Libri
UN LUMINOSO SENTIMENTO DELLO SPAZIO
di Andrea Matucci

Adriana Gloria Marigo
La raccolta poetica di Adriana Gloria Marigo si presenta come una serie
di brevi composizioni, quasi tutte ispirate dal bellissimo paesaggio del Lago
Maggiore. Brevi perché tale è l’estensione narrativa di un’emozione, e brevi perché mai
si cerca di connotare con precisione l’ora del giorno o la stagione, sempre
evocate per fuggevoli indicazioni o, meglio, per rapide annessioni sinestetiche
con luce, acqua, aria, foglie. Né si tenta mai, in questo percorso, di seguire
un ordine temporale, quello breve dell’orologio o quello esteso del clima: le
fulminee evocazioni si susseguono sconnesse e disperse, senza alcun legame
consequenziale, a palesare ancora una volta quello che è sempre stato l’orrore
della poesia pura per qualsiasi forma di serialità narrativa. Poco incline alle
rime e alle assonanze, Marigo gestisce i suoi piccoli impianti metrici puntando
più sul contrasto e sull’interruzione ritmica che sull’armonia del verso
isocrono. Più volte, infatti, al brusco succedersi di versi lunghi (talvolta
endecasillabi perfetti, talvolta ipermetri, o endecasillabi privi di accenti) e
versi più brevi, senari e settenari - e fino a far “suonare” un endecasillabo
con un quinario - si affida il ricordo di quel blocco del respiro, di
quell’istante di irripetibile fusione dell’io nell’armonia del mondo. Perché di
questo si tratta: di un’armonia quale raramente si coglie fra mente corpo e
natura, fra infinitamente piccolo e infinitamente grande, fra attimo e eterno,
in una sapiente unione di un rinnovellato “Sentimento del tempo” con un
luminoso “sentimento dello spazio”.

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| La copertina del libro |
Tanto che è rarissima, in questi versi, l’esplicita presenza di un “io” che vede, pensa, parla: solo in cinque dei quarantacinque componimenti troviamo un verbo alla prima persona, e due dei tre, come ci avverte la Nota dell’Autrice, non appartengono a “quel” paesaggio. Ma non si tratta solo dello storico rifiuto della soggettività ordinante proprio di tanto ermetismo novecentesco: qui c’è di più, come un nuovo passo oltre il confine della soggettività, nell’esperire una vera fusione sensoriale, e quasi sensuale, del sé con l’altro da sé. Forse anche per questo è scarsissimo, come si diceva, l’uso della rima, quasi solo interna, e dell’assonanza, motivi che la Poeta separa da una classica ricerca di musicalità e riserva solo, in pochi memorabili casi, a una geminazione di parole che nascono, ungarettianamente, da un “porto sepolto” quasi inconscio di sensazioni: è il caso ad esempio di «si serra la sera sopra…», incipit di un testo in cui è peraltro particolarmente evidente l’alternanza “emotiva” del verso lungo col verso breve; ed è il caso di «maestoso / ramoso / ramo» di Sopra un albero maestoso, dove il progressivo puntualizzarsi di uno sguardo non individualmente identificato ci trasporta improvviso dentro la chiarezza breve di una sensazione. Oppure si usano, le assonanze, per produrre legami fra i testi che costituiscono quelli più banalmente narrativi della cronologia e della vicinanza spaziale: come «Ora di fitto oro in festa», di Improvvisa una lucertola che introduce a «ora / orazione / oro» del testo successivo. Ma è sulla parola, sulla parola poetica, che Marigo prevalentemente lavora: prima di tutto nella ricerca di accostamenti inusitati e illuminanti, e fino dal titolo: Astro immemore che ci riporta di nuovo a una parola cara a Ungaretti, e alla sua magistrale capacità di provocare corti circuiti semantici, cosi come in questa raccolta un «esecrabile nullora», le «ere turbinanti», la «minuzia ventosa», le «volte virtuose», e gli esempi sarebbero innumerevoli: tutto il viaggio senza movimento di questo libro è un percorso di sinestesie estese e incessantemente rinnovate, e quindi di continua forzatura del normale uso della parola per valorizzare la sua capacità evocativa. Non solo negli accostamenti ma anche, come già si vede dalle precedenti brevi citazioni, nell’uso di termini desueti, o comunque il più possibile lontani da un vocabolario quotidiano: ed ecco «lucenza», «venetico», «iemale». E se la fonte di quest’ultimo termine è sicuramente D’Annunzio, è l’ancora più alto magistero dantesco che insegna alla Poeta di oggi la possibilità di guardare una «incelestiata veste», o, ancora più bella, una «incorollata luce». Se dunque la poesia è l’arte della parola, nella sua inesausta ricerca espressiva che sia evocazione, indicazione, emozione prima e oltre il normale comunicare, quella di Marigo è poesia vera, pura come un cristallo.
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UN PARERE DI SILVIO RAFFO

Adriana G. Marigo
Finalmente
trovo il tempo e la temperie per leggere le tue «corsiere di luminanza» e le tue “annunciazioni” e
inebriarmi della loro “lucenza ninfale”... il tuo lessico è talmente singolare da dar l’impressione al lettore
di trovarsi in un acquario e al contempo in una serra. Fluorescente alchemico
metafisico e straniante. A volte si pensa al D’Annunzio meno aulico, altre
volte a Onofri magico e psicocosmico. Una poesia vegetalmente obliosa. A tratti
mi ricorda Picnic a Hanging Rock, il film di Peter Weir in cui le
fanciulle si perdono nei rocciosi anfratti della montagna sacra e vengono
rapite da Pan”.



