Il segno dei giorni: abolire e in fretta.
Di Paolo Maria Di
Stefano
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Da sinistra: Gaccione, Di Stefano, Seregni |
Quelli che abolire le province pensano possa essere la soluzione
non solo di problemi economici, ma anche di efficienza e di razionalità nell’organizzazione.
Così, da anni si pensa che le Province debbano essere cancellate, sostituite
(probabilmente, ma non è certo) dalle megalopoli oppure (o anche) da
associazioni di sindaci. E si corre a cercar di provvedere in tal senso, visto
anche che uno dei sistemi potrebbe essere costituito dal mancato svolgimento
delle elezioni. Con inevitabili dubbi e distinguo e rischi per la tenuta del
Governo. Il quale ha già fatto ricorso alla fiducia, rimedio sovrano come quel
balsamo di tigre di antica memoria oppure l’elisir del dottor Dulcamara.
Stessa cosa per l’euro e per
l’Europa.
Ovviamente, nulla vieta che si
pensi di poter fare a meno delle Province. Ma almeno un dubbio mi sembra
lecito: non sarebbe meglio pensare a riorganizzarle, attribuendo loro quella
funzione di armonizzazione delle (oggi e per ora inesistenti) pianificazioni
comunali di gestione del territorio e della cosa pubblica che è sola garanzia
di riduzione dei rischi dell’insorgenza di conflitti di interesse insiti in
ogni e qualsiasi attività di gestione, e in particolare in quelle relative alla
cosa pubblica? A me sembra una soluzione razionale: i comuni pianificano la
gestione del territorio di competenza; le province risolvono i conflitti di
interesse tra comuni e propongono pianificazioni “armoniche” alle Regioni le
quali, a loro volta, dirimono i conflitti tra le Province, proponendo allo
Stato pianificazioni di gestione praticabili senza conflitti. Infine, lo Stato
armonizza i piani di gestione proposti dalle Regioni e realizza quel piano di
gestione del territorio statale al quale in cascata Regioni, Province e Comuni
si dovranno attenere scrupolosamente, realizzando quanto in essi contenuto.
Piano operativo di gestione il quale, a sua volta, quando fosse finalmente
esistente un’Europa degna dell’attributo di “unita” verrebbe confrontato con i
piani di gestione dei singoli Paesi facenti parte dell’Unione, armonizzati i
quali sarebbe elaborato un piano di gestione degli Stati Europei ai quali ogni
singolo Stato dovrebbe attenersi.
E il disegno di un’Europa che
armonizzi i piani di gestione dei singoli Stati in una pianificazione generale
obbligatoria e coerente potrebbe essere la vera soluzione ai problemi che oggi
agitano il continente, concreta e praticabile alternativa alla solita proposta
di abolizione.
Quelli che abolire l’Euro l’hanno preso come inno di battaglia,
urlando con violenza maggiore del solito e inneggiando ad una uscita, se
necessario anche violenta. L’Euro deve morire. Almeno per noi italiani.
A me sembra che un eventuale
ritorno alle monete nazionali (per noi, alla lira) non solo sarebbe
antistorico, ma comporterebbe problemi – questi sì – irrisolvibili. Seppur sia
vero che la moneta unica è nata male, perché utilizzata come “causa”
dell’unità, e non come effetto, che ci sia è oramai un dato di fatto,
esattamente come un dato di fatto è la (lentissima e faticosissima) marcia
verso l’unità delle genti, e quindi degli Stati e delle nazioni. Allora il
problema non si risolve tornando alla lira oppure (perché no?) al fiorino o al
baiocco, ma educando la gente alla unità, in fondo convincendo gli individui
che la migliore tutela degli interessi di ciascuno si ottiene proprio lavorando
insieme, anche cercando di migliorare quello che si è raggiunto.
Soprattutto, educando ciascuno di
noi a ragionare in termini di “futuro della specie”, il che, tra le altre cose,
imporrebbe di ragionare in termini di cambiamento del sistema economico.
