IL FILOSOFO E LE CIPOLLE
di Fulvio Papi
Fulvio Papi, Decennale di "Odissea" Sala del Grechetto Biblioteca Sormani 29 settembre 2013 (foto, archivio Odissea) |
Poiché
sono un filosofo chiunque avrebbe il diritto di chiedermi la
traduzione di parole come Entfrendung, Wahrheit, Aufang, Vorstellung,
Spaltung, distinguendo quelle di uso comune che passano alla
filosofia e quelle che appartengono più propriamente a un lessico
teorico. Ma non credo che l'immaginario “costui” possa però
chiedermi di narrare la storia delle cipolle comperate al
supermercato. E invece è una vicenda molto interessante. Le cipolle
sono state coltivate in Olanda (che associavo invece ai tulipani).
Sono state raccolte, messe in contenitori adatti e poi avviate a un
lungo viaggio suppongo in treno. Poiché la loro destinazione era una
località in provincia di Ferrara, suppongo ancora che l'ultimo
tratto l'abbiano fatto su un autocarro. Quivi le hanno “lavorate”
distribuendole in sacchetti che hanno di nuovo viaggiato fino a
Milano per finire in un supermercato dove il “consumatore”
(parola orrenda) le ha comprate trovandone una non commestibile. Ed è
comprensibile dopo un viaggio che avrebbe creato problemi anche a un
esploratore dell'Ottocento che poi avrebbe tenuto la sua relazione
alla Società geografica di Londra.
Si sa che le merci
viaggiano più dei signori ricchi nell'ultimo tratto romantico tra
Baden Baden, Parigi e Montecarlo. Ma le cipolle? Il prezzo finale tra
costi di produzione e una distribuzione complessa non è difficile da
immaginare. Aiutandoci con i prosciutti della Baviera distribuiti da
ditte importatrici, che appaiono -per una induzione ovvia- come
locali produttrici, e le famose patate finite in televisione, si
potrebbe tentare di scrivere la malora (la parola nel significato
degli scritti di Fenoglio) della nostra agricoltura che non ignori
però le mozzarelle di bufale malate e i pomodori nati su terreni
inquinati da scorie decennali. La storia sarebbe istruttiva sugli
errori compiuti sul territorio da ideologie autoritarie e da
politiche cieche che non hanno capito molto su quali potevano essere
le più adatte condizioni di sviluppo. Ovviamente erano rischi e non
certezze, ma probabilmente minori rispetto a quelle che corrono oggi
i lavoratori e tutta la popolazione di Taranto. Dato la pochezza dei
tempi non vorrei che qualche politecnico, e anche monocultore,
volesse internazionalizzare il lavoro storico suggerendo la sua
scrittura in inglese. Naturalmente ogni lingua ha il suo contesto
scientifico o popolare (faccio colpa alla tivù di aver distrutto la
musica delle parlate locali). E per aiutare i politecnici ricorderò
che persino Hegel scrisse la sua tesi in latino come se la si dovesse
leggere a Roma. Anche se sul tedesco comunque aveva la stessa
opinione di Herder. Una lingua che però non è proprio identica ad
Amburgo o a Stoccarda (come sapeva un grande scrittore russo come
Nabokov che, del resto, era emigrato in America).
Non bisognerebbe
mai cominciare a viaggiare con le cipolle.