C’È DEL MARCIO IN OCCIDENTE
di
Adam Vaccaro

Piergiorgio Odifreddi
Deificazione neoliberista del capitalismo globalizzato.
Questo
libro di Piergiorgio Odifreddi (C’è del
marcio in Occidente, Raffaello Cortina Editore, 2024, pagine 261) regala un
vento benefico che irrompe in una atmosfera soffocata da smog sempre più
irrespirabile, e ci aiuta a spazzarla via. È un vento di irrisione di ogni
falsità spacciata come verità, dai poteri in atto, in Occidente, ma non solo,
nel presente, ma non solo. E per farlo somma una impressionante dotazione di
conoscenze pluridisciplinari, dalla filosofia, alla storia, alla letteratura,
all’economia, ma non solo. Perché, se si vogliono smascherare i crimini e le
menzogne del potere, o meglio, dei poteri storicamente articolati in Occidente,
occorre dotarsi di adeguate ricchezze di conoscenze delle sovrastrutture portanti
la realtà complessa in cui viviamo. La quale ci riversa verità apodittiche e
ideologiche, attraverso un esercito mai così vasto di propaganda massmediatica,
con la quale ci raccontano di essere i più liberi e i migliori custodi della Verità
e del Mondo secolarizzati. Ne deriva un pensiero unico e assoluto, consono alla
radice patriarcale di un fondamentalismo religioso su cui è cresciuto, che ha sempre
ucciso socialmente e fisicamente, ogni obiezione critica, o visione altra.
Odifreddi è un esempio, tra i
pochissimi, di superamento della divisione tra le due culture – umanistica e
scientifica – fonte di impoverimento delle nostre possibilità di conoscenza, e conseguentemente
di libertà concreta rispetto alle falsità spacciate e necessarie alla gestione
di ogni potere. Tale indirizzo è seguito dall’Autore con passione, coraggio e un
lavoro incessante di acquisizione di strumenti di analisi nel corso dei suoi decenni
di vita, che questo libro sintetizza con efficacia, non solo di argomentazioni,
ma di esposizione chiara e divulgativa, che rende la lettura delle sue 250
pagine, un attraversamento benefico dei temi e problemi intricati con cui, qui
e ora, ogni persona dalla mente minimamente viva si confronta quotidianamente.
Tuttavia, la sua apertura di ricerca, non
penalizza una critica serrata rivolta a pressoché tutti i pilastri millenari
della nostra identità culturale, a cominciare da quella umanistica “Gli
umanisti… dall’Ottocento in avanti hanno rimosso le vere origini dei Greci,
inventando il mito di un popolo unico che arrivava dal nulla, e di un sapere
unico che non si basava sui nulla… di una razza pura e di un pensiero puro,
senza contaminazioni biologiche e culturali. Un mito colonialista, razzista e
protonazista durato quasi due secoli, che ha cominciato a essere smantellato
soltanto negli anni Ottanta del secolo scorso” (pag. 141-143). È stato in
effetti un frutto malsano de Le Origini
rimosse, analizzate dal libro di “Martin Bernal, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica (Il
Saggiatore, 2011)”. È un tema enorme di cui mi limito
qui a citare qualche spunto, con la finalità di sollecitare la lettura del libro
e ulteriori approfondimenti, su questo come sul corollario di problemi
complessi sollecitati da un testo spoglio di ogni connotato ideologico, motivato
dalla conoscenza di un sistema di potere
invisibile e presente in cielo in terra e
in ogni luogo, al pari del Dio inventato dai suoi figli prediletti.
