UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

mercoledì 3 dicembre 2014

Salvatore Natoli:
gli esiti della governabilità
di Giovanni Bianchi

Pubblichiamo lo scritto di Giovanni Bianchi in prima pagina e non nella Rubrica
“Segnali di fumo”, perché l’antropologia degli italiani si sustantia magnificamente nella lurida feccia che accomuna il verminaio romano della cronaca criminale di queste ore.


Salvatore Natoli
La diagnosi di Natoli
L'ultimo saggio di Salvatore Natoli (Antropologia politica degli italiani, La Scuola, Brescia 2014) ha tra i molti meriti quello dello sguardo lungo. Di tenersi cioè lontano dal congiunturalismo e dal sondaggismo per privilegiare la storia di lungo periodo, dove si radunano le grandi trasformazioni e quei processi cumulativi in grado di creare le mentalità che sopravvivono ai cicli politici, ed anzi, sempre secondo il Natoli, proprio per questo "li determinano e per questo, seppure sotto altra forma, si ripresentano".
Gli autori di riferimento sono anzitutto il Guicciardini, il Leopardi, e aggiungerei il Prezzolini e più ancora Guido Dorso -il maggior teorico italiano del trasformismo- del quale sempre Salvatore Natoli si è occupato in altre occasioni.
Per il maggior filosofo dei comportamenti fin dagli esordi della modernità il carattere degli italiani è stato determinato dall'assenza di senso dello Stato, e quindi da una scarsa fiducia nelle istituzioni, e dalle conseguenze di un decollo tardo e limitato del capitalismo, e con esso della sua etica. Circostanza che ci obbliga a fare i conti con una assenza di Stato laico e con l’inesistenza della cultura liberale conseguente.
Tutti nodi che stanno venendo al pettine con il manifestarsi preoccupante delle conseguenze di una debole efficienza media del sistema, cui si accompagna, senza più riuscire ad essere antidoto, il perpetuarsi di una tradizionale mentalità familistica, tutta interna al modello della famiglia mediterranea.
La svolta è tale che anche il "piccolo è bello", tipico della filosofia del Censis di Giuseppe De Rita, che per molti anni ha esercitato di fatto l'egemonia sull'intellettualità italiana, risulta oggi inservibile per affrontare i processi di globalizzazione: tutti oramai concordano, e non soltanto per ragioni di ricerca, occorre ben altro!
Nella prospettiva natoliana vengono anche recuperate le grandi sociologie, proprio perché sottratte al tecnicismo congiunturale che le affligge, e quasi costrette a riaprirsi nuovamente ai grandi orizzonti della storia. Gli italiani cioè non solo presentano un deficit di Stato, ma anche un deficit di popolo, dal momento che i popoli sono in qualche maniera frutto di un'invenzione a loro volta politica, capace di stabilizzare i processi di identità.
Ecco perché negli ultimi due decenni sono tornati a vigoreggiare i localismi, nipoti dell'antico Strapaese, e le ideologie perdenti delle piccole patrie. Il tutto ulteriormente complicato dalla presenza ingombrante della Chiesa cattolica, in quanto potere temporale in grado di ingenerare equivoci e scombinare le carte politiche secondo la celebre critica gramsciana.
Una Chiesa comunque in grado di esercitare pesantemente e puntualmente un potere di interferenza e perfino di interdizione. Il cardinalato "tardorinascimentale" di Camillo Ruini appare in questa prospettiva l'ultima tappa di un lungo percorso. E non è fortunatamente casuale che il termine "valori non negoziabili" risultasse poco gradito a Benedetto XVI e pare totalmente espunto dal lessico di papa Bergoglio.

