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UNA NUOVA ODISSEA...
DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES
Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.
Angelo Gaccione
LIBER
L'illustrazione di Adamo Calabrese
FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
Buon compleanno Odissea
giovedì 30 novembre 2023
IN RICORDO DEI MASSACRATI CILENI
I POETI NON DIMENTICANO
Libreria Calusca City Lights - Archivio Primo Moroni - CSOA Cox 18
Via Conchetta 18 - Milano (MM2 Romolo, bus 90/91 e 47,
tram 3)
Sabato 2 dicembre 2023 alle ore 17
Intervento di Cataldo Russo
Musiche, letture e interventi sull’antologia: Piazza Fontana. La strage e Pinelli: la Poesia non dimentica, a cura di Angelo Gaccione (Interlinea, 2023)
Julia Pikalova
Leggono: Guido Oldani, Patrizia Varnier, Cataldo
Russo, Giuseppe Natale, Antje Stehn, Angela Passarello, Valeria Raimondi, Carlo
Penati, Maria Carla Baroni, Julia Pikavova, Annitta Di Mineo, Pino Canta e altri.
1-2-Trio: Marco Testa, Marco Grippa
e con la fisarmonica Nicola Labanca
Renato Franchi cantautore, in “17 fili rossi + 1. Racconti Musicali ricordando Piazza Fontana 12 dicembre 1969”. “1-2-Trio”
composto da Nicola Labanca fisarmonica, Marco Grippa violino, Marco
Testa chitarra e flauto dolce.
e con la fisarmonica Nicola Labanca
Sarà anche la fisarmonica di Riccardo Dell'Orfano ad allietare questo incontro di poesia e musica su Piazza Fontana e siamo certi che non vi pentirete di essere con noi.
RENATO FRANCHI & HIS BAND
Renato Franchi |
Renato Franchi ha intrapreso da tempo il suo viaggio negli immensi territori del rock d’autore. Il suo cammino nella prateria della musica ha avuto inizio (come per molti della cosiddetta “My Generation”) con il rock, il beat, il soul. Nelle sue prime band ha sempre rivolto un’attenzione particolare ai fermenti culturali, musicali e artistici ed alle positive vibrazioni che arrivavano d’oltreoceano. La sensibilità d’animo e l'impegno civile lo hanno avvicinato in seguito a tematiche sociali, storie d’amore e musica ribelle, lidi e spiagge su cui gli occhi e il cuore di Renato hanno sempre adagiato la propria poetica e la grande passione per la musica, per la cultura popolare e la canzone d’autore di qualità. Leader del progetto “Orchestrina del Suonatore Jones”, esperienza straordinaria in omaggio a Fabrizio De André ed alla canzone d’autore, oggi ha rinnovato il nome dell’ensemble dei fedeli musicisti al suo fianco da sempre in “Renato Franchi & His Band”, a conferma della propria vasta produzione originale, che consiste in 20 album e più di 150 canzoni. Innumerevoli i live, in teatri, piazze, festival e rassegne in tutta Italia e non solo; significative, inoltre, le collaborazioni con figure importanti della musica italiana, quali Claudio Lolli, i Gang, Fabrizio Poggi, Alberto Bertoli, Michele Gazich e altri ancora. Franchi è da sempre in viaggio lungo binari e stazioni folk-rock-blues con i suoi validi musicisti e fedeli compagni d’avventura: Gianni Colombo alle tastiere, Joselito Carboni alle chitarre elettriche e al basso, Dan Shim Sara Galasso al violino, Roberto Nassini alla fisarmonica, Viky Ferrara e Gianfranco D’Adda alla batteria e percussioni. Negli anni Renato e i suoi musicisti oltre ai numerosi concerti, hanno realizzato progetti ed esperienze discografiche di alto valore artistico, con album dal forte impatto sonoro e dalle liriche importanti come “Sogni & Tradimenti”, “Dopo le strade”, “Le stagioni di Anna Frank”, “Con un bel nome d’avventura”, “Finestre”, “Oggi, Mi Meritavo il Mare”, tutti molto apprezzati dalla critica musicale e sempre nella continuità di un percorso all’insegna delle sonorità del mondo e della migliore canzone rock d’autore italiana. Gli ultimi lavori, vale a dire “InCanto” (2020), “Penne & Calamai” (2021) e “Mi Perdo e M’innamoro” (2022) e “Attimi di Infinito” (2023). Ultimo importante progetto, la suite collettiva per la memoria “17 fili rossi + 1” Ricordando Piazza Fontana, tutti gli album prodotti con la fida etichetta “L’Atlantide”, a conferma del percorso artistico e creativo di Renato Franchi & His Band, cuori sempre in viaggio sui sentieri infiniti della grande musica e del rock d’autore con lo sguardo attento al mondo e al quotidiano che ci passa accanto.
