UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

domenica 19 ottobre 2025

POETI
di Salvatore Di Marzo


Salvatore Di Marzo
 
La Cumana
 
Il vento furioso è una voce d’alloro,
un bruito che mesce parole alle foglie,
all’ombra di tede, che freme, un respiro
che esala la terra, e aggrava le ciglia.
 
Ancora tre volte il vento ha frullato
le foglie a sei dita, ma sono di polvere,
un’ombra nelle ombre, e sibila e striscia
tra i cespi sugli occhi di bianche ginestre.
 
La cicala frinisce nel giorno che muore,
in un soffio che effonde un amplesso di voce,
e sfiorisce, nelle parole che mai ho ascoltato
e nella carezza che mai mi ha lasciato.
 


Liliana Ravalli: Bosco
 
Requie materna
 
Non era di chi ti lasciava da sola la colpa, in silenzio
e tacendo, a invecchiare alla vecchia poltrona alle soglie
del giorno (le madri lo sanno che è loro dovere aspettare,
ma senza sapere). Ed era nell’alba, un quadrante sbiadito
un elianto appassito a segnarti la voce nel canto del seno,
il mio cuore. Madre, come tutte le madri povera e giusta
nella loro vecchiezza, gloria al tuo sguardo, e al silenzio.
Non sono mai quel tuo figlio, ma sono tue le bianche parole
in penombra, da quando allattavi il mio labbro, come succo
di melograno (non hanno un passato, e non hanno domani).
Il sole imbianca, e la campana, lontana coetanea, dichiara
la sera, ma tu, rassegnata, non andare nell’estremo rintocco,
soccorrimi ancora, aggrappato alla veste di un ricordo segreto,
e non andare perché lo devi al mistero sonoro del vespro.
 

POESIE
di Paola Zan
 
Paola Zan

La Palla
 
Pallida e pensosa, la ragazza
gioca da sola con una palla in mare
La fa roteare sul pelo dell'acqua
E quella, semisommersa
non si sposta beata dal suo asse
 
Eppure impazza, e senza sosta
la violenza.
 
 
I potenti
 
Vogliono arricchirsi indisturbati
E restano impuniti.
 
Non mi specchio quando mi trucco
Si specchia l'anima dentro di me
È come allattare di poesia il bimbo di tutti.
 

Liliana Ravalli: Il sogno sognato

Adoro i nidi
 
Adoro i nidi
sugli alberi spogli
Adoro scrivere
su carta qualsiasi
 
Adoro i panni, ben stesi
per fili tesi:
fantasmi lindi
danzanti
 
che dicono vieni.
 
 
Poesia spia
 
La poesia racconta la verità
anche quando non la dice:
è tutto un chiaroscuro
 
E la si evince.
 
 
Liliana Ravalli: Percorso obbligato
 
Spesa lesa
 
Ormai la vita è scandita
dai punti sulla spesa.
 
Dignità lesa
per una spesa obesa.

LA FRASE DEL GIORNO
di Laura Margherita Volante



Per natura sacrificale
si sente il peso di essere buoni
…”.