Un’etica di cittadinanza
Secondo Salvatore Natoli "gli altri Paesi non sono certo più o meno onesti di noi, ma a far la differenza è un'etica pubblica che li rende più esigenti e meno concessivi di quanto lo siamo noi". La critica impietosa e il sarcasmo non sono del resto nuovi. In proposito Natoli cita abbondantemente il Giacomo Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi italiani. Discorso che resta una pietra miliare per l’autocomprensione del carattere -pregi e difetti, più difetti che pregi- della nostra gente. "Il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci. Quelli che credono superiori a tutti per cinismo la nazione francese, s’ingannano".
Osserva in proposito il Natoli: "Ora, come è noto, sono le condotte comuni e non i grandi principi a rendere forti le democrazie".
Chi infatti si sia preso la briga di leggere il corposo volume di Henry Kissinger dal titolo L’arte della diplomazia, ricorderà il giudizio sintetico ed acuto che l'ex segretario di Stato offre circa la grande macchina democratica degli States, dicendo grosso modo che è impossibile capire come esattamente funzioni e come riesca a funzionare, ma che alla fine produce decisioni democratiche...
Il libro
I materiali eterogenei di una nazione
Tornando ai casi nostri, tra i materiali più eterogenei e meritevoli di ascolto di questa democrazia sono gli italiani in quanto popolo in faticosa democratizzazione su una troppo lunga penisola. Popolo costruito e in costruzione: cantiere perennemente aperto dove gli eterogenei materiali dell’antipolitica -dai campanilismi dello strapese alla resistenza sui territori delle organizzazioni della malavita- prendono gradatamente le forme della cittadinanza politica. Venti milioni di abitanti da rendere cittadini nel 1861, al momento della proclamazione dello Stato unitario. E poi 29 milioni di italiani all’estero, in cerca di lavoro in tutto il mondo... Fino all’approdo di una nave nel porto di Brindisi brulicante di ventimila albanesi l’8 marzo del 1991, che s’insedia nella nostra storia come icona del cambio d’epoca.
Questi italiani non sono granché mutati da quando li analizzava Giacomo Leopardi, sottraendosi già allora alla trita retorica del poveri ma belli e ricordandoci che l'italiano è una figura costruita nel tempo e che la sua persistente "anormalità" si raccoglie intorno all'assenza di classe dirigente e all'assenza di vita interiore.
È da questo background che discende a sua volta la diffusa attitudine, tutta rassegnata, a pensare la vita senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, ridotta e tutta rattrappita nel solo presente. Questa disperazione, diventata nei secoli congeniale, unita al disprezzo e al contemporaneo venir meno dell’autostima, coltiva un intimo sentimento della vanità della vita che si rivela non soltanto il maggior nemico del bene operare, ma anche lo zoccolo etico più fertile per rendere questa sorta di italiano autore del male e rassegnato protagonista della immoralità. Per cui può apparire saggezza il ridere indistintamente a abitualmente delle cose d’ognuno, incominciando da sé medesimo… 
Che le cose non siano sensibilmente cambiate è testimoniato dalla presente situazione politica che vede un ceto politico che, come si è più volte osservato, pur di perpetuarsi, ha rinunciato ad essere classe dirigente. Di questo il "popolaccio" leopardiano s'è accorto e convinto e la reazione è rappresentata dal disinteresse per la cosa pubblica, dal disincanto per le regole etiche e morali, dall’astensionismo elettorale. Siamo cioè in quel che David Bidussa definisce il “canone italiano”, ripercorrendo l’idealtipo tratteggiato da Giuseppe Prezzolini, alla vigilia dell’avventura fascista, sotto il titolo di Codice della vita italiana. I frequentatori abituali del nostro corso lo ricordano senz'altro.  Scrive Prezzolini:
"I cittadini italiani si dividono in due categorie: Non c'è una definizione di fesso. Però: se uno paga il biglietto intero in ferrovia, non entra gratis a teatro; non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente nella magistratura, nella Pubblica Istruzione ecc.; non è massone o gesuita; dichiara all'agente delle imposte il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci, ecc. questi è un fesso... Non bisogna confondere il furbo con l'intelligente. L'intelligente è spesso un fesso anche lui... Il furbo è sempre in un posto che si è meritato non per le sue capacità, ma per la sua abilità a fingere di averle".
Viene passata in rassegna una gamma di comportamenti diffusi, polarizzati intorno a due categorie, i furbi e i fessi, che hanno sedimentato un modo comune di pensare nelle generazioni degli italiani. Addirittura un fatto di costume. Prezzolini giunge di conseguenza a fissare l'attenzione su una caratteristica relativa alla furbizia che denuncia un atteggiamento comune a larghe schiere di connazionali. Scrive infatti: "L'italiano ha un tale culto per la furbizia che arriva persino all'ammirazione di chi se ne serve a suo danno... La vittima si lamenta della furbizia che l'ha colpita, ma in cuor suo si ripromette di imparare la lezione per un'altra occasione." E qui davvero non sai se ammirare l'arguzia o la profondità dell'indagine psicologica.
Un guicciardinismo che cola di generazione in generazione, non smentendo se stesso. Che ci accompagna in un disincanto che di tempo in tempo l’acuirsi delle difficoltà quotidiane si incarica di trasformare in rancore.  