Mary Nowhere
Cliccare sulla locandina per ingrandire |
UN’ALTRA GENOVA
IN ARRIVO IN RIVA D’ARNO?
di Girolamo Dell’Olio
Diario Civile
Non sanno. Non devono
sapere. Atomizzati, frastornati, ricattati, devono continuare a viaggiare
bendati nella nuvola elettronica. Eppure questa è la culla del Rinascimento,
patrimonio mondiale dell’Umanità. Come quella, laggiù, è la Terrasanta,
crocevia di culture e di verità rivelate. Lo stesso inganno. Cambia solo la
dimensione e il volume d’affari. Firenze si lascia silenziosamente bucare da
chilometri di tunnel Tav dopo un quarto di secolo di risorse pubbliche
variamente sperperate in nome di un progresso rigurgitante di opacità,
fallimenti e propaganda. “Una vicenda paradigmatica del peggio possibile in Italia”, come ci
disse a Roma Raffaele Cantone, Autorità nazionale anticorruzione. Oggi, senza
neppure la foglia di fico di un simulacro di sicurezza, di prevenzione. Anzi,
con l’evidenza – nero su bianco, carta intestata, documento protocollato –
della disapplicazione sfacciata delle norme che detta il decreto per la
sicurezza nelle gallerie ferroviarie… nel rigoroso fragoroso silenzio delle
Istituzioni Democratiche.
A cazzotto li riconosco, i
locali, in mezzo alle frotte di turisti.
Sono rimasti in pochi, in
questa città desertificata per far spazio alle rendite parassitarie
‘culturali’. Uno su quattro, vagamente ricorda la stagione dei dibattiti, delle
dispute, delle assemblee di venticinque anni fa. E dei titoli dei giornali,
quando ancora si poteva parlare di ‘informazione’. Legge la denuncia, vagamente
ricorda, mi guarda rassegnato e via. Gli altri tre, i più giovani,
semplicemente non sanno, non devono sapere. Si scava sotto la città Unesco,
quella che abitano, in cui studiano, ma nessuno ne ha sentito parlare. Mi
guardano come un marziano venuto a spacciare fantascienza.
Con alcune eccezioni.
E sono quelle che ti
accendono l’animo.
Oggi, sotto i glutei di
Ercole, tre giovani teste, e nessuna delle tre autoctona. Un bel monito al
fiorentino-che-non-c’è-più!
Zeno è uno studente del
Valdarno, e a Firenze frequenta il liceo Machiavelli. Scruta con calma il
cartello. ‘Meglio saperlo che non saperlo’, e gli allungo la lettera Pec di
Marisa Cesario, la Comandante dei Vigili del Fuoco.
‘Hai presente Genova, quel
ponte, e tutto quello che si è detto dopo?’
Sì, questo episodio lo
conosce, e può fare due più due con le altre cose che sa della storia di
Firenze, e del suo rapporto secolare col ‘torrentaccio rovinosissimo’ chiamato
Arno.
‘A voi del Valdarno, poi,
vi si regala tutta la terra scavata dalla pancia di Firenze, e vi si porta a
Cavriglia, con tanti bei trenini, di giorno e di notte… e non è detto che sia
pulita, sai, con gli additivi che ci mettono o le perdite di cantiere…’
‘E dove la mettono?’
‘La mettono… sai a Santa
Barbara, la vecchia miniera di lignite?’
‘Ah, sì…’
‘E so che laggiù c’è già
gente che protesta perché quei pochi treni che arrivano (sono ancora pochi)
fanno impazzare per i
passaggi a livello che restano chiusi mezz’ore…’
‘E tutti questi milioni di
euro, da dove arrivano?’
‘Le Ferrovie hanno un solo
azionista: lo Stato! Sono soldi nostri! Quando succedono queste cose, ti basta
vedere il ‘come’ lo fanno. Il giudizio sul ‘cosa’ viene di conseguenza!’
È un piacere constatare la
pacatezza con cui parla, chiede e ascolta.
Sì, ci sono piccoli
capolavori di prontezza nel generale marasma.
