DARIO E DIO. Ed altre storie
Testo
e foto di Paolo M. Di Stefano
Dario Fo |
Lunedì dell’Angelo, come da sempre ormai, Alessandra ha lasciato
la città per tornare al Cantiere. È rimasta fino all’ultimo istante, a
riempirsi gli occhi e la mente e il cuore dei colori di quella primavera
ch’ella accompagna ogni anno, quasi ad assicurarsi che le forsizie e le
infinite tessere di quell’immenso mosaico che narra di Milano a Pasqua come
della città fiorita per eccellenza siano stabili nell’armonia di colori
suggerita.
Che ha nel giallo che a lei tanto piace il punto focale: nelle
forsizie, il “la” della composizione,
negli accordi e nelle variazioni lo sviluppo dei temi.
È partita ridendo, Alessandra, ancora parlandomi nello scendere in
fretta le scale: “… e ricordati di non insistere nel chiedere il riposo per me.
Io sono in Cantiere per lavorare e per fare l’architetto progettista di idee a
tempo pieno. Non voglio riposare…Del resto, il Capo non esaudisce le richieste
inutili e a maggior ragione quelle non desiderate dai beneficiari…La quale -ha
concluso, utilizzando l’espressione di un tipico self made manager italiano-
come sai io lavoro anche per te ed è sicuro che presto faremo qualcosa insieme.
Ciao, papi. E leggi con attenzione: vedrai…”
Sorridevo
anche io, al ricordo di quel “la quale”
che tanto divertiva Alessandra fin da bambina, e in quel sorriso mi sono perso,
senza per questo dimenticare di sistemare Dario
e Dio sullo scaffale accanto a Viaggio
in Paradiso, alla Commedia ed alla Bibbia.
Credo che
l’averlo fatto sia stata la realizzazione di una delle idee che il Cantiere produce
e alle quali Alessandra lavora e credo anche che risponda ad una precisa chiave
interpretativa che Alessandra mi ha suggerito di usare per la lettura
dell’ultima opera di Dario Fo.
Ed anche per la
lettura della Pasqua, di questa Pasqua insanguinata ancora a Lahore, dove donne
e bambini hanno perso la vita a causa di un cretino che si è fatto esplodere
sognando un premio prevalentemente di sesso in un paradiso improbabile almeno
quanto meschino, se così immaginato. E, soprattutto, senza rendersi conto di
quanto possa essere blasfemo l’attribuire comportamenti siffatti e simili
finalità all’insegnamento ed alla volontà del Dio in cui si dice di credere.
Dario e Dio esprime in modo straordinario la capacità
di “leggere” la vita -e dunque anche la dimensione del “dopo”- in modo
intelligente, ironico, divertente, leggero ma tutt’altro che superficiale,
futile o semplicistico.
Che è, tra
l’altro, l’essenza della fede e della speranza e del rapporto tra ciascuno di
noi e Dio.
Dario Fo si è
sempre professato ateo, e lo ripete in quest’opera dalla quale, però, secondo
me non si può non trarre una conclusione “altra”.
Questa: Dario
Fo è profondamente credente in un Dio che certamente esiste, ma che non ha i
connotati che noi tutti, senza distinzione se non di cultura (e quindi di luogo
e di tempo), gli attribuiamo.
La lettera
degli scritti che si occupano di Dio esprime un qualcosa che disegna un Dio a
misura dell’uomo e degli eventi. E dunque, non dipinge se non in modo “umano” e
“limitato” e “tutt’altro che perfetto” l’idea stessa di Dio. Così prestandosi a
fare di Dio quasi una maschera e della vita una commedia dell’arte priva di un
autore affidabile, e dell’aldilà un improbabile “luogo” di rendicontazione e di
punizione e di premio. Il tutto, secondo una logica assolutamente umana e non
sempre… logica, appunto. Un invito a nozze per chi ha il dono di cogliere il
lato paradossale della narrazione. Già questo, che Fo dice e che in più di un
momento lo unisce a quel “Viaggio in
Paradiso” che a mio parere assimila Mark Twain a Dario Fo, significa che
entrambi gli autori credono “liberamente” in un Essere superiore, sempre vagliando
criticamente tutto ciò di cui “l’umanità” lo riveste.
