APOLOGIA DELLA GUERRA
Dopo sedici giorni di guerra si
fanno rare le speranze (ma spes contra spem bisogna sempre
sperare) di un’uscita non catastrofica dalla crisi per il futuro del mondo.
Vince il più forte: ma il più forte non è la Russia, perché il suo Nemico non è
l’Ucraina, ma sono gli Stati Uniti e il rapporto di potenza (secondo i dati del
SIPRI) è di 66 miliardi e 838 milioni di dollari di spesa militare della Russia
contro 766 miliardi degli Stati Uniti, 1.103 miliardi di tutta la NATO mentre
alla Germania si consente di superare il vincolo del 2 per cento del PIL che le
era stato imposto dopo Hitler. La vera guerra che si sta combattendo è
infatti tra queste Potenze e a vincere è la vittima creata da loro, l’Ucraina,
che si è sentita la più forte grazie alla solidarietà che le è stata
offerta da tutti; ma questa, abilmente gestita dal complesso militare-mediatico
dell’Occidente e dall’esperto regista e attore televisivo che
dell’Ucraina è diventato il presidente, si è risolta in una unanimità
violenta che ha eletto la Russia come unico Nemico. Il crimine di guerra (la
guerra come crimine) commesso da Putin passando il Rubicone dei confini con
l’Ucraina, anche se per impedirle di installarvi la NATO, si è ritorto
contro di lui, che non ha capito come in tal modo avrebbe fatto scattare una
facile identificazione con il più debole aggredito, da parte degli attori non
protagonisti del dramma e di tutti gli spettatori che lo fanno a buon mercato.
“Gli ucraini combattono anche per noi”, titola il Corriere
della Sera riprendendo la teoria del domino che fu usata dagli Stati
Uniti per esaltare la guerra del Vietnam che insieme al dittatore golpista di
Saigon dicevano di combattere per evitare che, Stato dopo Stato, tutto il mondo
diventasse comunista; l’identificazione sollecitata dal giornale milanese non è
peraltro solo con le vittime, ma con i “coraggiosi combattenti” che
al posto nostro riscattano “il pacifismo istintivo, puerile, miope, ipocrita,
egoista” al quale si sarebbe ridotto l’Occidente europeo che ha “smarrito il
senso della lotta” e se ne sta seduto a guardare la televisione. Un’apologia
della guerra in piena regola. Tutto ciò avviene nel quadro di una guerra
mondiale virtuale (“a pezzi” come da tempo diagnosticata dal Papa) giunta sulla
soglia di diventare reale e totale. Questo rischio è all’origine del panico e
del coinvolgimento generale che, al di là delle propagande, questa guerra
suscita nell’opinione pubblica, al contrario di quanto fanno o hanno fatto
altre guerre trascurate o ignorate nelle quali altre vittime sono sacrificate,
e piangono e soffrono, altri bambini si perdono, popoli negati combattono - ci
voleva un generale, Mini, per ricordarcelo - e altre guerre provocano
fuggiaschi e profughi poi discriminati e respinti non meno di questa. Questo rischio è
stato spregiudicatamente assunto come se si fosse giunti al giudizio
finale nel conflitto apertosi dopo la guerra fredda per decidere l’assetto del
potere nel futuro del mondo. L’Ucraina ha rivendicato la libertà di mettercisi
in mezzo per prima, gli Stati Uniti hanno deciso di approfittarne e di
correre questo rischio perché paradossalmente hanno fatto conto sul fatto che
Putin, da loro definito “un killer” e dagli altri considerato pazzo, riesumatore
dell’Unione Sovietica e uno zar aspirante al trono di Pietro il
Grande, sarebbe stato tuttavia ancora umano e non avrebbe fatto ricorso
all’arma nucleare. Speriamo che così sia. Ma il rischio è che l’uscita dalla
guerra in corso sia comunque catastrofica, se non per l’uso della bomba, perché
il dominio del vincitore estendendosi a tutto il mondo (chi non ricorda il
progetto del “nuovo secolo americano?) per lungo tempo impedirebbe la pace e la
giustizia sulla terra, che è anche l’ultimo tempo utile per salvarla
scongiurandone il collasso politico, climatico e ambientale. Ma, appunto,
“speriamo contro ogni speranza”, secondo il detto paolino ripreso da La Pira
per auspicare da Firenze, dopo l’elezione di papa Giovanni, un futuro di pace e
fraternità ecumenica per tutto il mondo.
Chiesa
di tutti Chiesa dei poveri