A proposito del quale nessuno osa
parlare di “abolizione”, così come tutti sembrano limitarsi ad auspicare una
“ripresa” che sa tanto di restaurazione di quei fattori che hanno determinato
tutte le crisi economiche degli ultimi due secoli, non solo, ma che operano
provocando accelerazioni in progressione geometrica delle crisi stesse, le
quali si verificano a intervalli sempre più ravvicinati e con virulenza
crescente.
Quelli che il pubblico (da abolire!) pensano sia il male tutt’altro
che oscuro della società e dello Stato Italiani. Che forse è vero, almeno nel
senso che da noi l’impiego pubblico è praticamente da sempre considerato una
sorta di diritto allo stipendio vita natural durante, senza obbligo alcuno di
contropartita.
Con qualche corollario al quale
non sarebbe male dedicare qualche considerazione in più.
Nella scuola pubblica, per
esempio, è tuttora diffusa l’idea che l’insegnamento sia non tanto e non solo
prerogativa femminile, quanto soprattutto una professione che impegna
l’insegnante soltanto per una ventina di ore settimanali e che gode di tre mesi
di ferie pagate, e dunque consente di dedicarsi ad altre cose.
E che comunque non può esser
retribuito di più di quanto non lo sia il salario di un operaio che lavora otto
ore al giorno.
Il che a parere dei più
giustifica gli stipendi insultanti.
E certamente non è vero che il
problema dell’istruzione pubblica si risolva occupandosi – per quello che si
può!- dell’edilizia scolastica, elemento assolutamente importante, ma non il
solo e, forse, neppure quello più urgente.
Occorre a mio parere che lo Stato
si renda conto che l’istruzione della quale è responsabile si deve realizzare a
livello di assoluta eccellenza, e questo comporta che sulla scuola pubblica
convergano tutte le risorse. Non solo quelle disponibili, che normalmente e in
Italia sono residuali, ma quelle necessarie, che comportano una pianificazione
di gestione accurata e dunque la creazione di un sistema scolastico
assolutamente efficiente e in grado di formare “prodotti diplomati e laureati”
in grado di vincere la concorrenza nel mondo.
La concorrenza utilizzi risorse
proprie, con ciò anche dimostrando che quel “libero mercato” a cui dice di
ispirarsi è una realtà.
E in un mercato libero non trova
alcuna giustificazione che un’impresa finanzi i concorrenti, salvo forse
qualche raro caso di tattica diretta a farne scomparire uno. Che sarebbe tutto
da vedere nel perché e nel come, e che è probabile violi leggi in vigore.
Il “pubblico” cui si fa
riferimento riguarda, ovviamente, anche settori diversi da quello scolastico, e
sembra che tutti siano uniti da fattori i quali tutti sembrano convergere verso
la presunzione assoluta di cui alcuni alti dirigenti (quelli cosiddetti
“apicali”) hanno dato anche pubblicamente prova. O non è forse vero che
responsabili di settori assolutamente inefficienti e comunque non eccellenti e
talvolta anche in perdita secca osano conclamare che nel caso di una revisione
(al ribasso) delle prebende sono pronti ad abbandonare?
Che vadano! Vedremo quale impresa
privata li assumerà alle stesse condizioni.
E quelli che la burocrazia (da abolire anch’essa!) naturalmente
bollano come causa prima dei mali italiani. Che appare verità sacrosanta, ma a
proposito della quale è forse necessario ricordare che i burocrati, di livello
alto o basso che siano, si muovono nell’ambito di leggi e di regolamenti almeno
in apparenza tutti elaborati per impedire che si possa risalire al
“responsabile”.
Figura mitica, peraltro, anche in
molte imprese private. Personalmente ne ricordo una il cui “mansionario”
stabiliva per ogni posizione che “risponde alla posizione superiore”.
