UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

lunedì 28 ottobre 2024

LE CAUSE MATERIALI DELLA GUERRA
di Alfonso Gianni


 
Quale è l’origine delle guerre contemporanee.
 
L’ondata nera non si è verificata in modo così travolgente, come si temeva alla vigilia del voto europeo - con la successiva non trascurabile eccezione dell’Austria - ma è soprattutto vero che il condizionamento delle destre sulle politiche europee e nazionali è enormemente cresciuto. Il crollo dei partiti di governo in Francia e in Germania ha messo in crisi l’asse franco-tedesco su cui poggiava la Ue fin dal suo sorgere. Questo si è incurvato, se non spostato, verso i paesi dell’est e quelli appartenenti all’ex campo sovietico. Gli effetti si sono fatti subito sentire nella stessa composizione della Commissione Von der Leyen. O si vedono nell’ultima deliberazione assunta dal Parlamento europeo che costituisce di fatto una dichiarazione di guerra alla Russia, concedendo all’Ucraina armi che per la loro complessità tecnologica solo esperti occidentali possono azionare. Non siamo ancora agli scarponi sul terreno, ma ai posti di comando dei sistemi d’arma sì. Il piano Draghi - e con minore incidenza quello di Enrico Letta - cui la Ue pare affidarsi punta su una finanziarizzazione il cui esito è la sempre più massiccia penetrazione delle grandi società di investimento Usa (The Big Three, cioè Black Rock, Vanguard e State Street) nella finanza europea e italiana. Lo dimostra, ad esempio, la consistente presenza di Black Rock in Unicredit e Commerzbank - la banca tedesca che gli italiani vogliono scalare, o l’incontro a palazzo Chigi tra la Meloni e Larry Fink, ceo di BlackRock, interessato al nuovo piano di privatizzazioni del governo ma ovviamente solo ai pochi bocconi prelibati che sono rimasti in mano pubblica, quali ad esempio Poste italiane. Se la proposta di debito comune europeo è in astratto migliore di quelle avanzate da coloro che vi si oppongono, il modo con cui è concepita e la finalizzazione che viene avanzata da Mario Draghi sono disastrosi, poiché, essendo finito l’acquisto da parte della Bce del debito dei singoli Stati, questi dovranno rinverdire la vecchia austerità contraendo la spesa pubblica e soprattutto perché gli investimenti saranno indirizzati verso la spesa militare o verso l’innovazione tecnologica dual use, rispondendo precisamente agli incitamenti statunitensi ad aumentare l’impegno in questo mortale settore.



La pressione sulla Ue e sui singoli governi nazionali per un cessate il fuoco in Ucraina e in Medioriente deve quindi intensificarsi: va bloccato l’invio di armamenti, va avanzata la richiesta, nel primo caso, di una conferenza internazionale sul modello di quella di Helsinki del 1975, per garantire sicurezza ad entrambi i contendenti, Russia e Ucraina, nel quadro di una pace realistica - demistificando l’ipocrisia della cosiddetta pace giusta -, smentendo le offerte di Marc Rutte su un ingresso imminente dell’Ucraina nella Nato, anzi postulando la necessità di un superamento di quest’ultima, le cui “ragioni” storiche di esistenza, una volta sciolto il Patto di Varsavia, sono da tempo svanite. Puntando, nel secondo caso, ad una immediata tregua sul fronte di Gaza e oggi anche del Libano, per riproporre una trattativa sulla base almeno delle risoluzioni Onu, che Netanyahu definisce una “palude antisemita”, per garantire uno Stato palestinese e l’integrità territoriale del Libano, nonché la fine dell’esplicito disegno del primo ministro israeliano di porsi come liberatore del popolo iraniano.