SCAFFALI
di Gianfranco De Giovanni
 


Giuseppe Carlo Airaghi
 
Giuseppe Carlo Airaghi, con il suo volume L’unione arbitraria delle singole parti, compie un gesto audace che è prima di tutto un atto interiore. Non si tratta di una pura espressione di narcisismo, ma di una sentita necessità. L’autore ha sentito il bisogno prepotente di tornare sui propri passi e tentare di fare “ordine” nel cammino percorso. Il libro è una raccolta antologica di poesie scelte e rivisitate, scritte nell’arco di dieci anni (2013–2023). Airaghi propone una rilettura del proprio itinerario poetico. L'intento è restituire una visione organica a parole, immagini e visioni ricorrenti che lo attraversano e lo abitano. La scelta del titolo - l’unione è “arbitraria” e insieme necessaria - chiarisce subito la natura del progetto. Si tratta di un tentativo di conferire unità a un percorso che, mentre si realizzava, non perseguiva consapevolmente alcuna sistemazione organica. L’autore non segue un criterio cronologico, ma un principio di risonanza. Egli accosta testi tratti da quattro raccolte già edite, ordinandoli secondo una logica “tematica”.
Airaghi mette in dialogo poesie nate in tempi diversi, ma unite da figure e domande che tornano. Ne emerge un mosaico coerente e mobile, dove la poesia diventa gesto di conoscenza e atto di scoperta. L’autore indaga temi cruciali come la memoria, l’amore, la perdita, la città, l’infanzia e il cammino. Queste sezioni tematiche non sono capitoli tradizionali, ma “soglie da attraversare”. Le sezioni che compongono il volume, come Paesaggi urbani con figure e Autobiografia apocrifa, dialogano tra loro come frammenti di un unico discorso poetico. La costanza di una postura poetica tiene insieme i testi, rifuggendo la retorica e cercando parole chiare e dirette. Il compito che Airaghi affida alla scrittura è prima descrivere e poi rivelare, anche a costo di allargare le ferite. La sua poesia cerca, nella realtà, il punto in cui l’esperienza individuale incontra le condizioni comuni a tutti, come la fatica e il dolore.
Ad aprire il percorso, due poemi unitari ampliano il registro lirico verso una dimensione quasi teatrale. Questi sono Monologo dell’angelo caduto e Il poema del cammino. A differenza delle sezioni tematiche, questi due poemi sono percorsi già strutturati nella loro interezza. Entrambi si configurano come monologhi che danno voce a un'interiorità drammatica. Con la forma poemetto, l’autore tenta di allontanarsi dall’esibizione ricorsiva dell’io lirico contemporaneo. Egli prova a filtrare la soggettività affidando la voce a un personaggio e usando un meccanismo narrativo. Tuttavia, in filigrana, l’autobiografismo inteso come traccia emotiva e conoscitiva, emerge comunque, poiché in poesia è impossibile non attingere al proprio vissuto interiore. L'autore stesso ammette che l’antologia racconta forse più del presente che del passato. Quest’opera non celebra un traguardo, ma interroga un percorso. L’unione arbitraria delle singole parti è un tentativo di ricomporre un puzzle per restituire la parvenza di un’immagine compiuta, anche se solo provvisoriamente. L’arbitrarietà dell’unione, come suggerisce il titolo, non rende l’opera priva di senso, ma riflette la ricerca continua di un senso possibile tra le tracce della propria esistenza. Il lettore troverà, si augura l’autore, il filo sottile e incompleto che unisce queste singole parti.
 

Giuseppe Carlo Airaghi
L’unione arbitraria delle singole parti 
ChiareVoci Edizioni 2025
Pagine 265 euro 13.00

CINEMA
di Marco Sbrana


 
Abbiamo scoperto il segreto del mondo - Le città di pianura di Francesco Sossai.
 
Nel finale de La dolce vita di Federico Fellini, Mastroianni accorre e la spiaggia è in delirio, perché morto a riva è stato trovato un mostro, una non meglio identificata creatura marina. Mastroianni si volta, poi, e, dall’altra parte di una conca dove l’acqua ristagna, una bambina, già vista in precedenza ma con la quale aveva scambiato poche battute, urla qualcosa di incomprensibile. Mastroianni tenta di decifrare le parole della ragazzetta; non riesce, com’è il vento non brezza ma burrasca, tanto forte da tappare le orecchie, e le bocche tappare. Alza le mani, Mastroianni, nella resa: no, non capisce. Stacco sulla bambina, che ha detto, che non è stata capita, che guarda in macchina. E così finisce il film.
Questo espediente (un personaggio che dice ma il cui dire non giunge a destinazione) è usato più volte ne Le città di pianura di Francesco Sossai, quest’anno presentato a Cannes nella sezione Un certain regard.
Il segreto del mondo, di questo parla il film. La sua indecidibilità; la possibilità che non esista; la possibilità di pervenirvi solo per poi farselo scappare; la tendenza di questo segreto a rimanere sulla punta della lingua come i sogni che il risveglio uccide.



