UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

lunedì 30 giugno 2025

CUPIO DISSOVI
di Luigi Mazzella


 
Individuale o collettivo.
 
 
I religiosi ritengono la fede e tutti i suoi connessi corollari “doni divini”. 
Quei laici che nutrono per i credenti la stessa diffidenza che i Troiani avevano per i Greci, temono i preti anche per i doni che portano (Timeo Danaos et dona ferentes. Virgilio, Eneide). Tra i doni possibili dell’Ecclesia deveritenersi compreso anche il cupio dissolvi che ha l’aria di essere un’espressione latina ma che, in realtà, nasce nel contesto religioso cristiano; più precisamente ha la sua origine nella prima lettera ai Filippesi di San Paolo. Il cupio dissolvi   esprime il desiderio di abbandonare la vita terrena per unirsi a Cristo. Di norma, l’uso dell’espressione è più frequente nell’ambito individuale, dove se ne registra una versione romantica imperniata sullo spleen messo in versi da Charles Baudelaire; ma il desiderio come anelito (ovviamente inconscio e senza essere espresso a chiare lettere) alla distruzione dell’ordine esistente in cui si vive può manifestarsi anche in un contesto collettivo e sociale. Di esso, ben distinto dall'anarchia,  doveva avere tenuto conto, probabilmente, Oswald Spengler quando aveva scritto della tendenza degli abitanti della parte Ovest del Pianeta alla distruzione della propria cosiddetta “civiltà democratica”.
Come per ogni processo, per così dire “in itinere”, sia sul piano individuale sia su quello collettivo, il soggetto agente (individuo o massa che sia) crea steps necessari, premesse condizionanti ed elementi che rafforzino il suo intento auto-distruttivo. 



Nel cupio dissolvi collettivo, un ruolo deleterio di grande e importante rilievo svolge la progressiva e incalzante incultura (e quindi inadeguatezza al ruolo) della classe politica di governo o altrimenti dirigenziale. In Occidente il degrado cognitivo dei vertici dei Paesi è particolarmente favorito dalla presenza maggioritaria di gente che “crede” in ciò che le viene insegnato con accenti propagandistici rispetto a ciò che “potrebbe pensare” se facesse ricorso al proprio raziocinio. Scuole concesse in gestione a preti e a speculatori (credenti ma con il pelo sullo stomaco in quanto proprietari di “diplomifici” a pagamento) completano il quadro per giungere a un inevitabile scadimento culturale. Inoltre, una vera e propria cultura non conformistica e laica dei vertici dirigenziali e di governo è impedita dalla incombenza, sul piano giudiziario, di “avvisi di garanzia” più precisi di missili e droni telecomandati nel colpire leader politici capaci che possano sbarrare il passo a quelli che Franco Continolo nel suo blog definisce i “super idioti”. La ciliegina sulla torta dell’incultura politica è data da leggi elettorali truffaldine che consentono di governare a minoranze (rissose ma interessate ai vantaggi di entrare nella stanza dei bottoni) che se infischiano del Paese vero (che non ha altra strada che astenersi). Sul terreno della concretezza e dell’attualità, gli eventi Occidentali più recenti hanno dimostrato nel senso più pieno quanto appena detto, con l’eccezione degli Stati Uniti d’America che, eleggendo Donald Trump (nonostante le difficili caratteristiche del personaggio) hanno inteso sottrarsi al “cupio dissolvi” della collettività Occidentale, scaricandolo solo sugli Europei. I “super beoti” (di Francia, Germania, Inghilterra, Italia in prima linea) si sono dimostrati, grazie alla loro stupida insipienza leader pronti ad addossarsi il fardello loro imposto dal neo eletto Presidente Americano. Molto mal messi, stanchi e spossati fino al punto di articolare male frasi spesso inaspettatamente tronche e più del consueto prive di senso comune, quei “tromboni male accordati”, con le loro azioni politiche sono stati tutti, senza eccezioni, della medesima irresponsabilità per la sconsiderata politica. Meloni, Macron, Starmer, Metz, dopo avere violato (mentre la invocavano) una legge NATO che dimostravano di non conoscere, si sono cacciati in una guerra che da cobelligeranti (non avendo essi seguito l’esempio di Trump) dovranno sostenere a proprie spese, aiutando l’industria delle armi, per massima parte statunitense, a non subire perdite per la “resa” e l’uscita dal gruppo dei Nord-americani. Il fatto più grave è stato che né in Italia né negli altri Paesi Europei ci si poteva aspettare altro dagli uomini politici di diverso orientamento (In Italia la scalmanata e rissosa Elly Schlein, il velenoso e acido Calenda, l’ineffabile e inaffidabile Renzi non dicevano cose diverse, avendo la stessa macroscopica e madornale ignoranza delle norme NATO).
 