‘Se hai bisogno ci scrivi:
qui sotto ci sono gli indirizzi.’
Con Alfonso invece c’è
quasi consanguineità. Di Napoli, quartiere di Fuorigrotta. Ignaro, anche lui,
del cosa e del come e del quando.
‘Vedi, tu non sai… perché non
devi sapere! Poi scoppia Genova… hai presente Genova? E ci mettiamo tutti a
piangere! Questa che ti do è la prova della qualità dei nostri politici. Hai
visto quello che è successo in queste settimane non lontano da qui…?’
‘Sì, l’alluvione!’
‘Ma te, abiti a Firenze?’
‘Sì, attualmente in una
stanza, ma da dicembre ho la casa col contratto, e così avrò anche la
residenza!’
‘Studi…?’
‘No, lavoro… Imbarco.’
‘Imbarchi?’
‘Imbarco, sì, su nave.
Faccio il marittimo! Ma di base sto a Firenze.’
‘‘Quindi questa cosa ti
riguarda, no?’
Annuisce.
Adesso solcherà gli
oceani, la lettera di Marisa Cesario! A gloria intercontinentale della solerte
classe dirigente toscana.
Il terzo è Simone. Un po’
più grandicello, sulla trentina. Lui è di Bologna. E insegna… storia di
Firenze!
‘Dove?’
‘In una università, qua,
per gli americani’.
La sede è prestigiosa:
Palazzo Rucellai.
‘Un consorzio di
università statunitensi che mandano qui i loro ragazzi, e seguono vari corsi…
dalla storia del cibo alla storia di Firenze, appunto.’
‘Se possiamo essere utili,
qui i nostri riferimenti.’
‘Sì, sì, grazie: leggerò!’
Con questo gruppetto di
ragazzi in libertà, un po’ chiassosi, chiaramente di fuori porta, mi diverto a
fare il prof che brontola.
‘Ehi, ehi, cos’è tutto
questo casino?’
Ma la mimica tradisce lo
scherzo, mangiano la foglia e si avvicinano..
‘Da dove venite?’
‘Marche! Iesi.’
‘Ah, dalle parti di
Leopardi, giusto?’
‘Certamente.’
‘E allora come fa
quell’Infinito?’
Perplessi.
Riattacco: ‘Sempre caro mi
fu…?’
‘…quest’ermo colle!’,
quasi in coro.
‘Vi piace Firenze?’
‘Sì, sì, è bella.’
‘Vi posso dire un
segreto?’
‘Vai!’
‘Non ci sono più i
fiorentini!’
‘Non c’è più nessuno…!?’
‘È un mercato! È diventato
un mercato: danaro, mangiare e speculazione. E poi, i nostri bei resti che ci
hanno lasciato gli avi, da contorno acchiappasoldi. Mentre qui, vedete, stanno
costruendo con quelli di tutti questa bella cosa, allegramente, senza
rispettare le loro stesse leggi…’
Ma oggi è il giorno anche
di tre ritorni.
Anna, studentessa
Fotografa del mio ‘Da Vinci’, che saluta correndo, perché è in ritardo, ma ce
la fa a promettermi una cena di classe di nuovo tutti assieme appena possibile.
Filippo, anche lui ex
studente Fotografo: mi ha visto da laggiù in fondo e viene ad abbracciarmi,
fiero di potermi raccontare che ha già prodotto due film e scritto un libro! Li
aspetto!
E infine Luciana, compagna
di azioni teatrali di strada no-green-pass due anni fa davanti alle scuole
militarizzate della città imbavagliata, e adesso in Idra con noi. Bello passare l’ultima oretta con lei, e poi andarci
a bere insieme un caffè e un orzo al calduccio!
mercoledì 29 novembre 2023
PATRIARCATO E FAMIGLIA PATRIARCALE
di Luigi Mazzella
Patriarcato e Famiglia
patriarcale esprimono, pur nello stesso ambito concettuale, eventi e
realtà da tenere distinti. L’uno e l’altra hanno un momento puntuale
d’inizio e una durata continuativa nel corso del tempo.