Finestre, case, case belle. Doriano dirà che prima non era così; prima, guardando le finestre delle case degli altri, pensava che in quelle case ci sarebbe entrato, laddove adesso è un disilluso Io non ci entrerò mai.
Chitarra acustica. Sequenza di finestre. Stacco. Inizio del film. Doriano e Carlobianchi (a un certo punto chiamato “Charlie – White” da Doriano, momento che ha fatto ridere la sala) dormono in una macchina parcheggiata alla bell’e meglio. E una voce fuori campo ci racconta la leggenda metropolitana di Primo. Il suo ultimo giorno di fabbrica, si racconta, ricevette la visita del padrone dei padroni, il quale gli regalò un Rolex. Il quale padrone poi si allontanò per tornare all’elicottero che alla fabbrica lo aveva condotto, per poi dire qualcosa che, stando alla mimica, Primo avrebbe dovuto ricordare. Ma come fare? Primo non sentì le parole (la Parola), perché soverchiante su tutti i suoni era il rombo dell’elicottero.
Doriano e Carlobianchi esordiscono così: hanno scoperto qualcosa di importantissimo sulla vita; non se lo ricordano. Eugenio “Genio” sta arrivando all’aeroporto. Quale? Treviso o Venezia? Non lo sanno; poco importa, andranno a prenderlo (“Ma dove andiamo?” è Kerouac. “Andiamo!”)
Si aggiunge all’epopea Filippo Scotti, nato da Sorrentino (È stata la mano di Dio) e visto di recente al lavoro per Avati.
Perché “non possono non bere l’ultima”.



Lo incontrano, Scotti, alla festa notturna per la neolaureata Giulia. Per cui Scotti smania. Ma domani ha revisione, vorrebbe tornare a casa. Al ritrovo (seguendo il Dotto-o-re, Dotto-o-re) Carlobianchi e Doriano lo portano quasi di forza in un tipico locale veneto con musica dal vivo. E, quando Scotti scappa, i due lo prendono con loro; gli faranno da cicerone tra i luoghi del rimpianto. O forse sarà Filippo Scotti, giovane giovane, così giovane, a fare loro da guida.
I once had a girl, dicevano i Beatles, or should I say she once had me.
Perché “non c’è mai un’altra volta” (una delle tante sentenze adorabili del film).
Le città di pianura segue le peripezie dei tre. Il loro movimento nel dolore del ritorno ai tempi andati in cui “Genio” era tutto per loro, prima che scappasse in Argentina dopo le indagini su di lui per associazione a delinquere. Sì, criminale; e criminali anche Doriano e Carlobianchi: spaccio illegale di occhiali che rubavano dalla catena di montaggio. Ma, in prescrizione il reato, “Genio” può tornare. Sbaglieranno aeroporto; deluderanno “Genio”, convinto di poter ritrovare il tesoro nascosto, ricavato della delinquenza; visiteranno un’osteria derelitta, teatro un tempo della levità prandiale; vedranno la tomba di Brion, su suggerimento del colto studente di architettura (Scotti), sempre differendo la fine del film con il pretesto di dover “bere l’ultima”, sempre avendo sulla bocca il segreto del mondo, colto e scordato.
Del mondo o del vostro mondo? chiede Filippo Scotti
 
E che differenza c’è?



Bambini cresciuti, “troppo vecchi per crescere”, ad avviso del padre, Carlobianchi fa la “bella vita”. Ma non è vero; la loro è una vita di merda, tutto il film ci grava addosso col peso del rimpianto, della vita scialacquata, con l’esosa vecchiezza che si approssima, preparazione di una lotta impari, epica senza epos, senza armi se non l’arma della resa fatalistica.
Filippo Scotti dice della tomba di Brion che il marmo rimanda alla pesantezza della morte e che gli spazi vuoti sono invece “leggerezza quasi eterea”.
Le città di pianura è ciò che Parigi era per Walter Benjamin: fantasmagoria allegorica di qualcos’altro. Sossai riesce in primis nell’impresa seguente: fa sì che tutto quello che viene mostrato rimandi ad altro. Vediamo l’inane ma, tramite codici che sono quelli del cinema (ora una sentenza spiazzante e spesso paradossale, sempre ironica; ora la chitarra acustica, così malinconica, che ci fa provare nostalgia per vite neppure nostre), abbiamo la sensazione che il vero oggetto del film si trovi nel metafisico, diciamo nel logos. Che insomma Le città di pianura sia l’incarnazione di quel segreto che Doriano e Carlobianchi hanno scordato, e che affiora negli eventi e negli agiti e in ciò che subiscono. E nei ricordi.
Film della e sulla provincia, che è allegoria del diroccamento del mondo, Le città di pianura è permeato da malinconia disillusa e fatalismo. Epicurei, i due amici, ma alla rovescia, perch nella sfrenatezza con cui si procurano piacere, sanno invero che quel piacere è passatempo per non pensare (imperativo. Imperativo: non pensare) alla morte che avanza e al rimpianto che li segue.
Cosa rimane se non un riso strano, quando si sa che si è sprecata la vita?
Forse una parola che redime, udita, intesa, poi dimenticata.



