7 ANGELI DALLI ALI SPEZZATE
IL CANTO DELLA VESTALE
su foglia caduca…
L’universo, attraverso gli occhi della fantasia, ha giocato con i fantasmi come fanno i bambini con i coriandoli e le stelle, tanto da acchiapparne i fili colorati per dipanarne gli orrori o il buio della notte su squarci di cielo marino. Quanti scorci di vita andavi cercando come la vispa Teresa fa con il suo noto retino…
Ogni persona una stella vibrante di poesia, ogni luogo una fotografia, ogni montagna solitaria, ogni spiaggia desolata, ogni campo bruciato come per incanto diventavano pennellate di sole al primo alito di brezza. E che dire degli immensi spazi del cielo, del mare infinito che corre dietro all’orizzonte sulla vela che scivola via, delle piane e dei colli di colori chiari e surreali, oppure dei monti boschivi, rocciosi, cespugliosi, vellutati o nevosi: un incanto da mozzare il fiato. Sentirsi in un tutto dentro e fuori, quasi a voler nascere, vivere, morire, rinascere in una nuova luce, piena d’ombre ancora da svelare. A volte pensi di essere in un altro mondo o forse lo sei: attorno le nuvole si allontanano per spaziare il blu che s’apre in uno squarcio d’infinito.
I ricordi s’affacciano alla mente
come rondini in cerca del nido, di quel nido sicuro, lasciato per volare verso
lidi irraggiungibili. Quel nido non c’è più, s’è spezzato in un volo di
primavera. Nemmeno una piuma è rimasta attaccata alla sua anima. È rimasto il
dolciore d‘ambrosia.
Così ti guardi intorno e vedi
altre figure vaganti. Sono esseri trasparenti che si muovono leggiadri
diffondendo luce diafana.
I
“Il mio nome era Vera. Vivevo in
un paesino sperduto fra i monti. Ogni giorno saltavo la corda, da sola e non
sapevo nemmeno il perché. Passavo il tempo con il volto trasognato e innocente.
Una voce mi chiamava sempre per riportarmi alla realtà. Ma quale fosse la
realtà nemmeno sapevo: il salto alla corda o la corda sulla mia pelle già piena
di ematomi e di croste, che mi grattavo fino a far uscire il sangue, godendo di
quel dolore in un grido soffocato di libertà.
Giorno dopo giorno diventavo
grande mentre il corpo mutava forme, che prorompenti mi impedivano la
scioltezza dei movimenti. I grossi seni mi riempivano le ascelle, che
goffamente cercavo di nascondere sotto le braccia.
Ciò che credevo sgraziato
attirava gli sguardi, troppi sguardi, che furono il mio tragico destino.
Ho rimosso quel male ricevuto tra
carezze lascive e botte. Ho partorito figli di nessuno trovando pace dopo
l’ultimo vagito. Ho lasciato orfani chi di cui non so neppure il nome.
- Tu chi sei? Cosa fai qui? La
rarefazione è di questo aldilà del mondo. E tu sei viva di una vita ancora
legata ad un filo di ricordi. I ricordi qui sono cancellati per sempre!” -
Mi muovo fra gruppi di esseri
trasparenti e luminosi, le cui sembianze sono profili di luce ad intermittenza
al dolce suono di parole che mi giungono dalla mente.
Mi si avvicina una emanazione di
luce alta e sottile; mi si rivolge con una dolcezza indescrivibile, mai
conosciuta prima.
II
“Mi chiamavo Ester. Vivevo in una
grande città. Non ricordo il nome. Qui non esistono nomi, ci chiamiamo con onde
sonore. Ognuno ha la sua ed è riconoscibile.
Sono cresciuta fra gli agi e
ricchezze materiali, ma in tanta solitudine. I miei amici di gioco ero io che
li impersonavo di volta in volta con la fantasia. Era un gioco divertente,
mentre la realtà era monotona e noiosa. Mi annoiavo e da questa noia uscì un
mondo pieno di personaggi. Appena ebbi imparato a scrivere iniziai a comporre
piccole frasi dove esprimevo la malinconia del tempo negli spazi
dell’invisibile. L’invisibile è stato il compagno della mia vita: quando
parlavo nessuno ascoltava, quando entravo in un luogo nessuno mi vedeva. A tre
anni un signore distinto mi prese in braccio per darmi carezze, coccolarmi fino
a toccarmi… C’era lui col suo atto infame, ma io non c’ero. Ero invisibile quanto lui era assente alla
vita.