L’origine, sia
per il patriarcato sia per la famiglia patriarcale, risale alla preistoria: si
perde, come suole dirsi, nella notte dei tempi. In
conseguenza, né l’assunzione (non sappiamo se violenta o in qualche modo concordata) del
potere da parte del maschio sulla femmina nello stesso gruppo sociale di
appartenenza, né l’incardinamento del patriarcato iniziale nella famiglia sono
stati mai descritti e raccontati da alcun essere vivente. In altre e più colorite parole, delle modalità e
delle motivazioni di tali “fattacci” non possiamo, quindi, sapere nulla:
vi sono solo le supposizioni di illustri antropologi che hanno affrontato il
problema, sulla base di studi. La conquista del potere del maschio a danno
della femmina si può arguire dal mito greco della cacciata della Dea
Ate dall’Olimpo, con un calcio nel deretano da parte di Zeus: sarebbe la
dimostrazione di un errore femminile severamente punito dal (nuovo?) Re degli
Dei. Il ricorso al mito, in mancanza di ogni altra fonte, conferma
che l’avvenuto impossessamento dello scettro di comando da parte dell’uomo
rimonta certamente a epoca preistorica. Non mancano, tra gli studiosi,
altre supposizioni, ipotesi e congetture. Margaret
Mead ha sostenuto che, verosimilmente, fino a quando la donna era stata
ritenuta l’unica artefice della nascita della prole per effetto, magari, di
influssi lunari connessi al suo ciclo, ella aveva godute di tutte le
libertà: in primis, quella sessuale considerata della stessa natura
di quella che l’uomo, oggi, attribuisce a sé stesso. Le donne, con buona probabilità, accettavano
di avere da sole il peso della gestione dei figli. Secondo gli studiosi
del ramo anche perché ciò durava fino al raggiungimento dell’autonomia della
prole (sull’esempio nel mondo animale, dove i cuccioli, cresciuti e in
grado di procurarsi il cibo, tendono ad avere una vita propria il prima
possibile). Una ipotizzabile ragione dello spossessamento iniziale del
comando da parte del maschio potrebbe essere data dalla scoperta del potere
procreativo del seme virile, immaginato come capace di determinare,
da solo, la formazione del feto e la nascita della prole. In ciò l’Uomo
doveva avere visto, verosimilmente, una sua potenzialità a superare i
confini della morte: il suo seme gli poteva consentire di perpetuarsi in
eterno. È agevole presumere, secondo la
scienza antropologica, che da questa prima forma di patriarcato si sia passati,
poi, anche all’attribuzione al maschio della proprietà dei beni con
la conseguente trasmissione dei medesimi per via ereditaria; da qui,
secondo alcuni studiosi, anche la nascita della famiglia (detta, appunto,
“patriarcale”) e del capitalismo.
Fatta
questa premessa, v’è da osservare che l’ultima delle tante, ricorrenti manifestazioni
di piazza, in Italia: (detta “contro il patriarcato e contro il
maschilismo” e indetta, dopo l’ennesimo caso di “femminicidio”) rappresenta
l’ennesima espressione della confusione mentale che oggi pervade l’Occidente. In
primis, ad essa, in cui le donne intendevano protestare per
l’ennesima prova di essere considerate proprietà dell’uomo (fidanzato, marito,
amante) e di essere trucidate se desiderose di ritornare libere, hanno
partecipato, come il cavolo a merenda, anche filo-palestinesi
e anti-israeliani che si proponevano un obiettivo di lotta ugualmente
molto serio ma ben diverso. Perché mischiarsi in un unico corteo,
danneggiando entrambe le cause? In secondo
luogo, la manifestazione ha dimostrato, per gli interventi sui mass
media di alcuni suoi più impegnati partecipanti, che sul tema del dominio
patriarcale la gente si muove in un pressapochismo concettuale ed in
un’ignoranza dei fatti veramente sconcertanti. Certamente il maschilismo
che lo caratterizza è ritenuto, non a torto, alla base dei “femminicidi” (il
cui numero aumenta esponenzialmente di giorno in giorno) ma gli interrogativi su
un tema così complesso sono veramente tanti e sembra che nessuno se li sia
posti. Innanzitutto, non sembra che la
manifestazione indetta a Roma e in altre città italiane possa vedersi come una
lotta possibile contro la “famiglia” sia pure nella sua essenza chiaramente e
inequivocabilmente “patriarcale”.
Si
è puntato il dito genericamente contro il “patriarcato” intendendo
demonizzare l’evento puntuale della sua nascita: ma ad
impossibilia nemo tenetur. Un tale impegno pugnace dovrebbe
intendersi diretto ad annullare le condizioni di vita di tutti i secoli di
preistoria e di storia da noi intuiti e conosciuti al fine
di ritornare al matriarcato delle origini. Si tratterebbe di un
progetto ambizioso (e di certo, non privo di coraggio) ma,
certamente, di impossibile realizzazione. È
da ritenere, d’altronde, che l’idea di un simile progetto non si sia neppure
affacciata alla mente di uno solo dei manifestanti.