Se dobbiamo con tenacia percorrere queste vie per la pace, dobbiamo sapere che la forza per ottenerle non deriva tanto dai governi o dagli organi sovrannazionali, quanto dalla ricostruzione di un ampio, variegato, ma sostanzialmente unito popolo della pace. Quello che caratterizzò l’inizio degli anni duemila, pure non riuscendo ad evitare la sciagurata guerra in Iraq. Guardiamo a quanto è successo in Francia. Ora siamo di fronte a un colpo di stato bianco da parte di Macron, ma questo avviene perché è stato il nuovo fronte popolare a fermare le destre della Le Pen. E questo non deriva solo dalla capacità delle sinistre in quel paese di definire un programma e una linea di comportamento comuni, ma dal fatto che da molti mesi a questa parte in Francia sono entrati in scena movimenti sociali che pur con tutte le loro contraddizioni hanno arato il terreno per una sconfitta del macronismo e perché questa non si risolvesse in una vittoria della destra. Se vogliamo contribuire a costruire questo ampio movimento non possiamo appellarci solo a un pacifismo di principio - ben venga comunque - ma allargare e precisare la nostra analisi sulle cause della guerra e sulle conseguenze da trarre. I pezzetti della guerra si stanno allargando e si congiungono come in un puzzle



Come hanno dimostrato gli studiosi riuniti nel Fernand Braudel Center di New York, come Giovanni Arrighi e Immanuel Wallerstein, è in atto da qualche decennio una transizione egemonica mondiale da Ovest ad Est, che vede da un lato il declino americano e dall’altro l’ascesa della Cina. I due paesi fra cui analisti americani prevedono una guerra entro un decennio (e speriamo che si sbaglino). La vera forza che rimane in mano agli Usa è quella militare, mentre, seppure con qualche rallentamento, l’ascesa della Cina è evidente non solo in termini di forza economica, ma di capacità attrattiva verso altri paesi. La ripresa dell’azione dei Brics certifica questo. Così come lo sforzo di determinare una nuova moneta comune di scambio, avanzata di nuovo da Lula, è la risposta positiva al processo di dedollarizzazione in corso. Nel passato si sono successe altre transizioni egemoniche mondiali, come quella completata nella prima metà del Novecento tra Regno Unito e Usa. Quella fu facilitata da due guerre mondiali. Ora, al contrario, è solo un evento bellico di proporzioni globali con l’uso del nucleare, che può fermare quel processo, per i caratteri distruttivi che avrebbe, capaci di stravolgere in modo non prevedibile la storia del pianeta e dell’umanità.



Dobbiamo analizzare le cause materiali della guerra, evitando tanto forme di determinismo economico, quanto quelle di una sopravvalutazione della geopolitica che va tanto di moda. Se nel caso della guerra russo-ucraina la cosa appare più semplice, a condizione che la si cominci a datare almeno dal 2014, quando appunto i possenti venti dell’Ovest impedirono che si realizzassero accordi economico-commerciali fra Ucraina e Russia per aprire le porte alla Ue, sembra, ma solo apparentemente, che sia più difficile usare questa chiave per leggere il conflitto israelo-palestinese, così incistato di questioni religiose e miti della terra promessa. Ma il quadro si fa più chiaro se teniamo conto che l’eliminazione di Hamas, Hezbollah e degli Houti è funzionale a “bonificare” con un bagno di sangue il terreno per il passaggio del Corridoio Economico India-Medioriente-Europa (Imeec), una rete multimodale di migliaia di chilometri che partendo dai porti indiani, passando per quelli emiratini e sauditi, vuole culminare al porto israeliano di Haifa, che il potenziale hub per l’intero Mediterraneo. Si tratta di un progetto che da un lato vuole ricostruire le catene di creazione e trasmissione del valore interrotte dalla crisi della globalizzazione, dall’altro contrapporsi alla Via della Seta progettata dai cinesi. Non a caso sono gli Usa gli sponsor dell’Imeec. Ecco perché - anche se quella che ho appena accennato non è l’unica ragione - appena in Medioriente qualcuno è disponibile ad una trattativa, viene immediatamente fatto fuori dalle forze israeliane come è successo a Nasrallah. D’altro canto, che la guerra continui è interesse delle grandi forze economiche e finanziarie. Infatti dal 24 febbraio 2022 il valore di Borsa delle prime 14 aziende americane ed europee agenti nel settore bellico è aumentato del 59,7%. Dall’8 ottobre 2023 il boom dei titoli ha raggiunto il 124% (e la nostra Leonardo ne ha giovato assai). Insomma l’economia di guerra tira, soprattutto in Borsa.