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Piergiorgio Odifreddi |
Ma mentre quel Dio è silente o parla solo a chi è acceso
dalla sua fede, il dio dell’impero odierno continua a parlare e assordarci,
raccomandano di mai disconnetterci, perché solo così diventiamo, piccoli atomi
del suo corpo, alimento e merci di un circuito incessante di suoi e nostri
deliri. È il più potente dio mai creato, perché è dentro di noi, anche non
credenti, fatto di cose, succhiate come ostie, senza bisogno di un ministro e
una messa. Perché di ministri ne ha un numero immenso e la messa non è solo
la domenica, ché è di ogni giorno e notte, senza interruzioni. Una messa
officiata da cori di voci trasmutate in meccaniche, fonti di una realtà
virtuale, rispetto alla quale è difficile resistere e non farsi ridurre a
illusi senzienti senza realtà: “Oggi viviamo infatti in un rintontimento
collettivo in cui non contano i fatti, ma solo le fantasie. E non tanto quelle
istituzionalizzate come la religione, la metafisica e la letteratura… Quanto
piuttosto quelle… del divertimento immediato e mediatico: film, serie
televisive, programmi spazzatura, talk show, videogiochi, giochi di ruolo e
parchi di divertimento…Oltre al Grande Fratello televisivo, che paradossalmente
ha tutto di huxleyiano e niente di orweliano” (p211). È una
giostra di illusioni e divertimento, di cui è perno l’industria della
pubblicità, il più parassitario, redditizio e fiorente settore economico di
questa decantata era della libertà, canestro di chiacchiere, falsità e idiozie
che producono soggetti omologhi, quali definiti dalle analisi del meme, delle nuove scienze: la mente fatta
anche di neuroni-specchio, che la sua anima bambina, affamata spugna di
immagini e suoni, trasmuta attraverso i cinque
sensi del 'cervello bagnato' (come chiamato da Rita Levi Montalcini) in pandolce da succhiare, prima di verificare se è un
panettone inondato dalla muffa. “Questo
spiega la vera e propria epidemia di stupidità che ‘per l’universo penetra e
risplende’… prodotto di veri e propri virus della mente”, messi in scena “dal
gran circo dei media” e “che si diffonde non perché meriti… ma perché più
adatto a farlo”, che “non significa affatto ‘migliore’, e confondere le due
cose può causare guai… significa soltanto ‘più contagioso’, e spesso ‘letale’”
(pp. 56-57)
Se la letteratura, la poesia e la
musica erano condimenti della pietanza della vita, che comunque aiutavano a
sentirne il sapore e quindi a conoscerne la sostanza, tanto da poter dire che la
poesia in ogni forma era ciò che dava nome alle cose, nel circo mediatico dello
spettacolo contemporaneo, ogni funzione di conoscenza della realtà è polvere
drogata di emozioni che – con diluvi di cartoons,
serial killer, fantasy, soap opera,
supereroi ecc. – devono infarcire la capacità di pensare, scodellando un polpettone
che diventa la vera realtà mentale. La civiltà dello spettacolo e dell'immagine
è un traghetto delizioso di arma di distrazione
di massa, che senza una visione critica, castra la capacità di elaborazione
conoscitiva della complessità di sé e dell’altro. Il che diventa una vera festa
per il dio al potere, se “i nostri occhi sono perennemente puntati su uno
schermo, del cellulare, del computer, della televisione, del cinema o dei
videogiochi. Raramente interagiamo con altri esseri umani o con il mondo
esterno” (p. 211).
Il
risultato è una massa alienata e passiva di atomi singoli senza identità e
comunità, che realizzano il sogno neoliberista di E. Thatcher: “non esiste la
società, esistono solo gli individui”. L’essere sociale è cancellato e nel suo
vuoto regnano libere le catene invisibili del dio che decide vita o morte di
miliardi di esseri viventi (umani e no) con dei clic. Il libro di Odifreddi è,
all’opposto, corpo di testo che riafferma come il processo autopoietico
dell'identità individuale è alienato, perduto e impossibile, senza l’interazione
con l’Altro, costruita entro una complessità e molteplicità sociale e
culturale. Per cui una identità individuale o è propaggine di una collettività,
o non è. Ed è solo il misticismo che fa della propria potenza di immaginazione
un illusorio colloquio e cammino con e nella Totalità personificata nell’Altro,
nell’alto dei cieli. Delle tante interazioni di cui il libro si fa scrigno di
ricchezze, c’è quella con lo scrittore portoghese Josè Saramago, del quale si
ricorda che “il suo Vangelo secondo Gesù Cristo (1991) fu censurato in
Portogallo, andò a vivere in volontario esilio nelle isole Canarie, fino alla
morte. E dopo uno dei periodici eccessi di difesa perpetrati da Israele nei
confronti dei Palestinesi, fu accusato di antisemitismo per aver dichiarato: Mi
chiedo se quegli ebrei che morirono nei campi nazisti non proverebbero
vergogna per gli atti infami che i loro discendenti stanno commettendo.
(p.215). E, a tale proposito, Odifreddi ricorda che “Per difendersi dal
disdegno nei confronti delle disumane azioni israeliane, soprattutto quelle dei
governi di ispirazione nazifascista del Likud di Begin, Sharon e Netanyahu, gli
ebrei hanno iniziato a confondere ad arte “l’antisionismo contro la politica
israeliana e l’antisemitismo contro il popolo ebraico” (p.120).
