INCONTRIGabriele
Scaramuzza conversa con Annalina Molteni
Scaramuzza: Non essendo tu particolarmente
nota ai lettori di “Odissea”, ti chiederei una breve autopresentazione, che dia
un’idea della molteplicità dei tuoi interessi, e dunque della tua personalità. Veterinario
o scrittrice? Molteni: Di
fronte a questa domanda mi torna sempre in mente la battuta di Max David, il
giornalista appassionato di cavalli: “Come giornalista sono un ottimo cavaliere
e come cavaliere un inarrivabile giornalista”. Scrivere e curare i cavalli non sono
inconciliabili, semmai è difficile non farsi dire che scrivo per hobby. Frase
che aborro.Comunque, devo molto alla mia professione che mi
ha portato a frequentare ambienti diversi, una vera finestra sul mondo.
Ascoltare, guardare, assorbire, metabolizzare, dimenticare e poi restituire con
le parole, costruendo storie che apparentemente non hanno nulla a che fare con
il vissuto, ma che ne contengono ognuna un frammento, in sostanza è lo scambio
tra professione e scrittura. Campagna, animali e libri, molto libri nella mia
formazione. Ne era pieno il mulino riadattato a scuderia nel quale ho abitato
per molti anni. Un ambiente familiare lontanissimo dal pragmatico varesotto nel
quale sono cresciuta (il primo senatore della lega lombarda, Giuseppe Leoni,
abitava nello stesso comune), ma che rimaneva chiuso fuori dalla porta di casa.
Dentro, c’erano i libri, la musica, il pianoforte e le poesie di mia madre.
Vivevamo un po’ da profughi.I miei studi hanno solo anticipato i due poli tra
i quali mi sono sempre mossa, formazione umanistica e scientifica: Liceo
classico, Facoltà di veterinaria, poi l’incursione nel Corso di giornalismo e
l’abilitazione all’insegnamento dell’italiano agli stranieri, è dal mondo degli
immigrati che è nato Concerto A Fes.
S: Ci daresti un’idea snella
della trama di Concerto a Fes? Quel tanto che basta per invogliare a una
lettura, beninteso. M: Nora, figlia di immigrati divenuta
una pianista classica, ritorna in Marocco per tenervi un concerto e deve confrontarsi
con un mondo estraneo, ma in effetti suo. Tre generazioni di donne si
incontrano in una vicenda che supera i confini familiari e si intreccia alla
storia marocchina, dal Protettorato francese fino ai giorni nostri. È una
storia di confini tra le due rive del Mediterraneo, da sempre punto di
incontro, e anche di scontro, ma alla fine matrice comune delle tre grandi
religioni monoteiste, e non a caso Islam e Ebraismo trovano espressione nel
vissuto della madre della protagonista, Hannah. Il romanzo procede per due piani narrativi: il
contemporaneo, costituito dal viaggio di Nora e il passato che ripercorre la
sua infanzia e i suoi studi in Italia e in Francia, ma nel quale trova spazio
anche la vicenda di sua madre, Hannah, vero perno di tutta la storia. Alla storia familiare si
intrecciano alcuni avvenimenti storici, tra i quali campeggia, unico tra tutte
le nazioni coinvolte nella guerra, il rifiuto del re del Marocco a consegnare
al governo di Vichy gli ebrei che dall’epoca della diaspora andalusa vivevano
gomito a gomito con la comunità islamica e che trova, nell’unico fiume
sotterraneo della musica sefardita e magrebina, l’esempio forse più
misconosciuto. Oltre a essere il mezzo dell’emancipazione di Nora, la musica
è il fil rouge che lega il presente al passato.
