Le
chiavi di Gerico
di Giovanni Bianchi
Le chiavi di casa
Si chiama Samir la guida turistica che ci
ha accompagnato per nove giorni nel pellegrinaggio in terra santa. È un
palestinese cristiano e cittadino israeliano. Fa parte cioè di quell’1,2% di
cristiani che compongono residualmente il popolo palestinese confinato a Gaza e
nei territori occupati. Quando ai miei tempi intrattenevo rapporti politici e
d’amicizia con Arafat i cristiani tra i palestinesi arrivavano al 12%. Samir è laureato in medicina ed archeologia ed
ha scelto di fare l’imprenditore locale di viaggi. Attrezzatissimo dal punto di
vista tecnologico ed altrettanto equilibrato nei giudizi. È la mattina dell’ultimo giorno, quello della
partenza. Santa messa a Gerico, poi ancora Gerusalemme, un bel museo, e il
ritorno in Italia.
Si
dice che Gerico sia la più antica città del mondo e campeggia nella Bibbia per
il crollo delle mura. Qualcuno dal pullman nota una raffigurazione delle chiavi
e ne resta incuriosito. La risposta di Samir è puntuale e inattesamente
autobiografica.
Quando
nel 1948 gli eserciti di Egitto, Siria e Giordania fecero guerra a Israele, gli
ufficiali arabi dissero ai palestinesi di entrambe le religioni di recarsi nei
campi profughi giordani portando con sé le chiavi di casa. L’armata araba
avrebbe sbaragliato e sloggiato gli ebrei di Ben Gurion, e loro nel giro di
quindici giorni sarebbero potuti tornare, chiavi in mano, nei propri
appartamenti. L’idea e le bandiere che muovevano gli eserciti arabi erano
allora quelle del panarabismo, e non a caso tra gli ufficiali più brillanti di
quella armata vi era anche un colonnello di nome Nasser. Le cose andarono
diversamente e le icone delle chiavi stanno a ricordare un patto e una
struggente nostalgia.
Vi
fu una replica (dopo altre) del tentativo arabo di sloggiare gli ebrei da
Israele, ed è la guerra dei sei giorni del 1967 che vide Moshe Dayan
giungere vincitore con il mitra in
spalla a pregare al muro del pianto. Tutti questi tentativi avevano come
ragione di fondo quella del panarabismo. Con un brusco salto, non soltanto
storico, dobbiamo adesso osservare che la bandiera nera alzata dall’Isis, dai
suoi combattenti, dai terroristi, dai foreign
faithers e dai kamikaze è quella invece del panislamismo: un approccio
ideologico che complica e incrudelisce le cose. E che, come ogni soggetto
politico, ha scelto la sua generazione core
da promuovere e sviluppare sul proprio terreno e senza confini, come il
panislamismo chiede.
Quale evoluzione?
Interrogarsi
sull’evoluzione di un popolo e di un problema significa da subito mettere nel
conto la possibilità di imbattersi anche in una involuzione. Ma la prospettiva
di indagine non cambia: si tratta pur sempre di scoprire le trasformazioni
della storia e di interrogarsi sul perché degli esiti raggiunti. Credo sia
diventato chiaro che i palestinesi sono stati progressivamente abbandonati
dagli altri paesi arabi. Gli israeliani, memori dell’olocausto europeo, hanno
fin dagli inizi preferito contare duramente sulle proprie forze, trasformandosi
in esercito permanente, e continuare a chiedere aiuti finanziari alle facoltose
comunità ebraiche sparse per il mondo, soprattutto quella newyorkese.
L’assassinio
di Rabin ha interrotto una via promettente di pacificazione, ma non ha messo in
discussione la stabilità dello Stato d’Israele. Per questo le chiavi di Gerico
sono diventate con il passare dei decenni un inno all’ironia. Resto tuttora
convinto che non vi sia strada alternativa a quella dei “due Popoli e due
Stati”, anche se Netanyahu da una parte e non pochi dei suoi avversari
palestinesi dall’altra dicono all’unisono di non crederci più.
Lo
dice anche il vivacissimo sacerdote che presiede la Caritas palestinese e che
incontriamo una sera in un hotel di Gerusalemme. Da giovane il prete che parla
un italiano perfetto tirava le Molotov ai tanks israeliani. Adesso aiuta il suo
popolo con tutte le forze, assicura che i palestinesi non abbandoneranno mai la
propria terra e si definisce “non ottimista ma realista”. Esplicitando che il
termine realismo deve includere anche la guerra.