È il tramonto di una generazione, Carlobianchi e Doriano sono emblemi del tramonto che non vogliono, questa la missione, che Filippo Scotti faccia i loro stessi errori.
Il quotidiano come epica, la birra, il locale, il dialetto, la provincia. Inanità, forse, credo sola apparente inanità, quella della trama, uno show che è pretesto di un tell che, appunto, non si riesce a dire: perché l’elicottero sovrasta col suo rumore; perché il treno in cui Filippo Scotti è entrato ha ormai chiuso le porte o perché, così il finale, i titoli di coda, con il loro silenzio, interrompono la conversazione proprio quando il segreto, quel segreto, viene ricordato.
La risposta c’è, forse; ma a che domanda? Esiste la domanda?
Si possono (Wittgenstein) dire proposizioni di senso? O quel segreto pertiene al “ciò di cui non si può parlare”? E poi Godel: “Non fossi qui, non mi chiederei perché sono qui”.
Intelligente, Sossai: differire (all’infinito, in un certo senso) il senso. La domanda sta al ricettore.
Un’idea ce la si può fare.



Carlo Sini parla dell’essere generalizzato, il “si” che dice nonostante gli esseri parlanti. La lingua è tessuto autonomo che parla tramite i soggetti, ma il “si” generalizzato dice la comunanza, e l’unica comunanza è l’evento che, appunto, unisce, lungi dall’essere, come voleva Heidegger, l’accadere più privato, e questo dire comune è sempre, dice Sini, la morte, con allegata la (sola) legge del Non dare la morte.
Che Le città di pianura parli di morte, ossia che la morte sia il segreto scoperto, l’unico scopribile da un certo punto di vista, è possibile e irrilevante. Possibile per via di quel che dice Scotti sulla tomba di Brion (marmo, morte; leggerezza eterea, dissolutezza di Doriano e Carlobianchi) ed è possibile per il discorso sul Veneto come regione fantasma che presto, per via dei danni ambientali, sarà un’infrastruttura, dove le città di pianura (che sono sole, balenanti, barcollanti), scemeranno.
Ma è parere di chi scrive che un film mai sia rebus. Se fa scaturire domande, ha vinto. Le città di pianura è un motore, un grande motore di domande che sopravvive ai titoli di coda.

sabato 18 ottobre 2025

IL GIORNALISMO VERO FA PAURA
 


Solidarietà di “Odissea” a Sigfrido Ranucci.
 
Mafiosi? Feccia fascista? Massoni? Criminali che si annidano nei Servizi Segreti deviati di cui non è mai stata fatta pulizia e mai hanno pagato per i loro crimini? Chi di loro ha compiuto l’attentato contro il giornalista Sigfrido Ranucci per mettere a tacere la sua preziosa trasmissione Report, una delle poche decenti tra la spazzatura televisiva nazionale? Non lo sappiamo, ma non fa differenza: nei metodi si equivalgono. Gli uomini di potere e i governi non sopportano una stampa che fa inchieste e non si piega, che informa l’opinione pubblica sulle loro malefatte, sui loro crimini, come è suo dovere, e svolgendo la sua missione civile tiene viva la democrazia, fa da argine alla sua deriva. E rende onore al suo mestiere. Purtroppo, soprattutto nel nostro Paese, la stragrande maggioranza della stampa ubbidisce ai padroni che la finanziano, i quali ricevono persino il contributo pubblico per poterci meglio disinformare, fare propaganda. Il genocidio a Gaza e la posizione guerrafondaia di quasi tutti i quotidiani in merito alla guerra russo-ucraina ne sono la prova più lampante. Vale per la carta stampata e vale per le televisioni. Organi di disinformazione di massa, questo sono, e tali dobbiamo considerarli. Servi. E com’è noto: “I servi non servono a nulla”.

