LETTERA AGLI AMICI
di Angelo Gaccione
Sono
arrivato al punto di non avere più tempo per me stesso; mi accorgo di essere
finito in un vortice infernale che mi stritola. In fondo tutta la mia vita è
stata così, sono appartenuto poco a me stesso e quasi per intero allo spazio
pubblico che per me ha rappresentato, fin dal principio, un obbligo morale. Ho
vissuto due vite in una. Ero giovane e non me ne rendevo conto, ma ora che le
forze cedono, e riflettendoci con distacco, in questa notte affannata, mi
convinco che di questo eccesso si può prematuramente morire. Oggi penso davvero
che Calvino sia morto di questo eccesso. Quando anni fa mi sono recato sulla
sua tomba a Castiglione della Pescaia, non ne ero consapevole, e come lo
scrittore olandese Cees Nooteboom mi dicevo quanto fossero più vivi dei vivi
certi morti.
Condannato dunque a questo
eccesso? Ma come uscirne?
Da me non ci si aspetta
che questo eccesso, questa indomabile vitalità. Lo considerano come un dato
della mia natura, un dato quasi perenne, come se ad essere innaturale fosse il
contrario di questo eccesso. Un eccesso permanente in grado di opporsi al dato
spietato del tempo e del suo divenire.
Mi vogliono così perché
senza questo eccesso non mi riconoscerebbero, ma io sento di aver dato tutto
quello che potevo e che devo contenere quell’eccesso.
Lo devo a quanto resta di
me, ai pochi veri affetti che mi circondano, e dunque devo contenere questa
dissipazione.
Ho detto contenere l’eccesso, non rinunciarvi,
perché avverto seriamente per la prima volta, il rischio concreto di una morte
precoce.
[Milano, notte del 17
maggio 2017]