LE ROSE DI MAGGIOdi
Zaccaria Gallo
A
maggio fiorisce la rosa sul balcone di casa mia. Nacque per caso una decina
d’anni fa, quando in un gran vaso pieno di terra, fu deciso di piantarci qualcosa.
Oggi lo stelo principale, che porta una splendida “baccarat”, ha raggiunto
quasi il metro e settanta e fa a gara con la mia statura, quando mi avvicino a
lei per accarezzarla con lo sguardo di un innamorato. Ma non c’è solo lei. In
basso, in una delle aiuole del giardino che è davanti alla palazzina A del
condominio, c’è una siepe alta di rose, straordinariamente belle, con petali
che sembrano tessuti di finissimo raso, curate fino a poco tempo fa dal dottor
Francesco Consiglio (detto Ciccio da noi), l’anestesista. Ci ha dovuto lasciare,
per un brutto male cerebrale, tempo fa, ma le sue rose sono rimaste lì a
fiorire a maggio e a ricordarcelo.Fiore
simbolo la rosa, della dea Venere e in ambito cristiano della Vergine Maria.
Una bellezza senza tempo, elegante che parla da sempre dell’amore innocente e
anche di quello passionale.
“Una
rosa è una rosa” recita un verso di Gertrude Stein: fiore cui non si
addicono aggettivi, basta il nome ad evocarlo. “Rosa
che rosa non sei/rosa che spine non hai/rosa che spine non temi/che piangi, che
tremi/che vivi e che sai/rosa che non mi appartieni/che sfiori, che vieni/che
vieni e che vai”. Le rose sono proprio così, come nella canzone
“Rosa, rosae” di De Gregori: contraddittorie, forti e tenere, generose e schive.A
maggio se si va sulle Murge ci si può immergere in un paesaggio simil- irlandese,
per i prati verdissimi coperti qual è là da tappeti rossi di papaveri e gialli
di margheritine selvatiche. Durante il cammino, non è infrequente scoprire, con
stupore, protendersi verso di noi, da qualche muretto a secco, un arbusto pieno
di rose: è il fiore di maggio, la Rosa Canina, la rosa spontanea più diffusa in
Italia.
Tutti
sanno che è la Rosa Damascena la regina di tutte le rose. Originaria del Medio
Oriente, della Persia. In Siria è simbolo di nuovo inizio per una famiglia.
Quando Salem al-Azuoq è stato costretto a fuggire dal suo paese, martoriato da
una guerra senza fine, e ha visto il suo giardino devastato dalle bombe, ha portato
con sé dei semi della rosa di Damasco in Libano, per non farle morire. Le sue figlie
amano coltivarle e raccogliere quelle rose, fanno a gara nello scegliere le più
belle, le collegano alla loro terra d’origine. Il profumo di quelle rose porta
il ricordo della loro casa, dona loro anche la speranza di avere un futuro
migliore.Quanti
siriani hanno perduto i loro semi di rosa, annegando in mare? Quante rose non
potranno mai più fiorire nel giardino del mondo? E quanti afghani avevano nelle
loro tasche i semi della “Rosa moschata”, che nel loro paese si coltiva per poi
poter ibridare nuove rose e che ora giacciono nel fondo del mare a pochi metri
dalla spiaggia di Cutro?Già
la spiaggia di Cutro, dove, tra gli altri oggetti spiaggiati, qualcuno ha
trovato una “Rosa del deserto”, quella splendida formazione che il vento plasma
con i grani della sabbia del Sahara. Qualcuno, forse, l’aveva raccolta durante
la traversata che dalla Libia ha dovuto compiere per raggiungere la costa della
Tunisia, dove era atteso dal barcone della morte.Del
resto, questi fiori accompagnano il cammino del genere umano da moltissimo
tempo: ritrovamenti fossili testimoniano la loro presenza sulla terra già
quattro milioni di anni fa, prima ancora che sorgesse l’alba per la nostra
specie.