 


Post-scriptum: È anche probabile che Ursula Von der Leyen e Donald Trump (per ipotizzabili, sotterranei  accordi intervenuti con il Partito Democratico Transnazionale sconfitto degli Obama & Co.) abbiano puntato, a bocce ferme dopo lo scontro elettorale statunitense allo stesso obiettivo: lasciare un’Europa nuovamente armata di tutto punto, libera di riprendere i suoi plurisecolari scontri bellici dovuti all’uguale litigiosità di tedeschi, inglesi e francesi; affrancata dalla sua dipendenza (molto pesante per il Nord America) sia sul piano militare (a causa della NATO, che presto sarà, verosimilmente solo Europea e senza Stati Uniti) sia su quello economico (vedi politica dei dazi). Sarà ovviamente una Unione Europea: per Trump utilmente impoverita e per la Commissaria Europea nuovamente egemonizzata dalla Germania. La vittoria di entrambi, raggiunta con l’aumento delle spese militari nei Paesi Europei al 5% (percentuale distruttiva di ogni residuo di Stato sociale) potrebbe significare un clamoroso abbaglio per Giorgia Meloni, che si riprometteva di costruire un ponte che era già in piedi e fattivamente percorso.

domenica 29 giugno 2025

MUSICA
di Gabriele Scaramuzza


 
Nabucco all’Arena di Verona
 
La stagione lirica estiva è stata inaugurata con Nabucco di Verdi, opera peraltro di casa all’Arena di Verona. Mi riferisco trasmissione su Rai3 del 21 giugno, Festa Europea della Musica 2025. Tra i presenti si notavano, oltre al ministro Giuli, Angela Merkel. Ha da subito colpito il palese nazionalismo della rappresentazione: Fratelli d’Italia, inno nazionale mediocre nella musica e nelle parole, ha aperto lo spettacolo; sul proscenio c’erano tre gruppi di coristi, ognuno contrassegnato da un colore diverso: bianco, rosse e verde. Nessun cenno all’Inno europeo, di ben altra statura musicale e culturale. Quasi in gioco fossero solo gli italiani.   
Ora, Nabucco: è rappresentato per la prima volta alla Scala nel 1842. Come mi conferma Anna Foa, in quegli anni “l’emancipazione degli ebrei era in agenda”, un tema importante per tutti, contrastata dalla Chiesa. Non si può farne un’opera in cui gli ebrei sono visti solo come pallide controfigure di eroi risorgimentali o peggio, quasi il loro ebraismo fosse solo un pretesto, una pennellata di colore, in una storia al cui centro sta solo il popolo italiano. Che Verdi avesse simpatie rinascimentali, che fosse anticlericale, si sa; ma non è per nulla tutto lì. Entrambe le cose insieme dovettero portarlo a simpatizzare per l’emancipazione degli ebrei. Che in ogni caso in Nabucco sono presenti in quanto tali, anche se si tratta di ebrei di un’epoca lontana.  



Che gli ebrei nel Nabucco, mi scrive Emilio Sala, siano rappresentanti di una “patria perduta”, da essa esiliati, non risolve il problema del loro “statuto”. L’associazione “risorgimentale” con il popolo “senza patria” risolve solo metà del problema. Conclude Fabrizio Della Seta: “Quanto a Nabucco, non credo che l'alternativa sia Ebrei/Italiani del Risorgimento, e comunque una interpretazione non esclude l'altra. Penso che ciò che appassionava Verdi fosse il tema dell'oppressione e della libertà, comunque si ponesse”; “è innegabile che Verdi abbia sentito e reso il soggetto con una partecipazione non scontata, quali che fossero le sue motivazioni, che d'altronde non sono necessariamente esclusive; la causa nazionale e la questione ebraica sono strettamente collegate.



Nabucco ha da sempre profonde radici in me. I cori, gli accenti di taluni protagonisti, momenti quali - ahimè, pochi me lo perdoneranno - la marcia funebre di Fenena, di sapore bandistico (ripresa se ben ricordo anche da Testori), l’ampio respiro musicale del dramma, lo fanno emblema di una profonda liberazione. La sua conclusione ne fa un inno a profondi valori ebraico-cristiani oggi calpestati, sovvertiti con disprezzo (anche in ambienti ebraici) - assieme ai valori greco-romani che danno fondamento etico ed esistenziale alla nostra civiltà.
All’Arena la regia, le scene, i costumi, alcuni momenti musicali (senza nulla togliere alla dignità di taluni interpreti) mi risultano incomprensibili, “brutti” francamente; e tali da cooperare alla insensata distruzione di un mondo culturale, non certo alla valorizzazione dell’opera. Poche cose più indisponenti dell’intento di “rinnovare” le opere con regie attualizzanti, quasi non avessero in sé una loro sostanza musicale e culturale sufficiente a tenerle in vita.     
Certo, c’è guerra, l’aggressione iniziale di Nabucco, l’aggressività di Abigaille, il lamento cui segue l’ansia di un riscatto non affidato alle armi, ma al ritorno a profondi valori ebraico-cristiani. Ma nessun accento bellicista.


 
P. S. La recente Norma alla Scala conferma la pervasività della mania di risorgimentalizzare e nazionalizzare tutto: ai romani dell’originale sono sostituiti gli austriaci del Risorgimento, non manca un tricolore che avvolge la salma di un patriota sacrificatosi per la patria…. La scena è progettata intorno a prospettive della Scala. Le parole del libretto, le indicazioni sceniche, la musica stessa, restano ovviamente quello che sono, non si comprende come possano prestarsi a una simile trasposizione di tempi e luoghi. Certo la musica si salva grazie a Fabio Luisi, taluni cantanti sono all’altezza del loro compito. Ma l’insieme resta nella mia ottica astruso.