Perché è
innegabile, anche se da qualche parte io sono stato accusato di blasfemia per
averlo detto soprattutto all’Università: la sola cosa certa è che ciò che
crediamo di conoscere di Dio è in gran parte costruzione degli uomini, i quali
disegnano l’inconoscibile secondo le forme e i colori della vita terrena, fatta
di concretezze e di sogni terreni, appunto.
Chissà se
Dario Fo sarebbe d’accordo con me, se sapesse che a mio parere il Dio di cui parliamo
è un prodotto destinato alla scambio, e che le argomentazioni “di vendita” sono
appunto costituite dalle “qualità” che ciascuno di noi attribuisce a Dio ed al
“mondo” nel quale Egli direttamente opera, ma che tutto questo non ne mette in
dubbio l’esistenza? O almeno, non serve a provarne l’inesistenza. Che, sempre a
mio parere, potrebbe essere un argomento atto a bilanciare quello usato dagli
atei: forse non posso provare l’esistenza di Dio, ma neppure posso avere prove
certe della sua inesistenza. Non è possibile che questo consenta di pensare
che, forse, il ragionamento dovrebbe seguire strade diverse da quelle
tradizionalmente seguite?
Scrive
testualmente Dario Fo (pag.44) in
risposta alla domanda “…Non è che alla
fine, magari in modo poco ortodosso, a un Dio ci credi anche tu?” “No. La metafisica non mi interessa, mi basta
e mi avanza la fisica, così traboccante delle meraviglie dell’al di qua. Non
credo a nessun Padreterno, però resto stordito davanti alla forza eversiva
della vita, così stupefacente da farmi chinare il capo. Se devo confessare una
qualche fede, direi che sono un seguace della natura, mi sono convertito al suo
culto che ero ancora bambino. Trotterellavo nell’orto con mio nonno Bristin e
restavo incantato davanti a un fiore, una pianta. E adesso che ho novant’anni,
quell’incanto è sempre eguale. (…)
Spesso, quando mi capita di passeggiare in un bosco, o anche in un giardino, ho
la sensazione di essere in un luogo sacro. Dove tutto pulsa, si parla, mi
parla. E ogni tanto, se nessuno mi vede, finisco par abbracciare qualche
tronco. E sento che quel contatto rende felice me e anche la pianta. Che tra
noi scorre qualcosa di inspiegabile, un flusso vitale che somiglia
all’abbraccio con un amico. (…)”
A me sembra
che il solo porsi la domanda “perché e
come questo accade” possa essere già il postulare qualcosa o qualcuno che
non conosciamo, ma che ha un potere immenso su di noi. Anche perché credo che
Dario Fo sia troppo intelligente per fare del caso la risposta. Credo,
piuttosto, che proprio il livello di intelligenza possa essere considerato un
ostacolo alla Fede ed alla conoscenza di Dio: la consapevolezza di possedere
una intelligenza ragguardevole, superiore alla media, e dunque uno strumento di
conoscenza assolutamente eccezionale, rende quasi impossibile ipotizzare
l’esistenza di qualcosa o di qualcuno che non possa essere spiegata e
conosciuta a fondo in ogni suo aspetto. E, per di più, evidenzia quella
attribuzione a Dio di caratteristiche assolutamente umane: una spinta ulteriore
a metterne in dubbio l’esistenza. E dunque, la scelta di approfondire la
conoscenza di ciò che si vede e ci circonda fisicamente per come esso è, è
stato, probabilmente sarà, rinunciando ad indagare su un “chi?” e su di un
“perché?”, domande alle quali sappiamo non potremo mai dare risposte. Come a
queste, per esempio: l’intelligenza umana ha dei limiti?”; se li ha, “perché?”;
e “quali sono?”; e “chi li ha stabiliti?” Facile, ovviamente, l’obbiezione: chi
ha detto che l’intelligenza umana è limitata? Non ne abbiamo le prove, anzi
assistiamo ad un continuo progredire del genere umano e delle sue conoscenze;
siamo giunti a costruire un microrganismo prodromo alla vita artificiale, a
prolungare la vita media, a raggiungere “fisicamente” mondi distanti anni
luce... Non basta per dire che l’intelligenza è illimitata? Sono tentato di
rispondere di no, che non basta: significa solo che non conosciamo i nostri
limiti. E forse anche che tutto questo
potrebbe costituire la spinta a ritenersi “perfetti, infiniti, immortali, forse
anche eterni”, e dunque a credere di possedere quegli attributi che, per chi ha
fede, fanno parte dell’idea di Dio.
