PER GIULIO QUESTI
di Fulvio Papi
Giulio Questi |
Quando Fulvio Papi mi ha
annunciato che avrebbe scritto un ricordo sul regista Giulio Questi, ho provato
una immediata entusiastica gioia e gliene ho spiegato i perché. La sua idea ha
provocato fulmineamente in me tutta una serie di “resurrezioni della memoria”, come Proust magnificamente le
definisce nel settimo volume della sua monumentale opera. La mia mente è
tornata di colpo in un luogo, in un tempo e in uno spazio, che erano stati
completamente rimossi. E poiché tutto avviene e si determina in più dimensioni,
ho ritrovato anche le sensazioni e i volti di quell’evento. Ho ritrovato l’atmosfera
fumosa di un cinema, uno fra i primi aperti nella Calabria interna del
Novecento, che si era chiamato per lungo tempo “Cinema Impero” e che di quel
nome e di quell’epoca voleva evocare i fasti. Fasti che erano del tutto
scomparsi quando negli anni Settanta del secolo scorso, cedendo alla “modernità”
e “ristrutturato”, mutò nome da Impero a
Moderno, e noi, giovani di belle
speranze e dall’animo ribelle, lo utilizzammo come naturale contenitore di un Cineforum
lungo una stimolante e vivace stagione di impegno intellettuale e civile, ahimè
del tutto scomparsa. In quel lontano
1972 che Papi ha fatto affiorare in me, Giulio Questi era venuto ad Acri ed in
quel Cinema, a proiettare e dibattere con noi, in anteprima, il suo film Arcana, girato proprio quell’anno. I
motivi di quella scelta non risiedevano soltanto nella nostra passione per la
settima arte, Acri era allora nota per il suo radicale fermento politico e i
contatti esterni erano tantissimi, ma anche perché il film di Questi raccontava
una vicenda di meridionali che aveva come ambientazione Milano, e questo ci
interessava ovviamente come figli di quel Meridione.
Ero molto giovane a quel tempo, avevo
21 anni, e la giovinezza è quasi sempre spavalda e arrogante. Stupidi non lo
eravamo, tutt'altro, ma l’arroganza spesso può essere più feroce e tragica
della stupidità. Mi sono risuonate vivide come allora le critiche a quel film e
a quel regista, che forse da noi si aspettava quell’attenzione e quella
fraterna solidarietà ideale che gli rifiutammo. Molto più tardi seppi che egli
era stato anche un valoroso partigiano e ne ebbi doppiamente rimorso. Quel
rimorso è rimasto nel fondo di me stesso per ben 45 anni, e, seppure a una così
grande distanza di tempo, sono grato all’amico filosofo che scrivendone un
ricordo, mi permette di unire il mio risarcimento al regista e al partigiano.
[Angelo Gaccione]
La copertina del libro |
Giulio Questi, dopo venti mesi,
dal primo all’ultimo giorno, di guerra partigiana in una zona tra le più dure,
abitava a Bergamo, la città che, in tempi più recenti, ha offerto alla cultura
e alla politica del paese personalità di primo piano. Credo che ogni tanto
Questi venisse a Milano e ne parlavano i compagni che avevano cinque o sei anni
più di me. In ogni caso in questi incontri ero (giustamente) escluso come
immaturo rispetto alle esperienze, ai ricordi, ai propositi che potevano
costituire il tessuto di quegli incontri. A me arrivava un’eco che segnalava
una personalità superiore e, forse, persino un po’ imbarazzante per gli
interlocutori stessi. Seppi poi che era andato a Roma nell’ambiente del cinema
dove sarebbe divenuto uno dei registi più importanti della nostra
cinematografia. Una lontananza oceanica rispetto ai modi del mio crescere, e
tuttavia il suo nome, per tutta la vita mi risuonò come un caso prezioso
irrimediabilmente perduto. Non c’è quindi da stupirsi se quando, tempo fa,
comparve da Einaudi un libro di Giulio Questi Uomini e comandanti cercai di leggerlo con grande cura. Non sapevo
affatto che Questi avesse anche un’attitudine narrativa che, mi pare, portò in
superficie un mondo autobiografico considerata sempre secondo una “bassa” essenzialità,
un po’ come Fenoglio che aveva affettuosamente conosciuto e con il quale doveva
anche fare un film, rimasto poi solo un proposito per la morte di Fenoglio.