Allora
la domanda è: si può demonizzare il
patriarcato continuando a santificare la famiglia che ne costituisce,
da millenni, la struttura portante? Veramente le donne manifestanti
ritenevano la “famiglia” il supporto del predominio maschile, il
luogo della loro “detenzione” e privazione di libertà?
La
risposta è agevole: certamente no!
Perché?
Perché tale ultima tesi, pur nella sua esattezza concettuale, contrasterebbe
chiaramente con la visione tuttora dominante nel nostro Paese (e non solo in
esso) che è quella profondamente “cattolica”. E chiamerebbe in causa, per
metterla in discussione, la passione emotiva cosiddetta “materna” (vera o falsa
che sia). Il cattolicesimo ha cambiato
tutte le carte in tavola anche in materia di egemonia del pater familias:
la famiglia patriarcale ha rappresentato un’involuzione (idest: un
peggioramento) del dominio maschilista sulla donna, ma appare indistruttibile
con manifestazioni di piazza; se, ovviamente, non muta, in misura
consistente, la mentalità che l’ha creata. In più,
la chiesa cattolica non solo ha attribuito natura divina alla procreazione (a
interpretare le cosiddette “sacre” scritture, i neonati
sarebbero veramente figli più che dell’inseminatore umano di un
Super-padre che è Dio) ma ha anche imposta come funzionale, l’educazione
da impartire in famiglia, alla inestinguibile (e definita”sacra”) lotta
contro gli infedeli.
Domanda
finale, “un po’ per celia e un po’ per non morir”: Non è contraddittorio per
molti manifestanti lottare contro il patriarcato, escludendo dai propri
strali il suo supporto (che oggi è la famiglia) quando nella
compagine governativa voluta (?) dagli Italiani v’è addirittura un
Ministro per la Famiglia?
LA PAROLA DEI LETTORI
A proposito di
patriarcato.
A proposito del
patriarcato, un tratto culturale di cui molto si è parlato in questi ultimi giorni e dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin. Esiste il patriarcato?
Nel caso esistesse chi lo veicolerebbe?
All’interno delle famiglie penso
sia preponderante il ruolo educativo della madre!
Ma ci sono altre agenzie educative
come la scuola.
Ma come è la composizione del
personale docente nei vari ordini di scuola (i dati sono di qualche anno fa):
- scuola dell’infanzia:
praticamente il 100% è femminile;
- scuola primaria (elementare): il
96% è femminile;
- scuole medie: poco meno dell’80%
è femminile;
- scuole superiori: il 65% è
femminile;
- dirigenti scolastici (presidi):
il 66% è femminile.
Negli ultimi 40 anni molte volte
sono state donne a coprire la carica di Ministro della pubblica a istruzione.
Non so se esista o meno il
patriarcato nella cultura italiana e occidentale ma se esistesse sarebbero le
donne a veicolarlo.
Ma se così fosse si porrebbe
un’altra domanda: perché?
Personalmente mi sono fatta una
idea ma vorrei ulteriormente verificarla.
Armando Boccone
LA DERIVA INDUSTRIALE
di
Franco Astengo
L’Italia
cede i suoi gioielli industriali.
A
distanza di pochi giorni l'inserto "Economia" del Corriere della Sera
torna, ancora a firma di Ferruccio De Bortoli, sul deficit industriale
dell'Italia portando in rilievo il caso "Magneti Marelli" precisando:
"Magneti Marelli non è più italiana
da quando FCA, non ancora Stellantis, la cedette sventuratamente (ma non per i
propri azionisti) alla nipponica Calsonic Kansel Holding" (operazione nella quale
non fu usata la golden power e che la FCA). Anche
la multinazionale della componentistica dell'auto non è più giapponese da
quando è controllata dal fondo americano KKR, lo stesso che avrà la maggioranza
dellerete di telecomunicazioni una volta scissa da Tim". E si precisa: "La
scelta miope di rinunciare alla difesa dei componenti: rimangono Brembo per i freni
e Pirelli per le gomme".
Si
è così rinunciato a costruire un grande gruppo della componentistica che
avrebbe potuto intervenire su di una particolarità non irrilevante nel processo
di transizione ecologica per non dipendere dal motore endotermico e porre
settori industriali in grado di essere competitivi nella sfida dell'auto
elettrica (che, ricorda ancora De Bortoli, "ha sempre bisogno di pneumatici e freni").
