce Prantl, Kant lo prende ironicamente dal nome di una locanda, situata nei pressi di un cimitero. Il filosofo naturalmente non vuole certo parlare solo di morte, ma esprimere il suo pensiero sulla pace, che non cade dal cielo e neppure è insita nella natura dell’uomo. Per assicurarla e mantenerla ci vogliono, così Kant/Prantl, una ferma volontà, una logica rigorosa e una grande capacità politica. Doti che oggi non sembrano essere alla portata di tutti. Neanche di quelli che la invocano senza tener conto della realtà tra aggressori e aggrediti e senza neppure sentire quella pietas che dobbiamo a tutte le innumerevoli vittime di guerra. Una pace ingiusta non è una pace. Cosa sarebbero oggi l’Europa e la Germania se Hitler non fosse stato costretto alla resa? Certo meglio senza le armi quando la situazione lo permette. Le dittature, oggi, non mancano e ben nota a tutti è la loro sete di sangue, non solo verso i “nemici giurati” all’esterno dei loro paesi, ma all’interno degli stessi stati, nelle cui prigioni vengono segregate e torturate fino alla morte le persone che dissentono, solo perché anelano libertà e democrazia. A me, leggendo la newsletter è venuta in mente la “frase dedica” del grande poeta e drammaturgo tedesco Friedrich Schiller che introduce il suo dramma teatrale I masnadieri (Die Räuber). La frase dedica è “In tyrannos” - contro la tirannia -. Di questo anche oggi, cercando la pace, dobbiamo tenerne conto.
Lisa Mazzi

                                        

 

ANPI NIGUARDA A MILANO




MAGGIANI AL LICEO PERTINI DI GENOVA




FREUD A GAZA
di Daniela Scotto Di Fasano


 
Lo psicoanalista, un testimone auricolare.
 
Lo psicoanalista non può e non deve sottrarsi al (a volte impossibile) compito di pensare anche nelle condizioni più atroci. Disumanità, inumanità definiscono al ‘negativo’ la natura umana e si interrogano reciprocamente in relazione alla deumanizzazione delle barbarie sociali. Freud a Gaza, dunque, come testimone auricolare di un dramma a doppia faccia: quella della guerra tra Israele e Palestina. Mariano Horenstein, socio ordinario con funzioni di training della Cordoba Psychoanalytic Society e membro del gruppo di Studio internazionale Geografie della Psicoanalisi [1], sabato 24 febbraio al Collegio Ghislieri a Pavia ha riflettuto su tale drammatico avvenimento chiedendosi cos’è natura umana. Nel numero di Psiche Deumanizzazione (1/2006) Lorena Preta proponeva il termine poco usuale ‘deumanizzazione’ poiché evoca l’idea di un processo più che di uno stato. E proprio la domanda ‘cos’è umano’ è stata la bussola orientante tutti i contributi: quelli introduttivi degli psicoanalisti Marco Francesconi e Lorena Preta, quelli pomeridiani della filosofa Silvana Borutti, della grecista e studiosa delle tragedie greche Anna Beltrametti e dell’hispanista Paolo Pintacuda, quelli costituiti dalle domande del pubblico. In psicoanalisi il binomio umanizzazione-deumanizzazione costituisce, con Eros/Thanatos, una costante del processo di costruzione dell’immaginario sociale e individuale. In molte delle sue opere, in particolare nel carteggio con Einstein Perché la guerra? (1932), Freud ha riflettuto sull’inestricabile binomio vita-violenza, sul quale i relatori si sono interrogati, spingendosi, con Silvana Borutti, sull’orlo del baratro dell’Intestimoniabile. D’altronde, è d’obbligo entrare in contatto con una violenza inevitabile nel tentativo di renderla governabile.



“Lo sguardo psicoanalitico ‘binoculare’ di Mariano Horenstein è particolarmente adeguato a occuparsi dell’ascolto e del silenzio, che vanno profondamente differenziati dalle eccedenze di fusione empatica da un lato e del massiccio mettere a tacere denegatorio dall’altra. Sottotitolo di Freud a Gaza è Lo psicoanalista, un testimone auricolare. Sono sempre stato colpito dalla somiglianza di ‘auris’ orecchio e ‘aurum’ oro, che sottolinea che in psicoanalisti il ‘testimone auricolare’ ascolta per parlare, parla per ascoltare di nuovo (anche la propria voce, come nella lettura ad alta voce degli antichi Greci studiata da Svenbro e Bettini fra altri, e, comunque, nell’ascolto del proprio controtransfert), dialoga per riformulare i pensieri cambiando vertice, non solo per ‘esserci’ o ‘vedere’. Se accade troppo spesso, ieri e oggi, che si chiudano gli occhi di fronte a realtà paurose, più difficile risulta chiudere le orecchie, se concordiamo con John Cage quando diceva che ‘il silenzio non esiste’.”
Queste le parole introduttive di Marco Francesconi. Poi Horenstein, chiedendosi “Cos’è uno psicoanalista?”, ha detto: “Di fronte alla catastrofe, il nostro lavoro non è quello di un opinionista politico o di uno scienziato sociale, ma consiste piuttosto nell’ascolto e nella comprensione. Capire cosa? Le mentalità in gioco, ovvero il modo in cui le mentalità si configurano in base a ciò che accade, o viceversa: come la mappa di ciò che accade risponde a meccanismi non solo storici o geopolitici, ma anche psichici. E da quale posizione, allora, noi analisti ascolteremmo/capiremmo l’epoca? In un mondo in fiamme, credo che la posizione etica dell'analista debba essere dalla parte dei perseguitati.