La vera anomalia è però che gli italiani riescono ugualmente a modificarsi battendo le vie storicamente consolidate del trasformismo, dal momento che il trasformismo si colloca ad un livello più profondo di quanto comunemente non  ci accada di pensare, e anziché ritenerlo unicamente un fenomeno degenerato di prassi parlamentare sarà bene provare a intenderlo come una tipologia italiana del mutamento. Infatti la rete dei personalismi e degli interessi particolari regge questo sistema e dal momento che in qualche modo essa risulta “pagante” non solo è difficile da smantellare ma ha ormai plasmato una mentalità diffusa, appunto, “nazionale”.
Esistono invalicabili limiti di cultura che non si possono eliminare per decreto: alcuni dei nostri maggiori sopra passati in rassegna ci hanno ricordato che gli italiani usano lo Stato più di quanto lo servano, ed in compenso ne parlano male.
Osservava Natoli già in uno scritto del 1991 apparso nella rivista "Bailamme": "Nel contempo essi sono troppo abituati alle delusioni e tendono, ognuno per conto proprio, a prevenirle cercando di trovare soluzioni private o mettendosi alla ricerca dei cosiddetti appoggi giusti al fine di ottenere più celermente e sottobanco quanto non riescono ad acquisire alla luce del sole."
Da qui discende un'evidente ipertrofia dello Stato come affare e perciò un uso sempre più affaristico dello Stato, che è tanto più incidente quanto più lo Stato è presente nella società. In questo modo in Italia si è venuta a mano a mano costituendo una forma di organizzazione sociopolitica in cui pubblico e privato si mescolano costantemente fino ad una vera e propria riprivatizzazione dello Stato attraverso il sistema pervasivo dei partiti. (Enrico Berlinguer parlò di "occupazione".)
Così il fenomeno è esplicitato fino al suo dilagare nei giorni nostri, con una cannibalizzazione delle forme del politico che si è fatta tribalizzazione della società civile e quindi delle istituzioni, e addirittura della quotidianità stessa. Ciò spiega come in Italia lo Stato sia pervasivo senza essere altrettanto efficiente ed il privato non riesca mai ad essere così privato come dovrebbe e come soprattutto va proclamando sulle diverse gazzette e nel diluvio dei talkshow. Per questo il trasformismo non può significare soltanto prassi parlamentare, ma assume la consistenza e il peso di  una tipologia del mutamento della nazione.
Le riforme sarebbero dunque da fare. Ma come e da parte di chi? Nelle società ad alta complessità i sottosistemi che le costituiscono godono di una relativa indipendenza e proprio per questo possono evolvere in modo differenziato. Quel che è accaduto in Italia è proprio questo: il sistema politico è reso inefficiente da quella stessa rete dei personalismi attraverso cui si riproduce. Nelle società contemporanee infatti è possibile constatare un pullulare di movimenti a diversa motivazione (sovente one issue) che sorgono e dispaiono ma non sboccano in istituzioni. Quel che in questi casi è singolare notare è il fatto che normalmente gli individui sopravvivono ai movimenti cui aderiscono.
Risulta così difficile individuare un responsabile da chiamare in causa, per l'evidente ambiguità della rappresentanza politica. Ed inoltre, in una società in cui vi è un'alta specializzazione delle prestazioni, risulta improbabile che i cittadini abbiano la competenza di decidere sulla funzionalità delle regole.
Nessuna società può essere cambiata per decreto, ma è in base alla sua “andatura ordinaria” che si misurano successi e fallimenti. E bisogna segnalare che il sistema Italia, anche se non riesce mai a correre a pieno regime, non è un sistema totalmente bloccato. In Italia si è praticato sempre poco, ed in modo incerto, il governo del cambiamento, ma ciò non ha impedito che vi fosse una crescita, sia pure non programmata, una mescolanza di spreco e di imprenditorialità.
È in questo quadro che va collocato il discorso sulla casta di Rizzo e Stella, che ha cessato di essere un'inchiesta giornalistica per diventare una categoria del politico italiano. Così pure deve essere affrontato il tema di una diffusa area di sottogoverno, tema proposto da Stefano Rodotà.

