POLITICA E PRESENTE
di
Franco Astengo
“Senza
intellettuali. Politica e cultura negli ultimi 30 anni in Italia”: Giorgio
Caravale ha affrontato il tema con un suo testo che sta per uscire presso
Laterza e i cui contenuti “sono stati analizzati in anticipo in un confronto
pubblicato dalla “Lettura” del Corriere della Sera.
Nell’occasione
di questo intervento si riporta soltanto una sola frase del dibattito in
questione: “la crisi dello Stato Nazione e l’avvento di una politica appiattita
sul presente hanno tolto spazio alla storia”. Si può assumere questo punto,
dell’appiattimento della politica sul presente per cercare di alzare lo sguardo
per cercare una risposta alla crisi dell’idea di progresso. Una risposta che
non può essere quella arretrata del rilancio del concetto di territorialità, di
legame dell’uomo alla terra, di definizione dell’avanzata tecnico-industriale
come causa livellatrice delle differenze culturali e storiche tra i popoli. L’ultimo
decennio del secolo scorso è stato contrassegnato dall’acquiescenza del
concetto di “fine della storia”, di assuefazione al colossale fraintendimento
che la fine del bipolarismo contenuto nella logica dei blocchi coincidesse con
l’apertura di mercati senza fine, con lo spargimento della buona novella del
trionfo della globalizzazione e della fine dello “Stato-Nazione”.
Concetti
adottati da tutti e che hanno dato vita a “pericolose illusioni”.
La
fine del fraintendimento rappresentato dal “socialismo reale” (il “passato di
un’illusione” di Furet) si è accompagnata, senza soluzione di continuità, a un
altro clamoroso abbaglio dell’interpretazione sbagliata della “fine della
storia”. Gli intellettuali, nel momento in cui la storia del mondo sembrava
aver svoltato (almeno in apparenza) hanno inteso servirsi della tecnica,
guidata dalla scienza moderna, per realizzare l’omologazione di un certo tipo
di uomo e di società, attorno ad una “polis” concepita attraverso il “pensiero
unico”. Ognuno intendeva porsi, cioè, come il fine rispetto allo strumento
esasperando il concetto dell’immutabilità della storia (e della negazione dello
storicismo) fino a oscurare la ricerca della verità. È in atto invece, almeno a
mio modesto avviso, un processo che, daccapo, è il rovesciamento del rapporto
tra mezzo e fine. Non sarà più la polis capitalistica a servirsi della tecnica,
ma la tecnica a servirsi del capitale, e non sarà più la polis democratica a
servirsi della tecnica, ma la tecnica a subordinare a sé la democrazia. Una
forma, questa del rapporto tecnica di governo-rappresentatività politica che
sta assumendo aspetti di assolutismo per i quali un richiamo a Schmitt non
appare davvero peregrino. Questi sono i punti, grossolanamente esposti, sui
quali sarebbe necessario avviare una riflessione, per porsi sulla strada di
ricerca una diversa via dell’agire politico. Non siamo attaccati alla terra
d’origine e non vogliamo abbandonare la visione dell’universalismo dettata
dall’Utopia: tanto più in un momento in cui appare così stringente il tema
della guerra. Universalismo dell’Utopia che dovrebbe nuovamente essere inteso
come internazionalismo della visione politica da declinare come mezzo concreto
per il riscatto umano. È necessario riflettere attorno a un vero mutamento di
paradigma tornando ancora, gramscianamente, a intendere la politica come
tensione egemonica, recuperando lo spirito “di parte”. Uno “spirito di parte”
da porre al centro nel processo di evoluzione storica di mutamento nell’insieme
delle relazioni politiche e sociali. La modernità può essere intesa partendo
dalla proposizione di una concezione della critica che raccolga le
differenze emergenti nella realtà puntando a realizzare una sintesi progettuale
raccolta in una scansione concreta dell’insieme delle contraddizioni moderne e
post- moderne per realizzare una nuova “sintesi del progredire umano”. Si
tratta di tornare a essere in grado, perlomeno sul piano teorico, di porci sul
terreno della proposizione di una “diversità sociale” al riguardo
dell’esistente. Esistente che non deve essere considerato come immutabile
nell'espressione di una ineluttabilità del conformismo. Non può esistere
neutralità rispetto a questo passaggio, né arrendevolezza verso gli estremi
dell’abbandonarsi alla logica del potere. Essere consapevole di questa esigenza
di non neutralità, d’intervento attivo, di rinuncia all’astrattezza e al
disimpegno, ci fa tornare alla politica: Politica intesa come umana coesistenza
quando questa assume l’aspetto di una consapevole identità collettiva,
considerata dal punto di vista del Potere e del Conflitto.