Come
comporre tutto ciò con la speranza cristiana? Padre Raed ha dimestichezza,
oltre che con le opere caritative, con La Scrittura. E l’Apocalisse non a caso
apre alla speranza escatologica, quella di Isaia e dei tempi ultimi che
vedranno il lupo e l’agnello pascolare insieme e il leone cibarsi di erba. Per
i suoi interlocutori, me compreso, il progetto politico diventa arduo: come
rendere vegetariano il leone. Una scommessa non so se più entusiasmante o
difficile.
L’Europa dell’accoglienza
Tutti
i pellegrinaggi prima o poi finiscono, anche i più riusciti e i più rischiosi e
interessanti. E quando quindi torni in Europa ti confronti dall’altro lato con
il problema dell’accoglienza.
Il
terrorismo islamico è entrato a far parte da dopo le Torri Gemelle del nostro
quotidiano e del suo immaginario. Facciamo bene a ripetere che il terrorismo
islamico esiste e va combattuto, anche in casa nostra, ma che non tutti gli
islamici sono terroristi.
Dopo
la tragedia parigina di Charlie Hebdo
il problema non è mediterraneo o d’oltremare, ma delle nostre metropoli e delle
nostre periferie. Lo abbiamo già in casa. L’Europa è scossa prima nella sua
quotidianità che premuta alle frontiere.
Giovani
terroristi e foreign faithers sono
cresciuti nella banlieu parigina.
Quel che si dice il terrorista della porta accanto. E le nostre città, Parigi e
Bruxelles, ma poi anche Berlino, Monaco di Baviera e Colonia hanno visto
praticamente instaurarsi il coprifuoco.
Il
turismo si diluisce e arranca. Si evita di uscire al ristorante, di recarsi al
concerto e nei bistrot. La nostra vita quotidiana si è fatta più paurosa e
ritirata perché è assediata dalla paura.
Ovviamente
vi sono movimenti, come la Lega italiana e il lepenismo francese, che cavalcano
le paure. Ma il problema non è chiedersi se gli xenofobi prenderanno più voti
degli altri partiti, ma perché un italiano, che ha fin qui pensato che Salvini
le sparasse grosse per eccessiva rozzezza intellettuale e politica, sia oggi
tentato di pensare che proprio quella rozzezza abbia consentito al leader
leghista di cogliere prima di altri la difficoltà del problema e i suoi
pericoli. È questa suggestione che lo sollecita a votarlo.
Una
pietra miliare in tal senso è il Capodanno di Colonia. Colonia è la città più
progressista e cosmopolita di tutta la federazione tedesca. La città di Einrich
Böll tra l’altro.
Quella
notte di Capodanno un migliaio di facinorosi nordafricani s’è dato convegno con
la parola d’ordine di attaccare le donne tedesche in festa come selvaggina
sessuale meritevole di furto e di stupro. Al netto di tutti problemi di ordine
pubblico e della sorprendente faciloneria di una polizia germanica tutt’altro
che teutonica, resta l’assalto alla persona e in particolare a quelle donne che
tante vittoriose battaglie per i diritti hanno condotto in Occidente negli
ultimi decenni. Le nostre odierne democrazie sarebbero illeggibili nella loro
quotidianità a prescindere dal protagonismo femminile e dai diritti conquistati
sul campo dalle nostre compagne. Perché la scelta di questo affronto?
Si
è detto di un’azione criminale organizzata, ma il problema non è certamente in
primo luogo di polizia e di ordine pubblico. Il problema rimanda più all’ethos
che alle leggi. Tanto più grave in un Paese leader d’Europa, nel quale la
cancelliera Merkel ha favorevolmente stupito per il coraggio dell’apertura
all’accoglienza dei profughi siriani.
Come capire
Cosa
sta dietro a una notte di stupidità e di nefandezze? Perché quei giovani
maghrebini derubavano, malmenavano, inseguivano e talvolta stupravano le donne
tedesche?
