IL DISINCANTO DI PINTER NEL TEATRO
DI ANGELO GACCIONE
di Giovanni Bianchi
Il volume “Ostaggi a teatro”
raccoglie vent'anni di opere teatrali del poliedrico narratore e
drammaturgo. Testi che vanno dal 1985 al 2007 e che lasciano
presagire l'arrivo della grande crisi
Due figure sono scomparse da qualche
decennio dalla nazione italiana: quella dell’intellettuale
organico, celebrato da Gramsci, e quella del militante. Angelo
Gaccione, muovendosi au rebours, sembra averle resuscitate entrambe
se non sul palcoscenico almeno sulla pagina, esercitando con vigore
una militanza letteraria della quale s’era persa memoria.
Lo scrittore Angelo Gaccione (Foto: Fabiano Braccini) |
Lontano dalla didattica di Brecht come
dall’ostinazione filosofante di Pirandello, più prossimo invece al
disincanto di Pinter, Gaccione segue una sua strada che attraversa i
secoli e i generi, ottenendo un risultato inatteso e accattivante.
I testi della raccolta Ostaggi a
teatro (Ferrari editore, 2013, 208 pp.) hanno inizio nel 1985,
quando un’ironia generale non sempre ben posta provò a storpiare
l’eroe comune della politica, il militante appunto, nella
caricatura del “militonto”. Di chi cioè non s’era avveduto
della circostanza generale che una stagione s’era irrimediabilmente
chiusa e che l’uomo a una dimensione si incamminava lungo i terreni
asfaltati del pensiero unico.
Come reagire? Come esercitare la
critica? Come essere dentro e contro?
Il punto di vista
Come sempre il primo problema è
scegliere il punto di vista. È anche l’azzardo di queste note che,
per dar conto di una realtà non abituale dentro la finzione
organizzata da Angelo Gaccione, sanno di dover scegliere un’ottica
in buona misura arbitraria e fors’anche anarchica. Le pièces
arrivano fino al 2007, quando in autunno si annuncia e poi
rapidamente esplode la grande crisi finanziaria.
Quella sorta di apocalisse in scatola
che su diversi registri viene sciorinata davanti ai nostri occhi già
contiene le paure e gli orrori che si trasformeranno in angoscia e in
impotenza, in depressione generalizzata tra i popoli, tradotta la
mattina sulle pagine dei quotidiani e la sera nei telegiornali e nei
talk-show in grafici ed istogrammi che non annunciano niente di
buono. La parola che non viene pronunciata è il termine
“decadenza” che, probabilmente perché negato, rende più
inquietanti tutte le parole e accorcia drammaticamente la prospettiva
delle situazioni.
La militanza di Gaccione consiste
allora nel non dare nulla per scontato, nell’ostinarsi a
rappresentare il risvolto di situazioni che non riescono più ad
indossare la maschera del perbenismo. È tutta borghese questa
società e tutta piccoloborghese l’atmosfera che la pervade. Vi
sono tutte le reminiscenze e le crudeltà del borghese piccolo
piccolo, raccontate senza esitazione e senza insistenza. Insomma una
sorta di limitato universo concentrazionario nel quale le vite si
agitano senza poterne sortire.
I tempi diversi delle vicende si
stemperano in un tempo unico che raccoglie ed evidenzia le
similitudini della storia gettando ponti più sui significati che
sulla scansione dei periodi. È così che la vicenda del massacro dei
valdesi di Calabria si affianca allo stupro e alla conseguente
evirazione metropolitana in una Londra o in una New York dove gli
scenari sono assolutamente fungibili perché costruiti intorno ad una
dimensione interiore dove la dismisura sembra avere annientato le
persone d’ambo i sessi.
Gaccione non ama l’orrido, ma indaga
quel sentimento inestirpabile dal moderno che sono le paure
individuali e collettive. Su esse nascono gli Stati, una convivenza
hobbesianamente organizzata, una violenza che proprio per non poter
essere negata viene sottoposta ai tentativi e alle cure della
riduzione del danno e poi finisce il più delle volte per assidersi
in trono.