M
a se le cause economiche della guerra fanno parte delle manovre del capitale su scala internazionale, se sono consustanziali al suo sviluppo e si ripropongono ormai senza soluzione di continuità, il nostro compito diventa più complesso.  Ma non vedo altra strada, se non quella di unire le ragioni etiche della pace e la critica al concetto stesso di vittoria - perché non c’è vittoria, come diceva Alexander Kojeve nelle sue celebri lezioni su Hegel negli anni Trenta del secolo passato, se “il vinto morto non riconosce la vittoria del vincitore” - alla lotta per modificare a fondo le condizioni economiche da cui nasce tutto questo orrore, allargando così il numero dei soggetti interessati  a questa lotta, che include ovviamente quella per la sopravvivenza dell’ambiente, siano essi popoli o parti di essi o strutture istituzionali. Non sto predicando banalmente la fine del capitalismo (aveva comunque ragione Fredric Jameson, ripreso da Mark Fisher, quando diceva che “oggi ci sembra più facile immaginare il deterioramento del pianeta terra e della natura che il crollo del tardo capitalismo”), ma quantomeno la necessità di agire coscientemente per mettergli i bastoni tra le ruote. Come potrebbe essere la creazione di un diverso ordine nei rapporti economici internazionali (una nuova Bretton Woods), con elementi di controllo sui movimenti del capitale, con una moneta che sostituisca il primato del dollaro e faciliti i commerci tra i Brics, cercando di promuovere in Europa tutto ciò che la renda autonoma dagli Stati Uniti e libera di giocare un ruolo internazionale non da ancella sia sul piano economico che su quello politico. In questo senso si muove l’appello comparso mesi fa sul Financial Times (successivamente pubblicato in Alternative per il Socialismo) ad opera di autorevoli economisti, a partire da Emiliano Brancaccio e da Robert Skidelsky, il grande biografo di Keynes. Da lì si è sviluppato un dibattito che abbiamo bisogno di tenere vivo. Un’utopia? Forse, ma come diceva un famoso matematico italiano l’unica utopia davvero irrealizzabile è quella di pensare che se ne possa fare a meno.

domenica 27 ottobre 2024

ANNI DI PIOMBO IN PROVINCIA   
di Alfredo Panetta
 


Erano gli anni dei turbini
sulle strade appena asfaltate
sui banchi di scuola
nella nostra immaginazione
sulla pelle, nelle fabbriche
politicizzate. Tra i tunnel
splendenti della nostra crescita.                    
 
Arrivava, come l’onda
d’un sasso gettato in un orrido,
la domanda sferzante:
cos’è, cosa sta succedendo?
Perché questo grido
lancinante dalle città?
Nulla è vero, suggerisce la terra
appena zappata, vero è il mais
che domani andremo a sarchiare.        
 
Dunque: è finto quel sangue
randagio sul lastricato
di Piazza della Loggia?
È finto l’omino in posizione
fetale, tumulato sui muri
tra Piazza del Gesù
e Botteghe Oscure?
E cosa sono quei 170
bulbi oculari che urlano
la loro fame di luce
a Bologna, Stazione Centrale?          
 
Tra i libri e il giardino di nonno
elaboravo a mio modo
il concetto di vero in politica.
Da distante ciascuno percepiva
il puzzo di polvere
delle grandi città. Tu che fai,
mi chiese un compagno
di tempo e di nebbie. Sei a favore
o contrario…e mi fece quel gesto
a tre dita che tutti sappiamo…
quel misero piano di semina.      