S: Quale idea della nostra
musica classica sottostà alla vita di Nora? M: A farmi scegliere che
Nora sarebbe stata una pianista classica è stato un incidente con un’allieva
del corso di italiano. In una lezione sulle maggiori città italiane, e Venezia
non poteva certo mancare, avevo montato una serie di foto accompagnandole con
musiche di Albinoni e di Vivaldi. Il tutto un po’ stereotipato, e anche
sottilmente ruffiano, ma l’impatto fu positivo. Ne furono affascinate (i miei
corsi sono sempre stati popolati da donne), tutte tranne una che, quando venne
il suo turno di commentare quanto visto, rimase muta, palesemente a disagio. Di
primo acchito pensai a una difficoltà linguistica, ed era strano perché la sua
padronanza dell’italiano era discreta, ma poi la sentii mormorare qualcosa in
arabo alla vicina. Dell’intera frase capii una sola parola, ma mi bastò: Haram!
Ascoltare quel tipo di musica l’aveva esposta a qualcosa di illecito. Un invito
alla trasgressione. Le altre sue conterranee non se ne erano fatte un problema,
ma lei, più osservante, sì. Non
ha mai saputo che con quella parola mi aveva dato la chiave per costruire il
personaggio che sarebbe stato il protagonista del romanzo che avevo in mente:
Nora sarebbe stata una pianista classica e una musica che non le sarebbe dovuto
appartenere sarebbe stato il mezzo della sua emancipazione… poi, nella vicenda
entra anche un motivo diverso a spiegare la sua attitudine musicale, ma questo
non lo racconto perché ha a che fare con il disvelamento finale che fa
procedere la trama e farei un cattivo servizio a un eventuale lettore.
S: Dici di disvelamento
finale, quasi un coup de theâtre finale; in realtà fa venire al pettine nodi
già presenti, sospetti creati ad arte, raccoglie assenze che aspettano di
essere poi motivate; lasci lacune nella narrazione che creano attese. Non
compare all’improvviso il finale, non è del tutto imprevisto: raccoglie fili
già sparsi. Concerto
a Fes è
ben costruito, ha tensione narrativa quasi da giallo, accorta sequela delle parti,
ma tornando alla musica: la musica è il fil rouge che lega il presente al
passato, scrivi. Ti riguarda personalmente? Hai fatto studi musicali: Sai
suonare il piano o altri strumenti? M: No, non so suonare. I
miei studi musicali si sono arrestati a sei anni di fronte a mia madre che,
dopo aver saggiato la mia attitudine al pianoforte, sentenziò: "Ci sono
già troppi strimpellatori in giro, non è il caso che ti si aggiunga anche
tu". Frase lapidaria che non mi ha però precluso di diventare un’ascoltatrice
appassionata e una frequentatrice di concerti.
S: Perché tanta resistenza
nella comunità marocchina, anche in Italia, a che Nora suoni il piano? Riguarda
un atteggiamento arabo in generale? Mi torna in mente Timbuctù, film terribile
ma importante. Certo, lì l’avversione è anche alla musica araba, alla musica
tout-court, da parte di frange estremiste e assassine; ma fa leva anche su
aspetti del mondo arabo? C’è però anche Said, Barenboim… D’altro lato, certo
hai visto il bellissimo film , dove i monaci di un monastero di montagna in
Algeria sono massacrati… M: Per gli arabi c’è musica
e musica, che può essere Haram o Halal, ma limitando il discorso al milieu nel
quale Nora è cresciuta, si tratta di immigrate di prima generazione, donne semplici,
originarie di una campagna arretrata e povera, alcune analfabete, che non si
pongono il problema di distinguere, rispettano la tradizione e basta, e la
tradizione dice che certa musica è fuorviante, distrae dalla preghiera. Rifiutano
a priori la musica classica che Nora studia di nascosto con la complicità di
sua madre, ma Hannah è una fassi che ha frequentato un liceo francese, è
cresciuta in una famiglia di ricchi commercianti, prima di arrivare in Italia è
stata un’insegnante e, sebbene indistinguibile da loro nell’aspetto esteriore e
molto attenta a non creare attriti, è innegabilmente diversa, appartiene al
Marocco colto della vecchia città imperiale che è stata Fes e in qualche
misura, come succederà a sua figlia, “puzza d’Europa”.