L’attività più impegnativa per tutti, dipendenti, collaboratori e clienti era
il cercare chi fosse in grado di risolvere almeno uno degli innumerevoli
problemi cui una gestione di impresa – soprattutto se grande e di livello
internazionale – doveva e deve far fronte.
Così come per molti anni è accaduto
nelle banche italiane – e ignoro se la cosa sia cambiata, ma nutro fieri dubbi
in proposito – era impossibile risalire al responsabile, la burocrazia statale
sembra beneficiare di un sistema diretto a mettere al sicuro l’impiegato, il
funzionario, il capo ufficio, il capo servizio, il capo sezione, il capo
divisione, il dirigente, l’amministratore delegato e il presidente attraverso
una serie di norme di forza crescente, anche unite ad una collezione di simboli
di stato assolutamente invidiabile, alcuni dei quali destinati a durare fino
alla morte fisica del centenario titolare di pensione mille volte superiore a
quella di un impiegato normale.
E della burocrazia fa parte, a
mio parere, anche quella pletora di uscieri, autisti, inservienti, pagati mensilmente
più di quanto un operaio non riesca a guadagnare in un anno. E’ ovvio che lo
stipendio è meritato: sono i soli in grado di consentire ad un cittadino di
raggiungere il “megadirigente galattico” in grado di risolvere il problema,
fosse anche soltanto quello di sveltire la pratica.
Ma la burocrazia è un sistema in
sé, ha personalità e capacità di agire, e, esattamente come accade ad un essere
vivente, ha organi, sangue, nervi, muscoli. Toccarne anche uno solo significa
turbare un ordine costituito e perfettamente funzionale a se stesso, e dunque
mettere in forse l’esistenza dell’insieme.
Di qui, la difesa a oltranza,
realizzata attraverso la pronta assunzione di qualità proprie dei muri di gomma
e dei materassi.
Di qui, anche, la reazione ad
ogni cambiamento: il muro di gomma assorbe, mentre prepara il rimbalzo, secondo
una modifica propria della burocrazia della legge fisica secondo la quale ad
ogni azione segue una reazione eguale e contraria. La modifica consiste nella
circostanza che la reazione è in genere violenta e mortale per gli incauti che
hanno provato a cambiare le cose. E la legge suona dunque più o meno: la
burocrazia reagisce all’azione col silenzio e l’inazione finché non sia pronta
l’arma letale.
E se l’arma letale fosse
custodita negli arsenali dei sindacati?
Quelli che la disparità di genere (da abolire!) pensano possa
risolversi per legge sembra facciano l’impossibile per far credere di avere a
cuore la materia. In realtà, al di là della presa d’atto della capacità di
suggestione del tema, stabilire sulla base delle differenze di sesso e della
numerosità delle appartenenze il numero delle candidature e quant’altro non è
che la dimostrazione, da un lato, di una non-cultura che tende a trascurare il
merito e la professionalità; dall’altro, di un sessismo becero, capace solo di
tentare di far credere in una apertura mentale da parte del “sesso forte”(!)
pronto a cedere potere – e Dio solo sa quanto costa!- e dunque ad accreditarsi
come “aperto e lungimirante”.
La realtà è che se non si
interviene nella formazione a tutti i livelli, la forza fisica tenderà a
rimanere l’ultimo grado di giudizio in una questione nella quale la stessa
forza, oltre probabilmente a non esistere quasi più nella forma originaria, non
ha nessuna rilevanza nelle attività del pensiero.
Io credo di poter garantire che
le donne sono assolutamente migliori degli uomini. Le mie studentesse
all’Università non hanno mai fatto ricorso alla morte reiterata del nonno di
turno, e neppure ad altri mezzi ai quali più di un collega sarebbe stato
sensibile. E neanche mai hanno vantato appoggi e raccomandazioni di sorta,
com’è invece accaduto per qualche loro collega di sesso maschile, da promuovere
perché figlio del preside o amico dell’imprenditore.
Che sono, poi, alcuni dei criteri
che determinano nelle università l’attribuzione delle cattedre.