Dopo Referendum.
Prosegue il dibattito.
Il voto ha indicato una
rotta,
attrezziamoc auna lunga
marcia
di Gaetano Azzariti
Il No deve essere interpretato come la
volontà di riaffermare i principi della Costituzione, determinazione espressa
con uno spirito tutt’altro che conservatore.
Abbiamo
evitato il peggio. E ora? Nessuno si illuda, la strada è ancora in salita. Se
non vogliamo cadere non possiamo star fermi, dobbiamo continuare ad
arrampicarci. Soprattutto evitiamo d’inciampare. Non lasciamo che una nobile e
non scontata vittoria della democrazia costituzionale, da noi così
faticosamente costruita, sia ricondotta alle miserie della cronaca, per poi
svanire nel nulla. Il rischio è di ritrovarci, tra qualche anno, ancora sotto
assedio, di nuovo a difendere i principi costituzionali da un sistema politico
che da tempo si mostra insofferente ai limiti che le leggi supreme pongono ai
sovrani di turno. I primi commenti, dopo il referendum, sono tutti orientati a
valutare le ripercussioni politiche immediate; concentrati sulla crisi di
governo, sui nuovi equilibri all’interno delle diverse forze politiche, sul
futuro personale di Renzi. Molti partiti cercano di cavalcare la vittoria, per
ottenere un successo fulmineo, andando alle elezioni. Persino il partito
responsabile della débâcle referendaria tenta di risorgere dalle ceneri,
mettendosi il più rapidamente possibile alle spalle la questione della
costituzione e della sua riforma, per ripresentarsi agli elettori come se nulla
fosse accaduto. C’è un gran bisogno di qualcuno che guardi più in là se si vuol
far sì che il referendum abbia un seguito non effimero. Una decisione popolare
sulla costituzione deve intervenire sul corso della storia politica e sociale
di questo paese che da oltre vent’anni arretra: può legittimare un cambiamento
radicale. Arrestare il lungo regresso, è questo il compito ampio, ambizioso, ma
ineludibile, che la cesura espressa dal voto popolare ci affida. Un’impresa che
non può essere semplicemente delegata ai partiti, perlopiù screditati e
compromessi; un obiettivo che non può essere barattato neppure con la vittoria
alle prossime elezioni. Sarebbe probabilmente una vittoria di Pirro, che
condannerebbe comunque i vincitori ad operare entro un sistema istituzionale e
culturale compromesso a tal punto da rendere assai probabile il fallimento.
Inutile nasconderlo: dobbiamo attrezzarci ad una lunga marcia. Per cambiare
finalmente strada, muovendosi nella giusta direzione, bisogna anzitutto
comprendere il senso profondo del voto che si è espresso contro la riforma
Renzi-Boschi.
Esso deve essere interpretato come la volontà di riaffermare i
principi della costituzione, determinazione espressa con uno spirito tutt’altro
che conservatore. Solo la retorica del potere poteva far credere che si era
contro questa riforma perché soddisfatti dello stato di cose presenti. Nessuno
ha difeso l’odierno bicameralismo agonico, né l’attuale regionalismo caotico,
in caso s’è compreso che la riforma avrebbe peggiorato la crisi. Il rifiuto ha
riguardato la pretesa di accentrare il potere, contrapponendo un’altra idea di
costituzione. Un voto arrabbiato, in caso, ma non certo arreso. Tant’è che
contro la riforma si sono espressi soprattutto i più giovani e i meno abbienti,
da sempre il motore del cambiamento.
Ma, si potrebbe replicare, anche i fautori
della riforma intendevano «cambiare». È vero: la riforma avrebbe indubbiamente
prodotto una profonda trasformazione dell’assetto istituzionale definito in
costituzione. Dunque, a ben vedere, si sono scontrati due diversi modi di
intendere il rapporto tra governanti e governati, diverse visioni di democrazia
costituzionale. Da un lato, coloro che ritengono essenziale semplificare la
complessità sociale e rendere autoreferenziale il sistema politico e le
istituzioni rappresentative (seguendo il modello classico della democrazia
d’investitura), dall’altro chi crede si debba estendere la partecipazione e
legittimare i conflitti sociali, rendendo le istituzioni rappresentative il
luogo della composizione e del compromesso politico (secondo un diverso e
altrettanto tipico modello di democrazia pluralista e conflittuale). La prima
prospettiva è quella perseguita negli ultimi vent’anni non solo in Italia. La
seconda ha vinto il referendum.
Entro questo secondo schema
dovremmo dunque lavorare, non sarà facile dare forma e sostanza al modello
indicato. D’altronde, non può pretendersi che il rifiuto del 4 dicembre si
trasformi come d’incanto in un progetto costituzionale inverato. Sta a noi
costruirlo. Un viatico però c’è, ed è la costituzione, che non a caso esprime
proprio quel certo modello di democrazia pluralista e conflittuale che da tempo
si vuole sterilizzare. Sono dunque i suoi principi che ci indicano la rotta.
