VERSO SUD-EST, DUPLICE VIAGGIO
di Claudio Zanini
Dalla
lettura Voglia di partire di Gabriella Galzio.
Due immagini mi sono balzate
in mente sfogliando, in prima lettura, le pagine di Voglia di partire, il bel libro di Gabriella Galzio. La prima è
quella suscitata dalla situazione alienante vissuta dall’autrice come marketing
manager nel corso d’un periodo della sua vita. È la figura di uno spietato
cacciatore di teste - George Clooney nel film Tra le nuvole -, che vive passando da un aereo all’altro, da un
Novotel e da un aeroporto all’altro, senza tregua; uomini e donne in grigio,
incravattati gli uni, in tailleur-pantalone col giro di perle al collo le
altre, entrambi proiettati intorno al pianeta in assurdi cieli di solitudine. La seconda, luminosa e contrapposta alla prima, mi è
stata subito richiamata alla memoria dal capitolo centrale relativo all’Hammam di Aleppo, visitato dalla
protagonista. È l’immagine sgargiante di un dipinto di Delacroix, Donne di Algeri (1834). Un’opera da cui
traspira quell’atmosfera di “beltà, ordine
e lusso, calma e voluttà” descritta da Baudelaire nel sonetto L’invito al viaggio (da Les Fleurs du Mal).
Assistiamo dunque
a un duplice movimento: al viaggio misterioso diretto a Cipro, se ne
sovrappone un altro, a ritroso: un inabissamento nella memoria più intima, ripercorrendo i momenti decisivi nella scoperta della
propria identità. Ogni paesaggio e luogo visitato risuonano dunque
nell’intimo, assumendo il significato d’una stazione di un ritorno a sé. “Un’identità sempre in
discussione, fluida, mobile, sempre in divenire.” (44)
Un’osservazione, a proposito
di identità. Anche la protagonista si sdoppia: la viaggiatrice sulla
nave è espressa in terza persona, l’altra più giovane e vitale, viaggiatrice
nella memoria, si esprime in prima. Diversa è anche la percezione (del corpo,
dei tratti del viso, dell’abbigliamento) che il lettore ha di lei (di loro).
Infatti, ci si chiede: due stati dell’essere in netta opposizione, alla fine,
fondendosi, ritroveranno l’unità?
Soltanto nelle ultime pagine si svela l’enigma che
accompagna l’inconsapevole e sperduta viaggiatrice. Non dirò di più, tuttavia
mi piace aggiungere che questa figura sola e smemorata sulla nave mi ha suscitato,
fin dall’inizio, un’altra immediata immagine. Un’altra epifania filmica,
naturalmente: da E la nave va, di
Fellini. È Pina Bausch nel ruolo d’una donna non vedente, vestita di nero, sola
sull’enorme transatlantico verso un futuro incerto. Non a caso, Pina Bausch e
la sua danza: l’incomunicabilità e l’erotismo toccante negli umili corpi d’ogni
giorno, dei quali anche in questo libro si parla.
La funerea
serialità degli alberghi Novotel e degli aeroporti è dunque l’inizio; il
magnifico luogo dell’Hammam, è
momento cardine che ci guida, lungo un itinerario in cui cadono certezze,
confini e steccati, verso l’epilogo in un giardino: un più intimo
giardino dello spirito, in cui accogliere l’anima che, come recita il detto
tuareg in esergo, “quando arrivi, siediti
e aspetta che l’anima ti raggiunga”.
Il percorso inizia con il superamento di un primo
ostacolo, materializzato nel “muro di Berlino”: il mescolarsi tra la folla festante quando il
muro crolla è momento di entusiasmo e vivificante apertura.
Un’ulteriore
violazione di confini è sperimentata nel mare di Normandia pilotando un
kajak, imbarcazione piatta e leggera, che diventa una prova verso e oltre i
propri limiti. Il kajak procede silenzioso, immobile malgrado la vibrazione
della velocità: meraviglioso istante d’equilibrio zen. Essere “parte del mare,
del porto, parte d’acqua, in movimento, alga, vento” (35).