Questi aveva modificato il famoso libro Una
questione privata (un testo “perfetto” come diceva Calvino). E a me sarebbe
piaciuto sapere il “perché” delle modifiche, dato che in questa decisione
potevano celarsi altri motivi importanti per Questi, soprattutto per la
traduzione cinematografica. Ma questa “curiosità”, penso non futile, dovrà tacitarsi,
come altre e a me non resterà che seguire, grato, notizie e interpretazioni del
bellissimo saggio di Angelo Bendotti che appare come postfazione dell’opera di
Questi. Due elementi nella lettura mi sarebbero parsi di vero interesse. L’uno
il senso particolare del realismo resistenziale di Questi nel quadro classico
del realismo letterario che Calvino teorizzò nella seconda edizione de Il sentiero dei nidi di ragno.
Il regista in età più giovane |
E poi una
scrittura che s’inoltra sempre nel buio, nell’azione necessaria che, nel suo
obbligo, non ignora la violenza, ma la seppellisce sotto la legge invisibile
della realtà. Come altri, sono tutti desideri che restano vuoti. Del resto il
saggio di Bendotti può supplire, certamente al meglio, ai miei impossibili
desideri. In sostanza conoscere un personaggio importante per il suo lavoro
cinematografico e letterario, di cui da un tempo lontanissimo conservo solo il
fantasma mitico, sarebbe una bella prova della costruzione della memoria. Ci
sono tuttavia due citazioni di Questi che derivo dal saggio di Bendotti che
riferirò per intero, cercando di ricavarne una riflessione. Bendotti: “Nei
frammenti di ‘Documenti’, angosciosi presagi di morte, il narratore fa i conti con
una singolare processione funebre, con attori, quattro o cinque uomini, che
portano una bara vuota, non una bara vuota,
scoperchiata, che aspetta solo lui:
“I loro visi erano scarni, infossati.
Malgrado ciò li riconobbi. Li avevo uccisi io negli ultimi giorni di guerra.
Erano venuti a prendermi. Non mi pareva con astio. Semplicemente perché adesso
toccava a me”. Il testo di Bendotti così prosegue: “In ‘Visitors’ lo sparuto gruppo di uomini che
portano la bara è costituito da affiliati a una singolare società, l’ANMA,
Associazione Nazionale di Morti Ammazzati: loro compito è quello di far visita
ai testimoni ancora viventi della guerra civile. A costoro viene recapitata una
inquietante lettera elettronica dal protocollo ignoto: “Gentile superstite, dopo ricerche durate cinquant’anni, grazie alle
nuove tecnologie siamo riusciti a trovare il suo indirizzo. Siamo un gruppo di
fascisti che lei uccise con armi da fuoco negli anni lontani della nostra
comune giovinezza, consumata in una guerra civile su fronti opposti. Finalmente
l’abbiamo individuata. Le nostre assidue visitazioni a casa sua non vogliono
essere intimidatorie, ma solo l’occasione per un incontro chiarificatore e
forse un’accorata richiesta. Senza rancori,
ANMA”.
Giulio Questi |
Sono
citazioni di non facile comprensione. La prima mi pare affermi che quale sia
stato il senso della vita di ognuno la morte istituisce un tipo di pareggio
che, come vedremo, non è affatto un comune destino che eguaglia le differenti
tracce mondane. La seconda citazione approfondisce il tema con un confronto tra
la memoria dei defunti e dei superstiti di una guerra, e l’elaborazione
storica, l’interpretazione che, incontra il terreno terribile dello scambio di
morte, e costituisce un sapere e un’identità storica future. La memoria
circoscrive i fatti, assegna loro lo spazio della soggettività, talora ha una
sua verità che può diventare scrittura: è però il processo interpretativo della
storia che seleziona il senso della vicenda, l’identità di chi non c’era, e
deve vivere dopo la tragedia e l’ideale della partecipazione personale per uno
scopo etico. È questa differenza che pure la morte comunque non può pareggiare.
Non so Questi, ma temo che anche per la sua esperienza sia sopravvenuto, per i
tempi grigi, un pareggiamento ingiusto dovuto alla dimenticanza sociale, alla
doverosa consegna interpretativa ai custodi della storia. Ora però la scrittura
- si dice – non muore per sempre, ed è qui, tra memoria e storia, che ho
desiderato ricordare Giulio Questi, partigiano, uomo di cinema, scrittore.