 
 
Temistocle Solera - Giuseppe Verdi
Nabucco
allestimento dell’Arena di Verona 2025
regia di Stefano Poda
direttore d’orchestra Pinches Steinberg
tra i molti interpreti che si alternano
Amartushin Enkhbat, Luca Salsi, Francesco Meli
Anna Pirozzi, Anna Netrebko, Maria José Siri.

  

LETTERE DAL SUD
Confronti



 
Caro Direttore,
sono mossa da un certo sentimento di rammarico rispetto alle vicende che quotidianamente investono le vite di giovani ragazzi e ragazze adolescenti in preda a gesti estremi verso sé stessi e verso persone care, forse perché io stessa mi ritrovo nel ruolo di genitrice, per cui sento tutto il peso della responsabilità nel fornire ai miei figli gli strumenti possibili per vivere in modo rispettoso e dignitoso nella nostra attuale e difficile epoca, improntata sulla virtualità e digitalizzazione. A volte, credimi, si ha la sensazione di percorrere strade tortuose e piene di insidie e per questo faticose. Mi chiedo, pertanto, in che modo, attualmente, le istituzioni, in primis la famiglia e la scuola, possano essere efficaci per i nostri giovani, pragmaticamente parlando, sul piano educativo-pedagogico. Alla ricerca di spiegazioni plausibili e razionali alle mie perplessità ho voluto fortemente assistere, la scorsa settimana, al Festival culturale di Conversazioni dal Mare che annualmente si tiene a cielo aperto nello splendente gioello adriatico della città pugliese di Giovinazzo, avendo appreso che fra gli ospiti di eccezione dell’edizione 2025, avrei potuto ascoltare il dibattito sul “Bene e il Male: educare i giovani”, condotto dal professor Galimberti. Un’ora pura di filosofia, psicologia e antropologia, per me appassionata e studiosa di questi ambiti, mista ai profumi di salsedine, di cui la brezza marina ci inondava, non sono, tuttavia, riusciti a placare quel senso di disagio che ho avvertito quando il professore ha riportato un dato davvero inquietante in merito alla stima dei suicidi adolescenziali: 400 la media raggiunta quest’anno. Quale allora l’origine del dolore esistenziale delle nuove generazioni, tale da indurli all’autoeliminazione, a cui si aggiungono comportamenti omicidi attuati nei confronti di giovanissime ragazze e ragazzi coetanei e non solo? E perché sempre più si avverte una degenerazione del rapporto, un tempo fondato sul rispetto e sulla fiducia, fra studenti e docenti? Galimberti tenta di fornire spiegazioni al pubblico, individuando, nella mancanza di risposte e di obiettivi, a danno della crescita psico-emotiva delle giovani generazioni, la possibile motivazione a tale angoscia adolescenziale. Che l’assuefazione alla virtualità nell’era digitale abbia raggiunto livelli alti di criticità è fuor di dubbio, in concomitanza, la “panta-mercificazione”, per usare un neologismo, in nome del consumismo e della tecnica, hanno conferito una impronta materialistica alle questioni della sfera spirituale, col risultato di un appiattimento emotivo mai riscontrato precedentemente e che rievoca il pensiero unidimensionale, formulato negli anni sessanta dal filosofo Marcuse nel suo libro L’uomo a una dimensione. Il professore attinge dalla lingua tedesca il verbo “fühlen/sentire interiormente-percepire”, per ammonirci, genitori e docenti, del nostro essere corresponsabili della crescita e dello sviluppo psico-emotivo dei giovani. Sarà, dunque, la risonanza emotiva nella gestione delle conflittualità relazionali delle giovani generazioni, la giusta via da intraprendere, da parte delle istituzioni familiari e scolastiche, per discernere il Bene dal Male?
Anna Rutigliano
 
 
 