 

 

SOLIDARIETÀ PER RANUCCI E REPORT



L’Associazione di cultura politica Il Rosso non è il Nero” di Savona considera come l’atto intimidatorio subito dal giornalista Sigfrido Ranucci e dalla sua famiglia in queste ore debba essere necessariamente stigmatizzato in una dimensione che oltrepassi la pur doverosa espressione di solidarietà e vicinanza. Ci troviamo di fronte a un attacco diretto alla possibilità di libera espressione e di inchiesta che fanno del giornalismo il punto d’appoggio più prezioso per le libertà democratiche. Un paese come l’Italia vive da troppo tempo una situazione di limitazione in questo senso che ne fanno un paese a “democrazia limitata”: questo fatto è ancora più grave nel momento in cui in Europa e fuori d’Europa si stanno affermando modelli autoritari ai quali si accosta il termine democratico (“democrature”, “democrazie illiberali”) per le quali dovremmo trovare altri termini più efficaci. In Italia inoltre permane una situazione di diffusa illegalità con vere e proprie zone del Paese dominate dalla presenza della criminalità organizzata. In questo quadro si situano i tentativi di bloccare le residue voci libere e l’attentato a Sigfrido Ranucci rappresenta un punto di attacco, di vera e propria escalation che deve essere respinto grazie ad una iniziativa di mobilitazione e vigilanza democratica.

 

 

 

A ONOR DEL VERO
di Laura Margherita Volante

 
 
A Sigfrido Ranucci
 
La verità non è di
moda. 
Non è amata dai potenti.
Essi si cullano di menzogne
oppiacee 
per non sottoporsi 
al giudice e alla legge
del vero. 
Rincorrono i falsi
profeti del tempo
che muore fra le 
rovine della storia 
La memoria inventa
gli dèi per farne 
idoli alle mandrie che
pascolano di piaceri tra 
fiori di loto
La verità narra 
di macerie e cimiteri
di civiltà scomparse 
fra teschi e rupestri
a strati risorte...
Essa è coperta dalla 
polvere
e la cenere dei morti
non ha parola.

 

RESISTERE PER VIVERE, VIVERE PER RESISTERE
di Zaccaria Gallo



Immagini, parole, sensazioni, partecipazioni emotive; vista su macerie e gente che si aggira sui resti delle proprie case, della propria città, che tende ciotole perché possano essere riempite, in una lotta corpo a corpo con fame, sete e pericoli incombenti di morte, e bambini, bambini, tanti bambini. E interminabili file di esseri umani che vagano da nord a sud, da sud a nord, con le ultime povere poche cose che sono loro rimaste, sulle spalle, sulle biciclette su carri stracarichi. Come? Come ha potuto questa umanità, la gente a Gaza sopravvivere e farlo ancora oggi? Vorrei cercare allora di decifrare il modo di porsi nei confronti della vita, e dei suoi accadimenti, da parte di un singolo individuo e poi di tutto un popolo, cui quel singolo individuo fa parte. E vorrei partire da una parola: sumud, che a me pare la chiave che può consentire appunto di capire come un intero popolo, e ogni singolo palestinese, possa riuscire a vivere, e a sopravvivere, anche in situazioni infernali come quelle che si sono verificate nella striscia di Gaza e che, ahimè, forse, continueranno a verificarsi in Cisgiordania, nonostante gli accordi di pace siglati il 13 di ottobre.