Lasciatemelo dire attraverso un antico commento rabbinico: «Si può trovare un caso in cui un uomo giusto perseguita un uomo giusto, e Dio è dalla parte del perseguitato; quando un malvagio perseguita un giusto, Dio è dalla parte del perseguitato; quando un uomo malvagio perseguita un uomo malvagio, Dio è dalla parte del perseguitato, e persino quando un uomo giusto perseguita un uomo malvagio, Dio è dalla parte del perseguitato. [2]». Credo che anche noi analisti dobbiamo stare sempre – come il Dio della storia – dalla parte dei perseguitati. Pensare dalla parte dei perseguitati. Il che equivale a pensare contro il potere. Perché se la psicoanalisi merita di continuare ad esistere, non è solo perché porta un notevole sollievo a chi vi si affida, e spesso un riposizionamento nella posizione soggettiva di chi soffre. Non solo perché offre un insieme di teorie che spiegano il funzionamento degli aspetti intimi dell’essere umano come nessun altro sapere. Sebbene entrambe le cose siano vere, ciò che giustifica la psicoanalisi come disciplina nei tempi contemporanei è che si tratta di una variante del pensiero critico, dove di solito prevale il pensiero unico. E in questo senso funziona – o dovrebbe funzionare – come una fabbrica artigianale di liberi pensatori.”. Il discorso sul pensiero unico – vera ‘figura odierna del potere’, come noterà in un intervento dal pubblico Agnese Grieco – è stato uno dei fili conduttori dell’incontro. Un pensiero unico che vieta i ‘perché’. Nota infatti Francesconi: “Ci sarebbero molte cose da dire, su questa coazione a ripetersi della Storia, su questi attacchi al legame che, con Bion, sembrano servire, confermando Primo Levi, a distruggere ed espellere i perché, il pensiero causale, dando anche morte all’angoscia per liberarsi dell’angoscia di morte [3]. Si sopprime così la concatenazione generativa differenziata (A genera B, che genera C ecc.) e la sostituisce con l’autogenerativa sequenza di A che genera A che genera A… eliminando ogni diversità: sorta di an-alfabetica mise en abîme di un Sé narcisistico autoconcluso”. Infatti, ancora Horenstein: “Chi sono i perseguitati in Medio Oriente? 



I palestinesi costretti a emigrare nel sud di Gaza per ordine dell’esercito israeliano prima che venga scatenata una grande offensiva, o i giovani israeliani che fuggono disperati dai terroristi di Hamas, quando solo pochi secondi prima ballavano al ritmo della musica elettronica? Gli ebrei della diaspora che sognavano di tornare in una terra sicura ed essere liberi dai pogrom avvenuti sul suolo europeo, o i palestinesi che, avendo vissuto per generazioni in quegli stessi luoghi, sono vessati sia dai coloni israeliani sia dai presunti fratelli arabi che chiudono loro le frontiere? I termini Shoah e Nakba possono essere usati nella stessa frase? Non ho mai creduto in un campionato di vittime, in una competizione per il numero di morti o per il numero di anni di oppressione. Ogni vittima conta, e credo che la psicoanalisi abbia un impegno etico nei confronti degli sconfitti della storia, come li chiamava Benjamin, un luogo in cui potremmo benissimo collocare sia ebrei che palestinesi.” Anche Beltrametti dirà: “All’universale umano si sostituiscono, e ora con maggiore urgenza, soggetti storicamente e geograficamente determinati e i perseguitati, i vinti della storia - nella definizione di Benjamin - e i dannati della terra - nella definizione di Fanon - si impongono allo psicoanalista consapevole del proprio compito. Mariano Horenstein insiste con competenza e partecipazione emotiva su questa necessità. La forza speciale del suo discorso sta qui, in questa volontà e in questa capacità di riconoscere i nuovi soggetti individuali e collettivi, con le loro nuove sofferenze, che l’analisi contemporanea non può permettersi di ignorare”.



