DANTESCA
di
Franco Toscani
4.
La superbia e il pudore di Dante
Dante
non si limita a deprecare la superbia, non la contempla dall'esterno, non è
estraneo ad essa, ma si sente egli stesso parte in causa, coinvolto in questo
peccato. La superbia dell'ingegno e dell'arte, il desiderio di primeggiare che
si manifesta in Oderisi da Gubbio concerne direttamente anche il grande autore
della Commedia, che accenna in vari
luoghi del poema alla sua personale superbia; "ascoltando chinai in giù la
faccia" (Purgatorio, XI, 73),
dice infatti, avvertendosi anch'egli - come Oderisi - colpevole del medesimo
peccato, "per lo gran disio/ de l'eccellenza ove mio core intese" (Purgatorio, XI, 86-87). Colpisce qui il pudore di Dante, che si manifesta pure
in non poche altre occasioni nel poema. Anche
ai superbi è però sempre data la possibilità del pentimento, del sincero
ravvedimento, del riconoscimento pieno delle proprie colpe e dei propri errori.
Ed è questo il percorso a cui Dante invita tutti i mortali, nessuno dei quali è
esente dai mali e dalle negligenze, ma a cui è sempre aperta la possibilità di
un riscatto, di una ripresa, di un rinnovato processo di umanizzazione.All'inizio
del Canto XI (Purgatorio, XI, 1-24),
la preghiera corale dei superbi, come ampia parafrasi del Pater noster, non è infatti solo in lode e a invocazione di Dio
(che sta nei cieli perché "da nulla è limitato", come leggiamo nel Convivio, IV, IX, 3 e perché "tutto
circunscrive", Paradiso, XIV,
30) ma è finalizzata alla riscoperta dell'umiltà e alla riconciliazione col
prossimo. La preghiera, come "buona ramogna", sembra avere il senso
di un augurio di buona felicità nel viaggio ed è rivolta esplicitamente a chi
rimane sulla terra bisognoso di elevazione (cfr. Purgatorio, XI, 22-25).Nel
Canto XI l'autore riflette poeticamente da par suo sulla profonda vanitas della fama umana, il
"mondan romore": "Non è il mondan romore altro ch'un fiato/ di
vento, ch'or vien quinci e or vien quindi,/ e muta nome perché muta lato./ Che
voce avrai tu più, se vecchia scindi/ da te la carne, che se fossi morto/ anzi
che tu lasciassi il 'pappo' e il 'dindi',/ pria che passin mill'anni? ch'è più
corto/ spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia/ al cerchio che più tardi in
cielo è torto" (Purgatorio, XI,
100-108).La
riflessione dantesca sulla brevitas,
fragilità e finitezza della vita umana fa tutt'uno con un acuto senso del tempo,
del suo carattere abissale e vertiginoso. Rispetto all'abisso e alla vertigine
del tempo, di fronte all' "etterno", rispetto al tempo che il cielo
delle stelle fisse impiega per compiere la sua rivoluzione, le credenze
individuali nell'immortalità della fama umana sono davvero ben misera cosa, un
nulla; sono come il verde dell'erba, che dura ben poco: "La vostra
nominanza è color d'erba,/ che viene e va, e quei la discolora/ per cui ella
esce de la terra acerba" (Purgatorio,
XI, 115-117). Come il sole fa crescere e fiorire l'erba per poi farla
rapidamente appassire e inaridire, così il tempo partorisce la fama degli
uomini e altrettanto rapidamente la cancella.L'immagine
è tratta da un grande tema biblico e dal linguaggio delle Scritture. Si pensi
soprattutto a Isaia, 40, 6-7:
"Ogni uomo è come l'erba/ e tutta la sua grazia è come un fiore del
campo./ Secca l'erba, il fiore appassisce/ quando soffia su di essi il vento
del Signore./ Veramente il popolo è come l'erba"; a Salmi, 90, 5-6: "Tu li sommergi:/ sono come un sogno al
mattino,/ come l'erba che germoglia,/ alla sera è falciata e secca"; alla Lettera di Giacomo, 1, 9-11: "Il
fratello di umili condizioni sia fiero di essere innalzato, il ricco, invece,
di essere abbassato, perché come fiore d'erba passerà. Si leva il sole col suo
ardore e fa seccare l'erba e il suo fiore cade, e la bellezza del suo aspetto
svanisce. Così anche il ricco nelle sue imprese appassirà".Tale
consapevolezza, tale discorso vero e lucido non è in Dante sterilmente
nichilistico e non induce alla rassegnazione, ma invita lo stesso poeta - come
tutti - alla liberazione dal "gran tumor" della superbia, dalla
"grande gonfiezza di ventosa gloria" (come dice ottimamente nel suo
commento Alessandro Vellutello ) e a
ritrovare "bona umiltà", una giusta umiltà (cfr. Purgatorio, XI, 118-119).In
precedenza abbiamo fatto già riferimento al personale travaglio di Dante in
tema di superbia (circa la superbia dell'ingegno e del valore, nel suo caso
particolare del letterato e del dotto); ebbene, questo coinvolgimento personale
così intensamente avvertito, questa difficile resa dei conti con la superbia
determinata dall' "altezza d'ingegno" e dalla "nobiltà di
sangue", questa forte e sofferta tensione autocritica (cfr. anche Purgatorio, XIII, 136-138) non fanno che
rendere ancora più valida e preziosa la testimonianza dell'autore della Commedia su questo nodo decisivo.In
generale, nella visione di Dante, la giustizia e la misericordia divine sono
pronte a salvare quegli uomini che, con un pentimento sincero e con l'avvio di
un'opera buona, rinnovano praticamente il senso della loro vita.
Dante
non si limita a deprecare la superbia, non la contempla dall'esterno, non è
estraneo ad essa, ma si sente egli stesso parte in causa, coinvolto in questo
peccato. La superbia dell'ingegno e dell'arte, il desiderio di primeggiare che
si manifesta in Oderisi da Gubbio concerne direttamente anche il grande autore
della Commedia, che accenna in vari
luoghi del poema alla sua personale superbia; "ascoltando chinai in giù la
faccia" (Purgatorio, XI, 73),
dice infatti, avvertendosi anch'egli - come Oderisi - colpevole del medesimo
peccato, "per lo gran disio/ de l'eccellenza ove mio core intese" (Purgatorio, XI, 86-87). Colpisce qui il pudore di Dante, che si manifesta pure
in non poche altre occasioni nel poema.