A Cherbourg, c’è lo strano
incontro con Henry Miller, Anaïs Nin e un uomo dal volto in ombra: quasi un
segnale nel testo. Un fugace richiamo all’aspetto dionisiaco di Afrodite.
Siamo, tuttavia, ancora nel Nord dove l’eros,
seppur presente subisce la scissione, non illumina ma è velato da qualcosa di
torbido (40). “L’intelletto percepisce, l’anima contempla e si riunisce
all’oggetto contemplato.” Tuttavia la “coscienza di realtà” incrina questo
equilibrio.
La svolta decisiva avviene
quando la protagonista decide di lasciare il lavoro, poiché non intende
“invecchiare rimanendo larva” (una conversione a U sull’autostrada e via! verso
altri, opposti orizzonti e spazi) (45). Dopo anonimi non-luoghi come alberghi e
aeroporti, è la memoria trepida degli spazi materni e rassicuranti delle
chiese che la spinge a cambiare rotta. Ricorda quello S. Francesco a Cortona, dove si sente accolta in uno spazio
d’amplissimo respiro, “una navata unica, panciuta e solare… un grande ventre…
un grande utero capiente e illuminato” da cui poter uscire attrezzati e sicuri
di sé. Figura di un’interiorità
custodita perché un giorno potesse affiorare ed esprimersi. Una
riscoperta del sacro come umanissimo mistero che oltrepassa i perimetri delle
religioni e intimamente vibra con l’anima del mondo.
Quindi, l’interno di Santa
Caterina d’Alessandria a Galantina, luogo di silenzio e risonanza del sé (50).
Poi, quello della Chiesa trecentesca di San Pietro a Portovenere sovrapposta al
tempio di Venere. Un ritorno al sacrario della dea dove si celebrava la
rigenerazione dell’amore e la sua rinascita
attraverso la bellezza (55/56). Sentimento, quest’ultimo, che informa le grandi
passioni, trasforma gli equilibri consolidati, inducendo a morire nel vecchio
involucro per rinascere a forma nuova.
Riguardo alla bellezza, vorrei
mettere in evidenza come in questo libro - insieme alla risoluta affermazione
dell’eros in quanto elemento
imprescindibile dell’unità dell’essere umano -, venga messa in campo una
diffusa dimensione estetica, dove ogni cosa è pervasa dalla cognizione della
bellezza. La fine qualità poetica e mutevole della scrittura, spesso alta ma
anche “di strada, (…) con
tutto quel che può avere (…) di autentico (e) indecente” (15), sostanzia il
fluente corso della narrazione: dal resoconto dei più segreti
moti dell’animo e del cuore, alle descrizioni delle chiese e dei paesaggi
naturali dominati dal “sublime”; tutto è illuminato da uno stile in grado di evocare scenari seducenti che inducono nel lettore l’impulso di
mettersi in viaggio, di partire lungo rotte verso l’altrove (esteriore e interiore).
Tuttavia è a Gallipoli, città
dalle suggestioni orientali, dai cortili segreti evocanti l’incanto di
“arcaiche cristianità e magiche casbe” (54), che il rapporto interno/esterno
non è opposizione, bensì connubio; nei palazzi s’aprono corti e giardini
aperti; mentre vicoli intricati e angusti sboccano inaspettatamente sulle
turbolenze d’un mare sconfinato, che invita a “prendere il largo, accedere a un
senso superiore” (53).
A Linosa, invece, l’alternanza
e opposizione d’interiore/esteriore assume una forma estrema, risolutiva.
Sull’isola domina la presenza inquietante del cratere vulcanico, gola di
tenebra pronta a inghiottire. Da un lato, il timore di fronte alla potenza
tellurica della natura, che contrasta e frena; dall’altro, l’istintiva
attrazione per l’avventura, la sfida con la solitudine e le proprie ansie.
Insieme coesistono la “tentazione di fuggire e coraggio di provare”.
L’incontro con un rapace, in
cui la protagonista s’identifica, è figura mediatrice, animale libero che si
lascia addomesticare ma è pronto a spiccare il volo, vincendo le paure (63/65).
L’inconscio può trarre verso il fondo, inazione che paralizza ma, allo stesso
tempo, in quelle profondità di cui ben poco sappiamo, può sprigionare una
potenza vitale.