      
Sono altri i fiumi di fango
che la vita ci imporrà a guadare.
Altri i nodi, le ombre, i sentieri.
Al mio netto diniego del capo
quel compagno di acerbi principi
mi tolse per sempre il saluto.              
 
Così forse imparavo a guardare
negli occhi chi vince e chi perde
davvero. E in quante menti lontane
sa scovare e colpire il terrore.
La Storia dirà o non dirà
s’è stato soltanto un aborto
di senso quel tempo.
Un aborto di senso nel nostro
piccolo, piccolo cielo.                           

sabato 26 ottobre 2024

GLI INDIFFERENTI E I GENEROSI
di Angelo Gaccione


 
Il libro delle cinquanta poesie in dialetto luzzarese di Cesare Zavattini: si conclude con un “Concedo” in cui spiega i motivi per cui le ha scritte e in che tempi. Nella lettera che accompagna l’invio per pubblicarlo sulla rivista “Il Pierrot” mi scrive: “Congedo può essere considerata inedita. Pochi, pochissimi hanno letto Stricarm’ in d’na parola (Stringermi in una parola), e soprattutto perché non priva di una sua attualità dolorosa”. La lettera spedita da Roma porta la data del 30 maggio del 1980, la rivista sarà pubblicata dopo l’estate e precisamente nel settembre di quell’anno. Sono passati più di quarant’anni, ma non ho dimenticato queste parole, o versi prosastici che dir si voglia, di “Congedo”:
“Vi assicuro che andrei sul rogo per l’umanità, anche se vi prego di non sottopormi fotografie di singoli”. In effetti noi ci appassioniamo e ci sacrifichiamo volentieri per i grandi ideali, quelli che abbiamo ereditati dalla storia come beni supremi: la libertà, l’uguaglianza, la giustizia, la tolleranza, la pace e così via, e quando lo facciamo non pensiamo mai ad un tipo preciso di uomini e donne, ad una etnia, ad un popolo, ad un colore della pelle, ad una geografia. Abbiamo in mente una visione universale, astratta. Non dico la maggioranza, perché non è avvenuto in nessuna epoca che questa sensibilità abbia scaldato i cuori delle maggioranze, ma significative minoranze che hanno avvertito un forte sentimento sociale e hanno preso coscienza delle ingiustizie, si sono date con generosa abnegazione. Senza badare al proprio tornaconto, hanno speso la loro vita per migliorare quella di tutti. Ma faremmo altrettanto se dovessimo pensare a degli individui concreti, che so, a certi insopportabili vicini di casa, ai qualunquisti indifferenti, a donne e uomini con cui veniamo in contatto quotidianamente e che ci deludono per avarizia di sentimenti, invidia, meschineria, mancanza di empatia umana e via elencando? Sicuramente no: non sacrificheremmo per loro neppure un’unghia della nostra carcassa. Durante le tante iniziative di piazza contro i conflitti in atto, capitava che dei passanti rifiutassero persino di accettare un innocuo volantino in cui venivano spiegate le ragioni, o di firmare un semplice appello per far cessare il massacro. Si trattava di gente normale, di gente comune; persino di coppie giovani con bimbi. Non sarebbe costato loro nulla, mentre il diniego ci sconfortava. “Meritano di scomparire” dicevano alcuni davanti a tanta indifferenza. Non approvavo, ma capivo. Per fortuna si continua imperterriti a battersi per nobili ideali, prescindendo dalle foto dei singoli di cui parla Zavattini, e del loro demerito.

venerdì 25 ottobre 2024

DOVE DORMI LA NOTTE
di Anna Lina Molteni

 
Un racconto di Resistenza, pesca e socialismo.
 