Caro Direttore,
anche io ho voluto essere presente a uno degli incontri, previsti quest’anno, nel corso del Festival culturale “Conversazioni dal Mare” che, nei giorni scorsi, si è tenuto a Giovinazzo, una città già sede in passato di una importante industria siderurgica e oggi perla nel territorio della Provincia Metropolitana di Bari: incontro con lo psicologo, filosofo, saggista e antropologo, Umberto Galimberti. Tema: “Bene e male nella formazione dei giovani”. Permettimi però, innanzitutto, tu che mi conosci, fare una premessa che mi sta a cuore: ricordare, con te, il contesto in cui si è tenuto l’appuntamento con il professor Galimberti: il porticciolo della città. Vero cuore pulsante della città, là dove i pescherecci si cullano sulle onde e l’odore salmastro si mescola alle storie di tanti pescatori che, da generazioni, animano queste rive e che il tramonto nei mesi più caldi, e quindi anche in questo nostro caldo giugno, tinge di sfumature rosate le facciate alte dei grandi palazzi quando si rispecchiano da un lato e si riflettono sull’acqua, regalando uno spettacolo suggestivo e indimenticabile. Il palco, che ospita l’oratore, è quasi in riva al mare, e in una atmosfera quasi sospesa dal tempo, colpisce una lunga barca da pesca dai colori vivacissimi, posta alle sue spalle: sembra voler salpare, da un momento all’altro, e intraprendere il viaggio, per seguir virtute e canoscenza. Sì, perché il futuro ormai è un mistero, ed è fatto di parole, solo di parole, noi viviamo di parole, che sono l’anestesia del presente. Ha una specie di grido la roca voce di Galimberti, quando dice che anche le chiese sono riempite di sepolcri imbiancati. Eppure siamo chiamati a riconoscere e armarci di coraggio, per affrontare il nichilismo e la rassegnazione, e interrogarci in maniera molto precisa sul significato da attribuire al concetto di identità della persona e, per converso, alle tante identità dei nostri giovani. Con forza, il professor Galimberti afferma che è la società che crea l’identità e non l’individuo che crea la società. La società viene prima dell’individuo, e stare in società è come partecipare ad una partita di calcio, in cui ci sono delle regole e il principio base della educazione è il rispetto delle regole, quelle che ci portano a separare il bene dal male. Bene e male, potremmo anche non definirli, perché ciascuno sente naturalmente da sé che cosa è l’una e che cos’è l’altro; oggi, però, non è più vero questo, perché noi vediamo che questa distinzione tra i giovani non è più esattamente percepita come dovrebbe. Non percepire la differenza tra il corteggiare una ragazza, o stuprarla, significa che qualche cosa non ha funzionato nella educazione alla sessualità. Che cosa è accaduto in questi anni? Lo sviluppo della tecnica, quella che giustamente tu, cara Anna, chiami “assuefazione alla virtualità”, la pervasiva sollecitazione al consumismo, l’elevazione del denaro e della forza come elementi di affermazione, hanno portato alla scomparsa di quella risonanza affettiva, che “è sentire” ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è grave da ciò che non lo è”. Risonanza affettiva, che nasce dall’empatia, sentimento che abbiamo in noi appena nasciamo e che, se non coltivata e protetta dai genitori, dagli educatori, con gli anni della crescita si perde, rendendo poi estremamente possibile che i giovani non riescano più a percepire la divaricazione appunto tra ciò che è bene e ciò che è male, ponendo le basi così per una società schizofrenica (cioè scissa da freni). E c’è anche un’altra amara considerazione da fare e da non dimenticare: la società attuale, alle premesse precedenti, aggiunge lo stato di isolamento e smarrimento dei giovani, quando non dà loro il lavoro e non consente di sviluppare le grandissime potenzialità che ognuno di loro possiede. La Storia umana è stata scritta dai giovani (Leopardi, Einstein, Mozart etc.). Una società che si permette di fare a meno dei giovani è una società destinata a morire. Per questo assistiamo al tramonto dell’Occidente. Caro direttore, ben vengano altri incontri di questo immenso spessore. Auguriamocelo di cuore. 
Zaccaria Gallo
 

  

CINEMA
di Marco Sbrana
 

A proposito di Davis dei fratelli Coen - L’eterno ritorno della sconfitta.
 
Un palco. Luce di riflettore su un volto giovane e già piegato. Barba incolta, ricci capelli scombinati. Oscar Isaac, ossia Llewyin Davis, ispirato alla figura mitica del musicista folk Dave Van Ronk, canta Hang me, Oh, Hang Me col dissapore di chi, iniziando, sa già di aver finito. Dopo l’esibizione, infatti, nel retro del locale che ospita le esibizioni, Davis viene picchiato a sangue da un misterioso uomo di cui non discerniamo il volto ma solo il cappello a tesa larga che porta in testa. E ci immergiamo nella depressione funzionale di un altro freak della letteratura dei fratelli Coen.
A proposito di Davis è un film ambientato nel mondo della musica, precisamente la scena folk degli anni Sessanta newyorkesi. Lo spettro di Dylan, che vedremo, incombe; ma non è ancora il suo momento. L’eroe dei Coen è l’uomo che fallisce e che, nel fallire nuovamente, e nuovamente ogni giorno, fallisce meglio. Opera che sintetizza la poetica del perdente che attraversa Il grande Lebowski, passa per Fargo e raggiunge il bianco e nero de L’uomo che non c’era, fino al grottesco protagonista di A serious man, A proposito di Davis propone un viaggio spiraliforme nella settimana tipo del protagonista. Che un posto per dormire non ce l’ha. Dopo la primissima esibizione - e il pestaggio - lo troviamo che si cucina uova in una casa che non è la sua, e che spia, che abita da straniero, perché Davis è straniero, e lo è in ogni luogo si immetta. Il gatto degli ospiti corre fuori, sul pianerottolo, quando Davis si è chiuso la porta alle spalle. Davis dovrà tenerlo con sé, il micio.



