Per Aharon Appelfeld
di Gabriele Scaramuzza
A. Appelfeld |
È mancato la notte tra mercoledì 3
e giovedì 4 gennaio 2018 Aharon Appelfeld, a mio giudizio il più grande
scrittore ebraico contemporaneo. Le lettura delle sue opere mi ha dato profonde
emozioni, tra le più alte di questi ultimi anni. Ne ho parlato nel capitolo
dedicato a “Scrittura e Shoah” del mio ultimo libro, Incontri. Per una filosofia della cultura. Appelfeld è nato (come Paul Celan, Roman Vlad,
Gregor von Rezzori) nel 1932 in Bucovina, a Czernowitz - così si chiamava
nell’Impero Asburgico di cui faceva inizialmente parte; poi di volta in volta, a seconda delle tormentate vicende della
guerra, divenne Cernăuţi (rumeno), Černivcý (russo), (ucraino: dell’Ucraina fa
ora parte). Le sue opere sono percorse da un filo rosso (autobiografico),
radicato nel suo modo di trascorrere gli anni della guerra. Il tema del destino
degli ebrei durante la Shoah resta al fondo, più o meno direttamente, di tutti
i suoi lavori; anche se non descrive gli orrori dei campi di sterminio, ma il
loro riflesso nell’animo dei suoi eroi. La passione dell’osservare, spesso
presente nei suoi romanzi, ne è un tratto affascinante. Tra i suoi libri vorrei
ricordare innanzitutto la sua autobiografia: Storia di una vita. In Badenheim
1939 si parla di ebrei in una stazione termale di lusso, dove vivono bene.
A poco a poco gli spazi si restringono, è impossibile uscire, il cibo
scarseggia – situazione da ghetto. Uffici turistici reclamizzano la Polonia,
come luogo in cui saranno mandati, tra vacanza e lavoro; alcuni contenti di
tornare al loro paese d’origine, altri dubbiosi. Vi si intrecciano casi e
storie personali. Alla fine treni li aspettano per trasportarli all’est.
Paesaggio con bambina è la Storia di Tsili Kraus,
abbandonata, vagante poi, incontra con Marek, che però sparisce. Da lui aspetta
un figlio. Di Il rifugio protagonista
è Lotte, un’attrice di secondo piano sulla via del tramonto che, accompagnata
dalla figlia Julia; nel 1937 va a vivere in montagna, in una sorta di pensione
per ebrei (di qui il “rifugio” del titolo), in qualche lembo dell’Austria. Lì
resta per mesi, ottiene una borsa di studi per perfezionare in suo lavoro (in
particolare la lettura di poesie di Rilke). Molti personaggi e accadimenti
diversi vi si intrecciano, tra amori e suicidi. La pensione è pulita ma povera,
sempre più povera; si disfa a poco a poco; coloro che scendono al paese a fare
rifornimenti sono malmenati a sangue. Il finale non è la scomparsa del rifugio,
resta sospeso, ma i segnali sono quanto mai preoccupanti (come doveva essere
già nel ’37; e nel ’38 c’è l’Anschluss…). Quello che domina è la voglia dei
personaggi, tutti ebrei, di disfarsi del loro ebraismo, attribuendogli i
difetti e le caratteristiche peggiori. Desideri di redenzione si accompagnano a
sintomi preoccupanti di disfacimento fisico e spirituale. Presentimento della
catastrofe che di lì a poco seguirà? Il
rifugio si fa sempre più precario e instabile, non è ancora il crollo ma gli è
vicino.
Berta è una “novella d’Israele”. In Il mio nome è Katerina Katerina è
rutena, viene da una famiglia squallida e violenta; poi costretta a fuggire in
città (Ĉernovizi) dove è a servizio presso famiglie ebraiche. Qui si trova
bene, impara lo yiddish, segue con simpatia le cerimonie e le festività
ebraiche. L’ambiente è ferocemente antisemita, con pogrom violenti. Ma Katerina
sviluppa lentamente un profondo rispetto e un vero amore per persone ebree e
per l’ambiente, la lingua, la cultura. Fa circoncidere il proprio figlio (che
ha per padre un ebreo che neppure vuol conoscerlo), cui dà il nome ebreo di
Benjamin. Ma un suo compaesano, che la desidera e vede nel figlio un intralcio,
lo uccide brutalmente in un vicolo. Qui Katerina a sua volta uccide l’assassino
del figlio, per rivalsa e legittima difesa. Ciononostante viene arrestata e
condannata all’ergastolo; passa più di quarant’anni in carcere. Nel contempo i
tedeschi hanno invaso la sua terra e compiuto l’opera iniziata con i pogrom,
sterminando gli ebrei. Katerina si ritrova sola, torna a ottant’anni nella sua
casa natale, non c’è più nessuno, solo un cieco l’aiuta.
