DEMOCRAZIA E FINE DELLA
POLITICA
di Franco Astengo
Il punto che questo intervento
intende evidenziare è quello di una vera e propria carenza di cultura politica,
a tutti i livelli derivante dall’assenza di “agenzie cognitive” che se ne
occupino: l’Università, in generale, propone schemi prefissati e ha grandi
responsabilità nell’idea di una politica fatta esclusivamente sui sondaggi e
non sulle idee; i partiti hanno completamente rinunciato ad una funzione
pedagogico e hanno abbandonato l’idea della funzione guida della storia
trascurando completamente la memoria; le istituzioni non rappresentano più la
sede della saldatura tra società e
politica da realizzarsi attraverso il suffragio e, di conseguenza, il consenso
e svolgendo così il ruolo indispensabile di mediazione sociale e culturale.
La crisi
della democrazia rappresentativa di
marca occidentale sta interessando la riflessione di vasti settori
intellettuali che si cimentano in diversi spunti di analisi. I due maggiori
quotidiani italiani hanno recentemente dedicato spazio a questo tema, sia pure
affrontando l’argomento in forme diverse, nei loro inserti culturali “La
Lettura” del Corriere della Sera e” Robinson” per Repubblica.
La Lettura,
nel numero di domenica20 agosto ha pubblico il testo di un colloquio tra Han
Ulrich Obrist e il controverso artista cinese Ai Weiwei che sta per presentare
in concorso al Festival di Venezia il suo film “Human Flow”. Un kolossal sulle
migrazioni girato il 22 paesi attraverso quaranta campi profughi realizzando
seicento interviste e mille ore di girato. Nel suo film Ai Weiwei affronta i
nodi delle contraddizioni epocali cui oggi la democrazia sembra non essere più
in grado di dare risposta: guerre, carestie, malattie, choc climatici e la
crisi dell’umanità in fuga. Nel testo dell’intervista s’individuano quelle che
vi sono definite come “emergenze planetarie”: la libertà di parola e la
democrazia.
Si pone così
la grande questione della politica di oggi, se intendiamo ancora considerarla
tale nella sua etimologia classica: le cose che ineriscono la Polis. Il tema è
quello della sorveglianza cui siamo sottoposti e a cui dobbiamo sottoporre i
governanti : il reciproco interscambio tra governanti e governati.
Appare
evidente come, nell’analisi che emerge dal colloquio tra Obrist e Ai Weiwei si
smentisca l’assioma democrazia uguale politica che per due secoli aveva retto
una presunta superiorità del sistema occidentale “classico”. Lavoro da svolgere
per chi intende misurarsi nel definire una nuova complessità dei cleavages
sociali. In precedenza “Robinson” inserto culturale di Repubblica si era
occupato, nel numero uscito domenica 30 Luglio, del ruolo dei social network
nella diffusione di notizie e nella relativa formazione di opinione politica.
In quel testo si sono ricostruiti schematicamente tutti i passaggi dal 1980
quando nacque l’Electronic Frontier Foundation per tutelare e promuovere i
diritti digitali, considerata la “madre” di tutti gli attivismi online fino al
2016 con la campagna elettorale di Trump nel corso della quale si evidenzia un
uso spregiudicato, diretto e aggressivo di Twitter (“Fake news” comprese).
Appaiono
evidenti due cose che probabilmente tutti noi consideriamo scontate ma che non
sono state ancora sufficientemente analizzate:
1) Il peso, inedito nella storia
della democrazia e nell’insieme delle relazione politiche, di questi strumenti
di comunicazione, di formazione e aggregazione del consenso quali sostituivi
dei classici meccanismi usati a questo proposito a partire dalla prima
rivoluzione industriale e dalla nascita degli ormai tramontati partiti di massa;
2) La creazione di una realtà
virtuale illusoriamente percepita come
effettiva e concreta da parte degli utenti e sede effettiva della discussione
politica (ma non solo). Si annullano così gli elementi che hanno condotto a
stabilire le consolidate gerarchie nella presenza politica nell’appartenenza e
nella conoscenza. Quella scala gerarchica che ha portato , nella realtà dei
soggetti culturali e politici, al formarsi dei cosiddetti “gruppi dirigenti” o
élite. Chissà, al proposito cosa avrebbero scritto oggi Michels, Pareto, Weber?
Si è così
costruita quella che, nel suo articolo presente nel citato inserto di
“Robinson”, Tom Nichols definisce come “Illusione egualitaria” creata, appunto,
dall’immediatezza dei social network che per l’appunto cancella l’autorevolezza
dei gruppi dirigenti consolidati e crea l’illusione del “tutti alla pari”.
È evidente che si tratta di fenomeni sui quali approfondire
riflessione e dibattito anche perché usati, nella politica nostrana, con
sorprendente approssimazione e faciloneria e causa di clamorosi fraintendimenti
in particolare sul terreno della costruzione di pericolosi e sostanzialmente
illusori meccanismi di “democrazia diretta”.