Il pensiero critico di Saramago
evidenziava come la democrazia politica,
diventa illusione democratica entro
una struttura con un “unico indiscutibile potere: la finanza mondiale”. Per cui
concludeva: se la “democrazia economica ha ceduto il passo a un mercato
oscenamente trionfante” e la “democrazia culturale” rientra anch’essa tra i
prodotti sussunti dalla “massificazione industriale” della giostra dello
spettacolo, rischia di aggiungersi ai fiori di arredamento di una
sovrastruttura priva di capacità dialettica di incidere sulla realtà
dell’invisibile potere dominate, talché “Noi non stiamo progredendo, ma
regredendo” (pp.216-217).
Odifreddi,
attraverso le parole e gli sguardi delle centinaia di Autori citati, ci spinge
a ri-vedere e a ripensare il rovescio anche delle nostre convinzioni più
radicate, riattivando così la dinamica e la riappropriazione culturale di libertà
autentica del processo autopoietico. Che è tale se rifiuta di rendere
indiscutibili ogni termine, a cominciare da potere,
democrazia, libertà, termini fondanti ogni polis, di cui l’Occidente pretende di essere il detentore unico e assoluto.
E cita a tale proposito anche alcune dichiarazioni di papa Bergoglio: “Dobbiamo
tutti ripensare alla questione del potere umano, al suo significato e ai suoi
limiti”; “La logica del massimo profitto al minimo costo, mascherata da
razionalità, progresso e promesse illusorie, rende impossibile qualsiasi
sincera preoccupazione per la casa comune, e qualsiasi attenzione per gli
scartati della società”.
Purtroppo l’approccio di un
pensiero unico, dogmatico e religioso, spacciato dal potere occidentale, non
consente tale salutare riflessione autocritica. Quando ad esempio crollò in
Unione Sovietica il sistema staliniano di capitalismo di Stato, teorizzato
dallo stalinismo come socialismo in un
paese solo, e per la propaganda pro e contro quale socialismo reale, la CIA finanziò con giubilo “un famoso libro
collettivo”, dal titolo Il dio è fallito. Ma non finanzierebbe mai un
libro che dimostrasse la possibilità teorica del socialismo ideale, e tantomeno
un libro come quello del premio Nobel Kenneth Arrow, che “ha dimostrato
matematicamente l’impossibilità della
democrazia ideale, che è dunque irrealizzabile” (p.195).
D’altronde, quale democrazia può
essere possibile, con una struttura economico-sociale che, “in base agli
annuali rapporti del Comitato di Oxford per la lotta contro la Fame (OXFAM),
l’uno per cento della popolazione mondiale possiede il 60 per cento della
ricchezza del pianeta, e il 10 per cento ne possiede il 90”, vale a dire gli
800 milioni dell’Occidente (Europa e Usa), rispetto all’attuale popolazione
mondiale di 8 miliardi? Ma è un crimine sociale
che prosegue anche in questa area del paradiso del 10%, in cui le sperequazioni
e le diseguaglianze crescono anziché diminuire o attutirsi, con milioni di
poveri assoluti mentre una minoranza naviga nell’oro e predica la favola della percolazione, secondo la quale l’oro dei
più ricchi arricchirà anche i più poveri. Rispetto a tale immane e plateale
latrocinio, quali sono le proposte e i programmi dei politici (di destra e di sinistra)
che dicono di rappresentare il popolo? Dichiarazioni retoriche, di un ceto
parassitario e ricco di privilegi feudali, asservito come mai alla visione
neoliberista, che declama per i poveri la novella della libertà: siete liberi
di andare dove volete! atomi nudi di ogni dignità, che incarnano quanto detto
da Schopenhauer: Un uomo può fare ciò che vuole, ma non può volere ciò che
vuole”. È un aforisma su cui Odifreddi, chiosa: “mi ha vivamente ispirato
fin dalla giovinezza” (p.32), con il senso implicito di tutto il libro, di
ripresa del senso del limite e del sacro, dei quali il potere neoliberista di
quell’1% fa strame, pur sapendo che il desiderio e la volontà sono dettati
prima di tutto dai bisogni primari, di cui i più poveri urlano al mondo, spinti
a vagare verso aree dove potersi sfamare. L’1% sa che diventano così merce dell’esercito di riserva (già analizzato
da Marx) di manodopera, votato a offrirsi a basso costo, favorendo caos, guerre
tra poveri, illegalità e criminalità, purché contribuiscano a tenere alto il
saggio di profitto. Moti migratori di cui le destre fanno predicazioni di
paura, e le sinistre di commossi buonismi. Ma per entrambi il vertice dell’1%
rimane immune, proni allo status quo,
che offre ai miliardi di affamati, miliardi che, anziché riequilibrare la
distribuzione della ricchezza, finanziano organizzazioni per salvarli dal loro
mare di disperazione.