Un’altra situazione di
contrasto è espressa con la bella metafora di “un piede scettico, l’altro
rapito”, a proposito dell’atteggiamento, sia timoroso e cauto, sia desiderante,
durante l’ardua salita sul fianco in ombra della montagna; fino a scoprirne il
versante che, illuminato da un sole crepuscolare, s’accende d’un color oro
infuocato (68). Da un lato, ancora persiste il desiderio di chiudersi,
interrarsi nelle profondità telluriche del cratere (nell’ombra della psiche);
dall’altro cresce l’impulso d’aprirsi affidandosi all’improvvisa visione d’una
luminosità incandescente.
Se l’intelletto teme l’ignoto,
l’oscuro richiamo del corpo spinge ad affrontarlo. Non diffidando dei sensi ma
affidandosi a essi; aprendosi al richiamo dell’eros che di fronte al mistero non arretra, bensì, mentre vi si
addentra, trema di piacere e smarrimento.
Il corpo si trasforma, diventa
interamente natura provandone il fervore selvaggio. Cambia involucro, pelle,
squame, in una rinascita attraverso stadi anteriori. Riscopre una creaturalità
preumana e innocente prossima agli animali, di cui prova l’ancestrale ebbrezza
e paura (74); nella metamorfosi ritrova, con l’anima animale (Hillman), la
capacità d’emozionarsi e la stupefacente continuità empatica che ci rende
partecipi dell’intero cosmo vivente.
Questo anelito a una nuova
nascita si fa presente, con maggior forza a Creta, meta intermedia del viaggio,
luogo in cui le donne vivevano libere nelle prime comunità arcaiche matriarcali
(76), e mitico luogo di “morte partoriente”, di vita, morte e rigenerazione;
quindi di rinascita interiore.
Al fecondo e crescente smarrimento dell’Io e a questo
potente desiderio di rigenerazione corrisponde, per la protagonista, il congedo
dalla psicanalisi. Soprattutto dalla sua ristretta e soffocante stanzetta,
spazio angusto dove sarebbe arduo liberarsi e, tantomeno, morire e rinascere per
abbracciare l’ampiezza d’orizzonti liberi e primitivi, selvaggi, del tutto
estranei ai protocolli sovente troppo razionali della psicanalisi.
Quest’ultima, tuttavia, nelle pagine finali, insieme allo scioglimento
dell’enigma della misteriosa viaggiatrice, ha un inaspettato e gratificante
risarcimento.
Il viaggio lungo il filo del tempo ritrovato ricorda
Aleppo, dove c’è l’esperienza centrale della narrazione, all’interno
dell’Hammam Yalbougha al Nasery (84). Ne abbiamo già fatto cenno all’inizio
citando il dipinto di Delacroix e i versi di Baudelaire che restituiscono
l’atmosfera del luogo, dove tutto, “è beltà, ordine e
lusso, calma e voluttà”.
L’Hammam è
labirinto in cui si snodano cunicoli invasi da vapore profumato, da musica
sensuale e una luminosità soffusa. Rammemora, la protagonista, come fosse stata
accolta dagli occhi nerissimi e scintillanti di una donna araba, suadente e
sensuale. E si abbandonasse al suo sguardo carezzevole, al suo morbido
massaggio, in un ritorno all’infanzia. Sono i rimossi ricordi corporei e
famigliari che riaffiorano, in una sensualità innocente e intatta, quasi
nell’intimità di un accogliente ventre materno.
Hammam
deriva da harem, il luogo della
femminilità sacra e inviolabile; un rifugio per le donne in difficoltà. Uno
spazio riservato alle donne da cui gli uomini sono esclusi.
Dopo le esperienze forti nelle aspre profondità del
cratere, l’Hammam si rivela ricovero
materno, visitato anche da un eros
dolce, sublime luogo di risveglio dei sensi. Uno spazio di rapporti privi di
sopraffazione dove si ridimensiona il “primato apollineo del logos”, affrancato
dal dominio instaurato dal patriarcato storico. “Fuori dell’universo reale,
Hammam (è) spazio di gioco, spazio di distensione, di chiacchiere, di risa e grida,
di oblio e scorze d’arancia.” (Férid Boughédir).