S: Che ruolo svolge
l’ebraismo nel romanzo? Il brano di Liliana Treves testimonia che a Fes la
presenza dell’ebraismo è stata rilevante. M: Concerto a Fes è
un libro di confini tra le sponde del Mediterraneo e sarebbe stato impossibile
trascurare l’ebraismo e le sue influenze, ad esempio gli scambi in campo
musicale, come sottolinea il saggio finale di Liliana Treves Alcalay sulla Tradizione
musicale andalusa nella società ebraica magrebina. La storia del Marocco è
strettamente connessa a quella dei sefarditi, cacciati dalla Spagna insieme
agli arabi nel 1492, che rappresentarono, fino alla fondazione dello Stato
d’Israele, una comunità numericamente numerosa, dalla quale uscirono figure
culturali di spicco e alti funzionari dell’amministrazione statale. I recenti “accordi
di Abramo” tra Marocco e Israele contribuiranno forse a riaccendere l’interesse
su questa pacifica convivenza secolare.
S: Hai scritto molto. Fosse
pensabile un’ideale graduatoria delle tue preferenze nell’ambito di quanto hai scritto,
come ci collocheresti quest’ultimo romanzo? M: Al vertice, ma
momentaneamente, in attesa del prossimo. S: Nei tuoi scritti si vede
il lavoro di lima sulle parole, la cura della composizione, la fatica, ma
nessuna fatica regge senza qualcosa che le dia senso. Di per sé la fatica non è
un valore, dipende da quello per cui è spesa. M: Sì, l’inspiration c’est
travail e senza fatica non si approda a nulla, ma hai ragione, la fatica di per
sé non è un valore, ma progettare e poi costruire un’architettura letteraria è
felicità della fatica, e spero tanto che i miei lavori non siano il masso di
Sisifo! Quanto al lavoro di lima sulle parole del quale parli, le parole sono i
soli mezzi dei quali dispongo scrivendo. Non ho suoni, né colori, solo il suono
e il colore delle parole. Da scegliere quindi con cura estrema per esprimere
perfettamente quello che ho in mente. È così facile sbagliare, ma non mi
perdonerei mai di averlo fatto per trascuratezza o sciatteria. Per il resto,
non sempre i risultati tengono dietro alle intenzioni, purtroppo.
S: L’intercalarsi dei tempi
e dei luoghi nel romanzo è evidente già a livello grafico nell’uso dei corsivi. M: I tempi della storia sono
due, passato e presente e l’alternanza grafica non ha altro scopo che
facilitare il passaggio dall’uno all’altro. Concerto a Fes è un romanzo
di frontiere, geografiche e non. La riflessione sui confini mi ha portato a
scrivere la seguente nota in appendice: Quali sono i confini
nascosti in questa vicenda? La domanda mi ha accompagnato per tutta la stesura, a
mano a mano che gli intrecci della storia tra le due sponde del Mediterraneo
venivano alla luce, fino a farmi percepire un confine fluido – risacca, la
definisce la protagonista, Nora – che lambisce i paesi del Maghreb, l’Europa
meridionale e il Medio Oriente. Il vecchio mondo all’interno delle Colonne d’Ercole,
percorso da correnti sotterranee, a volte sconosciute, altre volutamente
ignorate, che affiorano nella musica popolare, come espressione più fascinosa
della Weltanschauung mediterranea. Questa è la ragione per la quale
faccio seguire al romanzo il breve saggio di Liliana Treves Alcalay. “Dove non arrivano le parole, parla la musica,
ha scritto Ludwig van Beethoven”. Un’amica mi ha contestato che questa citazione sia
corretta, dicendomi che fu Hans Christian Andersen a dirlo, lo riporta Thomas
Mann nel Doctor Faustus. Andersen o Beethoven, e qualcuno tira in ballo
anche Wagner, è il senso che mi interessa, sempre per quel fil rouge del
quale abbiamo tanto parlato.