Nella cronologia dei testi il massacro
dei seguaci di Valdo sembra costituire una sorta di drammatica età
dell’oro della storia. Una storia tragica di ingenuità religiose
di quanti intendono seguire nudi il Cristo nudo, e il tallone di
ferro di una inquisizione che in ogni modo sembra ostentare la
devozione al potere demoniaco del potere.
C’è qualcosa di duramente luterano
nello sguardo di Angelo Gaccione, nell’inseguire i meandri della
violenza nello spazio pubblico come in quello privato. Un demoniaco
inarrestabile come inarrestabili sono le forme della violenza. E
l’azione militante della pace che senza produrre manifesti insegue
la propria immaginazione e le dà corpo nei personaggi, a volte a
tutto tondo psicologico, talaltra volutamente schizzati come
manichini. L’abbondanza del dialogo infatti si accompagna
all’assenza di parole e alla nuda presenza di corpi cui viene
conferita una inquietante gestualità simbolica.
La narrazione saggistica
Gaccione cioè sembra ripetere nei
dialoghi del suo teatro l’esperienza proustiana del narrare per
saggi successivi, che fu appunto la diagnosi che Moravia diede della
Recherche. Non mancano ovviamente gli sprazzi di luce, come nel caso
di quel convertito che cambia improvvisamente ditta lasciando
attoniti i concittadini e così si legittima e giustifica: «Non sono
pazzo, ma mi sono vendicato di questi miei nemici (le ricchezze) che
mi avevano fatto schiavo».
Ma se i seguaci ignudi di un Cristo
ignudo non sono legione, abbondano invece gli adepti di una violenza
le cui forme stupiscono non soltanto chi ha scelto – come Angelo
Gaccione – la pace come milizia principale.
Non mancano ovviamente le pause del grottesco, ma l’incalzare del ritmo è tale da togliere il respiro, anche quando un personaggio come la contessa O’Brian fa scialo di una sorta di minimalismo ironico e paradossale. E vi sono pure atti unici dove i gesti senza parole assumono un’eloquenza inquietante conferendo al silenzio tutte le tonalità del vuoto.
Non mancano ovviamente le pause del grottesco, ma l’incalzare del ritmo è tale da togliere il respiro, anche quando un personaggio come la contessa O’Brian fa scialo di una sorta di minimalismo ironico e paradossale. E vi sono pure atti unici dove i gesti senza parole assumono un’eloquenza inquietante conferendo al silenzio tutte le tonalità del vuoto.
La mimesi delle cronache è ben
rappresentata dal testo Ostaggi a teatro, dove è impossibile
decidere se sia più inquietante la parodia rispetto alla realtà. In
effetti non c’è atto unico che tenga: la violenza estende i suoi
tentacoli di piovra ed arriva a far sì che il violento sia in grado
di far sognare agli altri il proprio sogno: che è la grande lezione
di Simone Weil in Venezia salva.
In effetti è lo stesso teatro che
viene messo in scena e chiamato in giudizio. Interrogato senza sconti
sulla sua residua missione e sul destino. Parabola di una realtà che
ha paura di rappresentarsi, timorosa di se stessa.
Il grottesco come didattica? La paura
come pedagogia? La violenza come destino?
Il sentore di una morte diffusa in
tutti gli interstizi della vita… Eppure il discorso ogni volta
riprende perché anche la critica – quella militante – pare in
grado di eternamente risorgere. Così diversa, quella di Angelo
Gaccione, da quella dei critici professionali che hanno saltato il
fosso prima convertendosi alla pubblicità e poi dedicandosi a un
ostinato mutismo.
[Quotidiano "Europa" Domenica 1 Giugno 2014]
[Quotidiano "Europa" Domenica 1 Giugno 2014]