Dario e Dio mostra un altro pregio impagabile:
letta, accettata, fruita l’ironia e la leggerezza della lettera, del periodare
musicale, spinge a spaziare in orizzonti vasti, infiniti; a mettersi in gioco
in un approfondimento probabilmente inconscio.
Che è, mi
pare, esattamente lo spirito di ogni lavoro di Dario Fo, come attore e come
pittore, oltre che come scrittore.
La Bibbia, a
lato della quale ho collocato la Commedia dantesca, descrive “il tutto”,
l’eternità nel suo complesso, Dio, la creazione e il genere umano: la Commedia,
che ho messo prima di Viaggio in Paradiso
di Mark Twain, dettaglia il mondo di là, anche dando conto e ragione dei
suoi abitanti, e questo fa con dovizia di particolari, con la serietà e quel
“rigore” che neppure nelle opere poetiche può mancare, quando si parla di Dio; Viaggio in Paradiso alla sua destra, è a
mio parere uno splendido tentativo di spiegare il Paradiso in modo semplice e
piacevole a tutti noi.
Esemplare una pagina:
“…E i monarchi conservano anche quassù il
rango di cui godevano sulla terra? -No, nessuno può portare con sé le proprie
prerogative. Il diritto divino è una favola buona per la terra, ma qui non
vale. Appena raggiungono i reami della grazia, i monarchi discendono al livello
dei comuni mortali. (…) -Sandy, non
avete mai visto Napoleone di persona?- L’ho visto spesso, ora nel reparto
corso, ora in quello francese. Ha l’abitudine di portarsi in qualche punto
elevato, dall’alto del quale si guarda attorno, accigliato, le braccia conserte
e il cannocchiale sotto il braccio. D’aspetto è severo, cupo, strano come la
tradizione vuole, ed è molto seccato perché, come soldato, non occupa, qui, la
posizione cui credeva di aver diritto. -Chi c’è sopra di lui?- Un’infinità di
persone di cui non si è mai sentito parlare, del tipo del calzolaio, del
veterinario, dell’arrotino. Bifolchi venuti da non si sa dove, che in tutta la
loro vita non hanno mai impugnato una spada, mai sparato un colpo di fucile,
mai dato prova del genio militare di cui erano dotati. Ma qui occupano i primi
posti, e Cesare, Napoleone e Alessandro sono considerati a loro inferiori. Il
più gran genio militare che il nostro mondo abbia prodotto è un muratore dei
dintorni di Boston, morto durante la rivoluzione. Si chiama Absalom Jones (…) Tutti sanno che se gli si fosse offerta
un’occasione favorevole, avrebbe dato tali prove di genialità militare da
ridurre tutte le manifestazioni di tattica militare a lui anteriori a giochi
infantili e a opere di apprendisti. Ma sulla terra non ebbe fortuna. Tentò più
volte di arruolarsi come semplice soldato, ma mancandogli due incisivi e
entrambi i pollici, fu sempre dichiarato inabile…”
Infine, alla
destra di tutto questo “Dario e Dio”,
quasi una conclusione di un lavoro di conoscenza. La Bibbia, oggetto e radice
di fede, da leggere e rileggere e imparare a memoria perché si incida nel DNA e
detti le leggi dei comportamenti dell’uomo; la Commedia, sulla base della fede
una descrizione dell’aldilà complesso, tutto da guadagnare anche attraverso
l’interpretazione degli endecasillabi e delle terzine; “Viaggio in Paradiso”,
prologo ad una visione più scanzonata, quasi allegra, di un mondo sperato sulla
base di principi forse da correggere, in tutto o in parte; “Dario e Dio”, un
invito a rivedere gli schemi di ragionamento e, forse, a spogliare i “sacri
testi” dagli orpelli e dai ghirigori dei traduttori più o meno interessati alle
conseguenze terrene della lettura.