Llewyin has the cat, dirà Davis alla segretaria del professore, amico ospite di Davis. Che, sbagliando, ripeterà Llewyin is the cat. Llewyin è il gatto senza nome che, passo felpato, si aggira nella metropoli alla ricerca di un pasto caldo e di un modo per realizzarsi. Ma la casa discografica - amministrata da un grottesco uomo che, anziché denaro, vuole pagare Llewyin con il suo cappotto - non se la passa bene; e il disco di Davis non vende. Eppure, per tutta la durata del film, Davis ripeterà, sebbene non sia vero (ma forse è vero) che la musica è ciò che fa per vivere, è ciò con cui si paga l’affitto. Pertanto, quando, ritrovato il gatto in strada, tornerà dalla coppia ospite, sbraiterà nel sentirsi chiedere di esibirsi, come se fosse un pupazzetto. Anche perché, mentre canta, la moglie ospitante esegue la parte di Mark. L’altra parte del duo. Morta suicida. Gettatasi dal Washington Bridge. Davis ha due amici: Jim e Jean, felice coppietta. Non troppo felice, forse: Davis è perdutamente innamorato di Jean, con cui ha avuto una storia e che di recente ha messo incinta. 



Oltre alla sopravvivenza, oltre alla necessità di trovare un posto caldo dove riposare, perché una casa non ce l’ha, il nostro, Davis deve anche risolvere il problema dell’aborto. Il fallimento è esistenziale, è un connotato quasi ontologico, una qualità esistentiva dell’ente, per i fratelli Coen, ossessionati da figure che si muovono a stento nel mondo, che dal mondo sono divorziati a causa della loro bizzarria, delle loro velleità, che li rendono emarginati, creature di frontiera in qualunque casa cerchino di stabilirsi. Il loser, per natura, non ha luogo dove sedere; così il nostro Davis. Indicativo è anche, nel testo dei Coen, il fatto che Davis sia un tutto tagliato a metà dal suicidio tremendo del presente-assente Mark. Dunque: il disco non vende; Jean deve abortire; le esibizioni non vanno bene; Davis non ha luogo dove dormire. E il gatto? Llewyin ha ritrovato il gatto sbagliato. Mentre prendeva un caffè con Jean, ha visto passare un sosia del felino, e l’ha preso. Ma è una femmina; il gatto fuggito, che Davis si è portato in braccio finché la bestiolina non è scappata dalla finestra di Jean, che ha ospitato Davis, ecco, il gatto fuggito è un maschio. Quello che Davis ha portato alla coppia ospite è una femmina. Where is his scroto? E si chiude così la prima parte del fallimento spiraliforme di Davis. Che, continua a dire, di musica ci vive. Anche se non è vero, anche se forse è solo una velleità che si è portato appresso dalla gioventù, a cui si è affezionato tanto da non liberarsene al momento opportuno, facendo sì che la musica diventasse interesse assorbente e condanna, roccia di Sisifo senza speranza di realizzazione. 



Sebbene Davis le tenti tutte, compreso un provino a Chicago, dove si reca in autostop, in macchina con John Goodman e il suo valletto, un poeta beat che cita a memoria Peter Orlovsky, tra eroina e sigarette che, malgrado la richiesta, a Davis non vengono offerte. E quando Davis si esibisce, così si esprime il produttore: I don’t see a lot of money here. Forse, dice il produttore, Davis dovrebbe tagliarsi la barba. Ha sempre suonato da solo? No, dice Davis, infreddolito, rattrappito, di cui sentiamo l’essenza, che è l’essenza dei cani smagriti in inverno, abbandonati sul ciglio dell’autostrada. No, dice Davis, avevo un partner. E il produttore: Ti do un consiglio. Tornate insieme.
Ironia dei Coen, che è quella di Beckett: niente di più buffo, è Beckett in Finale di partita, dell’infelicità; ma è come quella barzelletta che ci hanno raccontato tante di quelle volte che adesso non ci fa più ridere.



Altra ironia: il medico che dovrebbe far abortire Jean non fa pagare un soldo a Davis. Perché? chiede Davis. Lavora pro bono? No, è che l’ultima volta non ha fatto niente, e Davis ha pagato a vuoto. Ebbene, Davis ha anche un figlio. Ma prima ritorna dal padre, in RSA, presso cui si esibisce. Ma il padre è un corpo che secerne saliva e che, al termine della canzone Shoals of herring, libera l’intestino. E vano è il tentativo, per via di debiti accumulati, di mollare tutto e imbarcarsi.
La vita è questa? sembra chiedere Davis, con gli occhi, a un Dio silente. La vita è veramente, come diceva Céline, inchinarsi ogni giorno alla stessa muraglia? Non può essere così fallimentare qualunque cosa faccia? Sto venendo punito? Perché Dio non mi restituisce nulla in cambio del sudore che impiego affinché ciò che faccio (per vivere!) abbia un valore, in un mondo che premia solo chi è in grado di fare politica, di adulare i potenti e di produrre merce commercialmente valida e vacua artisticamente? La vita è una grande ciotola di merda, ha detto John Goodman in auto, e non ti ricordi di averne cagata così tanta, ha detto per poi sprofondare nel sonno dell’eroina.



