LA POESIA CIVILE
Giuseppe Langella
Conversazione con Giuseppe Langella
in occasione dell’uscita del primo titolo
della Collana “Fendinebbia” da lui diretta.
Gaccione: Finalmente si esce allo scoperto;
con il varo di questa tua Collana di poesia civile dal titolo ‘Fendinebbia’
preso la Casa Editrice La Scuola di Pitagora di Napoli, la sfida ai poeti, agli
editori e ai critici è lanciata ed entra concretamente nel vivo di un confronto
divenuto non più procrastinabile.
Langella: In effetti, per quanto strano possa
sembrare, non è mai esistita in Italia una collana espressamente dedicata alla
poesia civile. Fra l’altro, “Fendinebbia” ospiterà, oltre a
raccolte inedite e ad antologie tematiche, reprints di opere canoniche,
monografie e saggi critici su temi e autori della poesia civile, riflessioni
teoriche sulla poesia civile, manifesti e interventi militanti su temi civili
di portata cruciale: una formula mista, un cubo a più facce, che ne renderà più
incisiva la presenza editoriale, con cinque titoli all’anno. Per aprire una
nuova collana di poesia, coi tempi che corrono, ci vuole una certa dose di
coraggio. Ma di fronte a un mondo agonizzante, com’è quello in cui viviamo, la
poesia deve tornare a svolgere una funzione civile. Distogliere lo sguardo
dall’abisso verso cui siamo incamminati può essere magari consolante, ma ci
renderebbe complici del più assurdo genocidio della storia terrestre: la
cancellazione della specie umana. E se gli occhi dei più sono offuscati e non
sanno vedere oltre i filtri delle narrazioni ufficiali, tocca ai pochi che
hanno conservato uno sguardo lucido dissipare le nebbie, mostrando quel che si
profila all’orizzonte per scongiurare il peggio.
Giuseppe Langella |
G: A partire dalla fine degli anni Settanta in poi,
proprio l’abbandono di uno sguardo attento verso quello che tu chiami “l’abisso
in cui ci siamo incamminati” aveva condannato la voce dei poeti
all’irrilevanza pubblica.
L: Quella che va, grosso modo, dal Quasimodo di Giorno
dopo giorno (1947) al Luzi di Al fuoco della controversia (1978),
passando ovviamente per Fortini, Sereni, Pasolini, Volponi e tanti altri, è
stata sicuramente, anche per la poesia, una grande stagione, segnata da un
forte impegno civile. E anche dopo, a dire il vero, non sono mancate voci di
quella natura: si pensi solo a Gianni D’Elia o a Giovanni Raboni, a Margherita
Guidacci o a Jolanda Insana. Ma nell’ultimo tratto del Novecento ha prevalso
indubbiamente un altro tipo di poesia, che ha sentito il bisogno di reagire
alle derive giornalistiche e alle ferite mortali inferte, negli anni Sessanta e
seguenti, al codice lirico. Penso in particolare a La parola innamorata,
a “Niebo”, al neo-orfismo, al mitomodernismo. Questa reazione, in sé legittima,
o almeno storicamente comprensibile, ha fatto, senza volerlo, il gioco del
potere, che si è tolto una fastidiosa spina dal fianco, impiantando
indisturbato la spettacolare fabbrica dell’evasione e del consenso. I poeti si
sono lasciati rinchiudere nella riserva indiana dei riti iniziatici,
condannandosi, come dici tu, all’irrilevanza.
G: Il primo titolo della Collana, Sfida d’alti modi,
con i temi messi a fuoco attraverso la pluralità di voci da te convocate e di
un ventaglio di sensibilità diverse, segna un tracciato chiaro per la poesia
dei nostri giorni.