Ai
primi del 900, gli scavi effettuati dove sorgeva l’antico palazzo reale di
Cnosso hanno portato alla luce affreschi e stoviglie che rivelano come la
civiltà micenea intorno al 1800 a.C. coltivasse la rosa (pare proprio la
Damascena), che venne introdotta in Europa dai reduci delle Crociate. Anche la
civiltà persiana e quella cinese conoscevano e coltivavano le rose (citate
dallo stesso Confucio nei suoi scritti), mentre in Grecia e a Roma si rendeva
loro omaggio attraverso la progettazione di giardini dedicati alla loro
profumata bellezza. Saffo,
la grande poetessa di Lesbo, vissuta intorno al 600 a.C. regalò alla rosa
l’appellativo di “regina dei fiori”. I romani adoravano Maia, madre di Ermes,
dea del risveglio in primavera; sappiamo che dal suo nome deriva la parola
“maggio”. Nella tradizione cristiana, il fiore del cuore è Maria, la rosa più
bella del creato. Da lei prende vita la lunga preghiera del “rosario”: nato nel
medioevo quando s’usava adornare la statua della Vergine con una corona di
rose. Il
23 aprile 2023 sono nate le “rose di Cutro”. Seicentocinquanta donne hanno
realizzato all’uncinetto diciassettemila quattrocento settantacinque rose di
lana per abbellire la Chiesa della Riforma, in occasione della festa del SS.
Crocifisso, testimonianza concreta dell’attaccamento dei cittadini calabresi di
Cutro alla croce di Gesù.
Ed
eccola nel Duomo di Molfetta la sera del 18 aprile scorso, quella Croce di
legno di Cutro, voluta da don Francesco Loprete , sacerdote dell’arcidiocesi di
Crotone-Santa Severina e realizzata con i resti del barcone, all’indomani del
naufragio avvenuto lo scorso 26 febbraio a poche centinaia di metri dalla riva
della spiaggia di Steccato
di Cutro, in cui hanno perso la vita 93 migranti, di cui 35 minori e, tra questi, 26 bambini compresi
nella fascia d’età tra pochi mesi e 12 anni, oltre
sicuramente ad altri migranti ancora dispersi; nella nostra città è stata portata
grazie all’impegno di Gabriele Vilardi di ResQ Puglia “arca di pace” e Giuseppe
de Robertis del Sermolfetta.“Prima le vite umane” era intitolato il momento
di riflessione e testimonianza.La
guardo questa Croce.
La Croce presenta un pezzo di legno in diagonale che vuole ricordare una delle
due braccia di Gesù; l’altro braccio non c’è volutamente, perché è
simbolicamente teso verso l’umanità in segno di soccorso e di speranza, come il
principale gesto dei soccorritori durante un naufragio.
Tre
pezzi di legno. Quello che si unisce al legno verticale può essere anche un
vascello che si solleva sulle onde o una mezzaluna che unisce due confessioni
religiose. Legni che portano ancora i segni delle mani dei bambini che vi si
sono aggrappati prima di finire in mare. Mare “quella cosa che ci inghiotte e
non si ferma mai” (Paolo Conte in “Genova per noi”). Mille storie di speranze,
terrore, trepidazioni. Universo di alterità, oscuro inconscio che chiama e
allontana, spinge al coraggio d’affrontare l’imprevisto, luogo del mito. Ogni
barca che ne percorra le onde dietro di sé non lascia solchi e, spesso, chi nel
mare s’inabissa e muore non ha l’ultimo sguardo di coloro che lo hanno amato e
atteso; non v’è pietosa, dignitosa sepoltura. Così per Sergio Bufo e Mauro
Mongelli, i due marittimi di Molfetta, che erano a bordo del rimorchiatore
“Franco P”, naufragato a circa 50 miglia della costa barese e ora deposto sul
fondo del mare a centinaia di metri di profondità. Loro sono ancora lì, intrappolati
nello scafo. Hanno per ora rinunciato a recuperarne i corpi. Non
avranno rose.
“Una
rosa è una rosa” recita un verso di Gertrude Stein: fiore cui non si
addicono aggettivi, basta il nome ad evocarlo.