Tra rappresentanza e governabilità
Scrive Natoli che "nel tempo gli italiani sono cambiati e cambiano, ma in generale non dirigono i processi di cambiamento, li subiscono". Diventano cioè diversi senza rendersene (pienamente) conto. Un lungo andazzo, un'indole nazionale, una sorta di Dna e perfino una regolarità della politica italiana. Osserva ancora Natoli che "perché una democrazia sia compiuta, è necessario che le parti politiche si alternino ai governi; il ricambio evita una sclerosi dei partiti e con essa una decomposizione della democrazia". Problema fondamentale e che ci trasciniamo da sempre.
Ma perché una democrazia sia compiuta, oltre a regole all'altezza dei mutamenti che già si sono verificati, ci vogliono soggetti in grado di organizzare pensiero politico e selezionare la classe dirigente. Questo manca da troppo tempo alla politica italiana. L'interventismo giudiziario susseguente a Tangentopoli nasce in questa anomia e in questa rarefazione del politico: i giudici, nel vuoto e nello scempio delle regole, si erigono impropriamente a soggetto politico. Pare anche, in qualche caso, che ci prendano gusto. Do you remember Ingroia?
Scrive ancora Natoli: "Una vera e propria patologia della rappresentanza". E infatti non possiamo essere i perenni nipoti della Trilaterale del 1974. Fu allora che si disse: vi è un crisi della democrazia prodotta da un sovraccarico di domanda; si rende quindi necessaria una riduzione della complessità per realizzare la governabilità del sistema. 
Il presupposto teorico venne fornito dalla teoria luhmanniana, meglio nota come  teoria della complessità. La parola chiave della teoria luhmanniana è complessità e vuol rappresentare la crisi di ogni “spiegazione semplice” del mondo e dei processi sociali : “il mondo è complesso e rende sempre più inafferrabile la totalità degli elementi e dei dati”. Perciò, non è più pensabile alcun “soggetto generale” che riesca a conoscere la totalità.
Tutto vero, ma come si attrezza una democrazia, in quali tempi, con quali modalità, con quali soggetti ai compiti che la complessità sembra assegnarle?
Non a caso la governabilità veniva allora proposta all'Italia come antidoto a un "eccesso di partecipazione". Dove il rischio e il problema non è soltanto la protervia del vecchio, ma anche la concreta praticabilità democratica del nuovo.
Conclude Natoli (che non ha mai nascosto una puntuale  attenzione alla sistemica luhmanniana)  la propria disamina osservando che Guicciardini ha perfettamente ragione nel dirci che è la forza delle cose a renderci trasformisti. Sociologia dal respiro storico e alta e lucida politologia.
Resta davanti a noi la necessità di ricercare una soluzione politica, o almeno di mettere in campo gli sforzi che accompagnano la sua ricerca. Non a caso le difficoltà e gli interrogativi del renzismo si confrontano con i tempi dichiaratamente stretti della fase, ma hanno radici lunghe che scavalcano, attraversandola, la grave crisi economica e sociale.
Il titolo di quest'anno pone con evidenza la centralità del tema. Usiamo -questa è la prospettiva che propongo- il tempo del corso per costruire insieme un punto di vista che ci trovi meno disorientati e meno impotenti.

