di
Vittoria Orlandi Balzari
Philippe Daverio o dell'arte della divulgazione
La
prematura scomparsa di Philippe Daverio a soli 71 anni ha colpito tutti, soprattutto
i semplici cittadini che conoscevano le sue trasmissioni, in particolare
Passepartout.
Come
sempre, quando muore qualche volto noto, tutti i colleghi si dichiarano amici
ed estimatori, anche chi in vita lo aveva criticato per non essere stato uno
storico dell'arte, accademicamente parlando, a tutti gli effetti.
Al
di là di ormai inutili polemiche, l'innegabile valore di Daverio è stata la sua
capacità comunicativa di rendere fruibile ed accattivante la storia dell'arte
anche e soprattutto agli appassionati non esperti, accendendo in loro la
curiosità e l'interesse per ciò che veniva detto (e, ammettiamolo, con molta
invidia da parte di noi studiosi puri che vorremmo avere le sue doti, la sua ars
eloquentiae, da tenere avvinto l'ascoltatore).
Anche
Sgarbi, direte voi. Certo, ma si tratta di due dimensioni diverse, seppur
perfettamente compatibili. Da un lato abbiamo il critico d'arte che, dopo
osservazioni dirette e comparazioni scientifiche, spiega al pubblico le
caratteristiche di un'opera e del suo artefice, disvelando in modo diretto
l'apice di un lavoro di ricerca pregresso e complesso, come il rilucente
brillante di un bellissimo solitario, prodotto finito di un lungo lavoro dal
diamante grezzo all'incastonatura.
Daverio
invece, oltre alla dialettica fluida e colloquiale, non parlava di un'opera
d'arte ma della storia di quell'opera, facendo anche digressioni e balzi
temporali che non fuorviavano ma anzi mantenevano alta la suspance dello
spettatore, come nei migliori romanzi gialli. Forse questo approccio
innovativo, cioè trattare la storia dell'arte come una caccia al tesoro, un
enigma alla Sherlock Holmes, una indagine alla Monsieur Poirot o Maigret è
stata la sua carta vincente.
Philippe Daverio |
In
realtà, al di là della struttura stessa della puntata, frutto di un perfetto
gioco di squadra tra esperti del mondo televisivo (penso alla regia, alla
fotografia, ai montatori ecc.), Daverio partiva da un approccio che sicuramente
conosceva e metteva in pratica: la storia sociale dell'arte di Arnold Hauser.
Secondo il filosofo ungherese, un'opera d'arte o un artista o uno periodo
stilistico non sono svincolati dal contesto in cui gli artefici hanno vissuto e
operato, contraddicendo le teorie romantiche dell'artista-genio, espressione di
rarità e individualità assolute e innegabili, a volte palesi (Leonardo da
Vinci) a volte incomprese dai contemporanei (Vincent van Gogh). Ecco, Daverio
spiegava come la genialità del singolo non era avulsa dalla propria esperienza
umana, dalla società in cui era vissuto o operava, dagli incontri più o meno
fortunati di committenti e mecenati. Questo approccio, come dicevo, costruito
con la tecnica cinematografica dei continui cambi di scena, permetteva al
pubblico di Passepartout di comprendere non solo l'opera d'arte e il suo
realizzatore ma viaggiare nel tempo e conoscere molti personaggi che ruotavano
attorno al soggetto, i luoghi e le situazioni particolari del periodo storico,
rendendo l'artista, pur nella sua personalità unica, più umano e vicino a noi.
Non
entrerò nel merito della lunga serie di libri pubblicati, perché più vicini,
per l'uso della pagina scritta, ad altri scrittori con intenti divulgativi e
nemmeno alle conferenze o interventi pubblici, inclini ad una chiacchierata tra
amanti dell'arte.
E
ora, si chiedono i suoi spettatori orfani, chi ci spiegherà l'arte tenendoci
incollati allo schermo come faceva lui? Nessuno ovvio, perché rifare il format
vincente è sempre rischioso e ripetitivo. Inoltre la vera sfida del momento non
è affascinare chi è ha già degli interessi culturali, ma ispirarli in chi non
li ha o pensa di non averli, in particolare i millenials e i giovani che non
frequentano il mezzo televisivo e aborriscono la lettura, concentrati solo su
sé stessi e catturati solo dal loro smartphone.