APPARENTI BANALITÀ E
GESTIONE DEL POTERE
di Franco Astengo
L’evidente crisi delle strutture
formali ma anche della sostanza di quella che è stata definita “democrazia
occidentale” porta con sé elementi di vera e propria involuzione nella gestione
del potere politico, in relazione all’egemonia della tecnica e del prevalere
dell’economia nella formazione delle decisioni collettive. Il processo di
formazione delle decisioni appare così condizionato sempre più fortemente dal
peso dell’intreccio tecnica (compresa quella relativa ai mezzi di comunicazione
di massa e di nuova socializzazione virtuale) ed economia, attraverso cui si
esprime una forte tendenza alla centralizzazione del potere e alla costruzione
di soggettività politiche incentrate sulla figura del “Capo” e sviluppate
attorno a quello che si è cercato di definire come “individualismo
competitivo”.
Appare necessaria , questo punto, una
discussione proprio attorno al tema della concezione generale del potere e
degli equilibri che è necessario mantenere in uno Stato democratico di diritto.
A questo proposito e a modesto giudizio
di chi scrive è necessario riaprire una riflessione di fondo attorno al
concetto di “potere”, alle forme e alle modalità di detenzione dello stesso,
sulla distinzione tra “potere” e “governo” così come oggi può essere realizzata
e vissuta nel mutamento di struttura dello Stato e di crisi della cosiddetta
“democrazia occidentale”. La concentrazione dello sviluppo tecnologico in
funzione quasi esclusiva della comunicazione mediatica, collettiva e
individuale, ha portato a uno spostamento nella percezione di quello che può
essere definito “immaginario del pubblico” incidendo fortemente sui meccanismi
di accumulazione del consenso e di conseguenza di espressione del potere che si
realizza così -appunto- attraverso l’immagine, al di là del campo di
riferimento sia questo la politica, l’economia, lo spettacolo. Sono nati così
fenomeni molto significativi che hanno dimostrato una crescita esponenziale del
concetto di “personalizzazione” spinto quasi al limite del “divismo”, nel
trionfo dell’apparire in luogo dell’essere e di una nuova forza dell’effimero
nel nascondere la realtà complessa del potere reale.
Forse vale
la pena riflettere al meglio su questi elementi di novità al fine di comprendere
davvero ciò che sta accadendo attorno a noi. L’obiettivo dovrebbe essere quello
di attrezzarci al meglio sul piano teorico: sicuramente, sotto quest’aspetto il
concetto e la conseguente percezione esterna del potere sono mutati nella
valutazione di larga parte dell’opinione pubblica, almeno in Occidente. Un
elemento sul quale, con ogni probabilità, il fattore globalizzazione ha inciso
in maniera inferiore rispetto ad altre tematiche come, invece, quelle
riguardanti la finanziarizzazione dell’economia, la standardizzazione dei
meccanismi comunicativi, l’apertura ai flussi di migrazione: tutti fenomeni che
nell’ultimo ventennio hanno registrato un forte incremento nel loro peso
specifico sulla realtà politica, economica, sociale. Nello sviluppo del
pensiero umano il concetto di potere è sempre stato suddiviso in “comparti”
(per così dire). Aristotele distingueva nella “Politica” tre tipi di potere in base all’ambito nel quale esso era
esercitato: il potere dei padri sui figli, il potere dei padroni sugli schiavi,
il potere dei governanti sui governati (vale a dire il potere politico in senso
stretto).
In età
moderna Locke riprese la classificazione aristotelica allorquando, aprendo il
secondo dei suoi “Trattati sul governo”, ribadisce la distinzione tra il potere
del padre sui figli, del capitano di una galera sui galeotti e del governante
sui sudditi. Ancora Max Weber in “Economia
e Società” distingue tra potere “costituito in virtù di una costellazione
di interessi” (dunque il potere specificatamente economico) e il potere
costituito in virtù dell’Autorità, includendo in questo il potere del padre di
famiglia, dell’ufficio o del potere del principe. Nella modernità attorno al
concetto di potere abbiamo trovato espressi fattori come potenza, forza, influenza
tutti utilizzati al fine di realizzare il condizionamento sociale per trovare
obbedienza a un comando che contenga un determinato contenuto.
Su queste
basi era maturato il concetto fondamentale di separazione dei poteri (Locke, Montesquieu,
Sieyès) destinata a diventare il cardine dello Stato di diritto. In particolare
l’abate Sieyès, con la sua teorizzazione dei rapporti tra potere costituente e
poteri costituiti, pone le basi per la teoria moderna della Costituzione. Il
testo della Costituzione deve essere così inteso come atto normativo mirante a
definire e disciplinare la titolarità e l’esercizio del potere sovrano. Da
questa concezione del potere e del suo esercizio che, a questo punto, potrebbe
essere definita come “classica” è derivata concretamente l’attuazione del
principio della separazione dei poteri: tra potere legislativo e potere
esecutivo da un lato, e tra potere giudiziario e potere legislativo dall’altro.
Su queste
basi prendeva corpo l’idea della centralità del Parlamento, che sovraintende -tra
l’altro- all’intero impianto istituzionale previsto dalla Costituzione Italiana
del 1948.
Oggi, non
soltanto in Italia, questo schema si sta rapidamente modificando.
Lo Stato
legislativo ha ormai lasciato il posto allo Stato governativo che produce una
sorta di “inflazione normativa” nella forma di decreti e decisioni
particolaristiche (è sufficiente esaminare il lavoro del Parlamento Italiano
nel corso degli ultimi trent’anni).