Eppure
Ho l’abitudine di definire la fase che viviamo come caratterizzata dalla politica senza fondamenti, quantomeno perché la velocità del tempo e il tempo delle decisioni sopravanzano la riflessione e il parlare (Parlamento viene da parlare) delle decisioni da prendere. Salvatore Natoli ci aiuta -non soltanto con questo testo in esame quanto soprattutto con l'intervista rilasciata a Francesca Nodari- a non spaventarci della difficoltà e ad addentrarci nella transizione.
Come? Anzitutto con l'impostazione di fondo della sua filosofia dove ermeneutica e genealogia sono il luogo dello sguardo e dell'elaborazione. Quindi, proprio con le ultime pagine dell'intervista dal titolo La mia filosofia, dove, dato a Luhmann quel che è di Luhmann,  osserva che il passaggio nel quale siamo inseriti non è dal pensiero forte al pensiero debole, ma dal pensiero semplice al pensiero complesso. In secondo luogo perché, essendosi dall'Ottocento sviluppate le tecniche come dinamiche applicative della scienza, siamo passati dalla società del progresso alla società del rischio.
Scrive Natoli: "Stare al mondo è essere, oggi, in una situazione in cui siamo chiamati a governare la contingenza. Da questo punto di vista, la mia riproposizione della virtù viene incontro a questo, perché la virtù è quella modalità di rafforzamento di sé, che è tanto più necessaria in una situazione di improbabilità. La virtù, si badi bene, è il rafforzamento di sé, ma non nella forma dell'onnipotenza, bensì nella forma della capacità di saper costruire relazioni. Perché se noi consideriamo l'elenco di tutte le virtù così come è presente nella storia della filosofia, non ve n’è una che per essere messa in opera, non comporti una forma di relazione. Perché l'uomo virtuoso, da solo, non esiste. Quindi la virtù è il governo di sé, nel senso della capacità di attivare relazioni positive con il mondo".
Il mondo, che è dimora del nostro transitare, ma anche campo continuo d'azione.


                                                                                               

NATALE 2014. FORSE
Luci e ombre di una città
Testo e foto di Paolo Maria Di Stefano

Il tempo di Avvento è qui, a preparar Natale.
Ha piovuto e piove come mai. A tratti, promesse improbabile di sole d’inverno.
Forse anche per questo Milano è pronta ad accendere le sue luci, come da tradizione: per cercare di rompere questa cappa che la veste di grigio, ancor più di quanto non facciano la politica e la cultura.
Le feste si annunciano vestite anche di disordine e di egoismi.
Gli inquilini delle case popolari manifestano tutto il loro disagio; gli occupanti abusivi, anche.
I primi, perché vivono ormai prigionieri in casa, asserragliati per difendersi da chi, approfittando anche di una breve assenza, è pronto ad appropriarsi della casa, e delle cose che contiene; gli altri, perché sono alla ricerca disperata di un luogo nel quale almeno sostare al coperto. E per questo, si organizzano, magari anche pagando chi è in grado di segnalare il momento giusto per entrare.
Che è un’applicazione dei princìpi della nostra economia: individuare le opportunità e sfruttarle, utilizzando la legge del minimo mezzo. E c’è chi un ricovero se lo costruisce come può, spesso negli angoli del benessere, sempre ai confini delle luci, come per esser ricordati senza imporsi.