Molteni: Di
fronte a questa domanda mi torna sempre in mente la battuta di Max David, il
giornalista appassionato di cavalli: “Come giornalista sono un ottimo cavaliere
e come cavaliere un inarrivabile giornalista”.
Comunque, devo molto alla mia professione che mi
ha portato a frequentare ambienti diversi, una vera finestra sul mondo.
Ascoltare, guardare, assorbire, metabolizzare, dimenticare e poi restituire con
le parole, costruendo storie che apparentemente non hanno nulla a che fare con
il vissuto, ma che ne contengono ognuna un frammento, in sostanza è lo scambio
tra professione e scrittura.
M: Nora, figlia di immigrati divenuta
una pianista classica, ritorna in Marocco per tenervi un concerto e deve confrontarsi
con un mondo estraneo, ma in effetti suo. Tre generazioni di donne si
incontrano in una vicenda che supera i confini familiari e si intreccia alla
storia marocchina, dal Protettorato francese fino ai giorni nostri. È una
storia di confini tra le due rive del Mediterraneo, da sempre punto di
incontro, e anche di scontro, ma alla fine matrice comune delle tre grandi
religioni monoteiste, e non a caso Islam e Ebraismo trovano espressione nel
vissuto della madre della protagonista, Hannah. Il romanzo procede per due piani narrativi: il
contemporaneo, costituito dal viaggio di Nora e il passato che ripercorre la
sua infanzia e i suoi studi in Italia e in Francia, ma nel quale trova spazio
anche la vicenda di sua madre, Hannah, vero perno di tutta la storia. Alla storia familiare si
intrecciano alcuni avvenimenti storici, tra i quali campeggia, unico tra tutte
le nazioni coinvolte nella guerra, il rifiuto del re del Marocco a consegnare
al governo di Vichy gli ebrei che dall’epoca della diaspora andalusa vivevano
gomito a gomito con la comunità islamica e che trova, nell’unico fiume
sotterraneo della musica sefardita e magrebina, l’esempio forse più
misconosciuto. Oltre a essere il mezzo dell’emancipazione di Nora, la musica
è il fil rouge che lega il presente al passato.
M: A farmi scegliere che
Nora sarebbe stata una pianista classica è stato un incidente con un’allieva
del corso di italiano. In una lezione sulle maggiori città italiane, e Venezia
non poteva certo mancare, avevo montato una serie di foto accompagnandole con
musiche di Albinoni e di Vivaldi. Il tutto un po’ stereotipato, e anche
sottilmente ruffiano, ma l’impatto fu positivo. Ne furono affascinate (i miei
corsi sono sempre stati popolati da donne), tutte tranne una che, quando venne
il suo turno di commentare quanto visto, rimase muta, palesemente a disagio. Di
primo acchito pensai a una difficoltà linguistica, ed era strano perché la sua
padronanza dell’italiano era discreta, ma poi la sentii mormorare qualcosa in
arabo alla vicina. Dell’intera frase capii una sola parola, ma mi bastò: Haram!
Ascoltare quel tipo di musica l’aveva esposta a qualcosa di illecito. Un invito
alla trasgressione. Le altre sue conterranee non se ne erano fatte un problema,
ma lei, più osservante, sì.
S: Perché tanta resistenza
nella comunità marocchina, anche in Italia, a che Nora suoni il piano? Riguarda
un atteggiamento arabo in generale? Mi torna in mente Timbuctù, film terribile
ma importante. Certo, lì l’avversione è anche alla musica araba, alla musica
tout-court, da parte di frange estremiste e assassine; ma fa leva anche su
aspetti del mondo arabo? C’è però anche Said, Barenboim… D’altro lato, certo
hai visto il bellissimo film , dove i monaci di un monastero di montagna in
Algeria sono massacrati…
M: Per gli arabi c’è musica
e musica, che può essere Haram o Halal, ma limitando il discorso al milieu nel
quale Nora è cresciuta, si tratta di immigrate di prima generazione, donne semplici,
originarie di una campagna arretrata e povera, alcune analfabete, che non si
pongono il problema di distinguere, rispettano la tradizione e basta, e la
tradizione dice che certa musica è fuorviante, distrae dalla preghiera. Rifiutano
a priori la musica classica che Nora studia di nascosto con la complicità di
sua madre, ma Hannah è una fassi che ha frequentato un liceo francese, è
cresciuta in una famiglia di ricchi commercianti, prima di arrivare in Italia è
stata un’insegnante e, sebbene indistinguibile da loro nell’aspetto esteriore e
molto attenta a non creare attriti, è innegabilmente diversa, appartiene al
Marocco colto della vecchia città imperiale che è stata Fes e in qualche
misura, come succederà a sua figlia, “puzza d’Europa”.