Un’ultima esibizione prima della fine.
E il palco, dopo che Davis ha cantato, è occupato da un profilo che conosciamo tutti: quello del menestrello di Duluth, Bob Dylan.
Davis esce e, di nuovo, viene picchiato a sangue dall’uomo nell’ombra, dall’uomo nell’ombra col cappello a tesa larga. Arranca, Davis, e vede l’aggressore perdersi nel traffico. E, nell’ultima scena, si rivolge a lui e vediamo Davis fare il saluto militare e dire: Au revoir.
Composizione ad anello. Chiusura del racconto a spirale, quasi bernhardiano, che ruota su se stesso, nel quale l’inizio coincide con la fine, nel quale l’inizio dà avvio a un paesaggio identico a quello di ieri, e identico a quello di domani. Perché domani sarà uguale, ritorneranno le stesse fitte ai reni, ritorneranno le stesse botte, nell’eterno ritorno del fallire, il fallire di chi ha investito il sangue nelle sue velleità, e che adesso soffre il freddo perché di velleità non si può vivere. Ma in qualche modo, facendosi ospitare, scroccando, intrufolandosi, creando brecce di sopravvivenza laddove nessun vincitore riuscirebbe a crearle, perché troppo abituato, il vincitore, all’opulenza, ecco, in qualche modo si farà.
E si fallirà di nuovo, come dice Beckett, e si fallirà meglio.

 

PREMIO ANTONIO ALIMENA
Al Regal Garden - Contrada Episcopani - Cosenza 




NUOVE ADESIONI

Altre Associazioni e autori che si sono aggiunti al Manifesto Appello in favore della dignità umana violata e della salvaguardia della vita promosso dai poeti Adam Vaccaro e Massimo Pamio.

VERSO LEVANTE APS, testata LA CALCE & IL DADO  

VERSO LEVANTE APS - https://www.facebook.com/versolevanteaps

LA CALCE & IL DADO - LA CALCE & IL DADO - https://www.facebook.com/lacalceeildado

PUBBLICAZIONI LETTERARIÆ – 

Pubblicazioni Letterariæ - letteratura | cultura | arte | costume - https://www.facebook.com/pubblicazioniletterarie

ORCHESTRA POETICA ITALIANA 

diretta da Beniamino Cardines  

BIBLIODRAMMATICA

Centro di ricerca produzione e promozione culturale APS 

Giornale di cultura “Odissea”

Rivista “Carte Sensibili”

Seguono i nomi di Autori che, dopo quelli già pubblicati, hanno aderito al Manifesto:

Mara Motta, Letizia Buccini, Maria Benedetta Cerro, Antonella D’Arezzo, Luigi Di Giampietro, Paola Di Gregorio, Lucia Guidorizzi, Mario Pizzolon, Claudio Romano, Vittoria Ravagli, Alessio Scancella, Tito Truglia, Lucio Vitullo, Lucia Marilena Ingranata, John Picchione.

https://libertariam.blogspot.com/2025/06/comunicato-stampa-i-poeti-in-difesa_16.html

 

 

  

sabato 28 giugno 2025

LA NATO È UN PERICOLO, LA DIFESA PURE
di Angelo Gaccione


Marco Travaglio
 
L’unica cosa seria che dovrebbe fare la Nato, non da oggi ma da quando sparì il Patto di Varsavia, sarebbe sciogliersi per mancanza di nemici. Invece, da allora, se li inventa”. Non sto citando né dagli scritti disarmisti dello scrittore Carlo Cassola, che lo ha ripetuto fino a quando è rimasto in vita; né dai miei, che lo vado ripetendo da oltre mezzo secolo. Sto citando il brano di apertura dell’editoriale di Marco Travaglio dal titolo “Si vis bellum spara balle”, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri venerdì 27 giugno. Per fortuna esiste un quotidiano come questo e per fortuna esiste un direttore di quotidiano che fa onore a questo vilipeso e umiliato mestiere. Ho una tessera di giornalista da oltre 40 anni, ma mi ritengo uno scrittore e non un giornalista. Quando una parte infame del nostro Stato ammazzava alla cieca cittadini della sua stessa nazione, cittadini inermi e incolpevoli, in una banca dove si commerciavano granaglie, sementi e capi di bestiame (la Banca Nazionale dell’Agricoltura) per cancellare la giovane e fragile democrazia italiana con il terrore della strage di Piazza Fontana a Milano, avevo solo 18 anni. Il comportamento dei grandi quotidiani e il disonore di cui si è macchiato il 99% dei giornalisti in quella tragica vicenda, cancellò subito ogni fiducia in questa categoria. Non fosse stato per una giornalista come Camilla Cederna e per alcuni organi di stampa indipendenti, non avremmo più potuto recarci in un’edicola per comprane uno. Non parliamo del conflitto contro l’Iraq: i megafoni, la voce più ossessiva della guerra, era costituita da giornali e televisioni, e poco importava se la balla dell’antrace era solo una menzogna. Scoprimmo che dei giornalisti si erano persino trasformati in spie e collaborazionisti al libro paga di poteri più o meno occulti. Oggi è lo stesso: la Nato si inventa i nemici, come scrive Travaglio; capi di Stato e di Governi che si comportano come veri e propri teppisti, come bulli di periferia, soffiano sul fuoco allo stesso modo che dei provocatori estremisti infiltrati, e una pletora di giornali e giornalisti non si pone alcuna domanda, non dubita, non analizza, e ti chiedi se siano anche loro estremisti provocatori infiltrati o beoti inconsapevoli e ignoranti come li definisce l’ex giudice della Corte Costituzionale Luigi Mazzella. C’è di che vergognarsi e non poco; e la mente va ai tanti educatori di asili, scuole, e collegi e ti domandi che cosa possono raccontare ai loro giovani allievi per educarli, che cosa possono dire di questi psicopatici che eleggiamo e reggono le sorti del mondo.