Dove dormi la notte (MonteRosa Edizioni 2024) è un racconto di Resistenza, pesca e socialismo. Lo enuncia nel sottotitolo l’autore stesso, Michele Marziani, giornalista e scrittore riminese che da anni vive in alta Valsesia, alle pendici del Monte Rosa. La precisazione è solo apparentemente un’enunciazione di argomenti, in realtà anticipa il tono, a tratti volutamente dimesso, da “chiacchierata” tra amici, magari sulla riva di un fiume o di un lago, nell’inerzia forzata tra il lancio dell’esca e il momento fatale in cui il pesce abbocca, e scatta la gioiosa frenesia del recupero. A volte penso che la storia, quella grande con la esse maiuscola andrebbe scoperta e raccontata così, un boccone alla volta, legando un nome, una vicenda, una cosa che accade all’altra, rendendola viva, scrive Marziani che non si fa scrupolo di precisare che sarebbe molto bello: l’intersecarsi apparentemente casuale di fatti, persone, luoghi, incontri che raccontano come sono andate più o meno le cose. Ma non bisogna farsi ingannare da quel più o meno e accusare di pressapochismo, o peggio di falso storico costruito per rendere il racconto più affascinante, Marziani conosce gli avvenimenti, li riporta con precisione, né avrebbe potuto essere altrimenti, vista la guida dalla quale ha scelto di farsi accompagnare lungo le pagine: Giovanni Battista Stucchi (1899 - 1980), che nel racconto diventa lo zio Battista, in una parentela di mente e di spirito se non di sangue, e il suo Tornim a baita*, corposo libro di memorie che, nella parte dedicata alla ritirata di Russia, Mario Rigoni Stern definì uno dei migliori racconti di quella tragedia, insieme a La guerra dei poveri di Nuto Revelli e I lunghi fucili di Cristoforo Moscioni Negri.


Non è certo casuale che Tornim a baita riecheggi la domanda, un’invocazione in cerca di una certezza a cui aggrapparsi, che risuona più e più volte sulla bocca degli alpini ne Il sergente nella neve: Ghe rivarem a baita, sergent maggiù?
E, come annunciato nel sottotitolo, anche Stucchi è stato un partigiano, un pescatore, un socialista. La sua foto più celebre lo mostra in prima fila alla sfilata di Milano del 6 maggio 1945 con i comandanti del Corpo Volontari per la Libertà, tra Mario Argenton e Ferruccio Parri, gli altri sono Raffaele Cadorna, Luigi Longo ed Enrico Mattei. Quest’ultimo, compagno di lotta partigiana e amico dello zio Battista, che lo introdusse ai segreti della pesca al timolo in una giornata trascorsa sul Chiese, in cui le pause tra un lancio e un recupero si colmarono di discorsi “seri” di politica e di progetti per un Dopoguerra che si stava rivelando una lunga serie di disillusioni.
Nato nel 1899 a Monza, Stucchi ha attraversato il secolo alternando la professione di avvocato, alla partecipazione a entrambe le guerre mondiali. Volontario a diciotto anni nella Prima e capitano degli Alpini nelle Seconda; ufficiale di collegamento in Svizzera con inglesi e americani, dai quali però ottiene più promesse che azioni concrete, come lanci di armi, viveri e medicinali. Stanco di prendere il tè nelle belle ville del lungolago di Lugano e di chiacchiere inconcludenti, scrive a Ferruccio Parri che vuole imbracciare il fucile e rientrare in Italia. Con il nome di battaglia di Marco Federici, diventa comandante unico della Repubblica dell’Ossola, con un mandato assegnatogli dal CLNAI, che la dice lunga sulle sua capacità organizzative e di mediazione: “Provvedere con urgenza al coordinamento militare delle divisioni, brigate e reparti del CVL ivi operanti e cioè potenziare, attraverso una stretta unione e cooperazione, la lotta di resistenza e di liberazione delle formazioni partigiane (…)”. In sostanza, mettere d’accordo fazioni di matrici e visioni differenti.
Nel Dopoguerra, dal 1953 al 1958 è eletto alla Camera tra le fila del Partito socialista, ma è una parentesi breve. Torna alla professione, anche se continua l’attività politica come consigliere, sempre all’opposizione, nel Comune di Monza e si dedica alla stesura delle sue memorie, che saranno pubblicate postume nel 1983.