L: Direi di sì. Cercavo un titolo segnaletico, che indicasse
una svolta e un nuovo paradigma. Volevo anzitutto che si restituisse all’atto
del poetare la dimensione pubblica di un impegno civile assunto
responsabilmente; e poi che la poesia tornasse a farsi anche veicolo di valori
umani. E così ho pensato di volgere al maschile plurale, alti modi,
il femminile singolare alta moda, cui si associano normalmente, nel
nostro immaginario, le sfilate. Il titolo implica dunque un’idea di poesia che
antepone alla sfera estetica del fascino e della seduzione (alta moda)
la sfera etica della testimonianza esemplare (alti modi), degna di
essere assunta a modello.
G: Nella mia recente raccolta di aforismi Schegge (I
Quaderni del Bardo Edizioni) c’è una vera e propria definizione della poesia
civile: È civile tutto ciò che oppone l’umano al disumano. Possiamo
ritrovarci in un assioma così perentorio?
L: Non c’è dubbio che tutto ciò che oppone l’umano
al disumano ha una positiva ricaduta civile. Il tuo assioma può essere
quindi tranquillamente adottato, a patto però che non diventi un alibi, come
invece troppo spesso accade, per chiudersi nella propria torre d’avorio a
contemplare le stelle e non affrontare le questioni nevralgiche del mondo in
cui viviamo. Davanti al pericolo di una catastrofe planetaria, cui
danno temibile alimento le minacce di una guerra nucleare, i cambiamenti
climatici e lo stress ambientale, le crisi umanitarie, le grandi manovre dei
poteri occulti per imporre un nuovo ordine mondiale, i segnali inquietanti di
una civiltà sempre più tecnologica, artificiale e post-umana, scrivere versi idilliaci, oleografici
e zuccherosi è un lusso che non ci possiamo più permettere. Mutuando il tuo
aforisma, difendere l’umano oggi significa denunciare e combattere tutto ciò
che gli si oppone calpestando i diritti inalienabili “dell’uomo e del
cittadino”. Il resto è un’operazione ingannevole e consolatoria, una comoda
scappatoia per mettersi in pace a buon mercato la coscienza.
G: Una uscita salutare dall’io non potrà che fare bene
ai poeti. In fondo non si scrive per meritarsi qualcosa, ma per un atto di
verità.
L: Una cosa dovrebbe essere chiara a tutti, anche se la
società di massa ha esasperato, paradossalmente, l’egoismo e l’individualismo
borghese: nessuno si salva da solo. Siamo tutti sulla stessa barca, profughi
come Enea in cerca di una terra abitabile. Devo confessare che non ho mai avuto
particolare simpatia per chi non sa guardare al di là del proprio naso o del
proprio ombelico. Ma perseverare in questo culto dell’io narciso mentre intorno
a noi un po’ dappertutto si levano alte le fiamme degli incendi, è un atto
sterile e tristemente ridicolo. Bisogna urgentemente dilatare lo sguardo,
riappropriarsi di una visione corale, dare voce a una coscienza collettiva. La
poesia del nuovo millennio non può essere che una poesia del “noi”, della sorte
e delle rivendicazioni comuni.
G: Portare il “corpo” della poesia nel corpo ribollente della realtà, come si porta il proprio corpo dove è necessario che stia, quando l’umano è minacciato assieme al corpo dell’umanità intera, obbliga ad un impegno morale personale. Per agire l’uomo deve parlare ha scritto Camus, e questo dovrebbe valere in modo ancora più perentorio per i poeti.
L: Se ci pensi, è il mistero del Natale che i cristiani
hanno celebrato in questi giorni, così come ce lo ha trasmesso il Prologo di
Giovanni: E il Verbo si fece carne. Non tutte le parole sono chiacchiera
e vaniloquio. In certi casi, al contrario, per dirla con Carlo Levi, Le
parole sono pietre, come quelle che nel suo reportage la madre del contadino
assassinato dalla mafia scaglia contro “cosa nostra” nell’aula del Tribunale di
Palermo. Le parole della poesia devono essere altrettanto taglienti. Noi
abbiamo il dovere della testimonianza: chi tace o si balocca con le parole
lascia libero campo a chi ci sta portando verso la catastrofe.