IL FANTASMA DELLA FAME
L'Italia che si rivela tra le
corsie
del supermercato
di Antonio Lubrano
Con questo scritto Antonio Lubrano inizia la sua collaborazione con "Odissea"
Nei corridoi delle stazioni metropolitane quelli che tendono la
mano sono ormai una moltitudine. Chi tace mostra invece un cartello con una
scritta perentoria: “Ho fame”. E ogni volta che mi imbatto in questa
dichiarazione spudorata mi torna in mente la jonta. Avevo dieci anni nel
1942, un'epoca che per chi l'ha vissuta vuol dire guerra, tessera annonaria,
pane razionato; e mia madre aveva assegnato a me l'incarico di andare al forno
ogni mattina. Alla nostra famiglia toccava un chilo di pane ma il palatone non
era mai un chilo, sicché per raggiungere il peso giusto occorreva una giunta,
poco più di una fetta. Ovvero la jonta. Guai a mangiarla per strada,
tornando a casa: erano schiaffi sicuri. La signora Clotilde ne faceva una
questione di giustizia: “Che forse la tua fame ha più diritti di quella delle
tue tre sorelle..?”
Ecco: la jonta nel mio paesino
d'origine rappresentava tutta la nostra involontaria miseria di cittadini
trascinati in guerra dal fascismo. Il simbolo stesso della fame. Dopo
l'armistizio ci sono voluti almeno due decenni per far sparire la parola fame
dal nostro vocabolario quotidiano. Gli Anni Sessanta infatti sono passati alla
storia come quelli del benessere. Ma ora che cosa sta succedendo: siamo un
paese di disperati o di ostinati fiduciosi?
Mi colpì alcuni mesi fa il rilievo dato
dai quotidiani milanesi alla notizia di un anziano sorpreso a rubare in un
supermercato. Gli bloccano due borse piene di cibo per un valore di 36 euro.
“Con la pensione non vivo”, dichiara l'ottantenne appena riesce a risalire
dall'abisso della vergogna. Eppure le fredde statistiche ci dicono che casi del
genere dal 2008 in poi sono aumentati del 40%. Sta di fatto che il titolone ha
avuto per me la violenza di uno schiaffo in faccia. Forse perché improvvisamente
attraverso questo triste episodio si è materializzato ai miei occhi il fantasma
della fame, un fantasma che sembrava dissolto per sempre, cancellato più che
dimenticato. Di sicuro c'è che la piccola storia del “pensionato-ladro” può essere
letta oggi come la spia dolorosa di una indigenza collettiva, pronta a
dilatarsi oltre ogni misura.
Le cifre, del resto, sono fin troppo crudeli.
Se so fare bene i calcoli venticinque più
sedici fa 41. Ossia quarantuno milioni di italiani, su una popolazione di
sessanta milioni, che campano male. Una intera nazione allo stremo, dove i
privilegiati rappresentano sì e no un terzo degli abitanti. Possiamo crederci o
c'è qualcosa che non funziona? Il dubbio nasce da una considerazione dello
stesso Eurispes: “La verità è che in Italia manca un sistema di rilevazione
serio che prenda in considerazione parametri più aderenti alla realtà. Se si
pensa, infatti, che il parametro per stabilire la soglia di povertà è 990,88
euro di reddito per un nucleo familiare formato da due persone vuol dire
pensare che una famiglia che tira avanti con mille euro al mese sia benestante.
Un’assurdità”.
Sta di fatto che il fantasma della fame
prende corpo oggi per troppi italiani. Le telecamere dei supermercati ci
raccontano con freddezza il travaglio psicologico del vecchietto che ruba.
Intanto che cosa ruba: la confezione di prosciutto crudo, quella da due fettine
di carne, un trancio di grana padano o di reggiano, la scatoletta di tonno… E
comunque sceglie sempre tra le offerte il prodotto che costa di meno, quasi a
tacitare la sua coscienza.
Subito dopo il furto è preso dal rimorso:
c'è chi lascia sul primo scaffale che capita la confezione rubata e chi riporta
la merce laddove l'ha prelevata. Il “telescrutatore” ci dice che questi
tentennamenti durano dai dieci ai 15 minuti. E chi li studia da anni rileva l'ingenuità degli anziani quando
infrangono(o tentano) la barriera dell'onestà. Si presentano alla cassa e
cominciano a tremare dalla paura. Pagano quel che hanno messo nel carrello e si
avviano all'uscita sperando di averla fatta franca. Di solito il sospettato viene
fermato da una commessa con la scusa che forse nello scontrino c'è un errore. E
qui il povero pensionato (nel senso più vero dell'aggettivo) confessa subito.
“Per carità, non ditelo ai miei figli”, è poi la patetica raccomandazione di
qualcuno.
Ma basta a salvarci
il sentimento di pietà che tutti noi - cittadini, lo Stato, i politici -
nutriamo o diciamo di nutrire per questi ladri involontari?