Divenni una giovane donna
desiderabile, ma invisibile. Chiunque si avvicinasse voleva qualcosa, ma non me...
Ora i ricordi si sono persi in
quel venticello che discorre con acque di sorgente. La sorgente torna sempre sorgente. Sono in
questo luogo dove l’invisibile s’è spogliato per restare nudo di tutto, dove le
parole sono onde che emanano luce, la luce della presenza.
-Cosa fai qui? Chi sei? Tu hai
ancora le vesti dell’invisibilità. Qui le spoglie dell’invisibile sono sepolte
per sempre.”-
Mi tolgo di dosso gli abiti, ma
una figura nell’avvicinarsi mi manda le sue onde che sussurrano armoniosamente
“qui non serve togliersi gli abiti”. Cammino in mezzo a loro attraversandoli
mentre sento la luce nutrirmi di spirito.
III
“Mi chiamavo Selene. Vivevo in
campagna fra galline e pulcini. Giocavo con le farfalle rincorrendo il cane che abbaiava nell’aia di
casa. Ero felice e spensierata. I miei genitori erano sempre nei campi. Divenni
giovinetta e data in sposa ad un ricco vecchio e barbuto. Fu la fine di
qualcosa che non tornò più. Rimasi gravida come una mucca e partorii tre figli,
di cui uno infelice. Mi ammalai e morii tra i pianti dei bambini e le botte di
un vecchio ubriaco. Ora non so la fine dei miei figli, non ricordo i loro nomi.
Li aspetto in questo luogo di pace.”
-Cosa fai qui? Chi sei? Tu non
sei di questo luogo. L’attesa nei ricordi sarà lunga, solo l’oblio aprirà il
tuo varco…-
Si allontana cantando melodie di
sfere celesti mentre mi viene da svenire.
IV
“Il mio nome era Talita. Un
guizzo della mente soffia da dentro un vento di tempeste; così è stata la mia
vita: un turbinio di vicende dove una bambina cresce tra disordini, urla e bestemmie.
Come una cagna affamata accoglievo le carni di chi mi prendeva con forza e
violenza trovando in quel male una specie di quiete. Stordita, livida e
sanguinante facevo di tutto come una docile schiava. Poi venne il sangue dalla
vagina, maledizione e punizione divina, perché colpevole di essere al mondo nel
modo sbagliato, come un’edera avvinta alla propria indelebile sorte.
Il gioco di un destino infame tra
uomini che di uomo non avevano niente: il ripetitivo rito bestiale era la
roulette, i cui colori non davano scampo…
Un giorno morii tra stenti
stordita dall’alcool, bramato come un fuoco che brucia le viscere placando le
fiamme di quell’inferno. Fui strisciata a pedate sino alla buca del campo, dove
il mio corpo giace. Da quella terra grassa ogni anno nascono viole, il cui
profumo è la preghiera dei Santi.
La mia anima è la più nuda di
tutte e il mio colore è il chiarore della luna la cui via ornata di stelle
indica la cometa.”
-Cosa fai qui? Chi sei? Il tuo
colore è vivo di ricordi. Lì c’è una fonte di luce dove bagnarti il capo.-
E lieve sparisce in una spirale luminosa sulla
scia di una musica lontana, che tutta m’invade.
Il risveglio è all’ombra del
salice dove pende la cetra dell’anima attonita e spaventata. Un raggio di luce
ferisce il buio per dire che il giorno s’apre alla vita delle donne il cui nome
è scritto nel firmamento.
La giornata inizia con un velo di
malinconia davanti a una lapide dove sta scritto: “Fiordiloto è il suo nome per celare le vergogne dei
tempi di tutti i tempi”.
In un giorno sereno di bambina
insegue sulla spiaggia, per un inno alla fantasia, un aquilone.
Colleziona conchiglie creando
sogni su castelli di sabbia.
Così è finito un sogno per
lasciare spazio ad un altro, perché i sogni vanno a finire nel buio per
risvegliarsi nel cuore della notte.
V
“Il mio nome era Alina. Mi
piaceva cantare e un canto di sirena m’ammaliò perdutamente. M’imbarcai per
lidi sconosciuti con il vento nei capelli, rapita dal mio amante. Mi sussurrò
voci di stelle e mi parlò di terre magiche il cui fascino ne era l’ignoto
padrone. Mi fece sua schiava con catene di lacrime, luminose come falsi
diamanti. Le parole divennero pietre acuminate e i sogni fantasmi. Il canto
della sirena mutò in urlo sgozzato di morte.