Ci sono tutti questi avvenimenti nel libro di Marziani, che però, esaurito il racconto propriamente biografico e storico, si pone in ascolto della “voce” dello zio Battista, a volte usando le sue parole precise tratte dal memoriale, a volte presumendole. E tali parole suggeriscono e aiutano a comprendere l’attualità, a scavare nei comportamenti degli uomini, in uno cambio continuo di prospettive e di luoghi, che via via si popolano di altre figure, tante, in qualche maniera a lui legate. Ognuna con il proprio pezzetto di storia e di vissuto, che alla fine si compone nel grande arazzo, mai terminato, tessuto dalla storia. Nomi noti come Umberto Terracini, don Carlo Gnocchi, Giorgio Scerbanenco e Mario Bonfantini.  Sconosciuti come Claudio Schivalocchi, l’attendente che, scrive Stucchi riferendosi agli alpini che lo avevano seguito nella fuga dall’Alto Adige alla Valtellina nel settembre del ’43: Oggi come oggi quello che vogliono è tornare a casa. Se li incitassi alla ribellione mi seguirebbe solo Claudio Schivalocchi. L’alpino, che prima di morire, chiede di avvertire il “suo” capitano rappresenta la fedeltà assoluta e generosa, nata nella condivisione del pericolo e delle privazioni, e mai venuta meno. Ugualmente umile e grandiosa.
C’è un passo in particolare di Tornarim a baita che raffigura l’uomo attraverso i cui occhi Marziani vede, e cerca di comprendere, anche le proprie esperienze ed è la trasformazione, operata dalle vicende storiche, dell’uomo singolo in uomo collettivo. Aderendo alla Resistenza, Stucchi ha dismesso i panni di alfiere dell’antifascismo dietro le persiane che era stato durante il Ventennio e preso anima e corpo negli ingranaggi dell’immane lotta che era nel genuino senso della parola lotta di popolo, scrive: Sembrava che l’individuo un tempo presente in noi fosse evaso dalla sfera del privato, fattasi insopportabilmente stretta, e fosse cresciuto a misura dell’uomo collettivo, parte cosciente e senziente di un tutto inscindibile.
Una lezione che travalica il tempo in cui fu concepita.
  
Note
* Giovanni Battista Stucchi
Tornim a baita: dalla campagna di Russia alla repubblica dell’Ossola
Vangelista - 1983
 

 

 

 

 

 

 

L’ATTIVITÀ PREZIOSA DEL GAM
di Angelo Gaccione



Il Gruppo Archeologico Milanese di Corso Lodi


Per il loro logo hanno scelto la scrofa semilanuta racchiusa in un ovale. Come Roma, anche Milano si è creata una leggenda per la sua fondazione. Dal 2012 hanno la sede in Corso Lodi al numero 8/c e l’acronimo che li contraddistingue è semplice: GAM, che sta per Gruppo Archeologico Milanese OdV, ed è un’associazione di volontariato, attiva a Milano da oltre quarant’anni, essendo stata fondata nell’aprile del 1980. La vicepresidente, da cui ho avuto tante informazioni, è Maria Ottaiano, e si è resa subito disponibilissima; come del resto Paolo Galimberti che sull’Associazione sa tutto. Il presidente in carica è Federico Colombo. GAM ha avuto fino a trecento soci e ne annovera tutt’ora 82; sono tutti volontari e questo per me è un dato prezioso: ho sempre avuto molta ammirazione per quanti danno senza nulla chiedere. 



La cosa meravigliosa è che si tratta di soci provenienti dalle professioni più diverse che condividono la medesima passione per l’archeologia. Studiosi, appassionati e gente comune impegnati in un compito nobile e indispensabile per la nostra cultura. Perché l’onere che il GAM si è assunto non è di poco conto: si impegna nella promozione, nella conoscenza e nella tutela del patrimonio archeologico, monumentale, storico, artistico e culturale, come si può leggere nei documenti e sul Sito. 