Su tutto, l’inefficienza (il disinteresse?) di coloro che dovrebbero impegnarsi a risolvere i problemi nati dalla pianta oscura della miseria e dell’emarginazione. Frutto dell’egoismo di ciascuno di noi, solo apparentemente impotenti ad arginare l’appropriazione delle ricchezze da parte di pochi a scapito dei tanti, sempre più deboli e sempre più numerosi, e solo a parole fautori della dignità di ogni essere umano. Ma le feste sono imminenti, e i pensieri vivono in un mondo di regali, di pranzi e cene in compagnia, di vetrine, di luci, di suoni, di viaggi e vacanze, di rumori e di voci… di tutto ciò che ha fatto il Natale fino a ieri, atteso più per ragioni economiche e di immagine che per i valori che dovrebbe rappresentare e che, non ostante tutto, rappresenta.
Oggi, il Natale si è fatto forse (appena) un poco più pensoso e consapevole. Siamo tutti più poveri, e allora più di qualcuno sembra ricordare i valori dello spirito, magari soltanto per risparmiare.
Che potrebbe anche tradursi in quella cultura degli altri che sembra ridotta ad un’ombra nella nebbia. Forse anche per questo Milano si prepara ad illuminare il suo Natale.
La città ha sprazzi di vitalità, anche interessanti. Si aggiorna e si rinnova a ritmo veloce, forse discutibile, ma lo fa. Forse solo in vista di una esposizione dalla quale spera si avveri una parte dei sogni di nuova ricchezza, ma lo fa.

Via Croce Rossa
 
Via Manzoni
Forse la delusione sarà grande, ma almeno una parte delle nuove cose rimarrà. Fosse anche solo un ricordo. Il Natale dell’anno passato -appena ieri- ha visto per la prima volta piazza Gae Aulenti ornarsi di luci. Queste.
Piazza Gae Aulenti
 
Piazza Gae Aulenti
 
Piazza Gae Aulenti
Tutto “in progress”, ancora. La piazza aveva allora l’aria di un grande cortile e le decorazioni, in fondo non eccessive, sembravano occupare ogni spazio. Solo una idea di abete. Suggestiva, e in qualche modo ispirata al respiro del mondo, in quel convivere di luci e di colori e di parole.  Nell’aria, quasi un’attesa di partecipazione da parte dell’osservatore: un invito, forse, a contribuire a creare la nuova Milano.
Oggi la piazza è cambiata. È cresciuta. Qualcuno afferma che contribuisce non poco a snaturare la città, dimenticando che una città è per definizione un cuore pulsante e vivo e un organismo in continuo aggiornamento, che deve dare risposte ai cittadini dell’oggi, anche divenendo memoria storica. “Nessuna città viva ha mai risposto a precise esigenze di programmazione, a nessun tentativo di logica oggettiva” ha risposto alla mia domanda il mio Spirito Guida, Alessandra, architetto che progetta idee e creatività. “In casi sporadici è accaduto, ma soltanto in parte. Le città vivono dell’oggi e del sentire di chi le abita. E di chi le abita pietrificano l’essenza.
Sforzarsi di costruire la città ideale è la maggiore e forse la più dannosa delle utopie”.
Le luci di questo Natale stanno per nascere. Piazza Gae Aulenti certamente le vivrà per quello che essa è: forse la migliore espressione di una fantasia creativa alla quale per lungo tempo Milano è parsa estranea, ma che, oggi, sembra avviarsi a conquistare l’anima della città.

Trombe in piazza Gae Aulenti
Nel cantiere che progetta e realizza idee e fantasie, popolato di architetti e da giovani artisti, entusiasti del lavoro cui sono stati chiamati, Alessandra è impegnata e lavora senza sosta. Crea, e adora farlo. Il giorno e la notte e il tempo sono spariti. Non riuscirà a tornare neppure quest’anno nella città e nella casa che ama, ma è dentro di me e di sua madre e parla e sorride e fa del nostro un Natale diverso, un Natale di ricordi, di certezze e di speranze. Mi ha dato un incarico: augurare a tutti un Natale fatto di luci affascinanti, e di musica che in quelle luci trovi i suoni della felicità.
E un Natale dal quale nessuno debba nascondersi. 

barbone a Milano
Un Natale che unisca la felicità di ciascuno a quella di anche uno soltanto degli ultimi.

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