Il
problema è il costume, le abitudini. Il formarsi di una mentalità e
comportamenti che ne conseguono. Si sono ricordati gli stupri di piazza Tahrir
e le molestie di Tripoli. Lì dove cioè la donna non è stata raggiunta dal
deposito benefico dell’illuminismo e della cittadinanza democratica. Una
disparità e una discriminazione che fanno a pugni con le nostre convivenze
quotidiane. E pare assodato che le ragioni e gli itinerari dell’accoglienza,
l’atmosfera umanitaria e di civismo dei cittadini europei che si sono
precipitati in più di una occasione in quanto privati e con le proprie
automobili ad accogliere i profughi, non siano sufficienti a cambiare una
mentalità ed abitudini consolidate. Fa meditare la circostanza che l’Austria
-pur
teatro qualche mese fa degli atti di accoglienza di suoi privati cittadini- sia
oggi tra le nazioni che chiedono la sospensione di Schengen.
Il
problema non è il Corano né tantomeno il Profeta. Il problema è il permanere di
discriminazioni sulle quali la religione pone il proprio sigillo e che il
fondamentalismo religioso ulteriormente esaspera.
È
inutile cercare nel Vangelo di Gesù di Nazareth le ragioni dell’Inquisizione
cattolica. Ma l’Inquisizione c’è stata, ha dominato la Chiesa cattolica, ha
visto al suo interno teologi della levatura del cardinale Bellarmino, della
stessa Compagnia di Gesù della quale fa parte papa Francesco, a tutti noto per
il coraggio e la mitezza con cui proclama e pratica il perdono e raccomanda
l’accoglienza dei fratelli di religione differente.
Vedo
un grande imbarazzo nella tradizione marxista (per quel che resta)
nell’affrontare il problema. Qui le ragioni economiche non sono centrali. Si
tratta di leggere con strumenti quantomeno ermeneutici che sappiano distinguere
-dopo Bonhoeffer- tra fede e religione. Il Corano è un libro bellissimo, ma
questo non cambia nulla rispetto ai comportamenti notturni di Colonia.
Anche
il Vangelo è un libro bellissimo, ma oltre all’Inquisizione dobbiamo anche
rammentare nella storia della cristianità le crociate e più recentemente gli
scandali finanziari dello Ior vaticano e le abitudini pedofile di troppi
sacerdoti non soltanto statunitensi. La purezza della fede finisce talvolta per
essere travolta e sconciata da un impasto idolatrico tra etica e religione. Ed
è proprio La Scrittura a insegnarci che l’idolo uccide.
Ovviamente
non sto proponendo la generalizzazione dell’etica cattolica o cristiana.
Sarebbe contraddittorio rispetto alla laicità sulla quale è fondata la nostra
Repubblica e la stessa Europa. Ma un’etica di cittadinanza deve essere valutata
e costruita. Deve saper riconoscere i pericoli e i nemici che la insidiano,
all’interno e da fuori. Deve trovare gli antidoti e le proposte in grado di
umanizzare chi si colloca da una parte e dall’altra della barricata prima etica
e poi ideologica. Perché la globalizzazione dominata dalla logica della
crescita disuguale e dal potere finanziario mobilita le masse, ma non accoglie
e non insegna ad accogliere.
Perché
se non vale “l’aiutiamoli a casa loro” -dal momento che è in faticosa
costruzione nel pianeta una casa comune- è altresì vero che la nostra
quotidianità di cittadini europei non deve essere lasciata alla mercé dei nuovi
arrivi, ma proposta nei suoi valori di convivenza, di civiltà del diritto e di
eguaglianza sociale: tutto quanto la rende appetibile per chi sfida la morte
nel Mediterraneo pur di raggiungerla e farne parte.
E
lo stesso discorso va riproposto per il welfare europeo, senza il quale i diritti
sanciti dalle diverse carte costituzionali del Vecchio Continente
risulterebbero una tragica beffa. (Da qui discende l’obbligo, umano, civile e
democratico, dell’assistenza e della cura dei profughi che raggiungono le
nostre spiagge e le nostre frontiere, e non soltanto dei rifugiati politici.)
Non
è mai ozioso ricordare che la democrazia non è un guadagno fatto una volta per
tutte. Luigi Sturzo lo sapeva, e proprio per questo era un prete del Sud che
tante difficoltà incontrò nel contribuire alla costruzione di una laicità degli
italiani anche all’interno della sua Chiesa.
