L’AVVENTURA DELLA PACE
di Antonia Sani
La Pace è un’avventura.
Colgo l’espressione dal titolo di una recente pubblicazione di Bruna Bianchi,
già docente di Storia delle donne all’Università «Ca' Foscari» di Venezia. Avventurosa è
la percezione di una pace non priva di contraddizioni nei
secoli. Sulla sua interpretazione sono stati spesi fiumi di inchiostro e di
parole ai tavoli dei trattati, dove in suo nome si spartivano territori ed
esistenze umane.
La parola «Pace» è comunemente intesa come
“assenza di conflitti”, a partire dagli ambienti familiari; è l'aspirazione a
una quiete senza ansie, è il leopardiano «e il naufragar m'è dolce
in questo mare»; è la parola più frequentemente impressa in lingua
italiana e latina su tombe e monumenti funebri, presso i quali ogni essere
umano ha raggiunto la fine delle angosce, delle lotte, delle amarezze, delle
travolgenti gioie della vita. Una pace passiva può consistere,
dunque, sia nel trionfo dell’egoismo e dell’inerzia che, al contrario,
nella esaltazione dell’altruismo e della generosità nel caso di una
rinuncia pacifica all’autoreferenzialità.
Pace è talvolta
una generica proclamazione del nulla. Pensiamo agli iridati tessuti
di borse e valigie, alle bandiere arcobaleno pendenti dalle finestre di case e
balconi al tempo della guerra in Iraq (2002-2003) con al centro la scritta
PACE, lasciate pian piano sbiadire prima della decisione individuale/collettiva
di rimuoverle. Cosa intendevano coloro che le avevano appese? Chi pensava al
mito di Iride? Chi al ponte variopinto tra Dio e l’umanità? Pace significava
essere uniti nel dire NO ad una guerra lontana, ad indicare (ma non tutti
consapevolmente) da che parte si stava; soprattutto ad auspicare per sé
stessi e i propri familiari una vita “sicura”, come se lo
stendardo della pace fungesse da amuleto e potesse servire a tenere lontani gli
appetiti violenti e le aggressioni alla propria abitazione.
Ma “un mondo di pace” significa anche un mondo in
cui tutti/e abbiano cibo e lavoro in un ambito di giustizia sociale;
a questo tendono i gruppi di volontari, a casa nostra e nel mondo, uomini
e donne, ragazzi e ragazze che impegnano la propria vita nell’educazione
dei bambini, nell’assistenza agli anziani e, in questi anni recenti, nell’accoglienza
dei migranti; ma anche volontari e volontarie che si scontrano
su terreni di guerra mettendo a rischio la propria vita per un sogno. Il sogno
di un mondo di pace. Sono costoro una netta minoranza. La stragrande
maggioranza della popolazione, a partire dai più giovani, intreccia oggi
la pace con l’emergenza climatica e il rispetto
per l'ambiente, battaglie ideali che affascinano come sull'orlo di un
precipizio ma che non trovano riscontro in una quotidianità fatta di abitudini
consolidate che mettono a repentaglio una pace vagheggiata, sì, ma
contrastata quotidianamente a partire dalle politiche di governi
protesi alla conservazione del potere in perfetta assonanza con le
aspettative dei propri cittadini (che peraltro aspirano solo a
un maggiore benessere, incuranti - essi e i governanti - delle conseguenze
capaci di mettere a forte rischio la sostenibilità del pianeta, in
primis l’inquinamento).
Qui sta la grande
contraddizione. I sistemi adottati dagli stati nel mondo globalizzato restano
gli stessi di sempre. «Si vis pacem para bellum» («Se vuoi la pace
prepara la guerra»), si diceva a Roma alla vigilia della caduta dell'Impero
Romano d'Occidente. L’uso delle armi, la cui vendita è oggi moltiplicata
al parossismo, serve a tenersi sempre pronti a proseguire nella direzione
del possesso dei beni e dello sfruttamento delle
popolazioni, ciò che ha contribuito allo sviluppo delle nostre società nella
direzione che oggi i sostenitori della green economy contestano,
pur non essendo in grado di opporre le necessarie rinunce a livello
individuale. Un esempio lampante è l’incendio delle foreste dell'Amazzonia per
consentire la prosecuzione della direzione mondiale intrapresa dai poteri
forti. Troppo flebili sono le voci nel mondo dei gruppi che si
oppongono.
La Pace è stata storicamente il prodotto delle guerre.
La famosa Pax augustea ne è la rappresentazione. Le “orrende”
armi tacciono quando sulle migliaia di morti, sui viventi che hanno perso le
proprie case - i luoghi cari passati in mano nemica -, sulle leggi dettate
dalla parte vittoriosa, si stende la pace, una “pace subìta” dai
vinti, che reca in sé il germe della ribellione, una “pace proprietà
esclusiva” dei vincitori, pronti a gestirla con proprie
modalità. Così è stato sempre.