S: Che ruolo svolge
l’ebraismo nel romanzo? Il brano di Liliana Treves testimonia che a Fes la
presenza dell’ebraismo è stata rilevante.
M: Concerto a Fes è
un libro di confini tra le sponde del Mediterraneo e sarebbe stato impossibile
trascurare l’ebraismo e le sue influenze, ad esempio gli scambi in campo
musicale, come sottolinea il saggio finale di Liliana Treves Alcalay sulla Tradizione
musicale andalusa nella società ebraica magrebina. La storia del Marocco è
strettamente connessa a quella dei sefarditi, cacciati dalla Spagna insieme
agli arabi nel 1492, che rappresentarono, fino alla fondazione dello Stato
d’Israele, una comunità numericamente numerosa, dalla quale uscirono figure
culturali di spicco e alti funzionari dell’amministrazione statale. I recenti “accordi
di Abramo” tra Marocco e Israele contribuiranno forse a riaccendere l’interesse
su questa pacifica convivenza secolare.
M: Al vertice, ma
momentaneamente, in attesa del prossimo.
S: Nei tuoi scritti si vede
il lavoro di lima sulle parole, la cura della composizione, la fatica, ma
nessuna fatica regge senza qualcosa che le dia senso. Di per sé la fatica non è
un valore, dipende da quello per cui è spesa.
M: Sì, l’inspiration c’est
travail e senza fatica non si approda a nulla, ma hai ragione, la fatica di per
sé non è un valore, ma progettare e poi costruire un’architettura letteraria è
felicità della fatica, e spero tanto che i miei lavori non siano il masso di
Sisifo! Quanto al lavoro di lima sulle parole del quale parli, le parole sono i
soli mezzi dei quali dispongo scrivendo. Non ho suoni, né colori, solo il suono
e il colore delle parole. Da scegliere quindi con cura estrema per esprimere
perfettamente quello che ho in mente. È così facile sbagliare, ma non mi
perdonerei mai di averlo fatto per trascuratezza o sciatteria. Per il resto,
non sempre i risultati tengono dietro alle intenzioni, purtroppo.
S: L’intercalarsi dei tempi
e dei luoghi nel romanzo è evidente già a livello grafico nell’uso dei corsivi.
M: I tempi della storia sono
due, passato e presente e l’alternanza grafica non ha altro scopo che
facilitare il passaggio dall’uno all’altro. Concerto a Fes è un romanzo
di frontiere, geografiche e non. La riflessione sui confini mi ha portato a
scrivere la seguente nota in appendice: Quali sono i confini
nascosti in questa vicenda? La domanda mi ha accompagnato per tutta la stesura, a
mano a mano che gli intrecci della storia tra le due sponde del Mediterraneo
venivano alla luce, fino a farmi percepire un confine fluido – risacca, la
definisce la protagonista, Nora – che lambisce i paesi del Maghreb, l’Europa
meridionale e il Medio Oriente. Il vecchio mondo all’interno delle Colonne d’Ercole,
percorso da correnti sotterranee, a volte sconosciute, altre volutamente
ignorate, che affiorano nella musica popolare, come espressione più fascinosa
della Weltanschauung mediterranea. Questa è la ragione per la quale
faccio seguire al romanzo il breve saggio di Liliana Treves Alcalay.