IL NUMERO CHIUSO
di Fulvio Papi
La protesta dei ragazzi per il
“numero chiuso” alle Facoltà umanistiche, non ha mancato di sorprendermi, e
come ogni sorpresa, impone di cercare la comprensione che il lessico
spontaneamente suggerito dalla sorpresa non è capace di fare, perché, senza che
lo si sappia, narra di se stessi e dei propri pregiudizi da qualsiasi parte
essi guardino. La cultura umanistica da tempo è in grave crisi. A livello
universitario ricordo, ormai sono passati molti anni, quando nelle Facoltà
tedesche appariva prevalente la tendenza a sostituire le cattedre di
letteratura greca e latina (vecchie glorie) e anche di filosofia con
insegnamenti di sociologia che però non venivano da Adorno. Poi, magari, c’è
stato qualche pentimento. A livello sociale era sempre più limitato il numero
di persone che potessero avere un’idea anche vaga di che cosa poteva
rappresentare la “Germania” di Tacito nel coro della cultura imperiale romana,
o per lasciare ad altri osservazioni così sofisticate, quale fosse l’evoluzione
imperialistica della cultura politica di Crispi che nasceva garibaldino. La
guerra del Parlamento inglese che inaugurava la storia, il significato e i
diritti del parlamento moderno, era per il ricordo vago e senza senso di una
scuola fatta male. Tutti “vuoti” del resto pienamente giustificati da poteri
che consideravano il sapere come l’apprendimento di tecniche operative e saperi
linguistici da menti retrocesse a un disarmante primitivismo tecnologico. Erede
involontario di quest’aura è stato il proposito (comprensibili in astratto) di
istituzionalizzare un rapporto istruzione scolastica-abilità lavorative. Non ci
vuole un grande intelletto per comprendere che l’assioma sociale, solo
silenziosamente suggerito, era lo sviluppo ad infinitum della produzione.
Credevo che questa situazione, a livello dei valori d’uso giovanili,
corrispondesse a quei prodigiosi strumenti dai quali si può trarre ogni
informazione, oltre che entrare nella vita del prossimo con delle telefonate.
Invece no. La “corona di Berenice” di Callimamo è divenuta un desiderio. Questo
però non è più vero del fatto che il cielo è fatto da “un manto di stelle”. E
allora? È molto più probabile che questo sia un caso, piuttosto diffuso, nel
quale una vita sociale che crea liberi consumatori, ma anche, a certe condizioni
che sarebbe bene sapere, liberi cittadini, i quali, di fronte ad ogni forma di
limitazione (talora conta più la percezione del contenuto), hanno la capacità
di protestare e di argomentare il loro diritto. In una società non
partecipativa, è un modo per essere qualcuno, al di là delle impudenti
apparizioni mediatiche. Ipotesi, in ogni caso. Non so proprio perché sia nato
il problema del “numero chiuso”. Posso cercare di indovinare che sia stato
“inventato” da docenti che, dopo anni, avevano considerato l’affollamento delle
aule una ragione di deperimento culturale dell’Università. Se era questo il
problema i professori avrebbero dovuto resistere prima quando iniziò il
processo di degrado della cultura accademica, giudizio che oggi sono in grado
di dare solo i vecchi, poiché, alla lunga, ogni cosa che accade nel mondo,
viene percepita come normale. E poi, diciamolo francamente, l’ “Università
critica di massa”, di cui parlava un carissimo amico dirigente comunista, non è
possibile. Il rapporto qualita-quantità era ovvio nella “Logica” di Hegel che
il mio carissimo amico aveva dimenticato. Ma il “tutti dottori” è lo stesso un
ideale umoristico. Poiché se è vero, com’è costituzionale, che l’accesso agli
studi superiori deve essere garantito a chiunque abbia talento idoneo, anche se
povero, è anche vero, almeno dal mio punto di vista, che ogni lavoro, ben fatto
e onestamente compiuto esige l’eguale considerazione e valore sociale rispetto
ad ogni altro compito. Questa mi pare l’uguaglianza etica del vivere civile,
superiore ad ogni altra differenza sia nell’idea, come pregiudizio sia nel denaro,
come potere.
Se poi i ragazzi vogliono avere il diritto di
studiare, allora prendiamo sul serio la parola “studiare” (più che istituzioni,
burocrazie, corsi, esami, lauree ecc.). Evitiamo ogni parodia dello studio che
ha spesso ridotto i primi anni di Università a un livello che, un tempo, non
sarebbe bastato per affrontare la maturità liceale. Sarebbe importante che con
i ragazzi questo fosse il tema del diritto all’Università, affrontato con
pazienza e virtù collaborativa, ma, in effetti, una rivoluzione