Come superare la contraddizione lacerante tra una pace
intesa come “serenità individuale” e l’astrattezza del concetto nel
momento di passaggio al piano della “pace bene comune”, ovunque proclamata ma
lungi dall’essere praticata?
Alcune delibere ONU ci vengono in aiuto, a partire
dalla celebre risoluzione 1325 del 2000: «Donne, Pace, Sicurezza», epigona di
varie altre risoluzioni concernenti i «Diritti delle Donne e della Pace». Qui
la Pace è finalmente intesa nel suo autentico connotato. Il testo della
risoluzione ci conduce subito su un terreno concreto: la
risoluzione riguarda il ruolo delle donne nei conflitti
armati: a) prevenzione e soluzione del conflitto; b) consolidamento della
pace e partecipazione paritetica, in particolare nei ruoli decisionali in
materia di prevenzione e soluzione dei conflitti.
Le azioni che la 1325 attribuisce alle competenze
degli stati devono essere attuate dai rispettivi governi. Le associazioni
internazionali di donne - e tra queste in primo piano la WILPF di antica data - lamentavano,
a cinque anni dalla risoluzione, l’assenza di interventi da parte dei
rispettivi governi, tra gli altri la non paritetica presenza dei generi nelle
istituzioni. Ma l’aspetto più interessante della 1325 riguarda la “costruzione”
della pace. Al di là di una vaga idea di pace si dispone la messa in atto
di interventi atti a tutelare e a proteggere le parti più a rischio delle
popolazioni vittime dei conflitti armati. Ha inizio qui l’avventura della pace
intesa come percorso post-bellum, nella convinzione che «la
comprensione degli effetti dei conflitti armati sulle donne e le
ragazze, i meccanismi istituzionali efficaci per garantire la loro
protezione e piena partecipazione nel processo di pace possano contribuire
considerabilmente al mantenimento e alla promozione della pace e della
sicurezza internazionali».
Shamsia Hassani
Musica contro la guerra
Il cammino si articola in
tre tappe: la prevenzione, la gestione e la soluzione dei conflitti. In tutti e
tre i livelli viene ribadita la necessità della rappresentanza femminile nelle
fasi di adozione delle decisioni.
La prevenzione si innesta sulla soluzione di un precedente
conflitto al fine di evitare nuove guerre. La soluzione prevede negoziazioni
degli accordi di pace adottati in una prospettiva di genere, nel rispetto dei diritti
umani e politici delle donne e della loro possibile attività in iniziative di
pace durante il reinsediamento. Tutte le parti coinvolte in un conflitto armato
- recita la 1325 - devono adottare misure specifiche per proteggere donne e
ragazze da violenze di genere, stupri e altre forme di abusi sessuali.
La 1325 ha ormai quasi vent’anni ma i suoi dettami
sono ancora ben lungi dal garantire il rispetto in ambito nazionale e
internazionale dei diritti umani! Eppure, la Pace non può che fondarsi su
questi presupposti. Essa deve liberarsi dai proclami universalistici non
in grado di sventare appetiti e violenze che minaccino “il bene comune”. Questo
“bene comune” bisogna poi pensare a come rappresentarlo. A tale proposito ci
viene in soccorso l'Agenda ONU 2015-2030 «Per lo sviluppo sostenibile», dove il
significato del termine «Pace» fa i conti con i linguaggi contemporanei: «Promuovere
società pacifiche e inclusive per uno sviluppo sostenibile, garantire a tutti l’accesso
alla giustizia e creare istituzioni efficaci, responsabili e inclusive a
tutti i livelli». Da questa risoluzione prende le mosse la
recente proposta di un seminario dal titolo «Cultura della Pace in Sicilia», che
fonda il suo progetto su un'educazione interculturale e sul pluralismo
religioso.
L’obiettivo è la formazione di una
generazione in grado di “gestire la pace”, senza tabù, in un clima di laicità
in cui le diversità non siano da respingere; le armi convenzionali e nucleari siano
il nemico da distruggere; la green economy non sia un finto
stratagemma; la parola «Pace», infine, non significhi nascondere la testa
sotto la sabbia o sventolare vessilli di facciata ma rappresenti la fucina
nella quale forgiare gli strumenti per una reale, pacifica
convivenza a partire dai territori in cui si vive.
Antonia Sani è nata a Ferrara nel 1936. Ha
ricoperto vari incarichi, fra cui quello di presidente di WILPF-Italia (Womens
International League for Peace and Freedom). Vive a Roma dove ha svolto una
costante attività nei movimenti di base, nei comitati di quartiere degli anni ’70,
e dove è stata eletta nelle istituzioni municipali e provinciali
scolastiche. Scrive per varie testate giornalistiche on line.
Shamsia Hassani Musica contro la guerra |