 


Per indagare sul significato profondo della parola sumud, non voglio farlo da un punto di vista politico e sociale, che pure hanno la loro importanza, ma approcciarmi ad essa dal punto di vista psicologico. Il concetto di sumud riveste, a ben guardare, anche un carattere universale, perché invita a meditare sulla sorte dei dannati della terra, delle situazioni di patimento psichico di tutti gli oppressi da eventi funesti, che possono andare da gravi accadimenti naturali (terremoti, alluvioni, incendi e altro) fino ai conflitti armati che coinvolgono gli inermi civili di un paese. Restando al tema principale, quello che è avvenuto a Gaza, deve apparirci come un momento privilegiato per consentirci anche di analizzare quanta violenza si sia perpetrata durante l’occupazione dei territori palestinesi e anche per sottoporre a giudizio le ipocrisie dei governi occidentali e le loro innumerevoli complicità che hanno permesso che si dovesse annotare nei libri di Storia dell’umanità l’aver consentito, negli anni del Duemila, un vero e proprio genocidio.



Il termine arabo sumud (صُمُود - traslitterata umūd) è difficile da tradurre con una sola parola in italiano. Il suo significato deriva dalla radice verbale samada (صَمَدَ - traslitterato amada) che significa resistere, stare saldi, tenere duro ma anche organizzare, accumulare, salvare. È espressione antichissima e che si può manifestare in due atteggiamenti essenziali: quello statico e quello di resistenza. La forma statica, si riferisce al concetto della protezione e del mantenimento dei palestinesi sulla propria terra, come reazione alla colonizzazione israeliana della striscia e della Cisgiordania e alla pulizia etnica. La seconda forma di sumud è quella di resistenza, che comporta un atteggiamento più energico dal momento che ricerca le modalità che consentano di mettere in atto istituzioni alternative per resistere e indebolire l’occupazione israeliana della Palestina.


 

L’ulivo (e non a caso, è anche della nostra regione) è il simbolo per eccellenza del sumud e del radicamento palestinese alla terra. Altra icona importante è rappresentata dall’immagine di una madre, che in genere è una contadina incinta. Ma, sumud è soprattutto parola che ha il doppio significato di resistenza e di resilienza, e questa oscillante ambivalenza non è di poco conto. Parlo di oscillazione, perché le due nozioni hanno significato ben diverso che le rende non sovrapponibili. Senza trascurare il fatto che il termine di resilienza, nella letteratura, oltre che nel campo psichico e psichiatrico e delle scienze sociali, da diversi anni ha finito spesso per sovrapporsi e oscurare il concetto di resistenza. Il termine resilienza, di fatto, ha un significato che non può essere travisato. Il resiliente è un soggetto che è capace di risollevarsi sempre sulle sue gambe, di resistere alle condizioni di sofferenza, di oppressione, di umiliazione, insomma un soggetto che ce la fa comunque, che ce la fa sempre, che ce la farà malgrado tutto. Il resistente invece è l’individuo che coltiva e si adopera per rispondere in una forma attiva a tutto ciò che gli viene imposto e limita la sua libertà.

 


Ecco perché per il popolo palestinese sumud ha un’importanza vitale: unisce, nel suo termine, la resilienza alla resistenza. Se fosse solo resilienza, di fatto si eliminerebbe la responsabilità di chi produce la sofferenza, contro cui dover resistere, concentrando tutto soltanto nell’atteggiamento psichico e nelle forze del’ soggetto che soffre. Non possiamo semplificare il significato di sumud in tale maniera. Dobbiamo serbare questo patrimonio di significati, non dobbiamo limitarlo, ridurlo, perché il termine contiene il modo con cui un popolo sta lottando per difendere la propria l’identità. Quando si parla di resilienza, la nostra attenzione si polarizza sull’individuo, ma l’individuo è parte di una collettività e se, giustamente, ogni singolo individuo rivendica la sua dignità, la collettività alla quale appartiene, per parte sua, rivendica la stessa dignità e non consente di essere addomesticata, ed esprime la volontà di resistere. Resilienza e resistenza di ogni persona e della intera collettività, tutti per sopravvivere in contesti di oppressione cronica quotidiana.