Analoghe
situazioni di "estraniamento produttivo" si sono ormai registrate in
altri settori strategici dalle telecomunicazioni alla siderurgia soltanto per
fare alcuni esempi. Senza timore di annoiare e nella certezza di non essere fraintesi
come sovranisti-nazionalisti torniamo allora su alcuni punti già toccati in
passato: si è creata una situazione di evidente
scalabilità e debolezza, a dimostrazione di una ormai storica incapacità di programmazione
dell'intervento pubblico in economia e di assenza di politica industriale (che
coinvolge anche l'Europa). L'opposizione e il
sindacato non possono rimanere ingabbiati in questa dimensione strategicamente inesistente,
tutta rivolta all’autoconservazione del politico, schiacciata dall’emergenza
dell’immediato. Serve un colpo d’ala nella progettualità e nell’intervento
del pubblico sui nodi strategici, serve affermare la forza del movimento dei
lavoratori da proiettare in avanti, non basta evocare un indefinito “green” e
un imperscrutabile “digitale” in un Paese al centro della contesa europea e che
accusa da tempo limiti enormi dal punto di vista della politica industriale
soprattutto sul delicatissimo terreno dell'innovazione nei settori strategici.
Limiti del resto non affrontati neppure nella "possibile"(?)
occasione fornita dal PNRR al riguardo della quale il discorso andrebbe
affrontato in sede opportuna ma che non può essere sottovalutato o peggio
dimenticato. PNRR il cui utilizzo appare ormai orientato in senso di
raccolta di consenso elettorale in pieno appoggio al concetto di potere che
alberga nell'attuale destra di governo.
martedì 28 novembre 2023
I TEDESCHI E LA COLPA
di Johann Lerchenwald
Johann Lerchenwald
Resta ancora da aggiungere qualcosa su questo tema? Non sono già stati
illuminati a sufficienza tutti i retroscena economici, politici, storici? Non
abbiamo appreso ormai nei minimi dettagli come poté accadere e non siamo forse
a conoscenza di un buon numero di casi sfortunati, senza i quali gli
avvenimenti avrebbero probabilmente preso un altro corso? Non hanno i testimoni
oculari raccontato a sazietà della retorica ipnotica del Führer e del micidiale
apparato di controllo della Gestapo? Eppure, leggendo nella terza pagina di un
quotidiano tedesco che il bombardamento sistematico delle città è stato il
prezzo della libertà, l’unico mezzo per far guarire da una grave malattia, lo
straniero scuote la testa, prova pietà e anche una certa paura di fronte a
questo popolo incomprensibile. Dopo la distruzione di una buona parte della
storia materializzatasi in case e città (e naturalmente l’eliminazione dei più
alti gerarchi nazisti e lo scioglimento della loro organizzazione) era il
Tedesco quindi finalmente pronto per diventare un essere umano come tutti gli
altri? Ci fosse stata soltanto la guerra, condotta grazie ad una tecnica
moderna con ancor maggiore tenacia della precedente, causando decine di milioni
di vittime, l’umiliante sconfitta avrebbe questa volta potuto trovare un
contrappeso nella coscienza di chi questa guerra aveva indiscutibilmente
scatenato. E forse sarebbe ancora stato possibile venire in chiaro con sé
stessi e il mondo. Ma, sotto gli occhi di tutti, c’era lo sterminio di un
popolo organizzato a tavolino e messo in atto da appartenenti alle SS con
tipiche virtù tedesche (sterminio del quale la maggioranza non sapeva o non
aveva voluto sapere nulla). Vennero alla luce fatti ai quali nessun essere umano
provvisto d’anima è capace di credere. Non solo degli innumerevoli
sistematicamente assassinati si era tenuta scrupolosa contabilità, ma anche
della farina ossea ricavata dai crematori, destinata a tornare in patria come
concime artificiale per i campi tedeschi…
Johann Lerchenwald |
Un popolo che si era fatto un nome per la sua cultura e aveva poi voluto
ergersi a razza dominatrice, si vide all’improvviso confrontato – indipendentemente
dall’agire e dal pensare del singolo durante l’epoca fatale – con un’accusa la
cui mostruosità non lasciava scampo. Se non si voleva restare di sale, se si
voleva in qualche modo andare avanti, si presentavano solo due vie: o negare
una qualsiasi colpa e addossarla ad altri oppure riconoscersi completamente ed
indifferenziatamente colpevoli. Una distaccata autocoscienza senza pressioni
esterne non era evidentemente prevista dal piano divino. Diviso in due, il
paese ebbe modo di sperimentare ambedue le vie.