Ho trovato
particolarmente consonante al mio senso dell’umorismo ed a quello di Ale il
modo di Fo di ragionare sulla preghiera. Io ho sempre pensato che la reazione
di Dio alle preghiere, ai canti, alle cerimonie chiesastiche costituisca
certamente la prova della Sua infinita bontà, se non addirittura della Sua
esistenza, alla quale io credo fermamente, e alla quale invece Dario Fo dice di
non credere. A pag.121 scrive “…Come
dicevamo, a Dio piace essere intrattenuto. Se lo divertiamo, magari ci perdona. Per provarci, l’uomo si è inventato mille
modi: processioni, esorcismi, danze, cerimonie di ogni tipo, più o meno pagane,
dionisiache, mistiche e teatrali. Dalle invocazioni dell’imam alle messe dei
preti alle nenie tibetane… Sacre rappresentazioni, si chiamano così, con
incensi e musiche, paramenti colorati e gesti rituali. Litanie e cori dove una
frase, una parola, viene detta e ridetta mille volte. Un’insistenza sospetta,
come se il Padreterno fosse sordo o ritardato…”.
E poco più
avanti “La preghiera per me vuol dire
dialogo” -prosegue- “Vuol
dire mettere in discussione se stessi, ma mettere in discussione anche Lui. Da
pari a pari, visto che entrambi facciamo parte dello stesso universo. E se
qualcosa va storto, le responsabilità sono comuni.”.
Ecco, allora
il senso delle parole di Ale, mentre partiva: la preghiera deve avere un
oggetto che esprima il desiderio della persona per la quale si prega e coincida
con quell’interesse universale al quale ognuno di noi deve dare risposta come
meglio è possibile.
Ale è in
Cantiere a produrre idee. Fare l’architetto e progettare ponti è il suo
desiderio, e il Cantiere le consente di realizzarlo. Lì ella descrivendo i suoi
ponti si descrive e descrive il suo mondo e lo confronta con quello di tutti
gli altri e con la missione del Cantiere tutto. E non ha nessun bisogno di
riposo, sia perché non lo vuole, sia perché quel Cantiere non conosce la
stanchezza, che null’altro è se non una misura della limitatezza di ciascuno di
noi e di tutto quanto ci circonda.
E mi ha
accennato, Ale, ad un Ponte infinito, immenso, già ideato in ogni particolare,
ma in corso di una progettazione particolarmente complessa, perché si tratta
anche di ristrutturare quel concetto di libertà che è il dono più grande che
Dio poteva fare agli uomini, ma che gli uomini stentato a comprendere e
comunque utilizzano quasi sinonimo di egoismo e di anarchia. “Neppure riuscirete
a comprendere” -mi ha detto- “che eventi quali quello di Lahore, il giorno di
Pasqua, potranno essere evitati soltanto quando i ponti tra le idee, le
opinioni, le azioni saranno stati completati.
E’ il vero
lavoro dell’umanità.”, ha concluso, dando un piccolo bacio alla rosa gialla che
piazza della Scala le ha donato perché le parli di Milano, di sua madre e di me.