 


Ecco perché, allora, la nozione di sumud deve essere vista sotto un profilo collettivo storico-politico oltre come esperienza individuale. Quando noi pensiamo a un bambino che soffre la fame, la sete, e che ha perso i propri genitori, nello stesso tempo pensiamo a tutti i bambini orfani che sono immersi nella sofferenza, al bambino che ha perduto i suoi arti e contemporaneamente a tutti quelli che sono rimasti amputati dopo attentati o nel corso dei bombardamenti. Sumud universalizza due concetti in uno, e non per restringerli, ma per indicare come sopravvivere anche durante un genocidio. Nella letteratura contemporanea araba, sumud contiene anche il significato di perseveranza. Nella striscia di Gaza, sotto assedio da anni, letteralmente sumud significa e significherà risolutezza, tenacia, perseveranza, appunto, che si nutre di pazienza dinamica, viva, vitale. Simbolo nazionale di un valore ideologico e culturale, ma anche strategia essenziale nella vita di tutti i giorni, un appiglio cui aggrapparsi, per provare a vivere, nonostante tutto.

 


Nei momenti più drammatici della loro storia, per i palestinesi, sumud ha sempre significato restare e rimanere radicati nella propria terra, nel quartiere in cui si è nati. Sumud è ricostruire la propria casa uguale o più bella di prima, dopo ogni bombardamento israeliano, o anche piantare dieci volte l'albero di ulivo nello stesso punto sul quale dieci volte vi è passato sopra un carro armato per strapparlo. Una dottoressa gazawi anni fa disse alla giornalista Amira Hass: “Siamo tornati a casa. Ero così felice di tornare nel giardino e dalle nostre colombe. Non erano morte, anche se non si nutrivano da quattro giorni. Come noi anche loro conoscono il significato di sumud”. E la poetessa palestinese Raja Shehadeh, nel 1982, scriveva: “A volte, quando cammino sulle colline, godendo inconsapevolmente del tocco della terra dura sotto i miei piedi, il profumo del timo e delle colline e degli alberi intorno a me, mi ritrovo a guardare un ulivo e, mentre lo guardo, si trasforma davanti ai miei occhi in un simbolo dei samidin, della nostra lotta contro la perdita…”.

DIALOGARE
di Chiara Landonio



Lettera numero 4
 
Vorrei adesso riaprire un capitolo della nostra storia recente che è stato immediatamente derubricato dal discorso pubblico e familiare, come se nulla fosse mai accaduto, ma che ancora, lo sento, sanguina. Mi riferisco alla pandemia del 2020, che ci ha per lungo tempo isolati, chiusi tutti in casa, più felici coloro che avevano un balcone o un pezzo di terra, meno fortunati coloro che avevano solo una finestra, una casa piccola o una famiglia numerosa. Unico confronto con il mondo fuori era la televisione che trasmetteva ogni giorno il numero dei decessi e parlava del virus in termini bellici. Il primo momento, che ha accomunato tutti è stata la paura dell’invisibile, della morte che veniva a bussare ad una società che si era dimenticata che la fine esiste. D’un tratto ci siamo ritrovati soli, le persone sono morte nel totale abbandono in un letto di ospedale; i vecchi non ricevevano visite e non c’era tempo neanche per salutare i defunti.
Quindi prima è stata la paura della malattia, il nemico invisibile che si insinuava nel corpo e contro cui dovevamo essere pronti a combattere; poi è venuta la paura dell’altro, in quanto potenzialmente malato e dunque estraneo: il distanziamento sociale è stata la risposta che ha dato un duro colpo a una socialità che già prima della pandemia non era che superficie. Ricordo lo stare a distanza, cambiare marciapiede per paura dell’avvicinamento del “nemico”, il salutarsi senza toccarsi, il nascondimento dei visi, non riuscire più a immaginare se dietro la mascherina ci fosse un sorriso. Ricordo solo un altro momento di paura dell’altro essere umano: i giorni dopo l’11 settembre si camminava per le strade delle città e se si avvistava un velo sulla testa di una donna o una famiglia che parlava arabo il primo impulso era quello di fare un passo indietro, atterriti dall’idea di avere di fronte dei terroristi. Come ci guardavano loro? Penso con la medesima paura.