Nello stesso
tempo la Magistratura ha svolto sempre di più funzioni di supplenza al riguardo
della determinazione degli equilibri politici e degli stessi orientamenti
legislativi, intervenendo addirittura su temi di diretta pertinenza al riguardo
delle fonti stesse di legittimazione delle sedi legislative: si pensi al tema
della legge elettorale.
Inoltre i
confini del potere politico appaiono confusi rispetto a quelli del potere
economico: su questo punto è avvenuto, sempre per restare nell’ambito
dell’Occidente e ancor più in specifico del “caso italiano”, una surrettizia (e
non completata) “cessione di sovranità” verso le istituzioni monetarie e
finanziarie dell’Unione Europea (queste, tra l’altro, prive di una
legittimazione politica complessiva che è proprietà soltanto del Parlamento
Europeo, provvisto però di una capacità d’incidenza concreta molto limitata).
Uno spunto
di riflessione ulteriore può essere suggerito, a questo punto, da un
aggiornamento d’analisi al riguardo della teoria della “microfisica del potere”
elaborata a suo tempo da Michel Foucault per rispondere proprio
all’evidenziarsi di quella “confusione tra i poteri” cui si è appena accennato.
La teoria del filosofo francese considera il potere come una risorsa che
circola attraverso un’organizzazione reticolare. Si tratta di un punto sul
quale l’analisi non si è ancora soffermata abbastanza a fondo e che vale la
pena riprendere all’interno di una riflessione dettata dall’attualità di questi
giorni. Una riflessione sulla folle corsa che la modernità impone alla ricerca
di un verticismo assoluto nella detenzione del potere, nell’assolutismo dell’io
come essere esaustivo della finalità umana come punto di ricerca
dell’assolutismo politico. Emerge un contrasto evidente, si sente uno stridore
terribile proprio tra questa ricerca della verticalità del potere assoluto e
l’orizzontalità piatta dello scorrere della vita umana. Un’orizzontalità
perenne, che si perpetua nonostante le deviazioni improvvise che un itinerario
di vita trova strada facendo. Questi frangenti impongono di tornare a
riflettere proprio sull’appiattirsi delle relazioni, sull’impossibilità di
riconoscere un ordine e un comando che appaiono inutili nel loro vano
dimostrarsi. L’orizzontalità dell’essere reclama il collettivo, il “noi”, e
respinge l’io. Il potere non si concentra più al vertice ma si disperde nella
società attraverso gli individui: è la tesi della “inflazione del potere” cui Luhmann
risponde considerandola come fonte dell’ingovernabilità con la teoria della
riduzione del rapporto tra politica e società, e di conseguenza con una sorta
di ritorno a forme “decisionistiche” di tipo quasi assolutiste La presa d’atto,
in sostanza, della necessità di un potere sovraordinato rispetto al venir meno
di confini netti tra potere economico, politico, ideologico, tra poteri
costituenti e poteri costituiti oppure ancora tra esecutivo, legislativo,
giudiziario. Sorge però a questo proposito una domanda cruciale: come potrà
costituirsi, nel concreto, questo potere sovraordinato? Una possibile risposta può
venire proprio dall’analisi dell’attualità del caso italiano. La risposta può
venire dalla finzione, dalla messa in scena di un potere esclusivamente
immaginario esercitato in via personale da un attore capace di interpretare il
flusso degli strumenti mediatici (orientati, tra l’altro, sempre più verso il consumo
individuale di notizie e di fittizi rapporti sociali e di trasmissione di
idee). Una finzione, quella attuata prima da Berlusconi e adesso da Renzi e dai
suoi epigoni e/o apparentemente avversari ma in realtà appartenenti alla stessa
famiglia politica.
Una finzione
sulla quale l’opinione pubblica si adagia avendo introiettato sul piano
culturale l’idea della governabilità quale sola sponda possibile per
l’esercizio della funzione politica e ricevendo in cambio il “via libera” a una
sorta di “anarchismo diffuso” sul piano sociale esplicitato nell’assenza di
regole e nel ritorno alla possibilità di esercitare una sorta di “potere
privato” su chi s’incontra sulla nostra strada in posizione subalterna.
Una nuova
concezione del potere : “di finzione” sul piano del pubblico e “privato” nella
concezione, ormai apparentemente egemone, dell’individualismo quale sola fonte
di rapporto verso gli altri. L’interrogativo alla fine è questo: quanto tempo
potrà reggere questa finzione? Che tipo di replica potrà verificarsi al momento
del suo disvelamento? Torno su argomenti già esaminati proprio in questi giorni
in una riproposizione che mi pare urgente e di bruciante attualità. Sarà
difficile, al momento proprio del disvelamento della finzione, evitare un
rinnovamento del nichilismo, come forma estrema della propria soggettiva
affermazione di fronte alla “collettività del dramma sociale”.
Costruire
un’alternativa sarà compito lungo e arduo: avremo bisogno soprattutto di
motivare un senso, un indirizzo, un destino, sfuggendo alla banalità
dell’ovvio, alle litanie delle inutili alternanze. Emerge così una nuova
qualità della contraddizione governanti/governati con una sostanziale
ridislocazione del potere nella definizione delle regole: sarà bene tenerne
conto fino in fondo nella progettazione di un possibile divenire politico.
*Per redigere questo testo sono
stati consultati: Max Weber “Economia e
Società”, Milano 1974; Michel Foucault “Microfisica
del potere” Torino 1977, Niklas Luhmann “Potere e complessità sociale” Milano 1979, Roberto Esposito e Carlo
Galli, “Enciclopedia del pensiero
politico”, Roma-Bari 2005.