Nella parte
orientale tutta la responsabilità venne rovesciata sui nemici dichiarati del
Comunismo. E, giacché gli operai, considerati comunisti per natura,
costituivano la maggioranza della popolazione, si poté tranquillamente passare
all’ordine del giorno. Alla parte occidentale toccò la sorte più dura. Una
continua contrizione, finalizzata a tappare la bocca all’opinione pubblica
mondiale e alla propria coscienza, doveva spianare il terreno all’edificazione
di una società razionale e inattaccabile basata sul rendimento.
Il socialismo è venuto meno da sé. E, con la coscienza leggera e una buona
porzione di umorismo, i compagni sono adesso alle prese con il difficile
processo di adattamento alle giornaliere follie del Capitalismo.
Nell’ex Germania
occidentale, che dà il tono, non è invece cambiato molto. Semmai si alzano qua
e là voci che chiedono la prescrizione del crimine commesso. Dopo più di
cinquant’anni si dovrebbe aver espiato abbastanza, sostengono. La terza
generazione non avrebbe più nulla a che vedere con questa faccenda, per quanto
atroce essa sia stata. Il complesso di colpa, coltivato dal ceto dirigente e
dall’intellighenzia e trasmesso dai genitori ai figli, non si lascia però
estirpare dall’oggi al domani. Esso ha impedito lo sviluppo di una vita
spirituale, ha eretto barriere emozionali e intellettuali che non si possono abbattere
semplicemente archiviando un passato relativamente recente.
‘Divieni quel che
sei’, esortava un filosofo nel secolo scorso.
Ma in quanto
Tedesco mi è forse permesso chiedermi chi sono?
IL TEATRO GEROLAMO RISPLENDE
di Angelo Gaccione
“Da piccolo, erano gli anni Cinquanta, fui
portato al teatro Gerolamo, che dall’Ottocento introduceva i bambini agli
spettacoli collettivi, con bassi parapetti nelle logge di galleria affinché lo
sguardo potesse abbracciare il palcoscenico e tutta la sala. Vi tornai
solo nell’autunno del 2008 tra tutti gli altri che poi vi hanno lavorato, subentrando
a chi ci aveva preceduto”.
Edoardo Guazzoni
A scrivere queste parole è l’architetto Edoardo Guazzoni, e deve essere
stata una esperienza meravigliosa quella di tornarci da adulto e da
professionista, per prendersene cura e riconsegnare alla sua città, nel suo
ritrovato splendore, il magnifico gioiellino che è il Teatro Gerolamo. Il
termine scrigno lo possiamo impiegare senza tema di essere smentiti,
sebbene da fuori la casa milanese di Luigi Bolis in piazza Beccaria, non abbia
nulla di appariscente. Una facciata sobria e un arco a tutto sesto contrassegnano
il civico numero 8 di quella che sin dall’origine era stata una casa privata.
Ma varcato il vetusto portone, e percorso il breve tratto di corridoio, un vero
miracolo vi si para davanti agli occhi.
Il recupero e il restauro eseguiti sotto la direzione e la supervisione di Edoardo
Guazzoni assieme a Chitose Asano e G. Ferrarese, coadiuvati da un nutrito gruppo
di collaboratori formato da M. Frasson, A. Lauria, C. Lucca, M. Turati, M.
Verzoletto, P. Ceresatto, C. Formenti, V. Turotti, hanno restituito alla
galleria, al loggione, ai palchetti, alla scena, alla platea, un’atmosfera
magica. È come essere avvolti in una conchiglia dal disegno vagamente ovoidale,
circondati da tonalità calde e riposanti.
Ma diamo
di nuovo la parola all’architetto Guazzoni: “Il restauro dei palchi, sobrio e
insieme fastoso decoro della sala, scena “fissa” del teatro, va alla scoperta
del gusto, dei colori e dei temi di un tempo, dove gli strumenti musicali si alternano
alle fiabe e ai personaggi dello spettacolo. Stratigrafie puntuali hanno
permesso il riconoscimento dell’aspetto iniziale soprattutto per quanto
riguarda l’atrio ottagonale e i decori di sala, non dimenticando tuttavia le
successive reiterate sovrapposizioni che le epoche successive hanno aggiunto.