Si
innescano, ahinoi e inevitabilmente, anche speculazioni orrende, legali e
criminali, propaggini della coda del problema, cui pare non ci sia altro
rimedio che organizzare mille iniziative di aiuti e carità, nell’inutile
insegnamento della storia della loro inadeguatezza a eliminare le ignobili
cause. Non solo, ma dato lo tsunami umano
prodotto dalla logica, innescata da tale esplosivo contesto storico e privo di
possibili punti di equilibrio, non può che sfociare in crescenti violenze
orizzontali, tra ultimi e penultimi – fino a quando non si coagulasse una
coscienza sociale con una massa critica sufficiente di guida adeguata a una
azione verticale contro i responsabili.
Solo, se e quando, si
concretizzasse questa possibilità, o utopia, si potrà sciogliere questo nodo,
perché “nel capitalismo esiste un’asimmetria strutturale tra produttori e
compratori, venditori e consumatori, speculatori e lavoratori, evasori e
contribuenti, in ultima analisi, tra ricchi e poveri,”. Con governi “conservatori”
e “progressisti”, “alla fine dei conti, i soldi si trovano sempre per salvare
le banche, finanziare le industrie e combattere le guerre, e mai per sostenere
le pensioni, il lavoro e i servizi. E il motivo è, semplicemente, che in
Occidente contano i valori economici, e non i valori etici” (pp.194-195). Ma è
un’asimmetria squilibrante, costitutiva dell’attuale struttura imperialistica globale,
che non coinvolge solo i rapporti tra capitale e lavoro, ma ogni ambito della
vita umana e no, dal crescente squilibrio ecologico all’alimentazione con
allevamenti intensivi che assorbono il 60 % delle coltivazioni dedicate a un
malsano consumo di carne dei Paesi più ricchi, in primo luogo dell’Occidente. È
provato che in “un intestino lungo, da erbivori”, come il nostro, “la carne
fermenta e provoca il cancro al colon” (p.179), ciò nonostante, mentre mancano
alimenti vegetali per miliardi di persone, “Le cifre dell’eccidio” di “animali
sono spaventose… vengono uccisi”, tra “animali terrestri e pesci… 3 miliardi al
giorno” (p118).

Bertrand Russell
Questo
libro di Odifreddi è anche il racconto del percorso autopoietico della propria
identità culturale nello spazio e nel tempo del Paese-Mondo, attraverso i
crinali storici e intellettuali, emersi e condivisi o meno, e fatti oggetto di
critica impietosa e serrata. Il suo è stato un percorso consolidato in viaggi,
non da turista, ma di lunghe soste di lavoro in Paesi decisivi del mondo
contemporaneo, a cominciare dagli USA alla Russia, e non solo. Ma ogni
esplorazione, quanto più se inesausta come la sua, definisce il proprio punto
di partenza, una Itaca reale e mentale, che diventerà il paradigma di giudizio,
la pietra miliare cui rapportare gli altri ceppi significativi – positivi o
negativi – incontrati e trasmutati in materia di sé. Ci racconta così, tra gli
anni ’60 e ’70, da ragazzo sollecitato anche dalla musica di George Harrison
dei Beatles, del suo iniziale “interesse per la musica, la letteratura, la
filosofia, la matematica e la scienza indiane, che contribuì ad allentare le
pesanti catene dell’occidentalismo che allora mi imprigionavano”. Precisa che
le sue “ispirazioni non si fermavano alle canzonette, per quanto socialmente e
politicamente impegnate”, infatti: “Nel 1969 mi apprestavo arditamente a
iscrivermi a ingegneria”, quando “trovai per caso su una bancarella di libri
usati l’Introduzione alla filosofia
matematica (1919) di Bertrand Russell”, che lo spinse non solo a iscriversi
a matematica, con laurea in logica, ma “divenne il mio maestro intellettuale”,
a partire da quel libro scritto “in carcere nel 1918, durante la Prima Guerra
mondiale per propaganda antibellica”.
Al maestro Russell unì poi Einstein,
in particolare col Manifesto Russell-Einstein
contro la proliferazione atomica e del movimento Pugwash degli scienziati
contro la guerra, insegnamenti capaci di “introdurmi all’utopia matura di un
mondo senza chiese, senza stati, senza possessi e senza armi” (pp.249-251).
