2034???
Devo ammettere di avere inteso in maniera superficiale, o ristretta, il fenomeno Renzi ed il renzismo. L’ho inizialmente preso per un semplice cialtrone, un guitto dell’ambiente di twitter, un ambizioso arrampicatore con metodi più o meno berlusconiani, un furbo parvenu che sfruttava le ambiguità, le ipocrisie e la burocrazia di partito del PD per costruire un potere personale. Come tanti homines novi della storia, dai tempi di Cicerone a quelli del totalitarismo.
Mi devo ora ricredere. Renzi
costituisce un fenomeno molto più grave e pericoloso di quel che sembrasse a
prima vista. Una mutazione “genetica” ben più profonda di quel che fosse il
craxismo per Berlinguer. In altri termini, Renzi non è il sintomo di una
tradizionale arretratezza etico-culturale italiana, come appunto potevano
essere Craxi o Berlusconi, o le vecchie gerontocrazie postcomuniste. Renzi è il
segnale della punta estrema della malattia della modernità, di quella deriva
antropologica che ci sta sottilmente pervadendo (prova ne sia il consenso –
forse effimero? – con cui sta abbagliando l’opinione pubblica): una volta
tanto, l’Italia non insegue, è all’avanguardia dei tempi!
Provo a schematizzare le forme
culturali tipiche che si riassumono nella figura di Renzi, gli stereotipi ed i
cliché etico-comportamentali che il renzismo porta pienamente alla luce e
sintetizza. Sia ben chiaro, non è che compaiono solo in lui, né per la prima
volta. Li troviamo sparsi in molte modalità contemporanee, politiche, giornalistiche,
mass-mediatiche ed informatiche, ma in Renzi si unificano e giungono a compiutezza,
al servizio (consapevole) di un progetto personale e lobbistico di potere e,
contemporaneamente, come prefigurazione -inconsapevole, e dunque ancor più tragica-
di quello che potrà essere l’etica e la cultura della società futura.
Una precisazione: tutto quanto
segue va ormai al di là della querelle
se Renzi sia di “destra” o di “sinistra”. Quelle di Renzi sono strategie e
modalità formali che lui decide di riempire con i contenuti che ritiene opportuni,
ma questi contenuti sono -e gli sono- irrilevanti. È ovvio, i contenuti ci
devono essere, come in uno scatolone che deve essere riempito, ma che siano
piume o pietre dipende solo da come è fatto lo scatolone e a che cosa gli
serve. E dunque, come tali, possono cambiare continuamente, a seconda delle necessità
e dei fini immediati. Bene, iniziamo:
LA PERFORMATIVITÀ.
Si punta tutto sul “successo”,
sull’efficacia dell’operazione, indipendentemente da fini, valori, giudizi
etici od estetici. Non è un caso che si insista così tanto sulla “cultura del
fare”: che non significa niente. Fare COSA? Sono tante e diverse le cose
concretamente da fare, da una guerra nucleare ad innaffiare i gerani… ma si
pretende di affermare l’operatività in quanto tale, e di richiederne
l’approvazione perché si è operato. Il parametro del successo a prescindere diventa il parametro del
consenso: basti vedere quanti l’hanno votato alle primarie perché ‘ci avrebbe
fatto finalmente vincere’. Vincere chi, come, perché? Non ci si è posti il
problema…
IL QUANTITATIVO.
Il criterio di valutazione delle performance finisce per essere semplicemente
una quantità, un numero - per di più, spesso, isolato e non relazionale. Ecco
l’insistenza su misurazioni astratte e divinizzate, tipo ‘85 euro per
lavoratore’,‘150 auto blu in meno’, le date delle riforme, etc. cosa vogliono
dire, oltre ad essere il mantra propagandistico per sostenere ‘ecco, abbiamo
fatto, abbiamo raggiunto l’asticella numerica’, per di più fissata da noi
stessi? Scompare così ogni elemento di giudizio qualitativo; ma, anche a volere
restare sul semplice piano quantitativo, avrebbe, per quanto limitato, un senso
soltanto in un’ottica di proporzioni, di percentuali, di tendenze, di raffronti
sistemici. Ma i numeri come divinità autosufficienti intimidiscono, danno
sicurezza ed apparenza di serietà a chi li usa, spengono le eventuali
obiezioni. E alla conclusione si mettono in fila, una tantum, i numeri dei
voti, elettorali o sondaggiati, il più uno.
LA VELOCITÀ COME MITO.
Non mi dilungo. C’è una sfilza di
riflessioni teoriche e letterarie, ben più articolate delle mie, e di
esperienze concrete sulla lentezza. Qui vengono bruciate tutte, per di più
sull’altare di una velocizzazione che viene, innanzitutto, affermata e
raccontata, più che realizzata…È una velocità come bandiera, come ideologia,
che serve a giustificare il ridurre in modo superficiale a macerie tutto ciò
che è meditazione, approfondimento, articolazione, esperienza interiore, consapevolezza,
progettualità non generica, etc. Ed accelerando si anticipa, si spingono più in
là i problemi ad un futuro che tutto vedrà risolto.