 
Una stampa corriva
 
Tutte le mattine mi arriva sul telefonino “la mazzetta” dei giornali, come si dice in gergo. Le altre “mazzette”, quelle della corruzione, prendono altre strade. Non apro che i pdf de il Fatto Quotidiano e di Avvenire. Verso gli altri ho maturato come un senso di ripulsa. Non ce n’è uno che non faccia l’apologia della guerra, che non parli di armi, bombe, missili e difesa. Non ce n’è uno che non parli come gli uomini di governo e di potere. Se avessimo una stampa decente e non compromessa, opererebbe un serrato e salutare controllo su tutti gli organi di potere difendendo la Costituzione. Metterebbe in guardia i cittadini sulle scelte di chi li governa. E quando costoro si comportano come provocatori ed estremisti, dovrebbero far fronte comune con i cittadini e dire che è dai loro irresponsabili governanti che si devono difendere. Sono loro il vero pericolo della patria e della nazione. 



Rendo onore pubblicamente a il Fatto Quotidiano: se questo giornale non ci fosse, molte delle sue firme non avrebbero un luogo dove esprimersi. A suo tempo, Cassola fu cacciato dal Corriere della Sera e dal quotidiano di Torino La Stampa solo perché osava scrivere contro la pazzia del riarmo e dei guerrafondai. Non ci fu un solo “intellettuale” che su quei giornali, o altri di un certo peso dove pure scrivevano, che ne prese le difese. Da allora ho imparato che la categoria è pessima: opportunista, vile, pavida, compromissoria, conformista. E vi si annidano i peggiori, quelli che un tempo facevano gli estremisti e i radicali, e oggi sono diventati i più zelanti assertori delle idiozie del potere. Sparano balle per attizzare la guerra, come scrive Travaglio, ma se ne guardano bene dal recarsi sui fronti di guerra a misurare la loro temerarietà, a provare il brivido della “bella morte”. Mancano i guerrieri in questo tempo, ma loro non partono; la pace intorpidisce, ma loro restano al sicuro comodamente seduti sulle poltrone dei talk show serali ben retribuiti.



Il concetto perverso di difesa
 
Ora, tutti noi disarmisti e contrari alle voci del padrone sulla guerra, ci aspettiamo una più rigorosa coerenza: fare il passo più ardito. La Nato va sciolta, non c’è alcun dubbio: la sua esistenza costituisce una provocazione costante e un pericolo concreto per l’ecatombe nucleare collettiva; ma a questa saggia convinzione ne va sommata un’altra: la presa d’atto che in era nucleare non è possibile alcuna difesa in caso di guerra. Il concetto di difesa ha perso ogni giustificazione dal momento in cui pochi ordigni nucleari, possono azzerare ogni forma di vita presente e futura nell’intero orbe terracqueo. Se non esiste difesa possibile, è insensato tenere in piedi alleanze militari e spendere per armarsi. Dunque, bisogna dire apertamente che rinunciamo alla difesa come dottrina politico-militare, e la sostituiamo con quella della cooperazione e dell’aiuto reciproco sia sul piano economico- scientifico-culturale, sia su quello sanitario e della cura dell’ambiente. Un principio che andrebbe scritto come articolo 1° della Costituzione contemporanea. Non c’è che questa presa di coscienza se si vuole promuovere un’autentica pace stabile e duratura. Lo vado ripetendo come un Catone solitario da decenni, e lo ripeterò fino alla noia: nessuna difesa è possibile in era nucleare perché saremmo tutti sterminati: pacifisti e guerrafondai, credenti e non credenti, governanti e governati. Riflettiamoci.   

 

 

A QUANDO LA NASCITA DELLA BEOZIA UNITA? 
di Luigi Mazzella


 
Ubbidite!

Il saccheggio della Grecia antica da parte degli Europei ha origini lontane nel tempo. L’Europa, divenuta una mera propaggine del Medio-Oriente quanto a religione, a usi e costumi e a guerre più o meno sante, si è sempre dichiarata figlia della civiltà greco-romana.
Pur dominato da concezioni assolutistiche, astratte, intolleranti e fortemente autoritarie di varia natura (religiosa-monoteistica o filosofica-platonica e poi hegeliana) il Vecchio Continente si è auto-proclamato “patria della democrazia”, citando come esempio e modello quella ateniese.
Ora, dopo gli ultimi avvenimenti politici, è giunto il tempo per l’ultimo saccheggio, quello riguardante il nome di un’intera regione greca: la Beozia!
Domanda: Perché appropriarsi del nome Beozia per sostituirlo a quello di Europa? 
Per gli Ateniesi antichi (ma non solo per essi) gli abitanti della Beozia erano stupidi, avevano fama di essere di tardo ingegno e mentalmente ottusi. Ancora oggi il termine “beota” si usa per indicare un inguaribile credulone, contento e con il riso che abbonda sulla sua bocca nonostante il precipitare degli eventi. In Italia, secondo il comico Totò sinonimo di “beota” era “cuneese”, ma oggi l’epiteto è caduto in disuso, per motivazioni che secondo alcuni notisti politici sarebbero politiche.
Perché, allora, l’Europa oggi dovrebbe cambiare nome e chiamarsi “Beozia”? 