Come
a dire che l’accoglienza è doverosa, ma non facile e priva di costi. E
tantomeno facilona.
In casa
E
poi bisogna fare i conti con i problemi di casa, che non sempre attraversano
una congiuntura favorevole. La casa italiana, la casa tedesca, la casa
francese.
In
Italia qualcuno dovrebbe misurarsi con quello che è stato definito “il mistero del 2015”. Infatti secondo
l’Istat i decessi sono aumentati nel nostro Paese dell’11%. Siamo cioè tornati
ai livelli di mortalità degli anni Quaranta. E non si tratta soltanto di un
problema per gli esperti i quali si interrogano sulla circostanza se ci
ammaliamo di più o ci curiamo peggio. La vita media o speranza di vita resta
l’indicatore più antropologicamente concreto di come un Paese ha cura dei suoi
cittadini. Quanto li fa campare è un indice tutto sommato complessivo e
preciso.
In
Germania si è già detto dei problemi emersi. Un parere perplesso ed inquietante
ha espresso un intellettuale di centrodestra, già consigliere di Helmut Kohl,
il quale ha osservato che vi è un elemento di inevitabilità nei fatti accaduti
a Colonia -troppo distanti le etiche e il modo di concepire il ruolo della
donna- concludendo che Angela Merkel ha compiuto un errore aprendo in quel modo
ai migranti.
Sulla
Francia le analisi sono molto più accurate e molto concedono all’indagine delle
sociologie. Si parla di un Islam radicale come risposta violenta all’esclusione
sociale: le periferie di Parigi sono teatro di identità che si esprimono come
antagonismo verso la società degli “inclusi”. E si aggiunge che questi giovani
trasformano il disprezzo di se stessi in odio verso gli altri.
Il
male di cui più soffrono è il vittimismo, insieme alla convinzione che delinquere
sia l’unica strada possibile per uscire dall’esclusione.
Dicono
ancora le sociologie transalpine che l’islamismo radicale opera un’inversione
magica: trasformando il disprezzo di sé nel disprezzo per l’altro. Da qui i
viaggi iniziatici in Siria come in Iraq. Il viaggio-pellegrinaggio conferma il
giovane jihadista nella sua nuova identità, rinviandolo in modo mitico alla
società musulmana.
In
questa condizione, oltre imparare a usare le armi e a diventare crudele, si
scopre man mano straniero rispetto alla propria società. Alla fine del processo
(saltando per brevità tutta una serie di passaggi) il giovane jihadista avverte
un bisogno irrefrenabile di diventare tutt’uno con la “nuova umma” del califfato di Daesh, abbandonando e aggredendo la
propria società poco amata. Non a caso, secondo le statistiche disponibili, il
numero di giovani europei andati in Siria è tra i 2 mila e i 4 mila.
Non
tanto un problema di frontiere, quanto piuttosto un problema sempre più interno
e intestino per le società europee medesime. Si aggiunga che la scomparsa del
senso del religioso istituzionalizzato spinge a cercare nuovi orizzonti di
sacro nello sconosciuto.
Così
pure la ricerca di una nuova utopia e il sentimento di profonda ingiustizia si
combinano con la ricerca della felicità individuale e del gusto dell’avventura.
Alla fine, con un cortocircuito micidiale, il desiderio di morire si lega a
quello di uccidere l’altro.
Fin
qui le analisi sociologiche. Cui va aggiunto la distanza di comportamenti e di
costumi – soprattutto per quel che riguarda il ruolo della donna – che rendono
differenti e distanti i due universi culturali e valoriali.
Ce
n’è per continuare gli studi all’infinito, ma soprattutto per sollecitare le
politiche (il compito delle politiche è occuparsi del contingente e del
definito) a cercare soluzioni, o almeno a progettarle con cognizione di causa.
Fermiamoci
qui per adesso. Tanto il trend è destinato a continuare e ad ingrossarsi. Ma
intanto dovrebbe essere chiaro che il problema cruciale non è quanto gli
immigrati siano diversi da noi, ma come ci costringono a confrontarci con le
nostre abitudini, le nostre certezze, i nostri standard di vita e di pensiero.
È
la pena, l’opportunità, il bello e il brutto, ma soprattutto il destino di ogni
meticciato.