Tutto ciò che ho amato vede come protagonista Paul; i genitori
divorziano, la madre si risposa e da lei si allontana; vive col papà artista.
Antisemitismo, fine anni Trenta. In Notte
dopo notte siamo nel dopoguerra, a Gerusalemme, nella pensione Precht:
scontro tra modi diversi di vivere il passato, la dura padrona vuol farlo
dimenticare. Sogno di far rivivere l’yiddish, presenza viva la violoncellista
Paula, dispersione finale e volontà di aiutarsi. E sempre stupore, meraviglia.
Sempre nel dopoguerra, a Gerusalemme, si colloca L’amore, d’improvviso. Racconta l’incontro tra Ernest e Irena. che
lo aiuta in casa. Amore nasce all’improvviso, non mancano ricordi dei Carpazi.
Un’intera vita è invece la storia di Helga; la
madre è ebrea, è convocata in città e lei non la vede più. Resta col padre,
duro, antisemita. La manda a vivere con la sorella, che è come lui. Molto belle
le pagine sulla scuola con l’incontro con la suora che l’aiuta capire e ad
affrontare la situazione. Fugge, aiutata da varie persone, costante ricerca
della madre, per lei si consegna anche in un campo di concentramento. Alla fine
la ritrova morente.
Il ragazzo che voleva dormire è anch’esso autobiografico, come
tutti: la voglia di dormire che coglie Erwin subito dopo la guerra, forse anche
voglia di dimenticare. Lo trasportano ancora dormiente, tra Italia e Israele.
La realtà nuova in Israele, cui vuole adattarsi, a scapito delle origini, il
conflitto tra la lingua madre e l’ebraico.
Fiori nelle tenebre:
ghetto, deportazioni, la madre gli trova in Marianna, una sua compagna
di scuola e amica, ridotta a far la prostituta, un rifugio; e un luogo di
educazione anche sentimentale, finché Marianna, è accusata di complicità coi
tedeschi, viene fucilata.
Una bambina da
un altro mondo è la favola di due bambini abbandonati in un bosco, con la
promessa che le madri torneranno. E favoloso è che davvero torneranno a
prenderli, contrariamente a tutte le altre madri dei romanzi di Appelfeld, che
mai potranno mantenere le loro promesse di ritorno. Il tema della Shoah
serpeggia dovunque, ma è concentrato in Oltre
la disperazione, seguito da una bella conversazione con Philip Roth. Ne ho
già scritto una presentazione per “Odissea” un anno fa circa. E ora può essere
utile aggiungere un minimo di bibliografia su Appelfeld.
Articoli e saggi:
Arte e Shoà,
La rassegna mensile di Israele, LXVI, 2, maggio-agosto 2000, pp.135-144.
Tra il rifugio e la casa (ds. - presentazione e trad. di C.
Rosenzweig)
Un passato che scotta. La Shoah e il potere
della parola, “la Repubblica”, 7.5.2008.
Raccontare la memoria, “la Repubblica”, 27.1.2014.
Per anni mi sono chiesto che cosa c’era di sbagliato
in noi, “la Repubblica”, 27.1.2016.
Interviste:
Intervista nel romanzo di Philip
Roth, Operazione Shyloch, Einaudi
1998.
Claudia Rosenzweig, La foresta dei ricordi. Incontro con Aharon
Appelfeld, La rassegna mensile di Israele, LXVI, 2, maggio-agosto 2000, pp.
131-34.
Raccontare una vita. Incontro con Aharon
Appelfeld.
Un sogno spezzato, o dello yiddish in
Israele.
Su Aharon Appelfeld, Notte dopo
notte.
Andruetto Guido, La sola possibilità contro la violenza è
tornare al dialogo, intervista a A. Appelfeld, “la Repubblica”, 10.10.2015.
Scritti su Appelfeld:
Giulio Busi, Quell’inverno dentro l’anima, “Il Sole – 24 Ore”, 29.6.08
Serena Danna, Bibbia grande maestra di modernità, “Il
Sole – 24 Ore”, 16.5.10
Susanna Nirenstein, La memoria negata. La guerra di Aharon
Appelfeld, “la Repubblica”, 15.4.2008
Claire Placial, “Acquiers des mots
et tu auras acquis une langue, disait-on”. Sur Aharon Appelfeld (26.1.2014)
Elisabetta Rasy, Shoah, ultima epica possibile, “Il Sole
– 24 Ore”, 24.7.11
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