Fenomeni che
stanno alla base del pericolosissimo concetto della disintermediazione che, per
restare in Italia, fa parte di una buona quota della propaganda del M5S e del
PD(R). Disintermediazione che , alla fine, favorirebbe davvero l’egemonia di
quella “società dello spionaggio” di cui parla Ai Weiwei.
C’è da
domandarsi: l’azione politica agita attraverso gli strumenti della
comunicazione “social” crea nuova acculturazione e di conseguenza diversa
aggregazione oppure soltanto l’illusione di un’inedita forma di democrazia diretta,
diversa da quella che abbiamo fin qui considerata sul modello plebiscitario del
consenso diretto nella relazione tra il Capo e le masse?
Al di sopra
di questa comunicazione “social” non agisce forse un qualche potere occulto,
non paragonabile neppure al “Grande Fratello” orwelliano ma dotato di poteri di
controllo assolutamente superiori perché insiti direttamente nella vita
quotidiana delle persone modellandone i comportamenti effettivi?
Questo è, mi
pare, l’interrogativo di fondo, quello più pregnante e insidioso. Pare proprio
che, alla fine, il confronto si sia spostato tra una teoria
dell’intermediazione elitista (strutture portanti i partiti fondati sulla legge
ferrea dell’oligarchia e le assemblee elettive proporzionalmente
rappresentative di queste élite all’interno delle quali si verifica lo scambio
del potere) e una visione dell’immediatezza di una democrazia diretta fondata
sulla verticalizzazione del potere personalizzato, tagliando fuori quella che
era l’antica visione pluralista.
Attenzione:
verticalizzazione del potere, ripetiamo “ad
abundantiam” che contiene in sé gli elementi di inedite forme di controllo
non semplicemente “sociali” (com’era un tempo) ma “personali”.
Sorge forse
da qui la crisi della democrazia liberale: una crisi della quale la democrazia
dei social porta responsabilità evidenti. Sono anche palesi gli interrogativi
che ne sorgono in sistemi sempre più sprovvisti di un consenso di base e con
una partecipazione elettorale in picchiata di partecipazione. Intendendo
beninteso la partecipazione elettorale quale base minima per verificare il
concorso collettivo alla cosa pubblica ( e non di più, senza affidare al voto
alcunché di salvifico di per sé).
Forse
sarebbe il caso di tirare diritto e di proseguire nel proporre un agire politico
fondato sugli antichi strumenti del partito a integrazione di massa e del
Parlamento rappresentativo delle principali sensibilità politiche (“Specchio
del Paese”) e di un governo che si forma in quella sede.
Ma
quest’ultima è soltanto un’opinione espressa da chi ha vissuto davvero un’altra
epoca.
Quel che è
certo che la crisi della democrazia rappresentativa come “fine della politica”
non appare più , come si pensava un tempo, un’ipotesi- limite da evocare alla
stregua di una provocazione speculativa.
Sembra
proprio che abbiamo ormai perduto la capacità di indagare sul variare delle
“forme”, dei soggetti, dei luoghi della politica nel contesto della
post-modernità dell’Occidente dominata ormai dalla relazione tecnica/vita e di conseguenza
tecnica/politica. Siamo pigri nel cercare di capire cosa ha resistito e cosa è
completamente deperito dei tradizionali dispositivi teorici davanti ai
mutamenti che hanno sconvolto le figure più familiari dell’analisi politica e
sociologica. Una pigrizia che ha portato, ad esempio, a decretare anzitempo la
fine dei due soggetti portanti nell’analisi politica del ‘900: le classi e lo
Stato Nazionale.
Abbiamo
ceduto al mito della “società complessa” arrendendoci all’apparente primato
della “governabilità” senza vedere quanto restava di ancorato nella società di
sopraffazione e sfruttamento (del lavoro, dell’ambiente, di genere) come base
di quello che dobbiamo continuare a definire come “arretramento storico”.
Si sta
tentando di imporre una verticalizzazione del potere incontrollato da una sorta
di autonomia della “società orizzontale”: un nuovo feudalesimo tecnologico
basato su di un impianto esclusivamente individualistico. Una riflessione in
questo senso potrebbe rappresentare anche un primo punto d’inversione di tendenza
rispetto al declino in atto: declino che si compone degli elementi sopra
enunciati , guerre, carestie, malattie, choc climatici, la crisi dell’umanità
in fuga, sottrazione delle forme codificate di controllo del potere da parte
della base sociale, nuovo feudalesimo basato sul rifugio individualistico
nell’uso della tecnologia. Le “sette piaghe” della modernità racchiuse tutto
all’interno della categoria dello sfruttamento? Probabilmente sì.