È un ambito immaginale in cui diventa possibile
“procedere verso le nozze sacre dell’uomo nella ricomposta scissione dell’eros dal sacro avvenuta con la
patriarcalizzazione”.
Non a caso, a confermare tale riconciliazione, qui c’è la
scoperta della singolare e magnifica sensualità del Cantico dei Cantici (97). Voce di un mondo arcaico - estranea al
maschilismo patriarcale della Bibbia -, che ancora pone al centro l’amore
erotico tra uomo e donna vissuto come sacro entro i confini di un paradiso
terreste non ancora violato dalla colpa del peccato.
Dopo il ritorno a casa (il suo nostos) in una Milano trasfigurata - luogo intermedio dove non
dominano il pieno né il vuoto, l’aperto né il chiuso, l’eros né la ragione, la discesa né la salita -, riprende un nuovo
inquieto migrare in luoghi a lei cari (caffè e chiese del quartiere Ticinese).
È un viaggio più intimo, ricco di vita immaginale. Una
più distaccata rielaborazione del vissuto, dove l’Io rigenerato si confronta
con l’avvilente realtà contemporanea. È necessario rientrare in contatto con la
propria anima, “aspettare che ti raggiunga”, dopo le suggestioni del viaggio.
Tuttavia liberarsi del tutto, spiccare il volo con la
propria anima è arduo se non impossibile; significa amputare ogni relazione
nella solitudine di spazi inabitati. I più rientrano nella normalità soffocando
una parte di loro stessi. Assistono delusi allo sfumare del loro viaggio pieno
di magnifici propositi, come un’incantevole illusione (119). Quanti uomini
mediocri lei ha visto passare, presi dall’incantesimo d’una donna, quindi
perdersi nel miraggio d’un amore illusorio (122). In bilico tra amore eterno e
vuoto eterno, due menzogne che si fronteggiano. La vita è in mezzo, un discontinuo
fluire in cui è arduo destreggiarsi.
A proposito di uomini; in questo emozionante duplice
viaggio non c’è antagonismo rispetto al maschile, in quanto le sue figure non
appaiano rivali del femminile; bensì, emarginate, sono ombre sfocate sullo sfondo.
Spicca, tuttavia, quella di Björn, maestro
di kajak che, nel mare di Normandia, guida la protagonista a governare la barca
tra l’impeto dei marosi e, dopo averla ammaestrata, la lascia sola e libera
affinché sperimenti i propri limiti. Altre figure, molto meno evidenti, si
muovono nell’ombra: l’Henry Miller di Cherbourg, il “caro amico dal volto
velato”, l’uomo che, nell’hammam
l’accompagna come un’ombra, il marito da cui ha divorziato, altri protagonisti
di brevi incontri.
Tra queste e altre figure, Galzio nota amaramente che
rari sono coloro che levano gli ormeggi e, fuggendo le illusioni, si
avventurano aprendosi al volo libero e solitario ma incognito. Si tratta
d’incondizionata libertà o fuga illusoria entro silenti spazi siderali, dove è
impossibile riconoscersi (per assoluta assenza di specchi, visto che l‘altro è specchio, spesso impietoso)?
Lei, finalmente libera (129), a Milano acquista una casa,
o meglio un giardino per l’anima. Una
nicchia di sopravvivenza – fuori “dall’universo
reale” (ma è possibile?) -, estranea a quell’inerte e sterile Occidente che
relega nei consueti e sclerotizzati ruoli. Uno spazio ancora vuoto, questo Hortus Conclusus, in cui, tuttavia, si
percepisce il confuso e struggente desiderio di accogliere “l’Anima Mundi”; apparizione
sfuggente, questa, che, - come è detto nei bei versi di Galzio - abita in un
giardino segreto, “non vi appartiene, è
l’ospite… come l’amore… ogni tanto vi apparirà l’anima venuta a visitarvi…” (133/34).
O meglio, quell’anima altrui,
che forse sempre ci attende sulla soglia?
Gabriella Galzio
Voglia di partire
Moretti&Vitali, 2021
Pagg. 160 € 12,00