Ma in che modo avviene questo nel concreto? “In accordo con la Soprintendenza svolgiamo un’opera di sensibilizzazione nei confronti della cittadinanza per la protezione, la vigilanza e la cura dei siti archeologici dei loro territori” mi dice Galimberti. Hanno gestito scavi archeologici a San Candido in Alto Adige, a Rossilli Gavignano nel Lazio; hanno operato a Rivanazzano come all’Abbazia di Morimondo, tanto per fare qualche esempio. Un’altra importante attività riguarda la ricognizione. I soci del GAM si recano sui terreni arati e, grazie alla loro esperienza, alla pratica, alla conoscenza del territorio, proprio dalla tessitura di quest’ultimo sono in grado di capire cosa può nascondere di interessante. Basta un semplice frammento di laterizio affiorato dal terreno perché chi conosce il luogo può farsi un’idea. “È un’esplorazione inizialmente visiva” dice Galimberti, ma si tratta di un occhio attento, esercitato. 



Perché l’amore e la sensibilizzazione per un campo di ricerca così affascinante possa consolidarsi, è necessaria anche un’opera di divulgazione. Ed ecco allora il fitto calendario di attività culturali mensili che si svolgono nella sede di Corso Lodi o, in accordo con il Comune di Milano, in alcune biblioteche: quella di Corso di Porta Vigentina, quella di via Oglio, ecc. Alcune sono state tenute anche presso il Museo Archeologico. Sono incontri aperti al pubblico e possono essere seguiti anche da quanti non hanno una preparazione specifica. I viaggi di istruzione in Italia e all’estero, le visite ai musei, ai monumenti, alle cave, i momenti conviviali e quant’altro. Il supporto di una fornitissima biblioteca specializzata composta da 2.500 volumi che si possono consultare in sede e che trovate tutti debitamente catalogati sul Sito (www.archeomilanese.eu) fa il resto. A questa va aggiunta la rivista scientifica edita dal GAM dal titolo “Archeologia Uomo e Territorio” nata nel lontano 1982 in edizione cartacea e ora disponibile on line. AUT pubblica i contributi scientifici di volontari e professionisti che operano in ambito archeologico e in occasione dei 30 anni del GAM ha ospitato i contributi dei più insigni professori di archeologia di Miano. 



All’Associazione è stato di recente donato un intero scaffale di libri appartenuti alla studiosa Nicoletta Sfredda. Il Gam milanese collabora con altri gruppi dell’associazionismo archeologico sparsi in Italia e intrattiene relazioni anche internazionali. Aderisce alla Federarcheo, la Federazione italiana delle Associazioni operanti nel campo della ricerca archeologica. Per i suoi alti meriti culturali, nel 2013 ha ricevuto la Benemerenza Civica del Comune di Milano.

giovedì 24 ottobre 2024

QUATTRO NOVEMBRE

 

Non concedere nulla alla cultura di guerra
   
LOsservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università lancia un appello a docenti, genitori, studenti e studentesse per azioni di diserzione alla legge sul 4 novembre, a disertare tutti gli eventi o cerimonie ufficiali organizzati dalle FFAA e dalle FFOO nelle istituzioni scolastiche attraverso, se necessario, la dichiarazione di indisponibilità che abbiamo pubblicato sul sito. In secondo luogo, invitiamo i/le docenti a ragionare con le loro classi su quanto accaduto nella Grande Guerra, che non è stata solo un orrendo massacro, ma anche il contesto di maturazione del fascismo.
Per questo abbiamo organizzato una Giornata di studio, un Convegno di formazione e aggiornamento con esonero per il personale scolastico con annessa Conferenza Stampa online il 30 ottobre 2024 per discutere di questa deriva pericolosa per la nostra società.
https://osservatorionomilscuola.com/2024/10/22/30-ottobre-2024-convegno-formazione-aggiornamento-online-4-novembre-fuori-la-guerra-dalla-scuola-e-dalla-storia/

A MARCONIA




mercoledì 23 ottobre 2024

ISRAELIANI CONTRO LA GUERRA



Cittadini israeliani denunciano il proprio Governo e ci chiedono aiuto e reale pressione internazionale (embargo armi, sanzioni, mobilitazioni).
 