Dopo avere dato un duro colpo alla socialità attraverso il terrore e poi attraverso la diffidenza e l’allontanamento, il passo successivo fu dividere, espellere il reietto. A questo è servito il green pass. Non mi interessa discettare sul vaccino, se fosse giusto o meno: so che c’è chi l’ha fatto perché temeva di morire di covid e chi l’ha fatto perché temeva le ripercussioni politiche; so che c’è chi non l’ha fatto perché aveva più paura del vaccino che della malattia e chi non l’ha fatto perché la trovava un’imposizione inaccettabile. Il tutto però ha portato all’esclusione di coloro che non sottostavano ai dettami governativi e che sono stati resi sempre più attaccabili. Non si capiva fino a che punto l’esclusione sarebbe andata avanti: prima non si poteva entrare nei luoghi pubblici come ristoranti e cinema; nei bar si poteva entrare ma consumando al banco. Poi hanno imposto di consumare le colazioni fuori dai bar; i ragazzi non potevano fare sport, non potevano salire sugli autobus scolastici; i genitori non potevano entrare a scuola a prendere i propri figli; desolanti erano le file notturne alle farmacie per fare i tamponi fino a togliere il lavoro a determinate categorie. Le misure che continuamente cambiavano, l’incertezza della legge, gli insulti hanno provocato panico e rabbia in coloro che avevano fatto una scelta diversa: fino a dove sarebbe arrivato il governo? ci si chiedeva. Ci si sentiva dei reietti, per la prima volta era chiaro che l’essere cittadini non sarebbe bastato. E così la rabbia divenne livore e la minoranza accettò il ruolo di vittima e la vittima vive sempre la sensazione di essere pura, di essere migliore, di essere vittima sacrificale. 



La divisione ha spaccato famiglie, amicizie, rapporti lavorativi, il potere ha dato prova di essere più forte di qualsiasi relazione. Ma non c’è nulla di nuovo sotto il sole: non è successa la stessa cosa durante il nazismo, nella guerra in Rwanda, nella guerra in Jugoslavia, per fare solo qualche esempio? Ci si è sempre scannati orizzontalmente, carnefici resi tali dalla paura e vittime che non attendevano altro che potersi vendicare. Il potere vive di questo. Dobbiamo cominciare a sviluppare gli anticorpi necessari a resistere alla volontà di divisione instillata dall’alto, a riconoscere il meccanismo dell’esclusione e a rimanere uniti.
 Ivan Illich raccontava spesso la parabola del Samaritano, che parla di un uomo che, andando da Gerusalemme a Gerico, viene attaccato da alcuni briganti e abbandonato lungo la strada mezzo morto. Il sacerdote e il Levita, uomini appartenenti alla comunità, non si curano dell’uomo e passano oltre. Poi arriva un samaritano, cioè un nemico, uno che non presta il culto nel Tempio: si ferma e si prende cura dell’uomo. Dice Illich “È uno scandalo. [....] Forse l’unico modo in cui oggi potremmo recuperarlo sarebbe di immaginare il Samaritano come un palestinese che soccorre un ebreo israeliano ferito. Quello non solo trascura la sua preferenza etnica, che prevede di soccorrere il proprio simile, ma compie anche una sorta di tradimento, aiutando un nemico”. 



Il Samaritano è il traditore della propria comunità. Inoltre Illich pone l’attenzione sulla domanda che viene fatta a Gesù: non “Come mi devo comportare con il mio prossimo?” ma “Chi è il mio prossimo?” Se comunemente siamo interessati al modo, Illich ci dice che “Il mio vicino è colui che scelgo, non colui che devo scegliere”. Gesù rompe la divisione in cui siamo continuamente immessi, distrugge il decoro, sovverte l’etica, spezza la regola per creare relazione. E allora ricomincio da questo noi che interpreto come relazione amorosa, fatta di vicinanza, complicità e nudità; un noi che per diventare tale ha bisogno di camminare insieme, di affrontare il conflitto, di attraversarlo fino alla fine e di riguardarlo poi, mano nella mano. Perché esista un noi bisogna superare i tabù, i divieti imposti dall’alto che impediscono la vera conoscenza del tu perché nello stesso tempo ostacolano la conoscenza di me, dei miei desideri reconditi e negati, delle mie pulsioni già giudicate. Dialogare nudi è l’unica risposta per superare una società che è ancora nel suo funzionamento profondamente religiosa.

 

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