Pallide sfumature in chiaroscuro e sottili cornici d’oro appartengono ora al
soffitto. Si tratta di un abito nuovo, confezionato tenendo conto di quelli
sdruciti che non vanno dimenticati, che lascia inoltre intendere nuove
possibili altre vestizioni che il Gerolamo, bontà sua, sarà in grado di
concedere. Questa tensione si può riassumere nell’accostamento di pareti rosse
a pareti verdi, di sedie rosse nei palchi a sedie verdi in platea.
L’introduzione di una preziosa e raffinata tappezzeria di disegno neoclassico
si accosta da vicino alle assi verniciate dei retropalchi, mantenendo viva la
frequentazione di generazioni che ci hanno preceduto”.
Ma come
c’era finito il Gerolamo all’interno di Palazzo Bolis e soprattutto quando? Una
maschera e una data portano inciso: 1868, anno dello spettacolo di
apertura col titolo: Gerolamo maestro di musica. A progettarlo era stato
l’ingegnere Paolo Ambrosini Spinella, a provvedere alla sua realizzazione, invece, Leopoldo
Rivolta. Il Gerolamo però aveva già una sua piccola storia prima di approdare
al Palazzo Bolis; pare fosse attivo già dal 1806, più di un sessantennio prima,
ed era animato dal marionettista Giuseppe Fiando originario del Piemonte che
aveva reso celebre il personaggio della marionetta “Gerolamo” anche a Milano.
Quando era stato demolito il caseggiato in cui si trovava la vecchia sede del
Gerolamo, sempre a ridosso di piazza Beccaria, Fiando aveva dovuto
necessariamente traslocare e il palazzo Bolis era quanto di meglio si potesse
desiderare: nello stesso luogo e a due passi dal Duomo. Oggi le lettere L.B. - incise
sulla sommità del palco d’onore - assegnano a Luigi Bolis il nome del palazzo;
in verità lo aveva acquistato dal proprietario originario, Leopoldo
Rivolta, nel 1879. Bolis
ebbe il merito di ammodernare il teatro e di promuoverne le attività; cosa a
lui congeniale essendo egli stesso melomane oltre che cantante d’opera.
I passaggi di mano non hanno tradito l’antica tradizione marionettistica
del Gerolamo, e la nota Compagnia “Carlo Colla e Figli” ne celebrarono i fasti
dal 1911 in avanti, facendo la gioia di bambini e famiglie intere fino al 1957.
E non hanno tradito nemmeno la tradizione dialettale, poetica-canora, di prosa,
cabarettistica e, a volte, anche di sperimentazione, quanti a vario titolo si
sono succeduti alla sua direzione o vi hanno operato da protagonisti, nell’arco
temporale delle sue alterne vicende fatte di chiusure e riaperture. I nomi di
Paolo Grassi, Dossi, Fo, Fortini, Gadda, Marchi, Porta, Quasimodo, Santucci,
Strehler, Tessa, Jannacci, Gaber, Filippo Crivelli, Paola
Borboni, Umberto Simonetta e via elencando, danno un’idea della vitalità di questo
particolare “contenitore”.
Otto anni è durato il restauro-recupero: dal 2008 al 2016; ma ben 33 anni il suo silenzio: da
quando, nel febbraio del 1983 il Gerolamo dovette sospendere la sua attività a causa
delle restrittive norme sulla sicurezza che si abbatterono come una mannaia su
molti teatri italiani. La Società Sanitaria Ceschina, che possiede lo stabile
dal lontano 1925, ha dato al Gerolamo nuova vita grazie ad una puntuale ed
efficace ristrutturazione. Le foto di Herreman Bart ne documentano il fascino e l’armonia, ma dovete
venirci fisicamente per coglierne i dettagli.
Piero Colaprico
Direttrice generale ne è l’architetto Chitose Asano, mentre la direzione
artistica si avvale di un grande innamorato di Milano, il giornalista e
scrittore Piero Colaprico. Ero molto giovane quando per la prima volta sono
entrato come spettatore nella platea di questo teatro, chissà che non ci possa
tornare come autore. Magari con la commedia comico-brillante Tradimenti
introdotta proprio da uno dei più sensibili sostenitori del Gerolamo, il
regista Filippo Crivelli, che di questa commedia ha apprezzato la raffinata
eleganza e l’ironia, tanto da scriverne l’introduzione.
Piero Colaprico |
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