Tutti coloro che in questi anni si sono adoperati per favorire un cambiamento
contro la costituzione avranno difficoltà a comprendere che essa possa oggi
rappresentare la leva della trasformazione radicale della realtà. Ma non può
invece stupire chi conosce la forza prescrittiva (“rivoluzionaria”) che i testi
costituzionali hanno espresso nella storia. E che ancora possono dispiegare.
Certo
per impegnarsi in questa direzione diventa necessario recuperare una solida
cultura costituzionale. Essa sembrava essere scomparsa, affogata nella retorica
del revisionismo costituzionale dominante. E invece l’abbiamo ritrovata, anche
con qualche meraviglia, nei tanti incontri che hanno caratterizzato questa
lunga, interminabile campagna referendaria. In fondo un merito grande dobbiamo
riconoscerlo ai nostri improvvidi revisionisti. Grazie a loro di costituzione
abbiamo discusso per mesi e il popolo ha risposto non solo nelle urne, ma anche
nelle piazze. In giro per l’Italia sono sorti comitati, si sono impegnati in
riflessioni, né facili né consuete, gruppi sociali, associazioni, singoli
individui. Una riscoperta del valore della costituzione c’è stata. Se questo è
il quadro, qual è l’agenda? Quali, in concreto, le rivendicazioni possibili?
Quali i cambiamenti pretesi? Non è difficile indicarli, anzi lo abbiamo già
fatto in tutti i nostri incontri prima del referendum.
La riforma sepolta voleva ridurre
ulteriormente l’autonomia e il ruolo costituzionale del parlamento a favore di
una idea distorta e impropria di stabilità dei governi. Noi abbiamo rilevato la
necessità di recuperare la centralità dell’organo della rappresentanza politica
e quella delle persone concrete.
Se veramente vogliamo invertire la rotta non
rimane che mettere in pratica le misure necessarie: una legge elettorale che
permetta ai diversi soggetti sociali di trovare una rappresentanza
istituzionale e che ricolleghi l’elettore all’eletto, senza cedere all’eccesso
di frammentazione (ovverosia un sistema proporzionale uninominale con sbarramento);
il rafforzamento degli istituti di partecipazione diretta che si affianchino
alle istituzioni di democrazia rappresentativa (non si tratta solo di ripensare
i referendum, ma anche dare contenuto agli strumenti d’iniziativa popolare che
devono essere discussi dagli organi della rappresentanza, come una semplice
modifica dei regolamenti parlamentari potrebbe garantire); nuove regole di
discussione parlamentare (il che vuol dire riscrivere i regolamenti
parlamentari, abbandonando le attuali logiche “decidenti”, per adottare nuovi
principi che assicurino, da un lato, alcune prerogative della maggioranza,
dall’altro, la possibilità delle opposizioni di partecipare a pieno titolo alla
decisione garantendo l’esame approfondito delle proposte di tutti); la limitazione
dell’invasività del governo in parlamento (basterebbe impedire, sempre per via
regolamentare, la possibilità di proporre maxiemendamenti e limitare l’abuso
delle richieste di fiducia sui disegni di legge, si dovrebbe inoltre dare
applicazione alla normativa e alla giurisprudenza costituzionale esistente per
limitare la decretazione d’urgenza); la ridefinizione dei ruoli costituzionali
del legislativo e dell’esecutivo (con una riduzione del numero delle leggi
grazie ad una legislazione solo di principio e una semplificazione della fase
di attuazione della normativa da affidare ai governi);
la razionalizzazione dei
rapporti tra Stato centrale e enti territoriali, in base ad una coerente scelta
di sistema (che può portare alla abolizione del Senato e alla riorganizzazione
della Conferenza Stato-autonomie, ovvero alla definizione di un equilibrato
regionalismo solidale).
Questo è un primo incompleto elenco delle possibili
innovazioni con riferimento all’organizzazione dello stato, quella su cui si
voleva intervenire con la riforma sconfitta. Possibili cambiamenti in nome
della costituzione, opposti a quelli che si volevano imporre contro di essa.
Ma, il nostro riformismo radicale non può certo accontentarsi di riorganizzare
lo Stato-apparato: non abbiamo mai creduto alla favola della costituzione fatta
a fette. La prima parte sui diritti intangibile e buona di per sé, la seconda
sui poteri liberamente modificabile e nella totale disponibilità del revisore.
Un modo per sterilizzare la costituzione nel suo complesso. Il rilancio della
cultura costituzionale deve voler dire anche abbandonare queste mistificazioni.
Una migliore organizzazione dei poteri serve in primo luogo per dare effettiva
attuazione ai diritti costituzionali. È da qui che possiamo partire. Non sarà
facile vista la drammatica assenza di una rappresentanza politica a sinistra.
Ciò non toglie che ciascuno dovrà fare la sua parte ed assumersi le proprie
responsabilità. Soprattutto a sinistra.