TRA SOFFERENZA E MONNEZZA
di Fulvio Papi
Barbari a Roma |
Come
filosofo non ho certamente la conoscenza dei testi poetici che hanno gli
esperti, tuttavia mi sento di azzardare che nella poesia là dove la rima
appartiene alla stessa struttura del genere, o in quella, più prossima al
nostro tempo, dove la rima può apparire secondo differenti occasioni, la parola
“sofferenza” non compare facilmente. “Dolore” occupa di solito lo spazio
poetico. Una ragione mi pare nel fatto che la rima di “sofferenza” è
facilissima, ma ha un inevitabile suono cacofonico. Nel parlare comune
“sofferenza” ha un ampio circuito semantico che, senza minimamente voler
imitare le esplorazioni sulle parole di Joyce, evoca situazioni dell’esistenza
che provocano pena, compassione, partecipazione. Quindi una grande ricchezza
emotiva, per lo meno nel senso che Hume assegnava ai sentimenti. Mi pare che la
parola “sofferenza” abbia due caratteristiche, complementari l’una all’altra:
per un verso ha come prevalente un valore referenziale (sofferenza per), contemporaneamente
ha un significato certo e plausibile quando si riferisce a un essere vivente in
ogni suo aspetto. C’è una sofferenza umana per mille ragioni, c’è quella degli
animali (dei quali gli studiosi hanno mostrato comportamenti assimilati a
quelli di gruppi e tradizioni antropologiche), e vi è sofferenza nei vegetali
come sanno bene tutti coloro che si occupano delle potature delle piante. Ma in
tutti i casi occorre che la sofferenza abbia una relazione con un essere
vivente, o, possiamo dire, con una forma di soggettività, anche se in questo
caso il discorso diviene difficile.
Il fiero pasto... |
Tuttavia i “padroni del
linguaggio” possono fruire di un campo metaforico ad altri escluso, e quindi
estendere l’uso di “sofferenza” a strutture inanimate con l’effetto di diffondere
cognizioni strane, inesatte, o addirittura tali da rendere impossibile una
comprensione a chi non abbia una grande esperienza dei giochi linguistici. In
questo caso l’effetto ignoranza diviene una potentissima ideologia, tanto per
dare torto a quelli che vedono il mondo ripulito da tutte le ideologie.
Adesso è comune per i
“media” (che poi non sono “media” per niente poiché sono la forma diffusa della
realtà) parlare di “sofferenza delle banche”. So che è un idioletto per
esperti. E tuttavia dalle banche fiorentine, che hanno costruito una forma di
civiltà, a quelle di cui parliamo oggi, ci sono state trasformazioni. Tuttavia
l’essenziale è rimasto: le banche possono guadagnare e possono perdere.
Scendiamo al linguaggio
realistico più comprensibile. Le banche “in sofferenza” sono quelle che hanno
perduto parti cospicue del loro capitale che poi sono denari che le persone
hanno affidato alla loro esperienza. Ora stando sempre all’essenziale, i casi
delle banche che soffrono (ma la vera sofferenza è di altri) paiono tre. Questo
è un elenco e non una teoria, e i tre casi possono essere accaduti
nell’identità di luogo e di azione.
Pantheon, gli spiriti magni e la monnezza |
1). Alcuni
dirigenti, quale che sia il loro livello e i loro rapporti operativi, sono un
club di incapaci. Non c’è da meravigliarsi più di tanto perché oggi vi è una
proliferazione di incapaci che investe un’ampia area professionale, cui, va
detto, corrisponde una parte esperta e impegnata, probabilmente meno nota. Nel
caso delle banche si tratta di un uso imprudente dei prestiti, un’attività
finanziaria da dilettanti o da qualcosa che assomiglia allo stile del “circolo
dei nobili”. Costoro dovrebbero ritirarsi a vita privata, consentita di solito
da liquidazioni che sembrano premi di una lotteria nazionale.
2). I
dirigenti hanno dato denaro a personaggi privilegiati, poiché l’Italia è piena
di potentati locali che sono uniti e solidali come non lo furono mai i nobili
dal tempo delle signorie. È una questione di inciviltà che
peggiora gravemente il mondo degli onesti che devono riparare, in un modo o
nell’altro, questi soprusi con il proprio denaro (di chi è all’origine quello
dello Stato?).
3). I
dirigenti hanno gettato i denari del prossimo secondo elevate concordanze,
interessi, sottintesi, ammiccamenti invisibili ma fulminanti, abitudini
interiorizzate come l’obbedienza nell’esercito. Tutto un sistema di relazioni
politiche e sociali che si riproduce spontaneamente.
Un quartiere di Roma |
Tifosi bielorussi a Piazza di Spagna |
Il più bello è che tutto
questo è evidente, ci sono giovani giornalisti della tivù che fanno farfugliare
scemenze a vecchi abituati da una volgare giovinezza alla falsità. E, allora,
dov’è la scopa? A proposito di scopa, ormai da giorni la retorica elevata è
dominata dalle immondizie che, a quanto pare, inonda le strade di Roma, senza
che a nessuno o a nessuna azione si possa subito attribuirne la causa. Nella
teologia classica siamo alla “causa sui” che, nel caso della spazzatura, vuol
dire che essa cresce da sola, senza che alcuno ne provochi la causa. Un bel
quesito logico da riportare sulla terra. Ma come e a chi?