L’ URGENZA.
Come meccanismo colpevolizzante,
che giustifica la fretta, impone la semplificazione e travolge i bisogni dei
singoli e dei gruppi sociali: siamo sempre in una situazione ‘d’emergenza’,
siamo sempre all’ultima spiaggia, in una crisi emergenziale da cui possiamo
uscire solo se cogliamo l’ultima chance
che ci viene offerta, dopo Renzi il diluvio, guai a chi si sofferma a pensare o
perlomeno ad emendare. Prendere o lasciare. Urge cogliere l’attimo, ma quel che
cogliamo è la fregatura sotto cui dobbiamo chinare la testa, imposta in
malafede sfruttando l’urgenza, o in incompetente buonafede perché si deve fare
subito e non si capisce quel che si sta facendo.
IL RIVOLUZIONARISMO.
Va di moda dirsi tutti
rivoluzionari di qualcosa. Qualunque modesto cambiamento si veste da
‘rivoluzione’. Abolire cento consiglieri provinciali ingrossando i carrozzoni
regionali, sarebbe una rivoluzione. Mettere un giovane incompetente e confuso
al posto di un vecchio marpione esperto, una rivoluzione. E perché non
capovolgere il rosso e il verde dei semafori? È l’ideologia della rivoluzione recitata, o autoproclamata
per definizione. Come il partito
rivoluzionario istituzionale in Messico. Il tutto affiancato, ovviamente,
dalla retorica mediatica del nuovo ad ogni costo, come migliore in quanto tale.
Ma chi l’ha detto, tanto per esemplificare, che una “nuova” legge elettorale
debba essere comunque migliore di alcune “più vecchie”, purché costituzionali?
IL SERVILISMO TECNOLOGICO.
Dovrebbe essere evidente: eppure ancora
si spacciano gli strumenti tecnologici nuovi come prova di modernità e
progresso sociale, ma sono solo strumenti. È chiaro che la BIC è più efficiente della
penna d’oca, ed il CD del disco in vinile (fermo restando che per motivi
affettivi o estetici potrei preferire di usare penna d’oca e vinile) e quindi
li si usa, ma ciò che conta è ciò che ci si scrive o suona…idolatrare le slides o twitter (e chi li utilizza come ‘grande innovatore’), se non è una
profonda ingenuità, è una forma di passività che ci assoggetta a potenze
estranee, e ben strumentali e strumentalizzatrici. Ci si dimentica forse che il
nazismo era un’avanguardia tecnologica?
IL DISCONOSCIMENTO DEL LIMITE.
Tutto ciò si completa in quello
che è il paradigma complessivo del renzismo: “Il disconoscimento del limite”.
Il limite va riconosciuto, non necessariamente per rispettarlo, forse meglio
per trasgredirlo, ma bisogna conoscerlo. Invece il mito modernista/futurista
della fretta, l’innovazione a prescindere e ad ogni costo, il battere i pugni
per avere successo (o perire), le sparate roboanti che poi partoriranno i
topolini, i conti della serva truccati da rivoluzioni, i bonapartismi
ricattatori “o così o pomì”, le
arroganze minacciose tipo ‘solo io salverò l’Italia’ -senza precisare come e
con che mezzi- ‘o me ne andrò’, l’impunità di poter dire tutto e il contrario
di tutto (“L’Italia taglierà le spese militari” e “L’Italia si impegna
a mantenere un ruolo forte nella Nato”) a prova di smentita, tradiscono
tutte la stessa malattia mortale: un modo di pensare da delirio d’onnipotenza.
Che prelude, temo, alle forme paranoidi pienamente compiute di una società prossima
ventura che annuncia. Ma stiano attenti, Renzi o chi sulla sua scia come lui, a
non suscitare la vendetta degli dèi: basta poco, uno scacco individuale o
storico ad annichilire ogni hybris…
Conclusioni. Se si trattasse solo di Renzi come individuo, mi
basterebbe aspettare sulla riva del fiume che passi il suo cadavere…e passerà,
come passa quello di Berlusconi. Ma temo che sia una ben più insidiosa e
contagiosa avanguardia storica, basta vedere quelli che gli scodinzolano
intorno per sospettarlo: e allora, se non sarà oggi, sarà fra vent’anni. Quello
che non si è realizzato nel 1984 di Orwell sarà, certo con modalità molto più
sottili, suadenti, consensuali, per il
2034?
I combattivi, i ribelli a questa
prospettiva cerchino di mettergli in tutti i modi, con qualunque mezzo, i
bastoni fra le ruote. “Gli andati, rassegnati, soddisfatti” ci si adattino o ci
sguazzino, per illusione, autoinganno, salto opportunistico sul carro, gusto di
stare comunque, o finalmente, dalla parte che vince. Per me, tento almeno di
comprendere di che morte mi si vuole fare morire, senza farmi prendere in giro.
Di disertare, perlomeno da quanto si celebra e mi si racconta.
L. S.
L. S.