I Beoti della Nato

Risposta: per una raggiunta consapevolezza del proprio status.
Basta, infatti, riflettere:
1) Gli Europei da un po’ di tempo erano “servili” nei confronti degli Statunitensi ma non si erano lasciati mai coinvolgere, in modo diretto, dalle ripetute guerre dello zio Sam. Quando però un Presidente degli USA, considerato in patria affetto da demenza senile e per tale motivo non ripresentato dal suo partito alla competizione elettorale, ha ritenuto, nei suoi ultimi tempi di governo,  di dichiarare, come membro egemone e importante della NATO,  di voler violare le norme del trattato atlantico (segnatamente: l’articolo 5, applicabile solo ai Paesi facenti parte dell’Alleanza) per fare guerra alla Russia, gli Europei (già sostanzialmente “neo-Beoti”) hanno deciso di seguirlo nell’avventura, dissanguandosi per fornire armi e altri sostegni ai battaglioni neo nazisti Azov dell’Ucraina di Zelensky.
2) Quando il Presidente statunitense, neo eletto, Donald Trump si è avveduto del macroscopico e madornale errore del suo incauto predecessore  e ha dichiarato la sua “resa” per tenersi fuori da una guerra  supposta: neverending, gli Europei (ancora una volta, “neo-Beoti”) hanno dichiarato di voler continuare a essere co-belligeranti, promettendosi reciprocamente e solennemente di riarmarsi per restare nella loro posizione chiaramente  “contra-legem”, ma ritenuta per occulte ragioni “difensiva”.
3) Quando, poi, Donald Trump, lontano intellettivamente (per sua fortuna e nostra disgrazia) sia dalla Beozia e sia da Cuneo, ha colto che ritirandosi lui dalla “pugna” poteva danneggiare l’industria statunitense delle armi e ha convinto, quindi, gli ex alleati Europei (sempre più decisamente “neo-Beoti”) a portare al 5% del bilancio statale le spese per la difesa (da chi?), gridolini di gioia si sono levati per inneggiare alla vittoria di Trump. Quest’ultimo, strizzando i suoi occhietti, ha potuto immaginare armati di tutto punto eserciti di cittadini ridotti, per esigenze militari (avvolte nella nebbia), in brache di tela!


Il Beota Olandese segretario della Nato

Conclusione: È facile immaginare che la proclamazione ufficiale della Beozia come nuova entità geopolitica avverrà con l’uscita del Nord America dalla NATO.

CONCORRENZA RELIGIOSA 
di James Hansen


 
Il Cristianesimo è la fede religiosa più importante della Terra. Secondo una recente ricerca del Pew Research Center 
sull’andamento delle principali fedi religiose mondiali nel decennio 2010-2020, dovrebbe contare attualmente - sommando le sue varie ‘denominazioni’- all’incirca 2,3 miliardi di aderenti, il 28,8% dell’attuale popolazione terrestre. Tuttavia, anche se il numero di cristiani continua a crescere in termini assoluti, l’incidenza di questi fedeli sulla popolazione mondiale di ‘credenti’ delle varie religioni è calata nell'ultimo decennio dell’1,8%; secondo i ricercatori, soprattutto a causa dì ‘disaffiliazione’, cioè la decisione di abbandonare la fede tradizionale, ‘dei genitori’, in Cristo. Nello stesso periodo, il numero di fedeli islamici è invece cresciuto dello stesso valore, dell’1,8%, facendo dell’Islam la religione mondiale in più rapida espansione. Siccome i credenti perlopiù ‘ereditano’ la propria fede dalla famiglia in cui sono nati, gli studiosi attribuiscono la crescita islamica principalmente al fattore ‘fertilità’. L’età media dei musulmani nel mondo è di circa 24 anni - un’età riproduttiva - mentre i non-musulmani hanno, globalmente, un’età media di 33 anni. Inoltre, la tendenza alla disaffiliazione - all’abbandono della propria fede - è meno presente nell’Islam rispetto alle altre fedi importanti, compresa quella cristiana. Lo stesso meccanismo ‘riproduttivo’ è indicato dagli autori della ricerca come la probabile spiegazione di un altro fenomeno emergente. Oggigiorno, la popolazione più ‘densa’ di cristiani (31%) si trova nell’Africa sub-sahariana e non più in Europa, storicamente il continente ‘cristiano’ per eccellenza, ormai caratterizzato invece sia dalla minore fertilità sia da un maggiore tasso di abbandono della fede. Un’altra fede ad avere perso terreno è quella buddista, l’unica religione mondiale a trovarsi nel 2020 con un minor numero di aderenti (324 milioni) rispetto al 2010 (343 milioni), un risultato dovuto ai soliti fenomeni di abbandono da una parte e di bassa natalità dall’altra. Le religioni indù ed ebraica hanno invece mantenuto tassi di crescita stabilmente in linea con la crescita della popolazione.

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