Scappai naufraga non trovando più
il suono armonioso della mia anima. Perduta e smarrita vagai senza meta finché
una mano mi prese, poi un’altra e un’altra ancora. La stretta era dolente,
sempre più dolente. Ero morta e non sentivo più niente, nemmeno la morte riuscì
a svelarsi per l’ultima preghiera.”
-Che fai qui? Chi sei? Tu non sei
di questo luogo. C’è impurità nei tuoi occhi, lavali nelle acque lucenti di
sorgente.-
Per un attimo non vidi più nulla,
mentre zampilli d’acqua lavarono i miei occhi con la luce della
misericordia. Per incanto quella figura
trasparente era svanita tra le onde chiare dell’alba.
VI
“Il mio nome era Lia. Fui data in
adozione, strappata a mia madre dai Servizi Sociali. Mio padre adottivo un uomo di potere, mia madre
adottiva, una donna fragile, che beveva di nascosto, ma io sapevo. Mi sentii
sola. Mi furono assegnati un altro nome e un’altra età, quindi chi ero, se la Stella di prima o quel nome
imposto -non lo ricordo- non sapevo più. Potevo fare ciò che volevo e ogni
giorno mio padre mi dava dei soldi: -prenditi ciò che vuoi- mi diceva, andandosene
via, mentre lei barcollava ubriaca. Le cene con gli amici origliavo dalla
scala: le loro risate, la musica mentre il cameriere serviva sotto un enorme
lampadario di cristallo. Di cristallo anche le mie lacrime inghiottite in gola
con la voglia di urlare e di schiaffeggiarmi. Rientrata in camera quante sberle
per soffocare quel dolore di non poter toccare la pelle della mamma; non potevo
nemmeno più sfiorare l’immagine del suo viso, cancellata dalla mente. Cercavo
il suo viso, la sua figura, ma tutto si perdeva nella nebbia. Me ne andai senza
un soldo e senza un documento. Vagai senza meta. Non ricordo più niente, come
quel niente da cui ero venuta. Nullità fu il mio nome finché una luce mi prese
per mano per condurmi in questo luogo d’amore. Sì, qui ho conosciuto l’amore
tra archeggi di cielo e arpeggi celesti.”
-Ma tu chi sei? Non sei di questo
luogo. La tua bocca è piena di parole e qui è il luogo del silenzio dove le
parole si fanno onde di luce nell’anima viva. Bevi alla fonte d’amore per
nutrirti di luce. –
La mia bocca beveva, ma non si dissetava mai
abbastanza ed il viaggio non era ancora finito.
VII
Il mio nome era Elsa. Penso ai nostri
giorni trascorsi a Parigi mentre respiravamo un’aria romantica, magica e venata
di nostalgia per il tempo perduto, così, senza esserci l’uno per l’altra.
Ora tu vivi lontano da me, eppure sento
che mi parli.
In questo tempo senza spazio la memoria è
impressa di cose sfuggite. Sfuggiamo dall’assenza di noi stessi per cedere al
vuoto cosmico. Precipitai nel pozzo della mia anima, inerme, con lo sguardo
fisso verso un punto invisibile come l’oblio del vento che scompare nel
silenzio.
Cosa fai qui? Chi sei? Tu non hai la luce
della presenza e i tuoi occhi hanno il buio dello smarrimento. Vai sul ciglio
di sorgente dove la rugiada disseta l’anima dell’aurora promettente.
Mi avviai al ciglio mentre copiose gocce
di rugiada lavavano i miei occhi ancora sporchi.
Mi svegliai ritrovandomi sul ciglio del
fiume, le cui acque correvano all’indietro verso la sorgente dove risuona l’eco
d’un canto, il canto della Vestale:
Sarò Tua con il rispetto dell’essenza
Sarò Tua con la lealtà dell’animo
Sarò Tua con la comprensione della mente
Sarò Tua con la fede del pazzo
Sarò Tua con il dialogo dell’amicizia
Sarò Tua con l’intelligenza dei giusti
Sarò Tua con la generosità del sorriso
Sarò Tua con la sensibilità del turbamento
vivo
Sarò Tua con l’umanità del perdono
Sarò Tua con la semplicità della parola
Sarò Tua con i silenzi dello sguardo.
[Laura margherita Volante]