Infatti, prosegue Horenstein, “Oggi entrambi i popoli si stanno massacrando a vicenda per un luogo. La nostra specie è capace di distruggersi per un luogo. Un luogo che si distingue più per il vuoto che lo abita che per ciò che possiede [4].Il compito della psicoanalisi è tentare di pensare dalla parte dei perseguitati, anche se questo significa perdere la tutela di ogni forma di correttezza politica. Pensare a partire dalla psicoanalisi non implica farlo in termini bonari o caritatevoli, poiché la psicoanalisi non prospera tra i benpensanti e si ferma, nella sua incessante ricerca, solo ai limiti di una verità scomoda. Ma, in verità, non dovrebbe essere difficile per lo psicoanalista pensare dalla parte dei perseguitati, poiché egli stesso è sempre stato oggetto di polemiche o di condanne: la psicoanalisi era considerata scienza borghese dai comunisti, oscenità dalla Chiesa cattolica, scienza ebrea e bolscevica dai nazisti, scienza boche dai francesi, scienza latina dai nordici o scienza cristiana dai nuovi sostenitori dello scientismo [5]. Mettersi dalla parte dei perseguitati implica pungolare l’altro e estraniarsi dal consenso, diventare estranei ogni volta che un’identificazione minaccia di unirci in un conforto collettivo. È una posizione evidentemente scomoda, ma solo così la psicoanalisi può diventare ogni volta contemporanea.”.  Analogamente, Beltrametti: “Forse ripensare la tragedia antica non più nella forzata e abusata chiave neoclassica della ricomposizione e della compensazione catartica, forse ripensare la tragedia per quello spettacolo molesto che i testi ancora ci trasmettono, ripensarla per i turbamenti e gli straniamenti che poteva e voleva provocare sul suo pubblico e che ancora ci provoca, ripensarla nei termini aristotelici, negli effetti complementari di paura, phobos, che fa regredire gli spettatori in sé e di compassione, eleos, che li reintegra nella comunità”.
Horenstein invita a “immaginare Gaza come un’eterotopia [6] e a ripensare la psicoanalisi partendo da lì e tornando alla domanda iniziale: come identificare i perseguitati? Confondere i perseguitati con Hamas è altrettanto osceno quanto confondere i persecutori con Israele. 



I perseguitati sono i bambini israeliani rapiti o uccisi, le adolescenti violentate, gli anziani condannati a rivivere la minaccia di un olocausto che non finisce mai, così come le famiglie palestinesi costrette a spostarsi da un luogo all'altro o a vedere il loro futuro delimitato, le perdite di vite umane considerate solo danni collaterali. Il lato dei persecutori non riconosce le differenze di fede, e i fondamentalisti di entrambe le parti si incontrano senza problemi, gli unici ad avere la meglio in un'escalation di violenza senza fine. È facile cadere nell'osceno. Osceno significa uscire di scena. Dalla scena umana”. A tali questioni si collega Silvana Borutti, che, evocando Agamben di Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, afferma che “I sommersi, sono i testimoni che non potranno testimoniare (nel cui conto parleranno i sopravvissuti), ma sono loro paradossalmente i veri testimoni, perché sono i testimoni impossibili dell’intestimoniabile, dell’indicibile, dell’irrappresentabile [7]”. Un irrappresentabile, una Gorgone, un’alterità non pensabile ai quali Borutti risponde mediante Sebald, che, con la scrittura, tenta – come ci ha invitato a fare Horenstein – di affrontare il tema del testimoniare l’intestimoniabile, l’indicibile, l’irrappresentabile.
 
[Pavia, Collegio Ghislieri, 24 febbraio 2024]



Note

1. Coordinato dal 2008 da Lorena Preta.

2. Rabbi Huna, nel nome di Rabbi Joseph in un antico midrash, salvato da Pierre Vidal-Naquet in Gli assassini della memoria, Siglo Veintiuno, Messico, 1994

3. Francesconi M., Scotto di Fasano D., 2023, Angoscia di morte o morte dell’angoscia? in Preta L., 2023, a cura di, Still life. Ai confini tra il vivere e il morire, Mimesis, Milano.

4. È interessante pensare che le Crociate possano essere state intraprese dietro una tomba vuota, o il modo in cui i luoghi sacri sono abitati dall'assenza. A un'assenza rimanda anche il Muro del Pianto, residuo delle mura di contenimento della spianata dove un tempo sorgeva il Tempio ebraico e oggi due moschee. La sacralità che abita quella spianata è legata alla propensione al sacrificio – di Isacco o di Ismaele, a seconda della tradizione che lo racconta – da cui sembra che non ci siamo ancora liberati.

5. Roudinesco, E., Pourquoi tant de haine? - Anatomie du livre noir de la psychanalyse, Navarin, Parigi, 2005.

6. Foucault, M., Des espaces autres, Architecture, Mouvement, Continuité, n. 5, ottobre 1984, pp. 46-49 (traduzione in spagnolo di Luis Gayo Pérez Bueno, pubblicata sulla rivista Astrágalo, n. 7, settembre 1997).

7. Agamben, analizzando «la relazione tra impossibilità e possibilità di dire che costituisce la testimonianza» in quanto testimonianza di eventi senza testimoni, offre argomenti per affrontare il tema aporetico della non coincidenza tra fatti e verità. (Quel che resta di Auschwitz, Einaudi, Torino 1998. p. 146)

 



 

 

 

 


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