Noi, cittadine e cittadini israeliani residenti in Israele e all’estero, chiediamo alla comunità internazionale – alle Nazioni Unite e alle sue istituzioni, agli Stati Uniti, all’Unione Europea, alla Lega degli Stati Arabi e a tutti gli Stati del mondo – di intervenire immediatamente applicando nei confronti di Israele ogni possibile sanzione al fine di raggiungere un immediato cessate il fuoco tra Israele e i suoi vicini per garantire il futuro dei popoli che vivono in Israele/Palestina e nella regione e il loro diritto alla sicurezza e alla vita. Molti di noi sono militanti che operano da tempo contro l’occupazione, per la pace e la comune esistenza su questa terra. Motivati dall’amore per il nostro paese e per i suoi abitanti, siamo oggi estremamente preoccupati per il futuro. Siamo rimasti inorriditi dai crimini di guerra commessi da Hamas e da altre organizzazioni il 7 ottobre, e siamo spaventati dagli innumerevoli crimini di guerra che Israele sta commettendo. Purtroppo, la maggioranza degli israeliani sostiene la continuazione della guerra, per cui un cambiamento dall’interno non sembra attualmente possibile. Lo Stato di Israele sta percorrendo una strada suicida e semina distruzione e devastazione che aumentano di giorno in giorno.
Il governo di Israele ha abbandonato i suoi cittadini tenuti in ostaggio (e ne ha uccisi alcuni); ha trascurato i residenti del sud e del nord di Israele e con le sue azioni sta sacrificando l’avvenire dei propri cittadini. I cittadini palestinesi di Israele sono perseguitati e messi a tacere dalle autorità statali e dall’opinione pubblica maggioritaria. La repressione, l’intimidazione e la persecuzione politica impediscano a molti cittadini che condividono le nostre idee di unirsi a questo appello. Ogni giorno di guerra che passa allontana ulteriormente ogni possibile orizzonte per un accordo regionale di riconciliazione, per un futuro in cui gli ebrei israeliani possano vivere in sicurezza in questo luogo. Il raggiungimento di questi obiettivi richiederà lunghi processi, ma i continui massacri e le distruzioni devono essere fermati immediatamente!
La mancanza di un’effettiva pressione internazionale, la continuazione delle spedizioni di armi a Israele, il mantenimento dei partenariati economici e di sicurezza, delle collaborazioni scientifiche e culturali, portano la maggior parte degli israeliani a credere che le politiche del loro governo godano del sostegno internazionale. I leader di molti Paesi s’indignano e condannano Israele, ma queste condanne non sono supportate da azioni concrete. Siamo stufi di parole vuote e senza conseguenze. 
Per il nostro futuro e per quello di tutti gli abitanti di Israele/Palestina e dei paesi della regione, vi imploriamo: salvateci da noi stessi! Esercitate una reale e forte pressione internazionale su Israele per un immediato e duraturo cessate il fuoco”.
 
Alcuni dei 2.200 firmatari
 
 

אברהם ברמן

Avi Berman

תהילה אזרחי

Tehila Ezrahi

ים קדוש

Yam Kadosh

שרון לרנר גרבט

Sharon Lerner Gerbat

אור בן דוד

Or Ben David

קרן תורגמן

Karen Tordjman

עינת טוכמן

Einat Tuchman  

רחל חגיגי

Rachel Hagigi

עדן מיצנמכר

Eden Mitsenmacher 

יסמין שמעון ברונשטיין

Yasmin Shimon Bronstein 

גד לוי

Gad Levy

סיגל גדי

Sigal Gedi

  
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CORTEO PER LA PACE A MILANO




A ROMA AMBASCIATA AMERICANA




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